UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FOGGIA FACOLTÀ DI ECONOMIA MASTER IN DIRITTO TRIBUTARIO E CONSULENZA D’IMPRESADIRITTO PROCESSUALE TRIBUTARIO LA RAPPRESENTANZA NEI PROCESSI TRIBUTARI Relatore: CORSISTA Chiar.mo Prof.re Dott. Cesare Simone Pietro BORIA ANNO ACCADEMICO 2008 – 2009 INDICE CAPITOLO I PROFILI GENERALI DEI SOGGETTI PARTE NEL PROCESSO TRIBUTARIO Premessa 1. Il concetto di parte nel processo tributario. 2. L’art. 11 del d.lgs 546/92 “La capacità di stare in giudizio”. 3. Legitimatio ad processum e legitimatio ad causam. 4. La rappresentanza legale e volontaria. 5. La parte ricorrente. 6. La parte resistente. CAPITOLO II LA RAPPRESENTANZA E DIFESA DEL CONTRIBUENTE NEL PROCESSO TRIBUTARIO E L’OBBLIGO DI DIFESA TECNICA 1. La rappresentanza della parte privata. 2. Ipotesi particolari di soggetti – parti nel processo tributario 2.1 Il contribuente deceduto. 2.2 L’imprenditore soggetto a fallimento. 2.3 Il sostituto d’imposta. 3. Il litisconsorzio. 4. L’obbligo di assistenza tecnica previsto dall’art. 11 del dlgs 546/92. 5. La mancata nomina del difensore. 6. Il ricorso proposto direttamente dalla parte. 2 CAPITOLO III LA RAPPRESENTANZA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE NEI GIUDIZI DINANZI LE COMMISSIONI TRIBUTARIE 1. La rappresentanza della parte Pubblica. 2. Legittimazione e rappresentanza degli Uffici davanti alle Commissioni Tributarie. 3. La circolare dell’Agenzia delle entrate del 30 luglio 2001 n. 71/E/2001 4. L’Avvocatura dello Stato e la legittimazione nel giudizio di Cassazione. Bibliografia 3 Premessa. Il contenzioso tributario, in precedenza disciplinato dal D.P.R. n. 636/72, è stato significativamente rinnovato in seguito all’introduzione del d.lgs 546/92 «Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega del Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n.413». L’attuale processo tributario si avvicina al giudizio civile in quanto è caratterizzato da tecnicità ed istituti similari a quelli esistenti in quest’ultimo; infatti, le disposizioni contenute nel decreto trovano nel codice di procedura civile il loro precedente e, quindi, il naturale riferimento sia per il corretto inquadramento sia per la soluzione di eventuali problemi interpretativi. D’altra parte, il d.lgs 546/92 contiene all’art. 1, comma 2, un espresso rinvio alle norme del codice di procedura civile con la previsione per i giudici tributari di applicare per quanto non disposto dalle norme contenute nel decreto ed in quanto compatibili con quest’ultime le norme del rito civilistico. A questo punto è doveroso un breve richiamo alla riforma del processo civile, nonché, alla delega al Governo per la riduzione e la semplificazione dei procedimenti civili Legge n. 69 del 18 giugno 2009, pubblicata in G.U. n. 140 S.O. n. 95/L del 19 giugno 2009, entrata in vigore dal 4 luglio 2009. L’art. 54 della nuova legge definitivamente approvata stabilisce che: il Governo è delegato ad adottare, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della suddetta legge, uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale, come appunto quella tributaria (D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 e successive modifiche ed integrazioni);la riforma deve, in ogni caso, realizzare il necessario ed equilibrato coordinamento con le altre disposizioni vigenti. In sostanza, la legge delega restituisce centralità ed importanza al codice di procedura civile e mira ad agevolare l’attività degli operatori del diritto, ponendo fine a numerose incertezze interpretative che sono state spesso 4 causa di lungaggini processuali, un esempio per tutti è stato l’incertezza sulla competenza del giudice in tema di TIA. Nell’esercizio della delega, il Governo deve attenersi ai seguenti principi e criteri direttivi: 1) restano fermi per il momento i criteri di competenza nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente; 2) i procedimenti civili di natura contenziosa, autonomamente regolati dalla legislazione speciale, devono essere ricondotti ad uno dei seguenti modelli processuali previsti dal codice di procedura civile: 1) i procedimenti in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione processuale, ovvero di officiosità dell’istruzione, sono ricondotti al rito disciplinato dal libro secondo, titolo IV, capo I, del codice di procedura civile (norme per le controversie in materia di lavoro); 2) i procedimenti, anche se in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, sono ricondotti al procedimento sommario di cognizione di cui al libro quarto, titolo I, capo III-bis, del codice di procedura civile, come introdotto dall’art. 51 della nuova legge, restando tuttavia esclusa per tali procedimenti la possibilità di conversione nel rito ordinario; 3) tutti gli altri procedimenti sono ricondotti al rito ordinario di cui al libro secondo, titolo I e III, ovvero titolo II, del codice di procedura civile (del processo di cognizione). A questo punto, a seguito delle suddette modifiche legislative, il processo tributario, nei prossimi due anni, a partire dal 04 luglio 2009, dovrà essere totalmente rivisitato e modificato per adeguarlo ai principi e criteri direttivi sopra specificati, pur rimanendo le attuali Commissioni tributarie invariate nella competenza dei “tributi” (Corte Costituzionale, sentenze n. 64 del 14 marzo 2008 e n. 130 del 14 maggio 2008; da ultimo, Corte di Cassazione, sentenza n. 5298 del 05 marzo 2009) e nella composizione (D.Lgs. n. 545 del 31 dicembre 1992), in modo da completare il ciclo di processualizzazione del contenzioso tributario. 5 In conclusione, nei prossimi due anni il legislatore dovrà adottare un decreto legislativo di modifica del processo tributario, che non sarà più un rito speciale, con le attuali limitazioni che pregiudicano seriamente il diritto di difesa, ma sarà, giustamente, incardinato nell’unico rito di cognizione ordinario con lo scopo principale di mettere il cittadino-contribuente ed il suo difensore, professionalmente e processualmente qualificato, sullo stesso piano giuridico e processuale dell’Amministrazione finanziaria e dell’Ente locale. Chiusa questa parentesi, si riparte dall’argomento su cui verterà l’analisi successiva che ha per oggetto il capo II del titolo I del d.lgs 546/92, rubricato: «delle parti e della loro rappresentanza e assistenza in giudizio». Le disposizioni del capo II, articoli da 10 a 17, contengono la disciplina non solo delle parti, della loro rappresentanza ed assistenza in giudizio, del litisconsorzio e dell’intervento in giudizio ma anche quella relativa alla liquidazione delle spese, delle notifiche e comunicazioni. L’esame dell’elaborato riguarderà i primi articoli del capo II ed in particolare le parti, la capacità di stare in giudizio, l’assistenza tecnica e il litisconsorzio. Il tema delle parti del processo tributario e della relativa assistenza e rappresentanza è fra quelli che hanno sollevato maggiore interesse e perplessità a seguito della riforma introdotta con il d.lgs. 546/92. Interesse perché nella previgente disciplina del DPR 636/1972 non vi era traccia di alcuna puntuale disposizione al riguardo, mentre adesso il legislatore non solo vi ha dedicato un autonomo capo nel contesto del primo titolo – recante le disposizioni generali sul contenzioso tributario -, ma ha profondamente innovato il passato assetto attraverso l’introduzione di precetti precedentemente non contemplati, fra i quali spiccano l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica e la previsione del litisconsorzio, dell’intervento e della chiamata in giudizio. Perplessità sulle nuove disposizioni si rilevano, perché, in qualche circostanza, risultano confuse come nel caso dell’art. 10 del d.lgs. 546/92 in cui vengono impropriamente accomunate la nozione di parte e quella di 6 legittimato a resistere nel merito1, o formulate in termini tali da rendere ardua la concreta e proficua applicazione ed il pensiero corre, principalmente, all’art. 14 relativo al giudizio con pluralità di parti2. 1 In proposito, v. CASTALDI, Commento all’art. 10 del D.lgs. n. 546/1992, in AA.VV., Il nuovo processo tributario, a cura di BAGLIONE, MENCHINI, MICCINESI, Milano, 1997, p. 105 e RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, p. 473, i quali reputano che la norma in parola abbracci la nozione di parte e quella di legittimazione ad agire ed a resistere in giudizio. 2 In tal senso PISTOLESI, Le parti nel processo tributario, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, LXI, 1, I, 2002, p. 68. 7 CAPITOLO I PROFILI GENERALI DEI SOGGETTI PARTE NEL PROCESSO TRIBUTARIO 1. Il concetto di parte nel processo tributario. In campo processualcivilistico il concetto di parte3 non ha una definizione, anche se questo termine si ritrova in numerosissime disposizioni, e nello stesso tempo non è univoco, in quanto, il legislatore ha usato la stessa parola con significati diversi qualificando di volta in volta i meri soggetti degli atti processuali, i soggetti degli effetti del processo ed i soggetti degli effetti della sentenza4 Nel linguaggio comune la parola “parte” sta di solito ad indicare l’assunzione di un particolare ruolo soggettivo coordinato con quello di altri soggetti in vista di un risultato complessivo. Nel settore giuridico il termine parte assume un più specifico riferimento al ruolo soggettivo nelle situazioni giuridiche; mentre, nel linguaggio processuale si riferisce a quei soggetti che, da un lato, danno vita alla dinamica processuale e dall’altro subiscono gli effetti. Anche se nell’ambito processualcivilistico all’idea di parte si ricollegano molteplici problemi in merito a chi è la parte, quale è la giusta parte, chi può essere parte in giudizio, chi può stare in giudizio come parte5. Nel processo sono rispettivamente, parti, colui che propone la domanda e colui nei cui confronti la domanda è proposta6. Si può pertanto affermare che 3 Sulla nozione di parte vedi GARBAGNATI, La sostituzione processuale, Milano, 1942 p. 243 ss; SEGNI, Parti, in Enciclopedia italiana, vol. XXVI, p. 418 ss.; COSTA, Parti, in Nuovissimo Digesto italiano, XII, Torino, 1965, p. 499 ss.; 4 PROTO PISANI, voce Parte, in Enc. Dir., XXXI, Milano, 1995, p. 920. 5 E’ stato rilevato che il c.p.c. peraltro non risolve tutti questi problemi: esso considera soltanto la parte nella sua soggettività, come persona cioè che, in quanto agisce nel processo deve rivestire determinate qualità, deve essere rappresentata o assistita in un certo modo, ha dei doveri e assume delle responsabilità. Tutte le altre questioni sono invece dinamicamente considerate con riferimento all’azione ed al suo esercizio. SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Bologna, 1981, p. 104. 6 Su questa riconduzione della qualità di parte alla titolarità attiva e passiva della domanda dottrina è pressoché unanime. Una posizione diversa è tuttavia assunta dal SATTA in 8 parti e quindi soggetti del processo e del rapporto processuale civile sono, oltre al giudice che è chiamato ad emettere il provvedimento richiesto, i contendenti, cioè le persone che hanno instaurato la controversia. Quindi, la determinazione del soggetto-parte in un giudizio ha luogo sulla base della domanda giudiziale, individuandosi da un lato colui che chiede al giudice di provvedere in merito ad un determinato oggetto e, dall’altro lato, colui nei cui confronti il provvedimento viene richiesto. Affinché si possa utilmente assumere la qualità di parte nel processo, è necessario avere un interesse ad agire, occorre cioè essere titolari del diritto che si vuol far valere. Questo generale inquadramento processualcivilistico vale in via di principio anche nell’ambito della disciplina del processo tributario. Se consideriamo la legge delega la n. 413/1991 all’art. 10 non contiene una norma specifica per quanto attiene l’individuazione delle parti nel processo tributario, ma alla lettera g) dello stesso articolo prevede l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile. Si deve porre attenzione sul fatto che la determinazione del concetto di parte attiene alla statica del processo e quindi allo studio dei suoi elementi costitutivi7. Se l’attenzione, invece, si sposta dalla nozione di parte in quanto tale all’attività di parte, si svolge un’indagine che involge la dinamica del correlazione alla sua tendenza a negare la contrapposizione tra l’aspetto formale e l’aspetto sostanziale dell’azione. Per questo autore la nozione di parte non può andare disgiunta da quella della «giusta parte». Sull’ampio argomento delle parti nel processo civile si rimanda alla più autorevole dottrina sviluppatasi in tale campo, tra cui meritano di essere segnalati per completezza espositiva: CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Napoli, 1936, p. 288; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, diretto da ALLORIO, II, Torino, 1973, p. 889. Colloca su un piano puramente formale la nozione di parte del processo, intendendo par tale colui che propone una domanda al giudice chiedendogli di emanare un certo provvedimento (attore) e colui nei cui confronti la domanda viene proposta ed il provvedimento viene domandato (convenuto) RUSSO, Processo tributario, in Enc. dir., Milano, 1997, p. 764. In una prospettiva più ampia, per parti del processo si intendono quei soggetti, diversi dagli organi giudiziari, che svolgono un ruolo nella dinamica di questo o attraverso la proposizione di una domanda o in quanto destinatari di atti altrui ovvero perché intervenuti spontaneamente oppure chiamati nel giudizio o comunque costretti a subirne gli effetti in CARPI-COLESANTI-TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 1994, p. 160. 7 ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 375. 9 processo8. Sotto quest’ultimo profilo, si prende in esame lo svolgimento del processo dal punto di vista delle parti, sia in quanto esse se ne servono per ottenere la tutela giurisdizionale delle proprie situazioni soggettive, sia in quanto esse servono al processo che trova nelle parti la propria origine e il proprio sviluppo. Il dlgs 546/92 all’art. 10, rubricato “Le parti” prevede che: «sono parti del processo dinanzi alle commissioni tributarie oltre al ricorrente, l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto ovvero, se l’ufficio è un centro servizio, l’ufficio delle entrate del Ministero delle finanze al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso». La disciplina contenuta nell’art. 10 rappresenta una novità rispetto a quanto previsto nel D.P.R. 636/72 che, solo indirettamente, nell’elencare i requisiti del ricorso all’art. 15 in qualche modo individuava le parti del giudizio in quanto imponeva di indicare nel ricorso da un lato il ricorrente e dall’altro l’ufficio tributario nei cui confronti lo stesso era proposto. La norma sopraindicata, che disciplina le parti, contiene una disciplina peculiare rispetto al codice di procedura civile, determinando così sul punto una fondamentale differenza. Infatti, se la norma processualcivilistica non enuncia direttamente un concetto di parte, in senso contrario, la norma del processo tributario individua espressamente i soggetti che possono essere parti. Questa differenza, secondo la dottrina maggioritaria, deriva dal fatto che il processo tributario si configura come un processo avente ad oggetto particolari rapporti che traggono origine da peculiari comportamenti, posti in essere dall’Amministrazione finanziaria, e che incidono direttamente sulle posizioni soggettive dei destinatari9. 8 Sulla distinzione fra statica e dinamica giuridica con riguardo al processo CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, IV ed., Roma, 1951, p. 130 ss. 9 TESAURO, Giurisprudenza sistemica di diritto tributario, Torino, 1999, p. 184. 10 2. L’art. 11 del d.lgs 546/92 “Capacità di stare in giudizio”. L’articolo 11 del d.lgs 546/92 è rubricato ”Capacità di stare in giudizio” e dovrebbe rappresentare l’attuazione dell’art. 30 lettera g) della legge delega n. 413 del 31.12.1991 anche se non vi è completa corrispondenza fra le due norme. Il contenuto dell’art. 11 disciplina segnatamente al primo comma la rappresentanza processuale volontaria delle parti private, al secondo la partecipazione al processo dell’ufficio dell’amministrazione e, nell’ultimo, la rappresentanza processuale degli enti locali limitandosi peraltro ad un rinvio alle disposizioni legislative e regolamentari applicabili a ciascun Ente. In considerazione di questi rilievi introduttivi, si osserva come la norma non si occupa affatto della capacità di stare in giudizio delle parti nel processo tributario a differenza di quanto si potrebbe rilevare dalla rubrica dell’articolo. Richiamando contenuti del diritto processuale civile, in particolare, l’art. 75 rubricato col titolo “capacità processuale”, al comma 1, prevede che: «sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere». Il legislatore utilizza la locuzione capacità processuale per indicare la capacità di stare in giudizio del soggetto, rivolta al perfezionamento degli atti processuali. Secondo un noto orientamento della dottrina10, un requisito per la valida instaurazione del processo, in quanto si manifesta in una condizione di decidibilità nel merito della domanda rivolta al giudice11 e corrisponde, sul piano sostanziale, alla capacità di agire ex art. 2 cod. civ. Detta capacità è un presupposto processuale ed è strettamente collegata al concetto di parte, nel senso che indica i requisiti che debbono sussistere in capo all’attore o al convenuto per rivolgersi al giudice e per poter gestire legittimamente il processo, indipendentemente dal fatto che spetti a loro la titolarità dell’azione. 10 CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. I, Padova, 1943-44, p. 179; SATTA, Capacità processuale civile, in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960. 11 CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. II, Padova, 2006, pp. 34-35. 11 Con il testo dell’art. 75, comma 1, c.p.c. il legislatore ha inteso esprimere con una sola nozione (la capacità processuale o capacità di stare in giudizio) sia la capacità (come modo di essere psico-fisico del soggetto) e sia la titolarità del potere di proporre una domanda e dei poteri successivi, che consegue a tale capacità12. Il testo normativo è risultato una sovrapposizione terminologica involontaria e concettualmente confusa, per eccesso di sintesi, tra il concetto di capacità processuale e quello di legittimazione processuale. L’intento del legislatore è sfociato, così, in una sovrapposizione e in un reciproco offuscamento di concetti eterogenei. La capacità processuale è una semplice qualità del soggetto giuridico, in altri termini ha capacità processuale chi ha la capacità di agire sul piano sostanziale. Attraverso la disposizione normativa della capacità processuale è possibile offrire anche una corretta interpretazione del concetto di parte in senso processuale13. La parte processuale o capacità di essere parte, ossia l’assunzione del ruolo di soggetto nel processo e di essere destinatario degli atti processuali, è una qualificazione giuridica che presuppone soltanto l’avvenuta proposizione della domanda. Detta proposizione è un elemento necessario e sufficiente perché il soggetto che ha proposto la domanda e quello nei cui confronti la domanda è proposta acquistano la qualità di parte indipendentemente dalla loro titolarità, effettiva o asserita, della situazione sostanziale dedotta in giudizio. Questa accezione mostra come la capacità di essere parte nel processo è strettamente collegata al concetto di capacità giuridica sul piano sostanziale, di cui all’art. 1 cod. civ. Quindi, la parte è la sola qualità giuridica che non può mai mancare in un processo e che sussiste per il solo fatto che è stata avanzata una domanda al 12 In realtà nel compiere questa sovrapposizione di concetti, il legislatore non fece che recepire una certa tendenza della dottrina orientata a non distinguere tra capacità processuale e legittimazione processuale. In questo senso, soprattutto CHIOVENDA, Istituzioni, II, p. 239. 13 In relazione alla nozione di parte in senso processuale, COSTA, Parti, in Nuovissimo Digesto Italiano, vol. XIII, Torino, 1957, pp. 499 ss; MANDRIOLI, Delle parti, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di ALLORIO, sub. Art. 75, vol. 2, Torino, 1980, pp. 881 ss; MURRA, Parti e difensori, in D. disc. Priv. Sez. civ., vol. XIII, Torino, 1995, pp. 262 ss.. 12 giudice. Ponendosi l’osservanza delle regole dettate in tema di capacità processuale si deve affrontare il difetto di capacità di stare in giudizio. Stabilisce l’art. 75, comma 2 del c.p.c. che: «Le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità», in mancanza di tutto questo il processo risulterà nullo, con nullità rilevabile dal giudice, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio. Inoltre, il difetto di capacità processuale per determinare la nullità dell’intero processo deve consistere in un vizio dell’atto introduttivo dello stesso; perché, il difetto in tale atto si estende a tutti gli atti processuali che successivamente possono o debbono essere compiuti14. La rilevabilità del difetto di capacità processuale in ogni stato e grado del giudizio trova, peraltro, un limite di ammissione nel giudicato che esplicitamente o implicitamente si sia formato sul punto. Siffatta previsione non trova una espressa enunciazione normativa, ma viene dedotta dalla giurisprudenza15, sulla scorta del principio in base al quale il potere di verificare la sussistenza o meno dei poteri richiesti per il valido esercizio delle attività processuali in capo alle parti viene fatto rientrare nell’officium iudicis, come in campo processuale civile appare confermato dall’art. 182 c.p.c.. Detto difetto può essere sanato, rilevando in tal modo l’esistenza di una forma di nullità relativa, in ogni stato e grado del giudizio, e ciò con effetti retroattivi, mediante costituzione in giudizio del titolare del potere di rappresentanza legale ovvero della parte diventa nel frattempo capace; 14 Così Cass., 21.3.1970, n. 755, in FI, 1970, Procedimento civile, p. 63. In quella della più recente Corte di Cassazione si vedano: 3.5.1990, n. 3666, in GCM, 1990, Procedimento civile – capacità processuale, p. 855; 5.2.1987, n. 38 in RGC, 1987, Imposta complementare sul reddito, p. 17; 16.4.1981, n. 2286, in GCM, 1981, Riscossione entrate patrimoniali, p. 865; 8.8.1979, n. 4606, e molte altre conformi in precedenza, rilevandosi in particolare come il giudice non sia tenuto a compiere alcuna indagine se nulla risulti dagli atti o in seguito a deduzioni delle parti, ovvero se il contraddittorio sia dalle parti stato accettato senza opposizione in merito (Cass., 30.1.1992, n. 964 in GCM, 1992, Imposta reddito persone fisiche, p. 116 e 20.2.1992, n. 2099, ibidem, Imposte in genere, p. 251). 15 13 soggetti, questi, che manifestano con il loro comportamento al volontà di ratificare l’operato posto in essere precedentemente a tale costituzione, a condizione che il difetto stesso non sia stato già rilevato dal giudice. Al rilevo del difetto di capacità operato dal giudice segue, come ha in più occasioni affermato la Corte di Cassazione16, la dichiarazione di inammissibilità della domanda. In considerazione dell’analisi fin qui svolta, ricordando che l’art. 11 del d.lgs non disciplina la capacità di stare in giudizio, e che non è dato rintracciare alcuna disciplina derogatoria nell’ambito delle leggi tributarie; di conseguenza, sembra che debba valere per il processo tributario la disciplina contenuta nel primo libro del codice di procedura civile. 3. Legitimatio ad processum e legitimatio ad causam. Secondo la dottrina più autorevole17, si suole contrapporre la legitimatio ad processum o legittimazione processuale, che costituisce un presupposto processuale condizionante l’eventuale pronuncia di merito del giudice, alla legitimatio ad causam o legittimazione ad agire, che riguarda, invece, la titolarità dell’azione e, quindi, dei diritti che con essa si fanno valere18. La legitimatio ad processum, riferita alla capacità delle parti di stare in giudizio, in proprio o con la debita rappresentanza, assistenza o autorizzazione, consiste in una condizione che attiene alla regolare costituzione del rapporto processuale. Tanto è vero che l’accertamento circa la sua sussistenza può essere effettuato in ogni stato e grado, con il solo limite della formazione del giudicato interno. Inoltre, si distingue dalla qualificazione soggettiva di parte, poiché mentre quest’ultima scaturisce dal 16 Si vedano, tra le tante in tal senso, le pronunce 16.10.1980, n. 5571, in GCM, 1980, Procedimento civile – capacità processuale, p. 2347; 24.11.1980, n. 6229, ibidem, Mandato e rappresentanza, p. 2582 e precedenti in senso conforme. 17 CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II, p.239. Al contrario, FAZZALARI, Note in tema di diritto e processo, Milano, 1975 pp. 132 ss., il quale tende ad attribuire ai due concetti lo stesso significato. 18 Per maggiori rilievi, TOMEI, Legittimazione ad agire, in Enc. dir., vol. XXIV, Milano, 1974, pp. 65 ss.; ATTARDI, Legittimazione ad agire, in D. disc. Priv. Sez. civ., vol. X, Torino, 1993, pp. 524 ss. 14 momento della proposizione della domanda, la legittimazione processuale, come presupposto condizionante dell’azione, sussiste anche prima e indipendentemente dalla proposizione della domanda. La legitimatio ad causam è sempre un presupposto processuale condizionante la decisione di merito, ma consiste nella pretesa di esercitare in giudizio in nome proprio un diritto proprio. Essa è, dunque, la correlazione tra il soggetto agente, che si afferma titolare del diritto vantato, e il soggetto resistente, nei cui confronti è richiesta la tutela19. In sintesi la legittimazione processuale è la posizione soggettiva di colui che è titolare dei poteri il cui esercizio realizza lo stare in giudizio e che, altresì, è titolare della serie ulteriore di poteri processuali, il primo dei quali è il potere di agire. Si differenzia dalla legittimazione ad agire, perché viene a prescindere dal riferimento alla situazione sostanziale che fonda le condizioni dell’azione e, quindi, la titolarità dell’azione stessa. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte la legittimazione ad agire attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere o del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine ad un determinato rapporto sostanziale20. Nel processo tributario la legittimazione ad agire spetta ai soggetti indicati nell’art. 10 del d.lgs 546/92, in funzione del loro interesse ad essere parti nel rapporto giuridico processuale. Il concetto di legittimazione ad agire è configurato dalla giurisprudenza come una condizione dell’azione, intesa come diritto potestativo di chiedere ed ottenere una decisione di merito in ordine al rapporto dedotto in giudizio. 19 PICARDI, Manuale del processo civile, Milano, 2005, p. 156, il quale come il termine legitimatio ad causam si sia generato dall’esigenza di distinzione dall’altra terminologia di legitimatio ad processum. 20 Così la sentenza 27.2.1995, n. 2243, in GCM, 1995, Cassazione civile, rinunzia al ricorso, 459, mentre ancora in termini di condizione dell’azione parlano, riferendosi sempre alla legittimazione ad agire, le sentenze 13.1.1995, n. 377, ibidem, Procedimento civile – legittimazione attiva e passiva, 69 e 3.2.1995, n. 1321, ibidem, Procedimento civile – legittimazione attiva e passiva, 287. 15 4. La rappresentanza legale e volontaria. L’art. 11 del d.lgs 546/1992 si occupa al primo comma della forma in cui la parte privata, ossia la parte diversa dall’Amministrazione finanziaria, può stare in giudizio prevedendo in proposito l’istituto della rappresentanza processuale volontaria. Come già nel paragrafo precedente si è rilevato, coloro che non hanno il libero esercizio dei propri diritti non possono stare in giudizio se non rappresentati, assistiti o autorizzati secondo le norme che regolano la loro capacità; quindi, in tutti questi casi la persona incapace21 nel processo starà in giudizio per mezzo del proprio rappresentante. Nel campo sostanziale il problema, del tutto analogo, di come si esercitano i diritti di coloro che non sono capaci di agire è risolto dal legislatore con lo strumento della rappresentanza legale. Accanto a questa ipotesi è prevista una diversa forma di rappresentanza, la cosiddetta rappresentanza volontaria, esercitatile da una persona capace che comunque decide di conferire ad altri il potere di rappresentarla nel processo. Evidentemente, si tratta di una questione diversa da quella della capacità di stare in giudizio dal momento che chi decide di farsi rappresentare è pienamente capace di partecipare lui stesso al processo anche se preferisce non farlo. Il testo dell’art. 11 tratta, al 1 comma, solo della rappresentanza volontaria, mentre per la rappresentanza legale è necessario supplire con le norme del c.p.c.. E’ bene precisare fin d’ora che la figura del rappresentante non ha nulla a che vedere con quella del difensore, il cui obbligo di nomina è previsto 21 Come è noto, l’incapacità di agire consegue allo stato di interdizione (sul quale v. SCARDULLA, Interdizione (dir. Civ.), in Enciclopedia del diritto, XXI, Milano, 1971, p. 932 e ss.; POGGESCHI, Interdizione e inabilitazione, in Nuovissimo Dig. It., VIII, Torino, 1962, p. 809 e ss.) e alla minore età. A quest’ultimo riguardo va tenuta presente la l. 8.3.1975, n. 39, che, come è noto, ha abbassato a 18 anni il limite della minore età, modificando in tal senso l’art. 2 cod. civ. Indipendentemente dalla generale incapacità di agire che consegue allo stato di interdizione (come anche alla semicapacità che consegue allo stato di inabilitazione) un’incapacità di agire limitata a determinate categorie di atti da stabilirsi di volta in volta, è prevista ora dai nuovi artt. 404 e 405 cc. (come riformulati dalla l. 9.1.2004, n. 6) in occasione della designazione dell’amministratore di sostegno. 16 dall’art. 12 del d.lgs 546/92. Si tratta di istituti del tutto differenti, poiché il rappresentante regolarmente nominato svolgerà nell’ambito del giudizio i compiti che spettano alla parte senza peraltro assumerne la veste che continua ad essere ricoperta dal rappresentato; mentre, il difensore in ragione delle proprie competenze professionali, avrà il compito di assisterlo tecnicamente. L’istituto della rappresentanza volontaria è disciplinato nel codice di procedura civile all’art. 77 che ne dispone le condizioni di forma ed i limiti sostanziali. Il legislatore nell’art. 77 si serve della tecnica imperniata sul conferimento della legittimazione processuale a quel soggetto che già nel campo sostanziale riveste la qualità di rappresentante. Si deve rilevare che l’uso di questa tecnica nella rappresentanza volontaria, non coincide con l’applicazione che viene operata per la rappresentanza legale. Questo si verifica perché nel caso della rappresentanza legale si ha una pura e semplice attribuzione automatica da parte della legge della legittimazione processuale a colui che è rappresentante nel campo sostanziale; mentre, nel caso della rappresentanza volontaria si richiede per la legittimazione processuale un’attribuzione autonoma e specifica in via negoziale da parte dell’interessato. Quindi, la qualità di rappresentante nel campo sostanziale non è sufficiente perché sussista la legittimazione processuale rappresentativa, occorrendo ancora che questa sia fatta oggetto di espresso conferimento22. Va tuttavia sottolineato che in ambito processuale se la qualità di rappresentante nel campo sostanziale non è sufficiente, è comunque necessaria, nel senso che non si può conferire la legittimazione processuale 22 Su questo punto non esistono dubbi in dottrina ed in giurisprudenza. V. comunque Cass. 19.11.1971, n. 3333, e la Cass. 10.7.1975, n. 2720. Il conferimento della legittimazione processuale rappresentativa potrà essere contestuale al conferimento dei poteri rappresentativi sostanziali, ma nulla impedisce che sia compiuto, in via autonoma; né esistono altri requisiti formali all’infuori dello scritto. L’onere della documentazione va posto in relazione col potere (degli altri soggetti del processo) di ottenere la giustificazione dei poteri da parte del rappresentante (art. 1393 cod. civ.) provocando la verifica e l’invito di cui all’art. 182, 1 comma cpc con la conseguenza che se nessuno esercita questo potere, la produzione del documento può anche mancare (Cass. Sez. n. 14.12.1999, n. 894/SU) o avvenire in appello (Cass. 8.4.1995, n. 4073), sempre che, naturalmente, il rappresentante abbia inequivocabilmente compiuto la contemplatio domini (Cass. 19.1.1987, n. 428). 17 rappresentativa ad un soggetto che già non rivesta la qualità di rappresentante anche nel campo sostanziale. Questa conclusione si desume, secondo l’interpretazione prevalente, del dettato dell’art. 77 che richiede l’espresso conferimento del potere rappresentativo processuale non ad un qualsiasi destinatario ma soltanto «il procuratore generale e quello preposto a determinati affari»23. Inoltre, anche lo strumento della rappresentanza processuale volontaria, come quello della rappresentanza legale, troverà applicazione soltanto se il potere rappresentativo oltre ad esistere, sia adeguatamente manifestato attraverso la contemplatio domini, ossia attraverso, la dichiarazione del rappresentante di agire in nome del rappresentato24. 23 Occorre precisare che l’opinione espressa è ferma soltanto in dottrina ( v. per tutti MANDRIOLI, La rappresentanza, Torino, p. 179; SATTA, Commentario, I, p. 265; ANDRIOLI, Dir. Proc. Civ., I, p. 568; né mancano autori secondo i quali l’opinione in discorso sarebbe addirittura imposta dai principi: così ad es. CARNELUTTI, La rappresentanza processuale volontaria, p. 636 e ss. La giurisprudenza riconoscendo che la rappresentazione sostanziale può risultare anche implicitamente: v. ad es. Cass. 3.12.2001, n. 15270; Cass. 8.5.1998, n. 4666; Cass. 22.02.1997, n. 1622 è stata per qualche tempo contrastante e per lo più propensa ad ammettere la conferibilità della rappresentanza processuale anche a persone prive di poteri rappresentativi negoziali. In questo senso ebbe a pronunciarsi, con riguardo alla rappresentanza delle società. La Cass. 14.2.1977, n. 681, in Foro it., 1977, I, p. 821. Questa sentenza, infatti, nel ribadire il costante insegnamento della Cassazione secondo il quale l’organo investito della rappresentanza di una società di capitali può (se lo statuto non contiene un espresso divieto), delegare il potere di rappresentare in giudizio la società ad un altro soggetto, anche estraneo alla società, si è richiamata all’art. 77 cpc affermando che tale norma avrebbe solo la funzione di limitare i poteri del rappresentante volontario, ossia di stabilire che l’espresso conferimento per iscritto del potere di rappresentativo processuale è necessario; mentre, non avrebbe anche la portata di stabilire che tale conferimento non è sufficiente. Nello stesso senso si è poi pronunciata la Cass. 9.11.1982, n. 5877, in Giur. It., 1983, I, 1, p. 1506; ma poi, in senso decisamente contrario, una serie di pronunce, tra cui la Cass. 14.02.1995, n. 1578 che evidenzia la conseguente nullità rilevabile d’ufficio; poi ancora la Cass. 22.4.1997, n. 3463. La Cass. 3.11.1997, n. 10765 si è spinta fino a ritenere insufficiente una procura nella quale il conferimento di poteri sostanziali appariva strumentale rispetto al conferimento dei poteri processuali; più aperta, sotto quest’ultimo profilo, la Cass. 26.9.1998, n. 9669. Altre pronunce, invece, precisano che la rappresentanza sostanziale debba, per consentire la rappresentanza processuale, essere generale o almeno comprendere un gruppo omogeneo di poteri: così Cass. 19.9.2003, n. 13898. E’ comunque evidente che siamo ormai al limite della valutazione caso per caso, come ha bene rilevato l’annotatrice M. IOZZO al termine di una puntuale esposizione delle vicende della giurisprudenza su questa delicata questione. Va, d’altra parte, tenuto presente che la rappresentanza processuale, per il suo carattere esterno, sopravvive all’estinzione della rappresentanza sostanziale Cass. 11.1.1999, n. 175. 24 Perciò se la delega al difensore è stata conferita dal rappresentante volontario, il rappresentato non può agire in proprio nome nello stesso atto, v. Cass. 22.7.1999, n. 7888, in Foro it., 2001, I, P. 291, mentre può costituirsi in proprio nel giudizio già instaurato dal 18 A completamento della rappresentanza nel processo civile si deve trattare del soggetto che agisce in nome altrui ma privo del potere rappresentativo, ossia del cosiddetto falsus procurator, con la conseguenza che gli atti posti in essere non producono effetti in capo a colui che sembra essere rappresentato. Nel processo tributario i limiti al conferimento della rappresentanza processuale esaminati nell’ambito del processo civile non esistono, considerato che l’art. 11 disciplina l’istituto della rappresentanza volontaria in modo esaustivo ed autonomo rispetto alle norme del codice di procedura civile. L’articolo si limita a stabilire che le parti possono stare in giudizio anche mediante procuratore generale o speciale, senza alcun limite rappresentato da un eventuale rapporto sostanziale a monte che debba sussistere tra rappresentante e rappresentato. In considerazione di quanto appena detto, né consegue che la procura speciale davanti al giudice tributario può essere attribuita a qualunque soggetto sempre che quest’ultimo abbia la capacità di agire. La procura di regola deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata, tuttavia, questo principio di carattere generale trova una deroga nel secondo capoverso del 1 comma dell’art. 11. Infatti, la procura conferita dal contribuente ai parenti ed affini fino al quarto grado, legittima quest’ultimi a stare in giudizio per il ricorrente sulla base di una semplice scrittura privata non autenticata. Tale disposizione pone il problema dei requisiti soggettivi richiesti per godere della disposizione di favore quanto alla forma della procura. In mancanza di una espressa previsione normativa sul punto si deve ritenere che il giudice e la controparte possano richiedere una prova del rapporto di parentela. La procura conferita al familiare incontra una limitazione sul piano oggettivo in considerazione del fatto che il procuratore nominato con una mera scrittura privata alla partecipazione all’udienza pubblica; mentre, è escluso che il familiare possa rappresentare validamente il ricorrente nell’udienza in camera di consiglio, né sostituirlo nelle altre attività processuali tra cui quella di avanzare proposta di conciliazione rappresentante, stante la natura secondaria del potere del rappresentante rispetto a quello del rappresentato. 19 giudiziale della controversia ex art. 48 o rinunciare al ricorso25. Come nel processo civile, anche in quello tributario si pone il problema della sorte del processo condotto da o instaurato nei confronti di chi sia sprovvisto della rappresentanza, ovvero di un cosiddetto falsusu procurator. La disciplina sul processo tributario non si occupa espressamente di tale eventualità, dovendosi di conseguenza applicare le norme di diritto comune e precisamente l’art. 1399 del codice civile. Tale norma consente la ratifica dell’operato del procuratore irrituale da parte del contribuente falsamente rappresentato con effetto sanante ex tunc, fatti salvi gli eventuali diritti acquisiti nel frattempo dai terzi. Come nel processo civile, dunque, si dovrebbe ritenere che la ratifica possa avvenire in ogni stato e grado del giudizio e con riferimento a tutti gli atti processuali, attraverso la costituzione in giudizio delle parte o del legittimo rappresentante, i quali manifestino la volontà di anche tacita di ratificare la condotta processuale precedente. Tuttavia, tale conclusione è soltanto astrattamente valida, dal momento che, come si è detto, la ratifica è suscettibile di produrre i suoi effetti sananti soltanto a condizione che non si sia verificata, eventualità tutt’altro che remota stante i brevi termini che caratterizzano il processo tributario26. In particolare, qualora il difetto di rappresentanza si sia verificato al momento dell’introduzione del giudizio, esso comporterà l’inammissibilità del ricorso ovvero la nullità degli atti compiuti dal falsus procurator, salvo la rarissima eventualità di una tempestiva ratifica27. Al contrario, potrà essere sanato in corso di giudizio l’operato del rappresentante nominato per specifici atti, ma senza il rispetto delle formalità previste; ad esempio, pensiamo al caso della procura speciale ad actum per 25 Si veda Comm. Trib. Centr. 19.11.1987, n. 8394, in Comm. Trib. Centr., 87 I, p. 649, secondo cui la procura conferita in modo informale dal ricorrente al proprio figlio non legittima quest’ultimo a rinunciare al ricorso, inficiando di nullità la cessazione di materia del contendere pronunciata sulla base di tale atto. 26 Comm. Trib. Centr. 3.12.1984, n. 10485, in Rass. Imp. 85, p. 838; Comm. Trib. Centr. 2.10.1990, n. 6218, in Comm. Trib. Centr. 90, I, p. 695; Cass. S.U. 11.10.1978, n. 4512. 27 Comm. Trib. Milano, Sez. XXVII, 12.5.1997, n. 84, in Riv. giur. trib. 97, p. 950, con nota di GLENDI, che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso sottoscritto dal procuratore non ritualmente nominato; qualche perplessità su tale questione esprime OLIVA CORRADO, Contenzioso tributario, parte I, in D. e prat. trib. 2000, II, p. 1023. 20 semplice scrittura privata, quando mancassero i requisiti soggettivi od oggettivi in cui tale forma è ammessa. 5. La parte ricorrente. La normativa considera quale parte del processo tributario il ricorrente che rappresenta la parte attiva del giudizio, ed in quanto titolare del diritto legittimato all’azione. Il ricorrente non viene menzionato alla stessa stregua delle altre parti del processo, ma l’espressione letterale «oltre al ricorrente», evidentemente, indica quest’ultimo parte necessaria del contenzioso tributario. Infatti, il ricorso può essere introdotto imprescindibilmente dal soggetto che ne abbia diritto. Questa situazione comporta che non può instaurarsi un processo tributario se non vi sia una parte ricorrente, e che il giudizio non può essere proposto da una delle altre parti indicate dall’art. 10. Tutto questo determina che se soggetto attivo del rapporto tributario è l’ente impositore, parte attiva del processo è necessariamente il ricorrente. Nella pratica il ricorrente si potrebbe identificare con colui nei cui confronti si è verificato il presupposto di imposta, ma è da rilevare che il contribuente potrà essere un soggetto cui indirettamente si potrà ricollegare una pretesa contribuiva. Si pensi, ad esempio, al rappresentante legale di una società che abbia ricevuto la notifica di un avviso di irrogazione di sanzioni nei propri confronti per infrazioni commesse dalla società di appartenenza. In via generale si può dunque ritenere che può essere parte ricorrente chiunque risulti destinatario o notificatario di uno degli atti impugnabili elencati nell’art. 19 o chiunque abbia prodotto una istanza in relazione alla quale, pur sempre ai sensi dell’art. 19, si sia formato un silenzio-rifiuto impugnabile. Ne consegue che assumerà la veste di parte ricorrente nel processo tributario, con l’esclusione di adire altra giurisdizione, anche colui che notificatario di uno degli atti impugnabili, sostiene la propria estraneità alla pretesa fiscale; 21 si pensi al caso di un soggetto a cui è stato notificato un atto nella presunta qualità di erede del contribuente deceduto e che voglia rilevare l’assenza della presunta qualità di erede. Sono questi casi in cui il ricorrente vuole provare che va escluso il presupposto di un proprio coinvolgimento nel rapporto di imposta. Tuttavia il soggetto dovrà adire il giudice tributario, con preclusione di altra giurisdizione, e sarà dunque parte ricorrente del giudizio posto in essere. Il ricorrente può essere sia una persona fisica che una persona giuridica come per le società, enti o associazioni con o senza personalità giuridica. L’art. 18 del d.lgs 546/92, nell’elencare i requisiti del ricorso, alla lettera b) richiede l’indicazione sia del ricorrente che del suo legale rappresentante; pertanto, in caso di rappresentanza legale di una persona fisica, va indicato nel ricorso non solo il rappresentato, che è la parte ricorrente legittimata ad causam, ma anche il rappresentante legale che, in forza del potere facente a lui capo, è legittimato a proporre l’azione. Nel caso il ricorrente sia un soggetto diverso dalla persona fisica, dove si tratti di una società occorrerà indicare anche gli estremi del rappresentante legale in base alle norme statutarie, degli atti costituivi o in base alla legge. Per l’ipotesi in cui il ricorrente sia un’associazione non riconosciuta, e quindi, priva di personalità giuridica, il problema della capacità di stare in giudizio si sovrappone a quello della identificazione del soggetto titolare del potere di proporre l’azione; problema che, in realtà, non attiene al tema della capacità processuale, quanto piuttosto a quello dell’esistenza o meno di un soggetto autonomamente imputabile di rapporti giuridici. La giurisprudenza ritiene non applicabile in campo tributario i limiti di corrispondenza tra potere di rappresentanza in ambito processuale e potere di rappresentanza in ambito sostanziale, limiti invece in varie occasioni affermati come regola generale per il processo ordinario della Suprema Corte28. Diversamente e con riguardo ad una struttura societaria, la stessa Corte si è 28 Tra le ultime Cass., 15.11.1988, n. 6109, in RGC, 1988, Lavoro (controversie individuali), p. 188 e Cass. 9.11.1983, n. 6621, in FI, 1984, I, p. 1935. 22 espressa nel senso di attribuire all’organo investito della legale rappresentanza della società il potere di nominare validamente un proprio rappresentante al limitato fine di nominare a sua volta un procuratore legale abilitato allo ius postulandi. I giudici di legittimità hanno a tal proposito affermato, in altri termini, che il legale rappresentante di una società può delegare ad altro soggetto il solo potere di rappresentanza processuale della società medesima, con conseguente conferimento a terzo della relativa legittimazione processuale29. Infine, considerato che il ricorrente instaura il processo al fine di ottenere un provvedimento contro l’amministrazione finanziaria, e nel ricorso richiede l’annullamento di un atto o la contestazione dell’illegittimità di un comportamento omissivo dell’amministrazione; si dibatte, da lungo tempo, sulla possibilità di portare di fronte alle Commissioni tributarie alcuni tipi di controversie tra privati. Seguendo questa possibilità verrebbe meno l’impostazione del processo tributario che vede quale parte ricorrente il privato e resistente l’amministrazione finanziaria. Inoltre, l’accoglimento di una o dell’atra interpretazione comporterebbero delle conseguenze sulla disciplina delle parti. Si tratta di stabilire se siano riconducibili alla giurisdizione tributaria quelle controversie tra privati, rispetto alle quali il rapporto impositivo si ponga quale mero presupposto; risolto affermativamente tale preliminare quesito, se debba comunque essere coinvolta la parte pubblica in veste di litisconsorte necessario, oppure considerare un processo tributario totalmente inter privatos. Nonostante la dottrina sia in gran parte orientata a riservare il processo tributario al contraddittorio con l’amministrazione finanziaria in ordine alla legittimità di una pretesa impositiva da questa avanzata30, la giurisprudenza e 29 Così Cass., 20.4.1984, n. 2615, in RGC, 1984, Procedimento civile, p. 26 e Cass., 9.11.1982, n. 5877, in GC, 1983, I, p. 2699. 30 ANNECHINO, Ritenuta versata ma non effettuata, quale giurisdizione?, in F. it. 06, I, p. 6480; TESAURO, In tema di giurisdizione e competenza per le controversie tra sostituto e sostituito, in D. e prat. trib. 79, II, p. 320; POLITO, L’azione di accertamento di ripetizione 23 la stessa amministrazione finanziaria propendono per la tesi opposta31. La giurisprudenza della Cassazione è tutt’altro che consolidata, come dimostra la stessa frequenza di decisioni a sezioni unite sul punto; a favore della competenza del giudice ordinario, almeno qualora non sia introdotta alcuna pretesa nei confronti dell’amministrazione32. La posizione su cui si è attesta la dottrina pare preferibile, anche alla luce di problemi di ordine pratico che si pongono qualora si accettino le conclusioni della giurisprudenza dominante. In particolare si dovrà decidere quale posizione attribuire nel processo all’amministrazione finanziaria, l’art. 10 del d.lgs 546/92 sembra imporne la partecipazione dando vita ad un processo con pluralità di parti in litisconsorzio necessario. A tale conclusione è giunta anche la Corte di Cassazione, con la sentenza a sezioni unite la numero 3843/90. 6. La parte resistente. La parte resistente può individuarsi nell’autorità che ha emanato l’atto impugnato o ha tenuto il comportamento che il ricorrente assume come lesivo. In tema di legittimazione attiva e passiva nei giudizi in cui siano parti amministrazioni dello Stato, pur essendo indubbia l’unicità del soggetto al quale si riferisce l’azione di dette amministrazioni, al suo interno si distinguono i vari settori e sfere di azione e le rispettive competenze, che danno luogo a distinti centri di interesse, con la conseguenza che la legittimazione a stare in giudizio spetta agli organi delle amministrazioni di volta in volta istituzionalmente preposte a svolgere la singola attività di cui si dell’indebito in materia tributaria, in Riv. dir. fin. 74, I, p. 125 ss.; contra RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2002, p. 454. 31 Cass. 23019/05, in F. it. 06, I, p. 3480; Cass. 2281/90, in Rass. Avv. Stato 91, p. 81 ss.; Cass. S.U. 3843/90 in R. d. trib. 91, II, p. 160 ss.; Cass. S. U. 4311/90, in R. d. trib. 91, II, p. 160; Cass. S. U. 11.8.1990, n. 8178; Cass. S. U. 2050/91, in R. d. trib. 91, II, p. 202 ss., con nota di PURI, Controversie tra sostituto e sostituito: continua l’equivoco della Cassazione. 32 Si sono pronunciate Cass. S. U. 7533/86, in Boll. trib. 87, p. 601; Cass. S. U. 657/89, in Fisco 89, p. 5206. 24 tratta. Ferme restando l’unicità e l’unitarietà della capacità giuridica dello Stato, della cui attività giuridica i vari rami dell’Amministrazione rappresentano, con la loro struttura burocratica specifiche settoriali estrinsecazioni operative, e fermo il profilo per cui per competenza del ministero deve intendersi, nel senso amministrativo del termine, l’attribuzione del potere di stare in giudizio per lo Stato, in relazione a ciò che forma oggetto della specifica materia del contendere, attiene alla problematica della capacità processuale o legitimatio ad processum. Quindi, anche per le amministrazioni statali si pone la necessità di accertare in sede di verifica dei presupposti processuali la sussistenza nell’organo statuale convenuto o resistente nel processo il potere di stare di stare in giudizio. L’art. 11 del d.lgs 546/92 prende espressamente in considerazione, quali parti pubbliche, con riferimento alla loro capacità di stare in giudizio, da un lato l’Ufficio del Ministero delle finanze nei cui confronti è preposto il ricorso, dall’altro lato l’ente locale impositore. La questione è diversa rispetto a quella del primo comma dello stesso articolo, trattandosi, in questo caso non della possibilità di nominare un rappresentante volontario, ma della individuazione del soggetto persona fisica chiamato ad esercitare nel processo i poteri di parte per un entità giuridica. Per l’ufficio dell’amministrazione statale e nel caso di specie di quella finanziaria, la norma prevede due modi distinti di stare in giudizio, direttamente vale a dire nella persona del titolare individuato secondo le norme regolamentari interne; oppure, attraverso l’ufficio del contenzioso regionale o compartimentale, a norma del DPR 23.3.1992, n. 287, artt. 32 ss,, che pure agirà nella persona del titolare dell’ufficio o di altro funzionario da quest’ultimo delegato33. Le due posizioni sono tra loro alternative e non risulta dalla legge alcuna indicazione che specifichi a quali requisiti l’opzione tra le due debba essere 33 TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. I Parte generale, p. 321; GLENDI, Legittimazione (attiva e passiva) e difesa in giudizio delle Agenzie fiscali, in Corr. trib. 01, p. 2166. 25 subordinata; quindi, dovranno valere le disposizioni interne per le modalità di decisione tra le due alternative34. La ragione di questa scelta può risiedere nell’opportunità di lasciare all’ufficio parte nel giudizio il compito di seguire il processo di primo grado, o comunque i casi di routine, permettendo che la rappresentanza passi in sede di appello alle direzioni regionali o compartimentali. In applicazione di questo orientamento si sono indirizzate circolari interne sia dell’Agenzia delle Dogane, che con circolare del 4.4.2002, n. 26 dell’Ufficio contenzioso civile e penale ha prescritto agli Uffici periferici di informare tempestivamente la competente direzione generale dell’avvenuta notifica di ricorsi in materie particolarmente complesse e/o rilevanti, per consentire l’esercizio della facoltà di avocazione. Tuttavia, è bene ricordare che siamo in presenza di una rappresentanza organica derivante dall’art. 16 del d.lgs 29/1993, ora T.U. 30.3.2001, n. 165 secondo il quale deve ritenersi attribuito ai dirigenti generali delle pubbliche amministrazioni che promuovono e resistono alle liti il potere di conciliare o transigere35. Inoltre, la piena rappresentanza comporta che al funzionario sia riconosciuta la facoltà di rendere dichiarazioni di rinuncia rispetto alla materia del contendere, anche in assenza di una specifica delega36. 34 BRUNO, La legittimazione ad agire e la rappresentanza in giudizio delle Agenzie fiscali, in Rass. trib. 02, p. 1515. 35 Cass. 2099/92, che ha deciso che la sottoscrizione dell’atto di appello da parte di un funzionario addetto al reparto contenzioso dell’ufficio delle imposte, ma non preposto al reparto stesso non è valida, atteso che, negli atti a rilevanza esterna, il potere di manifestare la volontà della pubblica amministrazione compete al titolare dell’ufficio oppure ad un funzionario da lui delegato. 36 Cass. 5270/04 e Cass. 7082/04, in Fisco, I, 2004, p. 2790; contra Cass. 10215/03, secondo la quale si dovrebbe applicare l’art. 88 disposizioni di attuazione del cpc, con conseguente fissazione di una successiva udienza per la formazione del verbale di conciliazione tra le parti munite di necessari poteri; in dottrina RUSSO, Rappresentanza legale dell’amministrazione finanziaria, in Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze. 26 CAPITOLO II LA RAPPRESENTANZA E DIFESA DEL CONTRIBUENTE NEL PROCESSO TRIBUTARIO E L’OBBLIGO DI DIFESA TECNICA 1. La rappresentanza della parte privata. L’art. 10 del d.lgs. 31.12.1992, n. 546 individua i soggetti aventi la capacità di essere parte nel processo tributario. La figura del ricorrente coincide, il più delle volte, con quella del contribuente, ossia con quel soggetto debitore del tributo, sia che egli agisca contro un atto dell’Amministrazione Finanziaria o per il rimborso di somme pagate senza che sia intervenuto un atto. Ma è da rilevare che ricorrente potrà essere un soggetto cui indirettamente sia ricollegabile una pretesa impositiva; si pensi al rappresentante legale di una società che abbia ricevuto la notifica di un avviso di irrogazione di sanzione nei propri confronti per infrazione commessa dalla società di appartenenza. Oppure, pensiamo, al sostituto di imposta che, pur essendo soggetto passivo per obblighi propri, è tenuto a determinati adempimenti in relazione a presupposti impositivi verificatisi nei confronti di altri soggetti e che, in tale veste, risulti norificatatrio di una pretesa fiscale37. La veste di ricorrente può essere assunta tanto da una persona fisica quanto da una società, ente o associazione con o senza personalità giuridica. Nel caso in cui il ricorrente sia un soggetto diverso da una persona fisica, sarà ovviamente necessario che la società, ente o associazione siano rappresentati da una persona fisica che ne abbia il potere a norma di statuto o di legge. L’art. 11 del d.lgs 546/92, disciplina la capacità processuale per le parti diverse dall’Ufficio del Ministero delle Finanze o dell’Ente locale. 37 Sul punto circolare ministeriale n. 98/E del 23.04.1996. 27 2.1 Il contribuente deceduto. Notevoli problemi di natura processuale derivano dal decesso del contribuente, anche se non si può prescindere, prima di esaminarli, dal riprendere la disciplina che il codice civile detta in materia di successioni, focalizzando, l’attenzione su quei principi strettamente collegati all’analisi che si intende svolgere. Si deve prima di tutto partire dall’apertura della successione che è determinata dalla morte della persona, e l’art. 456 del cod. civ. stabilisce in proposito che la successione si apre nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto. La successione a causa di morte può essere a titolo universale o a titolo particolare, quella a titolo universale che deriva dalla legge ovvero dal testamento comporta il subentrare dell’erede nella titolarità della universalità o di una quota di rapporti trasmissibili intestati al de cuis; mentre, la successione a titolo particolare si configura in relazione al legato che consiste in una attribuzione a causa di morte. L’art. 459 del cod. civ. enuncia con chiarezza il principio che l’eredità si acquista con l’accettazione, precisando, che l’effetto retroagisce al momento dell’apertura della successione. Il codice prevede un’accettazione espressa dell’eredità quando in un atto pubblico o in una scrittura privata il chiamato all’eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il titolo di erede art. 475, comma 1; invece, è tacita quando la volontà di accettare l’eredità non è espressa esplicitamente, ma è implicita in un atto o in un comportamento che presuppone necessariamente la volontà di accettare. Nell’ambito tributario la complessa situazione a cui da origine il decesso di un soggetto, che senz’altro si deve ritenere soggetto passivo di imposta, attiene l’individuazione del nuovo soggetto su cui ricade l’obbligazione tributaria che faceva capo al defunto. L’art. 65 del DPR n. 600/73 stabilisce che: «gli eredi rispondono in solido delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa. Gli 28 eredi del contribuente devono comunicare all’ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità ed il proprio domicilio fiscale». Dalla lettura di questa disposizione rileviamo alcune peculiarità previste dal legislatore tributario rispetto alla disciplina del codice civile. Infatti, l’art. 754 cod. civ. prevede che: « gli eredi sono tenuti verso i creditori al pagamento dei debiti e pesi ereditari personalmente in proporzione della loro quota ereditaria e ipotecariamente per l’intero». L’adempimento della comunicazione delle generalità e del domicilio fiscale degli eredi, si configura come una manifestazione della volontà di accettare l’eredità, ossia da considerare come atto dal quale si desume un’accettazione tacita dell’eredità. Inoltre, la disposizione prevede una responsabilità solidale nel caso in cui vi siano una pluralità di eredi, ma senza individuare il soggetto onerato alla presentazione della comunicazione, nonché, l’indicazione delle generalità di tutti gli eredi o solo di quelli che hanno accettato. Se consideriamo l’ipotesi più semplice, ossia l’accettazione dell’eredità da parte di tutti gli eredi, colui che effettua la comunicazione sopra indicata si pone nei confronti dell’Amministrazione quale destinatario degli atti relativi all’accertamento delle imposte; inoltre, questa condizione comporta che sia legittimato ad agire e capace di stare in giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie nel caso di un eventuale contenzioso relativo agli atti in questione. Il DPR 600/73 prevede al 4 comma, dell’art. 65 che: « può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi, che almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui al secondo comma». L’erede che ha presentato la comunicazione ha il diritto di ricevere una notificazione personale degli atti posti in essere dall’Amministrazione, quindi, la notifica effettuata ai sensi del comma 4 dell’art. 65 non è efficace nei suo confronti. Per quanto attiene gli altri eredi è necessario distinguere a seconda che abbiano accettato o meno l’eredità. Questa situazione comporta nel primo 29 caso che l’atto impositivo assume rilevanza anche nei loro confronti in quanto soggetti chiamati a rispondere solidalmente; mentre, nel caso in cui gli eredi non hanno accettato l’eredità al fine di evitare l’escussione da parte dell’Amministrazione finanziaria devono impugnare l’atto impositivo o intervenire volontariamente in un giudizio già in corso, al fine di affermare la nullità dell’atto nei loro confronti in quanto manca la qualità di erede. Una ipotesi su cui dottrina e giurisprudenza non si sono occupate riguarda il caso in cui vi siano una pluralità di eredi senza accettazione di alcuno, con la conseguenza che nessuna comunicazione relativa alla generalità e domicilio fiscale degli eredi arriverà al fisco. L’Amministrazione finanziaria provvederà ad effettuare la notificazione degli atti impositivi in forma impersonale e collettiva al domicilio del contribuente defunto. A questo punto acquistando l’atto impositivo piene efficacia in mancanza di impugnazione, gli eredi dovranno, necessariamente adire la Commissione tributaria competente al fine di evitare il consolidamento dell’atto notificato. Il 3 comma dell’art. 65 stabilisce che: «tutti i termini pendenti dalla data della morte del contribuente o scadenti entro quattro mesi da essa, compresi il termine per la presentazione della dichiarazione ed il termine per ricorrere contro l’accertamento, sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi». Tuttavia si pone il problema di stabilire quale sia il dies a quo di decorrenza del suddetto termine quando l’Amministrazione compie una duplice notifica dell’atto impositivo sia all’erede che ha effettuato la comunicazione e sia impersonalmente e collettivamente al domicilio del defunto. In dottrina38 si è affermato di riconoscere l’esistenza di un duplice termine di decorrenza per l’impugnazione, a seconda che si tratti o meno dell’erede che ha accettato l’eredità ed ha effettuato la relativa comunicazione richiesta dal DPR 600/73. 38 AMBROSETTI, Il ricorso nel diritto tributario, Padova, 1999, p. 216, il quale rileva come la questione non sia puramente teorica, ma abbia una portata pratica, in quanto possono le notificazioni produrre effetti diversi riguardo al processo in base alle situazioni giuridiche dei soggetti ai quali l’atto è stato notificato, relativamente alla successione ereditaria del contribuente defunto. 30 La giurisprudenza civile e tributaria39 è univoca nel considerare la nullità dell’accertamento nei confronti degli eredi virtuali quando la notifica sia stata effettuata al solo nome del defunto e dell’erede autore della comunicazione all’Amministrazione finanziaria. Decisamente, costituisce vizio insanabile la notificazione effettata al solo nome e domicilio fiscale del defunto. Un aspetto processuale da considerare riguarda la trasmissibilità o meno, agli eredi del contribuente defunto, delle obbligazioni tributarie derivanti da sanzioni non penali. Il legislatore è intervenuto stabilendo, espressamente, all’art. 8 del d.l. 472/1997 la non trasmissibilità delle sanzioni tributarie non penali. Sul piano processuale, le conseguenze si traducono nell’applicazione della regola secondo la quale gli eredi non sono soggetti passivi di atti impositivi recanti sanzioni tributarie non penali; anche se, in un primo momento, nel riconoscere40 alla sanzione tributaria non penale natura soprattutto risarcitoria consentiva la trasmissibilità della stessa agli eredi del contribuente defunto al quale era stata comminata. 2.2 L’imprenditore soggetto a fallimento. L’art. 1 del RD 267/1942 stabilisce in linea di principio che le disposizioni sul fallimento, concordato preventivo e sull’amministrazione controllata si applicano solo agli imprenditori che esercitano un’attività commerciale41. Il concetto di imprenditore è fissato dall’art. 2082 cod. civ., ed è essenzialmente collegato al carattere professionale dell’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e di servizi. Questo concetto è comune a tutti gli imprenditori agricoli e commerciali, ma la commercialità risulta dall’art. 2195 del cod. civ. che stabilisce quali fra gli imprenditori siano soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle 39 Cass., I, 25.11.1995, n. 12210, in GCM, 1995, Imposte in genere – accertamento, 1940; Comm. Trib. Centr., XII, 9.11.1990, n. 7289, in RGC,1991, Imposte in genere, 1444. 40 Comm. Trib. Centr., 25.10.1996, n. 5322, in RGC, 1997, Imposte in genere, 387. 41 E’ questa una costante tradizione dei nostri ordinamenti giuridici, in contrasto con altri. 31 imprese. Ciò premesso, l’imprenditore commerciale può essere: una persona fisica o una società. Per quel che riguarda la persona fisica, questa, per essere considerata imprenditore, deve avere la capacità di esercitare l’attività commerciale. Tale capacità coincide normalmente con la capacità di agire; ma, può anche non coincidere, come nel caso in cui il minore emancipato o l’inabilitato art. 425 cod. civ, abbia ottenuto dal Tribunale l’autorizzazione all’esercizio o alla continuazione . Per quel che riguarda le società, ricordiamo che nel nostro ordinamento si distingue la società semplice, dalle società soggette a registrazione che assumono una delle forme tipiche stabilite dalla legge. Dalle società vanno invece tenute distinte le comunioni a scopo di godimento art. 2248 cod. civ. e le associazioni in partecipazione art. 77 della legge che non sono soggette alle procedure concorsuali. L’art. 5 della legge fall. dispone che l’imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato fallito. Nel suo capoverso, l’art. 5 indica i segni con cui l’insolvenza si manifesta: inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. L’insolvenza è definita come l’impotenza di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Non è facile trovare un criterio obiettivo al quale si possa riconoscere l’insolvenza (ad esempio non basta che il bilancio sia in passivo). Ai fini della identificazione dell’insolvenza è da notare l’accenno sulla “regolarità” dell’adempimento delle obbligazioni. La dichiarazione di fallimento non è che la dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza. La dichiarazione avviene con sentenza, che ha carattere costitutivo rispetto all’apertura del concorso. Dall’art. 6 risulta che i fallimento può essere dichiarato su richiesta del debitore, su ricorso di uno o più creditori, su istanza del P.m. o d’uffico. La dichiarazione di fallimento è demandata esclusivamente al Tribunale e nel caso in cui il ricorso del creditore sia respinto, il reclamo alla Corte 32 d’Appello, ai sensi dell’art. 22, comporta in caso di accoglimento della dichiarazione di fallimento si deve rinviare al Tribunale per l’emanazione della sentenza. L’art. 9 attribuisce la competenza al tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa ossia ai sensi dell’art. 2119 del cod. civ. è la sede legale. Il fallimento non richiede una condanna e un titolo esecutivo come nell’esecuzione singolare, ma la dichiarazione dello stato di insolvenza. Ed è una dichiarazione giurisdizionale, con sentenza, al punto che essa deve esserci anche quando la successiva procedura si svolgerà sul piano amministrativo, con la liquidazione coatta. La sentenza accerta lo stato di insolvenza e costituisce uno stato giuridico nuovo, agli effetti personali e patrimoniali42. L’art. 16 stabilisce che la sentenza dichiarativa di fallimento è provvisoriamente esecutiva. La legge fallimentare al capo terzo titolato “degli effetti del fallimento” detta una serie di norme, che molti autori ritengono di diritto sostanziale rispetto alla disciplina strettamente processuale del fallimento, in ordine agli effetti del fallimento per il fallito, per i creditori, sugli atti pregiudizievoli ai creditori e infine sui rapporti giuridici preesistenti. Il punto che interessa prettamente la nostra analisi attiene alla perdita della 42 V. in argomento VITALE, Milano 1968 e di PICARDI, Milano 1974, e lo scritto di ROCCO, in Studi Asquini, 1965, pag. 1671. V. anche la scettica posizione di ANDRIOLI, p. 344 ss., secondo il quale è un «errore metodologico riferire alla sentenza dichiarativa nozioni sistematiche, sorte in ambienti normativi diversi»; ma, in realtà, nell’ambito della classificazione tradizionale delle sentenze l’unica collocazione possibile è quella proposta, ed è anche collocazione doverosa, perché se è vero che la sentenza dichiarativa funge da semplice presupposto per il ridursi di molti effetti – e quindi implica il procedimento successivo – è anche vero che essa produce effetti suoi propri. Per l’inquadramento nella inaccettabile categoria della giurisdizione di diritto obiettivo, MICHELI, Profilo della sentenza dichiarativa di fallimento, in Banca, borsa, 1962, I, p. 67. Un ampia rassegna delle opinioni in PROVINCIALI, p. 421 e ss. e, per quelle avanzate sotto il codice di commercio , D’AVACK, La natura giuridica del fallimento, cap. IV; più di recente, MAZZOCCA, p. 101 e BONSIGNORI, p. 546 ss.. Sull’argomento, ancora, BONGIORNO, Brevi annotazioni critiche sul concetto sanzionatorio della dichiarazione di fallimento, in Dir. fall., 1978, I, p. 484; MAZZOCCA, Sulla natura della sentenza dichiarativa di fallimento, in Dir. fall. 1980, II, p. 651; SIRABELLA, Natura giuridica ed effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, in Inform Pirola, 1981, p. 359. 33 legittimazione processuale del fallito. L’art. 43 dispone che nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore43. E’ evidente che la sostituzione del debitore nell’amministrazione dell’impresa non può non avere come logica conseguenza il trasferimento in capo al curatore anche della legittimazione processuale in ordine ai rapporti sui quali si esercita l’amministrazione. Il legislatore pone in prima battuta attenzione a quelle situazioni patrimoniali che sono oggetto di contestazione nel momento della dichiarazione di fallimento. Rientrano nella disponibilità del curatore sia per promuovere che per proseguire le azioni al fine di risolvere le contestazioni in favore del fallimento e quelle contro. Ulteriore problema è quello relativo all’interruzione del processo per effetto del fallimento. Si discute se questa sia automatica o se debba essere 43 Sull’argomento v. l’importante scritto di VOCINO, Il fallito nel suo processo, in Dir. fall. 1972, I, p. 249 e quello di DE MARTINI, Attività negoziale e attività processuale del fallito durante il fallimento, ivi 1971, I, p. 205; v. anche BORSELLI, La legittimazione processuale del fallito, in Foro nap., 1968, III, p. 33; DE SEMO, Perdita della legittimazione processuale del fallito e suoi limiti, in Riv. Dir. civ. 1960, I, p. 312. Ovviamente è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di costituzionalità della norma: App. Lecce 27 aprile 1972, in Giust. civ. I, 2049; Cass. 2 marzo 1978 n. 1061, in Dir. fall. 1978, II, 360; Cass. 4 luglio 1979 n. 3791, in Fallimento 1980, 297; Cass. 14 maggio 1981 n. 3172 in Giur. comm. 1982 II, p. 21. Corte Cost. (ord.) 30 dicembre 1993 n. 483, in Fall. 1994, p. 241; Dir. fall. 1994, II, p. 171, con nota di RAGUSA MAGGIORE. Per quanto riguarda la pretesa disparità di trattamento con i creditori relativamente alla possibilità che questi hanno, mentre al fallito è negata, di impugnare i crediti ammessi al passivo fallimentare, la questione è stata parimenti ritenuta manifestamente infondata da Cass. 21 gennaio 1985 n. 195, in Giust. civ. 1985, I, p. 1957. Su quest’ultimo aspetto v. LUMIA, Sulla tutela giurisdizionale del fallito (art. 100 l. fall. e 24 Cost.), in Fallimento 1982, p. 1221 e SCALERA, Sulla legittimazione processuale del fallito, in Dir. fall. 1980, II, p. 215. Allo scopo di garantire il diritto di difesa del fallito Cass. 14 settembre 1983 n. 7435, Fallimento 1984, p. 471, aveva ammesso una legittimazione processuale del fallito concorrente con quella del curatore, stante la possibilità che dall’accertamento tributario derivino effetti penali, ritenendo di conseguenza necessario che il curatore porti a conoscenza del fallito gli accertamenti tributari. Ma già il Trib. Rimini aveva sollevato, sotto simili profili, questione di costituzionalità (ord. 3 novembre 1981, in Giur. cost. 1982, II, p. 462), che la Corte Cost. n. 247 del 28 luglio 1983 ha risolto nel senso che è illegittimo costituzionalmente l’art. 56 ult. Comma del DPR 29 settembre 1973 n. 600 nella parte in cui comporta che l’accertamento dell’imposta, divenuto definitivo in conseguenza della decisone di una commissione tributaria, vincoli il giudice penale nei confronti dell’imputato che, come fallito, non abbia partecipato al giudizio tributario. Se ne trae che, per la Corte, il fallito non è legittimato ad intervenire od agire, poiché nel giudizio penale l’accertamento tributario non farà stato; potrà forse residuare la legittimazione in caso di inerzia e disinteresse della curatela. 34 dichiarata nel processo. Secondo alcuni autori, in particolare SATTA, pare che si tratta di cause per le quali è sottratta la legittimazione al fallito, quindi, il processo non può proseguire se non è riassunto nei confronti del curatore. La sostituzione del curatore nella legittimazione del fallito determina una forma di successione, per cui il curatore assume il processo nello stato in cui si trova44, e dall’altra parte il fallito, se perde la qualità di parte, non acquista la qualità di terzo: onde egli non può intervenire nei giudizi, salvo, dice il cpv. dell’art. 43, per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico, o che l’intervento sia espressamente previsto dalla legge45. La perdita della capacità processuale è, come dice l’art. 43, limitata ai rapporti patrimoniali compresi nel fallimento. Il fallito perciò conserva la sua piena capacità di agire per tutti gli altri rapporti, e in particolare per quelli derivanti dall’attività che abbia spiegato successivamente al fallimento senza impegnare il suo patrimonio; non solo, ma la conserva anche per le azioni che egli può spiegare in contrasto col curatore per far valere diritti propri nel fallimento o contro il fallimento46: tipico il caso dell’opposizione alla sentenza dichiarativa. Capace è anche il fallito per limitati interventi che la legge gli consente di fare nei processi instaurati dal curatore o promossi contro di lui. Come abbiamo accennato, la legge ha abolito in linea di principio ogni potere di intervento del fallito in questi processi: lo ha solo mantenuto, oltre i casi espressamente indicati, per le cause quali può dipendere una imputazione di 44 Conf. Cass. 18.02.1972, n. 464 in Dir. fall., II, 565; un’applicazione del principio in Cass. 24.01.1966, n. 224, ivi 1966, II, 202, a proposito dell’opponibilità al curatore del giudicato formatosi per nullità dell’appello proposto dal fallito prima della dichiarazione. 45 Per la tassatività delle ipotesi in cui è possibile l’intervento del fallito, Cass. 19 gennaio 1970 n. 100, cit.; App. Napoli 31 dicembre 1969, in Dir. e giur., 1970, p. 243. L’intervento in giudizio ai sensi dell’art. 43, II° comma è stato ammesso anche per una società di capitali, tramite necessariamente i suoi amministratori (Trib. Napoli 3 aprile 1981, in Dir. fall. 1981, II, p. 307), ipotesi da non confondere con quella di un intervento in giudizio degli amministratori in proprio, che sarebbe regolata invece dall’art. 105 cpc. 46 Si è ritenuto che il fallito sia legittimato a impugnare la sentenza di appello che riconosce il credito in base al quale fu richiesto il fallimento, quando egli abbia proposto opposizione alla sentenza dichiarativa (Cass. 31.03.1951, in Dir. fall., 112). Per ritenere esatta la decisione occorrerebbe che l’esistenza del credito fosse decisiva ai fini della revoca, il che ci sembra difficilmente realizzabile; occorre tener conto anche dell’art. 95, 3° comma. 35 bancarotta a suo carico art. 43 cpv. In tutti gli altri casi, il controllo del fallito si esercita attraverso reclami interni al fallimento che egli può fare al giudice delegato e al tribunale fallimentare. Esaminate le disposizioni dalla legge fallimentare sulla legittimazione processuale del fallito, si tratta di esaminare la posizione di quest’ultimo nei rapporti tributari. Si afferma la permanenza della soggettività passiva del rapporto d’imposta in capo al soggetto, pur se dichiarato fallito, che ha prodotto i relativi redditi; da ciò discende che anche gli obblighi strumentali relativi ai tributi gravano su di esso. Il soggetto fallito, come già visto, perde la capacità di stare in giudizio47, che viene trasferita al curatore fallimentare. Il curatore in considerazione della sua funzione, di natura pubblicistica, non può essere considerato né sostituto, né rappresentante del contribuente fallito. L’indirizzo prevalente della giurisprudenza48 ritiene che la perdita di capacità processuale del fallito non sia assoluta, ma relativa, con riguardo solo alla massa dei creditori. Di conseguenza49, lo stato di incapacità processuale in cui si trova consente al fallito, senza autorizzazione del curatore, di agire allo scopo di tutelare i suoi diritti strettamente personali o patrimoniali di cui gli organi fallimentari si disinteressano50. Pertanto, il fallito non perde la propria capacità di stare in giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, conservando la possibilità di stare in giudizio anche per la tutela di un diritto di pertinenza della massa fallimentare 47 Con riferimento all’art. 75 cpc, che attribuisce la capacità di stare in giudizio a coloro che hanno il libero esercizio dei diritti che nel giudizio intendano far valere, TAR Toscana, ord. 30.02.1986, in RGC, 1986, Giustizia amministrativa, 720, ha negato che il fallito sia legittimato a proporre ricorso innanzi agli organi della giurisdizione amministrativa. 48 Soprattutto della Corte di Cassazione: 7.12.1990, n. 11727, in GCM, 1990, Fallimento – dichiarazione, 2003; 5.11.1990, n. 10612, ibidem, Cassazione civile – deposito di atti, 1835; 9.9.1986, n. 5496, ivi, 1986, ivi, 1967, Appello, 165. 49 Cass., II, 23.07.1994, n. 6873, in GCM, 1994, Impugnazioni civili, 994. 50 In senso analogo Cass., I, 27.10.1994, n. 8860, in GCM, 1994, Fallimento-dichiarazione, 1296. 36 nell’ipotesi di inerzia della curatela. Laddove all’inerzia del curatore, il fallito agisca personalmente, la controparte della relativa controversia non sarebbe legittimata a proporre l’eccezione di difetto di legittimazione processuale, né d’ufficio il giudice. Nel riportare quanto indicato dai giudici di legittimità51, il fallito conserva la propria capacità processuale, sia rispetto ai beni ed ai diritti che non sono acquisibili alla massa fallimentare, sia in relazione a quei rapporti di diritto patrimoniale che, pur potendo essere compresi nel fallimento, di fatto in esso rientrano solo per ragione del disinteresse manifestato dagli organi fallimentari, i quali abbiano omesso di agire o di resistere in giudizio per una loro tutela. Contro tale presa di posizione da parte della Cassazione vi è chi ritiene52 l’orientamento seguito una forzatura, visto soprattutto come il tentativo di introdurre nell’ordinamento una norma inesistente una sorta di 16 bis del DPR 26.10.1972, n. 636 ovvero un nuovo art. 21 bis del dlgs 31.12.1992, n. 546. In altri termini si può affermare che il soggetto fallito, nel caso in cui il curatore fallimentare sia processualmente inerte, si vede riconosciute tanto la legittimità ad agire, quanto quella processuale, essendosi espressamente affermato che l’accertamento tributario, laddove si riferisca ad obbligazioni i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, ovvero ad obbligazioni relative al periodo d’imposta durante il quale tale dichiarazione è stata resa, deve essere notificato sia al curatore, che all’imprenditore fallito53. Il curatore può decidere di stare in giudizio ed in tale ipotesi è stata ritenuta priva di fondamento54 giuridico la pretesa, da parte dell’Amministrazione 51 Nella sentenza n. 3321 del 20.03.1993, riportata anche in FINOCCHIARO A. – FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 146, nt. 5. 52 FINOCCHIARO A. – FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 146, nt. 5. 53 Così espressamente Cass., 11.07.1995, n. 7561, in GC, 1995, I, 2941 e la più recente Comm. Trib. Centr. 1.04.1998, n. 1816, in DPT, 1999, II, 1450. 54 Comm. Trib. Imperia, V, 4.06.1997, n. 232, in GN, 1998, 817 ss. 37 finanziaria, di inammissibilità del ricorso sottoscritto dal curatore senza assistenza di un difensore abilitato ex art. 12 d,lgs 546/92. A questa conclusione si è giunti ritenendo il curatore soggetto dotato dei requisiti per poter stare personalmente in giudizio e compiere validamente da sé l’attività processuale. Il divieto imposto, dal 3° comma dell’art. 31 della l. fall., al curatore di assumere la veste di difensore nei giudizi che interessano il fallimento, non trova applicazione se il giudice delegato autorizza il curatore ad impugnare un avviso di accertamento senza nominare altro difensore poiché manca un’espressa previsione di legge in tal senso. Si ritiene, pertanto, che la sottoscrizione del ricorso da parte del curatore fallimentare, che rientra in una delle categorie professionali previste dall’art. 12 dlgs 546/92, non comporta alcuna ipotesi di nullità secondo le norme del processo tributario. Il curatore che ricorre in giudizio è dotato della legittimità ad agire e processuale, anche se necessità dell’autorizzazione del giudice delegato55. Il difetto di legittimazione è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado, fermo il limite della formazione del giudicato sul punto, senza poter essere sanato56. A tal proposito nelle casi di accertamento per anni precedenti alla dichiarazione di fallimento, la giurisprudenza tributaria si è espressa affermando la necessità della notifica dell’accertamento non solo al curatore ma anche al contribuente-imprenditore, successivamente, dichiarato fallito57. Infatti, si deve rilevare che il fallito continua ad essere soggetto passivo del 55 Art. 25, n. 6, l. fall. (poteri del giudice delegato): «Il giudice delegato autorizza per iscritto il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto (omissis) l’autorizzazione deve essere sempre data per atti determinati e per i giudizi deve essere data per ogni grado». Art. 31 l. fall. (Poteri del curatore): «Il curatore non può stare in giudizio senza l’autorizzazione scritta del giudice delegato, salvo in materia di contestazioni e di tardive denunzie di crediti e di diritti reali mobiliari»; autorizzazione, questa, che viene dalla dottrina richiesta per ogni grado di giudizio ed il cui difetto produce il difetto di legittimazione del curatore, indipendentemente dalla legittimità processuale assunta dal curatore nei gradi precorsi MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 1991, p. 111. 56 Comm. Tib. I g Roma, 16.10.1989 e successivamente Comm. Trib. Centr., XI, 19.05.1993, n. 1920, in TESAURO, Il processo tributario, Torino, 1998, p. 190 ss. 57 Comm. Trib. Centr., XXIII, 26.4.1999, n. 3579, in GN, 2000, 383. 38 rapporto tributario e, quindi, colpito dagli effetti della pretesa fiscale. Alla luce delle conclusioni cui è giunta la giurisprudenza58 si ritiene che il soggetto dichiarato fallito mantiene la capacità processuale per l’impugnazione di una pretesa fiscale notificata al curatore che decide di non impugnare. La legittimazione del fallito trova riscontro nel principio costituzionale dell’art. 24 sulla garanzia del diritto di difesa, in quanto, gli atti impositivi non impugnati diventano definitivi ed in grado di produrre i propri effetti nei confronti del fallito senza più alcuna possibilità di difesa da parte di quest’ultimo. La valutazione da parte del curatore fallimentare sull’opportunità o meno di impugnare le pretese del Fisco è effettuata nell’interesse dei creditori e non del fallito59. 2.3 Il sostituto d’imposta. Il sostituto d’imposta, indirettamente definito dall’art. 64 del DPR 600/7360, risulta essere colui che è tenuto all’adempimento della prestazione tributaria i cui presupposti impositivi oggettivi e soggettivi si realizzano in capo ad un diverso soggetto passivo. Nel diritto tributario il termine sostituzione d’imposta non indica un fenomeno di sostituzione così come avviene in altri settori del diritto, ma consiste nella volontà del legislatore di addossare l’imposta su di un soggetto 58 Soprattutto le sentenze della Corte di Cassazione: 17.3.1995, n. 3094, in F, 1995 5108; 20.12.1994, n. 10957, in BT, 1995, 1272; Cass., 20.3.1993, n. 3321. 59 Rileva TESAURO, Il processo tributario, Torino, 1998, p. 190, come non sia ben chiaro il motivo per cui il fallito, per poter impugnare l’atto emesso dall’Amministrazione finanziaria nei suoi confronti, debba in ogni caso attendere la decisione del curatore, il quale peraltro per poter stare in giudizio deve addirittura essere munito dell’autorizzazione scritta in tal senso dal giudice delegato. Da parte sua poi BRIGHENTI, Legittimazione del fallito ad impugnare i provvedimenti impositivi: un passo avanti ed uno indietro, in BT, 1995, 1274 lamenta come nessuno si sia preoccupato di spiegare cosa accade nell’ipotesi in cui il curatore non coltivi l’impugnazione. 60 In cui è dato di leggere: «Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto, deve esercitare la rivalsa se non è diversamente stabilito in modo espresso», aggiungendo poi che «il sostituto ha la facoltà di intervenire nel procedimento di accertamento di imposta». 39 - sostituito - per poi trasferirla su di un altro - sostituto -61. Quindi, il soggetto passivo non è colui nei cui confronti si realizzano i presupposti impositivi, bensì un diverso soggetto direttamente investito dalla legge dell’onere di adempiere all’obbligazione del sostituito. Il meccanismo si basa sul fatto che, nella totalità dei casi, il sostituto è debitore verso il sostituito di una somma di denaro che costituisce una componente di reddito per il soggetto percettore; per tale motivo il legislatore ha imposto al sostituto l’obbligo di trattenere parte di queste somme per poi versarle direttamente al Fisco. Alla luce di questa impostazione tra Amministrazione finanziaria e sostituto si costituisce un rapporto d’imposta, mentre, si ritiene di far rientrare nei normali rapporti di natura privatistica quello tra sostituto e sostituito. La questione da sempre sollevata riguarda l’individuazione dell’autorità competente a dirimere le controversie tra sostituto e sostituito62, tenuto conto delle non poche discussioni affrontate soprattutto in sede giurisprudenziale. Al fine di analizzare le problematiche sopra indicate è utile esaminare con particolare attenzione il più recente intervento della Cassazione a Sezioni Unite sul punto. La Suprema Corte con la sentenza del 26 giugno 2009, n. 15031, ha affermato che la controversia tra sostituto d’imposta e sostituito, relativa all’esercizio del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte, appartiene alla giurisdizione ordinaria. Nel caso di specie, un libero professionista, ricorre per la cassazione della sentenza con la quale il Giudice di Pace accoglie l’opposizione proposta dall’Ente comunale avverso l’esecuzione forzata intrapresa dal legale del ricorrente per ottenere il pagamento di un certo importo corrispondente alla ritenuta IRPEF operata dal predetto Ente, in qualità di sostituto d’imposta, 61 Così MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1989, p. 76 ss. In dottrina si sono occupati dell’argomento in parola, tra i molti: BRIGHENTI, Le controversie tra Fisco, sostituto d’imposta e sostituito e la tesi del litisconsorzio necessario, in RDF, 1990, p. 19; POTITO, L’azione di accertamento di ripetizione dell’indebito in materia tributaria, ivi, 1974, p. 125 ss.; TESAURO, In tema di giurisdizione e competenza per le controversie tra sostituto e sostituito, in DPT, 1979, II, p. 320. 62 40 sulla maggior somma dovuta (e corrispondente al netto della ritenuta stessa) a titolo di onorario. Il quesito formulato dal ricorrente, in merito alle problematiche sopraindicate, è il seguente: « .. se la questione relativa alla legittimità della ritenuta d’acconto esorbita dalla giurisdizione del Giudice ordinario e rientra nella giurisdizione del Giudice tributario ». Secondo la Corte il problema è mal posto, ma ritiene la questione di particolare importanza. Il legittimo e corretto esercizio del diritto di rivalsa che il sostituto applica nei confronti del sostituito si svolge all’interno di un rapporto prettamente privatistico, ed in quanto tale, rientra nell’ambito della competenza del giudice ordinario. Considerata questa ricostruzione del rapporto si ritiene che la previsione del diritto di rivalsa in capo al sostituto d’imposta, in base all’art. 64 DPR 600/73, non deve indurre a collegare la natura tributaria della norma ad un rapporto di tipo pubblicistico. A sostegno si deve rilevare che nessuno dei due soggetti è investito di una “potestas impositiva”, e nello stesso tempo non vi è un provvedimento adottato rispetto ad una autoritativa pretesa. Il sostituto è tenuto ad osservare determinati obblighi tributari diretti ad agevolare e garantire la riscossione, questi oneri rientrano sul versante pubblico del rapporto (sostituto-fisco). Nelle controversie tra sostituto e sostituito alla base vi è un interesse privato relativo all’esercizio del diritto di rivalsa cui corrisponde un obbligazione ex lege. Nel seguire questa analisi la Corte ritiene che solo i rapporti tributari, i quali si caratterizzano per la presenza di una delle parti dotata di potestà impositiva che si traduce in un atto impositivo, rientrano nella competenza del giudice tributario. Tuttavia proprio il legislatore traccia questa distinzione in base al combinato disposto dell’art. 2 con gli artt. 10 e 19 del dlgs. 546/97. L’art. 10 rubricato “Parti” individua i soggetti aventi la capacità di essere parte nel processo tributario. La figura del ricorrente coincide, quasi sempre, con quella del contribuente, mentre, quella resistente coincide con l’ente che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto 41 richiesto ma sempre espressione della potestà impositiva. Inoltre, l’art. 19 indica, anche se ormai si ritiene che l’elencazione non sia da considerare perentoria, gli atti da impugnare dinanzi alle Commissioni. Dallo schema normativo si rileva come la giurisdizione tributaria è finalizzata ad esaminare le istanze del contribuente avverso le pretese dell’Amministrazione finanziaria, e non a dirimere controversie di carattere privatistico anche se traggono origine da norme tributarie. L’art. 2 del dlgs. così come novellato, dall’art. 12 della l. 448/2001, estendendo la giurisdizione del giudice tributario a tutte le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie ha posto il problema sulla possibilità di ricorrere alle Commissioni tributarie in assenza di un atto impositivo. Se però si pone in risalto il carattere impugnatorio del contenzioso tributario secondo la Corte: «l’eventuale eliminazione di tale limite non sarebbe senza conseguenze sul piano della legittimità costituzionale, perché trasformerebbe indebitamente il giudice speciale, con giurisdizione limitata alla legittimità degli atti impositivi, in giudice dei tributi a competenza generalizzata (arg. ex Cort. Cost. sent. 204/2004)». E’ proprio alla luce di tale convincimento il Collegio ritiene che non possa essere supertata la struttura impugnatoria del processo tributario rendendo necessaria la sussistenza di un atto impositivo. A conforto di tale ricostruzione si osserva che la novella apportata all’art. 19 con l’inserimento di altre categorie di atti impugnabili, dimostra come il legislatore non ha voluto eliminare le barriere poste da tale articolo. Si afferma la centralità della giurisdizione ordinaria rilevando che il riparto di giurisdizione non si può fare in base a “blocchi di materie”, senza distinguere attività in cui si evince o meno l’esercizio di un potere per il perseguimento di interessi pubblici. Posto che nelle controversie tra sostituto e sostituito non vi è un provvedimento di diniego emanato da un organo amministrativo ed una domanda rivolta direttamente all’ente impositore, il sostituto che esercita la rivalsa non è da considerare, pertanto, soggetto attivo del rapporto tributario. Infatti, quale soggetto passivo è tenuto ad effettuare la dichiarazione IRPEF 42 quale sostituto ed a versare la ritenuta. Pur riconoscendo la consolidata giurisprudenza di legittimità che rimette alla giurisdizione tributaria le controversie tra sostituto e sostituito, il Collegio ritiene che per aversi controversia tributaria non è sufficiente che l’oggetto del giudizio riguardi una pretesa fiscale, ma è condizione imprescindibile che la domanda sia rivolta all’ente impositore. Altresì, è da segnalare che le prime pronunce della Cassazione si orientavano proprio in questo senso63, anche se successivamente si è andato consolidando l’orientamento secondo cui: la ritenuta rappresenta un obbligo strumentale ed accessorio rispetto all’obbligazione d’imposta è, quindi, viene assorbita dal più ampio rapporto obbligatorio64. Ribadito che non tutte le questioni derivanti da norme tributarie comportano ipso iure il ricorso alle Commissioni tributarie, lo stesso principio si riscontra per alcune norme del cod. civ. che distribuiscono tra privati il carico fiscale. Infatti, l’art. 964 del cod. civ. attribuisce a carico dell’enfiteuta le imposte che gravano sul fondo (1008 cod. civ. in tema di usufrutto e l’art. 1025 per quanto riguarda il diritto di uso ed abitazione). Anche se queste disposizioni sono proiezioni di norme tributarie, ciò non comporta che le questioni nascenti siano distratte dalla competenza del giudice ordinario. In conclusione, la Cassazione afferma che: «le controversie tra sostituto e sostituito, relative all’esercizio del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte, versate direttamente dal sostituto volontariamente o coattivamente, non sono attratte alla giurisdizione del giudice tributario, ma rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario». 3 Il litisconsorzio. 63 Cass. 5344/1987 conf. Cass. 2889/83. Cass. 1200/1988, a tale indirizzo si è uniformato tutta la giurisprudenza successiva Cass. 5095/1997, 10456/1997, 12731/1997, 9074/2003, 23019/2005, 11650/2006, 418/2007, 17076/2007, 20546/2008 e 26013/2008. 64 43 Con la parola litisconsorzio65 si indica il fenomeno per il quale le parti nel processo sono più di quelle due, attore e convenuto, che sono indispensabili affinché sorga il processo. La presenza di più parti nel giudizio dipende dal fatto che il rapporto sostanziale fatto valere riguarda più di due soggetti; pertanto, l’eventuale necessità della presenza di più parti nel processo non è che un corollario della regola della legittimità ad agire. La nozione letterale di litisconsorzio presuppone una controversia già iniziata, un’unione di più persone che abbiano già assunto la veste di parte in senso formale in un processo. Invece, la disciplina vigente si riferisce prevalentemente alla necessità o alla possibilità che più persone agiscano o siano convenute nello stesso processo. Gli artt. 102, comma 1, per il litisconsorzio necessario e 103, comma 1, cpc per il litisconsorzio facoltativo, definiscono «parti» soggetti che non hanno ancora agito o che non sono ancora stati convenuti in giudizio, che non hanno ancora assunto la veste di parte in un processo66. Le nozioni letterali di litisconsorzio necessario e facoltativo e quelle deducibili dagli artt. 102 e 103 cpc creano confusione, favorita dalla collocazione della disposizione contenuta nell’art. 103, comma 2, che prevede: «il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza concorde di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo». La collocazione della norma induce l’interprete a ritenere che, ogniqualvolta la partecipazione di più persone al 65 Litisconsorzio, sul piano semantico, indica l’unione di più persone in una controversia; litisconsórcio (litis cum sors) evoca una lite già iniziata da (o nei confronti di) più persone, le quali possono, congiuntamente, soccombere o riuscire vittoriose. Anche i termini corrispondenti in altre lingue rimandano a fenomeni analoghi: tralasciando quelli con la medesima origine (sul litisconsórcio nel diritto brasiliano, con un’approfondita analisi comparatistica, v. BARBOSA MOREIRA, J., Litisconsórcio unitário, Rio de Janeiro, 1972). 66 Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo. Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni, REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, Milano, 1960. 44 processo è rimessa, in presenza di determinate condizioni, alla iniziativa delle parti sia possibile disporre la separazione delle cause. Ma non è così, perché non in tutte le ipotesi in cui la creazione del litisconsorzio è affidata all’iniziativa di parte è possibile separare le cause. E, d’altro canto, non in tutti i casi in cui il litisconsorzio è imposto dalla legge si costituisce fra le parti presenti una inscindibile comunanza di sorti. Una prima importante considerazione da fare, nell’affrontare la problematica del litisconsorzio – necessario o facoltativo -, consiste nel tenere distinte le questioni relative allo svolgimento dei giudizi con pluralità di parti da quelle relative alla individuazione dei presupposti della necessità o della possibilità del litisconsorzio67. Il litisconsorzio necessario costituisce un limite alla libertà di agire in giudizio, perché subordina l’emanazione della pronuncia sul merito alla estensione della domanda ad altri soggetti diversi dall’attore e dal convenuto originari e, cioè, alla sua proposizione nei confronti di soggetti non individuati dal solo attore. In dottrina si è cercato di conciliare la disciplina del litisconsorzio necessario con il principio della domanda tradizionalmente inteso e con la libertà di agire, affermando che la partecipazione di più parti nel processo è necessaria solo quando non sia citato alcuno dei soggetti nei confronti dei quali si chiede sia emessa la decisione68.Questa interpretazione non tiene conto dei poteri, riconosciuti al giudice dagli artt. 112, 113 e 183, comma 2 cpc, di fornire la qualificazione del rapporto giuridico controverso, senza limitarsi a quanto affermato nella domanda introduttiva69 anche se, comunque, si tratta di una tesi disattesa dalla giurisprudenza70. 67 CHIOVENDA, Sul litisconsorzio necessario, in Saggi di diritto processuale civile, II, Roma, 1931, p. 427. 68 In tal senso DENTI, Appunti sul litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1959, p. 14; PROTO PISANI, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965, p. 608; PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in Comm. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1098. 69 COSTANTINO, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979; CERINO CANOVA, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Comm. Allorio, II, Torino, 1980, p. 7; COMOGLIO, Il principio di economia processuale, Padova, 1980, capp. II e III. 70 Cass., 21 maggio 1980, n. 3339, in Foro it., 1980, I, 2798, che ha dedotto l’esistenza di un soggetto, il quale avrebbe dovuto partecipare al processo quale litisconsorte necessario, da 45 L’opinione di gran lunga prevalente è quella che collega la necessità del litisconsorzio alla esistenza di rapporti giuridici unici con pluralità di parti e, quindi, alla necessaria coincidenza fra parti del rapporto sostanziale e parti del processo71. Altri interpretano la disposizione richiamando il principio del contraddittorio o il concetto di connessione particolarmente intensa fra rapporti giuridici bilaterali. In realtà la ratio dell’istituto può consistere nell’esigenza di tutelare il diritto alla difesa dei terzi sottoposti, pur senza partecipare al processo, agli effetti della decisione, oppure in quella di fornire alle parti già presenti in causa non un qualsivoglia provvedimento di merito, ma una sentenza idonea a regolare compiutamente il rapporto giuridico controverso. In considerazione dei limiti imposti alla libertà di agire, quindi occorre verificare rispetta a ciascuna azione proposta gli effetti ad essa collegati dall’ordinamento positivo ed individuare, rispetto a tali effetti, i soggetti che debbono partecipare al processo, affinché essi si possano compiutamente realizzare. In altre parole, la necessità del litisconsorzio non va affermata in base alla causa pretendi, ossia agli elementi costitutivi della fattispecie da cui deriva il diritto dedotto in giudizio, ma in base al petitum, ossia al risultato giuridico perseguito in giudizio72. Da un punto di vista processualcivilistico, che ritroviamo anche nel processo tributario, in considerazione degli artt. 102, comma 2, 307, comma 3 e 310, comma 1, cpc se la domanda non è proposta da – o nei confronti - di tutti i litisconsorti necessari, il giudice dispone l’integrazione del contraddittorio e, se le parti non ottemperano, il processo si estingue, con salvezza di riproponibilità dell’azione73. Inoltre, il problema che si pone consiste nell’individuare gli effetti un riferimento contenuto nella comparsa conclusionale di primo grado ed ha conseguentemente rimesso la causa al primo giudice. 71 TOMEI, Alcuni rilievi in tema di litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1980, p. 669. 72 COSTANTINO, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979. 73 ANDRIOLI rilevava che «la legittimazione non può più essere considerata una condizione dell’azione», in Commento al Codice di procedura civile, I, 1° ed., Napoli, 1941, p. 256. 46 processuali e sostanziali della domanda proposta da – o nei confronti – di alcuni dei litisconsorzi necessari. Parte della dottrina attribuisce diversi effetti a tali domande, a seconda che la necessità del litisconsorzio sia secundum tenorem rationis – cioè in ipotesi di contitolarità del rapporto giuridico controverso – oppure propter opportunitatem – cioè in ipotesi diverse dalla contitolarità del rapporto giuridico controverso74. Poiché la disciplina processuale applicabile ai due gruppi di ipotesi è la medesima ed implica comunque la continuazione del processo pur iniziato in assenza di alcuni litisconsorzi e, posto che la ratio dell’istituto prescinde dagli elementi costitutivi della fattispecie da cu deriva il diritto dedotto in giudizio e va, collegata, invece, alla idoneità del provvedimento di merito a realizzare tutti gli effetti previsti dall’ordinamento in relazione ad una data domanda, si è ritenuto, sulla scia della giurisprudenza, che la domanda proposta da – o nei confronti – di alcuni soltanto dei litisconsorzi necessari sia idonea a determinare la pendenza del processo e, qualora il contraddittorio sia successivamente integrato, ad impedire la decadenza ed interrompere la prescrizione; mentre, non sia comunque idonea a produrre quegli altri effetti processuali e sostanziali espressamente collegati dalla legge alla notifica dell’atto introduttivo ovvero all’acquisto della qualità di parte in senso formale75. Analizzata l’ipotesi in cui vi è la necessità che più persone assumano la veste di parte in un processo, con l’art. 103, comma 1, cpc si indicano, invece, le condizioni in presenza delle quali è possibile che più persone agiscano o siano convenute nel medesimo processo76. Le condizioni consistono nella connessione fra le diverse domande proposte 74 PROTO PISANI, Litisconsorzio necessario e diritti anteriormente quesiti, in Riv. dir. proc., 1966, p. 480, per il quale finché non è integrato il contraddittorio, la domanda è inidonea a produrre qualsivoglia effetto; nello stesso senso VACARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, p. 149; e, con esclusivo riferimento alla litispendenza, FRANCHI, La litispendenza, Padova, 1963, p. 189. 75 COSTANTINO, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979. 76 FABBRINI, Litisconsorzio, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, p. 810. 47 dai più attori o nei confronti dei più convenuti o nella identità di questioni77. Senza affrontare ulteriori punti in merito al litisconsorzio facoltativo, comunque, si rileva che la ratio dell’istituto è comunemente ravvisata nella esigenze di economia processuale e, in particolare, di impegnare un solo giudice per più cause e di evitare la moltiplicazione di atti e di prove. Una delle più importanti e considerevoli novità nel campo del contenzioso tributario attiene senza dubbio alla normativa sul processo con pluralità di parti disciplinato dall’art. 14 del d.lgs. 546/92. Il legislatore nella previgente disciplina sul contenzioso tributario, contenuta nel DPR 636/72, non aveva previsto una disposizione ad hoc che regolamentasse giuridicamente il litisconsorzio nel processo tributario. Le difficoltà applicative riscontrate dalle Commissioni tributarie volte a gestire e regolare rapporti tributari plurisoggettivi rappresentavano la diretta conseguenza di questo vuoto legislativo. Molti studiosi di diritto tributario, infatti, si sono soffermati sul motivo per cui il legislatore del ’92 abbia voluto disciplinare ex novo il litisconsorzio, istituto allora estraneo al processo tributario. La risposta a tale interrogativo risiede, con molta probabilità, nel fatto che il legislatore volesse garantire nel processo tributario, in modo efficace, principi di equità sostanziale tra le parti processuali in modo tale che più fatti rilevanti ai fini tributari e riguardanti più contribuenti ai fini fiscali, ricevessero un esame ed una omogenea valutazione. La norma in esame costituisce l’attuazione del principio contenuto nella legge delega n. 413/1991, lettera g), n. 2, che prevede: «la previsione o la disciplina dell’intervento e della chiamata in giudizio di soggetti che hanno lo stesso interesse, in quanto, insieme al ricorrente, destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso». Il legislatore del ’92, nella relazione ministeriale, pur ammettendo la natura “embrionale” dell’istituto, cerca di mettere in luce gli aspetti più significativi 77 TARZIA, Il litisconsorzio facoltativo nel processo di primo grado, Milano, 1972; LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, I, 4° ed., Milano, 1981, p. 94; ANDRIOLI, Diritto processuale civile, 10° ed., a cura di C. Punzi, Padova, 1987, p. 155. 48 e caratteristici della normativa in vigore, utilizzando sì una terminologia tipicamente processualcivilistica ma con la specifica finalità di rendere la materia conforme ai rapporti meramente tributari. L’art. 14, comma 1, così recita: «Se l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso processo e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi». Nel primo comma dell’art. 14, il legislatore ha voluto esplicitare l’instaurazione di un processo complesso da un punto di vista soggettivo, procedendo così alla definizione di litisconsorzio necessario. Questo ricorre ogni qualvolta si deduce in giudizio un unico ed inscindibile rapporto giuridico sostanziale che, riguardando contemporaneamente, più soggetti, impone la presenza di tutti al fine di rendere effettiva ed efficace la tutela giurisdizionale. Per questo motivo, quando l’oggetto del ricorso riguarda più soggetti necessariamente collegati, è richiesta la partecipazione obbligatoria di tutte le parti al medesimo processo, in quanto la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi. Dalla lettura dell’art. 102 del cpc, emerge un’apparente somiglianza di contenuti con l’art. 14 del d.lgs 546/92, ma la Corte di Cassazione a SS.UU., a tal proposito, con la sentenza n. 1052 del 2007 si è espressa nel ritenere che: «il litisconsorzio necessario debba essere considerato come fattispecie autonoma rispetto a quella contenuta e disciplinata nel codice di rito, di cui all’art. 102, in quanto la norma che regolamenta la fattispecie litisconsortile necessaria non può essere considerata, come quella processualcivilistica, “una mera norma in bianco”, ma debba essere collegata a presupposti tipici del processo tributario: l’inscindibilità della causa tra una pluralità di soggetti specificata dall’oggetto del ricorso». Quindi, nel processo tributario sarà la domanda giudiziale a determinare l’oggetto del processo e a costituire riferimento funzionale per valutare l’inscindibilità della causa tra soggetti. Non tutti gli esponenti della dottrina guardano positivamente alla figura del 49 litisconsorzio nel processo tributario, in quanto, viene considerato un ostacolo alla ragionevole durata del processo. Per contro, obiettano gli esponenti della dottrina maggioritaria, secondo i quali la ragionevole durata del processo è funzionale nella misura in cui non contrasti con i principi che trovano riconoscimento a livello costituzionale artt. 3 e 53 della Costituzione. Infatti, è proprio il principio della capacità contributiva a costituire il valore di riferimento che il litisconsorzio necessario vuole garantire e tutelare; difatti, ogniqualvolta l’atto impositivo include elementi comuni ad una pluralità di soggetti obbligati, è necessario un unico accertamento giudiziale in quanto pronunce distinte e configgenti sulla fattispecie costitutiva dell’obbligazione falsificherebbero in maniera significativa il rapporto tra imposizione e capacità contributiva dell’obbligato. Molte sono le titubanze in merito alla corretta individuazione dei casi concreti di litisconsorzio necessario poiché alcuni studiosi attribuiscono alla normativa in esame un “mero valore teorico”, sostenendo che nel processo tributario non vi sono casi di litisconsorzio necessario; mentre, sono di avviso contrario un’altra parte della dottrina e della giurisprudenza, in quanto, pur con motivazioni discordanti tra loro, specifiche ipotesi di litisconsorzio necessario nel contenzioso tributario. La dottrina prevalente ha individuato tre ipotesi in cui si ravvisa la necessaria presenza di più soggetti in giudizio: 1) nei casi in cui si rileva in giudizio un rapporto plurisoggettivo tale da ritenere necessario ed obbligatoria la partecipazione nel processo di ciascun soggetto titolare di tale rapporto (in queste ipotesi si parla di litisconsorzio necessario per ragioni sostanziali); 2) nei casi in cui un terzo interviene in giudizio per far valere un diritto altrui; in queste ipotesi tassativamente indicate dalla legge, accanto alla legittimazione del terzo si rende necessaria anche la presenza del soggetto titolare del diritto dedotto in giudizio (litisconsorzio necessario per motivi processuali); 50 3) per le ipotesi in cui, pur non deducendosi in giudizio ragioni sostanziali o processuali che impongono la necessaria partecipazione di più soggetti, il giudice procede all’integrazione del contraddittorio per ragioni di mera opportunità (litisconsorzio necessario propter opportunitatem). Una tematica strettamente attinente all’istituto del litisconsorzio è quella dell’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorzi assenti. In presenza di litisconsorzio necessario, quando il ricorso non viene proposto da o nei confronti di tutti i soggetti, il giudice ordina l’integrazione del l’integrazione del contraddittorio mediante la chiamata in causa dei litisconsorti assenti, entro un determinato termine stabilito a pena di decadenza. Secondo l’art. 14, comma 2, del d.lgs. 546/92, è previsto che: «Se il ricorso non è stato proposto da o nei confronti di tutti i soggetti indicati nel comma 1 è ordinata l’integrazione del contraddittorio mediante la loro chiamata in causa entro un termine stabilito a pena di decadenza». In considerazione della genericità di questa disposizione appare opportuno effettuare una serie di precisazioni. Innanzitutto la vocativo in ius si sostanzia, concretamente, in un invito a comparire nei confronti del litisconsorte necessario assente in modo tale che questi possa essere messo nella condizione di presentarsi in giudizio facendo valere le proprie ragioni ed eccezioni. Il difetto di integrità del contraddittorio può essere rilevato d’ufficio o su istanza di parte, in ogni stato e grado del processo e, quindi, anche dal giudice di legittimità, salvo che ciò non sia precluso da un giudicato, esplicito o implicito, formatosi sul punto. Il vizio di mancata integrazione del contraddittorio, che investe negativamente l’efficacia del procedimento, può essere sanato o per l’iniziativa dello stesso litisconsorte pretermesso che interviene spontaneamente nel processo notificando a tutte le parti presenti in giudizio un atto di intervento da lui stesso sottoscritto, oppure a seguito della rilevazione da parte del giudice. Se, invece, la chiamata del litisconsorte assente è rilevata ex officio, sarà il giudice a verificare se è necessario o meno l’integrazione del contraddittorio; per fare tutto questo dovrà avere riguardo della domanda che costituisce oggetto della 51 controversia, in quanto è questa che ne delimita l’ambito e di conseguenza la portata della pronunzia. Se, invece, la chiamata del litisconsorte pretermesso è rilevata su istanza di parte, spetterà al richiedente dimostrare non solo quali sono i soggetti che devono partecipare necessariamente al processo, in quanto litisconsorti necessari, ma soprattutto quali sono i presupposti di fatto che giustificano l’integrazione stessa del contraddittorio. Il vizio di integrazione del contraddittorio può essere non sanato, oppure può accadere che l’integrazione non sia rilavata dalla Commissione tributaria, né eccepitola alcuna delle parti in causa, in tutti questi casi la sentenza emessa a contraddittorio non integro si considera inutiliter data, ovverosia inefficace non soltanto nei confronti dei litisconsorti pretermessi ma anche nei confronti di coloro che hanno preso parte al giudizio. La Corte di Cassazione, con sentenza del 18.1.2007, n. 1052, ha specificato che: «ogni qual volta che per effetto della norma tributaria o per l’azione esercitata dall’Amministrazione finanziaria l’atto impositivo debba essere o sia unitario, coinvolgendo nella unicità della fattispecie costitutiva dell’obbligazione una pluralità di soggetti e il ricorso prodotto da uno o più obbligati abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del ricorrente ma la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato ricorre una ipotesi di litisconsorzio necessario nel processo tributario ai sensi dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. 546/19992». Successiva alla sent. 1052/2007 vi è un' altra importante pronuncia della Cassazione a SS.UU., sempre in materia di litisconsorzio necessario, la sent. n. 14815 del 4.06.2008. La massima di quest’ultima sentenza prevede che: «In materia tributaria, l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui all’art. 5 del DPR 22.12.1986 n. 917 e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso 52 tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali -, sicchè tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi; siffatta controversia, infatti, non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, con conseguente configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario. Conseguentemente, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 14 d.lgs. 546/92 (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29) ed il giudizio celebrato senza la partecipazione si tutti i litisconsorti necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio». Sul piano processuale, la Suprema Corte, rileva che l’unicità del rapporto sostanziale con pluralità di soggetti, in pratica si è costantemente dissolta in una molteplicità di processi – tanti quanti sono i soggetti privati del rapporto – instaurati su impugnazione dei singoli avvisi di accertamento. In presenza di questa consolidata prassi la giurisprudenza si preoccupa, anche, di prevenire possibili contrasti di giudicati. I rimedi previsti dal legislatore sono due e consistono nella riunione e/o sospensione del giudizio dipendente; mentre, accanto a queste due alternative, la prassi giurisprudenziale registra il fenomeno della motivazione per relationem, che però è legittima soltanto nel caso in cui si riferisca ad una sentenza che abbia già valore di giudicato tra le parti, ovvero, riproduca la motivazione di riferimento, autonomamente ed autosufficientemente recepita e vagliata nel contesto della motivazione condizionata (Cass. 14814/2008 – 14816/2008). Nell’affrontare il tema del litisconsorzio, soprattutto alla luce delle recenti pronunce della Cassazione, si ritiene di richiamare la disciplina dettata dall’art. 1306 cod. civ.. La suprema Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che il principio 53 di cui al secondo comma dell’art. 1306 cod. civ. opera nella sola ipotesi in cui coloro che invocano la sentenza più favorevole siano rimasti estranei al giudizio. Per contro, i debitori che vi hanno partecipato se non hanno impugnato la decisone a loro sfavorevole restano soggetti alle preclusioni del giudicato formatosi nei loro confronti, anche quando la stessa sentenza impugnata da uno degli altri, sia stata poi riformata78. La Corte di Cassazione a SS.UU. con sentenza n. 7053 del 22.6.1991, ha affermato che il debitore di un tributo che non abbia tempestivamente impugnato un avviso di accertamento, a lui notificato, può giovarsi della favorevole decisione intervenuta a favore di un condebitore in solido. Ha così trovato soluzione il contrasto giurisprudenziale determinato da pronunce che precludevano la possibilità da parte del soggetto di giovarsi del giudicato favorevole. Con la sentenza 7053/1991 la Cassazione ha enunciato una serie di principi, a partire dal problema dell’estensibilità del giudicato favorevole con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 1306 del cod. civ.. L’articolo in questione, al primo comma, dispone che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori in solido non ha effetto per gli altri debitori postulando, quindi, una concezione delle obbligazioni solidali per cui esse sono, di regola, autonome nel piano sostanziale e danno luogo a cause scindibili. Ma il secondo comma, tuttavia, deroga tale principio dell’autonomia e scindibilità consentendo che la sentenza sia utilizzata dagli altri condebitori se favorevole. Pertanto, quest’ultimo comma, che non ha valore sostanziale ma opera sul piano processuale, privilegia il momento dell’unitarietà dell’obbligazione solidale derivante dallo stesso titolo derogando, così, ai limiti soggettivi del giudicato. Quindi, l’inerzia del debitore non è ostativa all’estensione del giudicato formatosi fra altri, purché oggetto della lite sia un rapporto unitario. La circostanza che il condebitore non abbia impugnato l’atto, rendendolo definitivo nei suoi confronti, comporta che il debitore non può esercitare una 78 V. Cass. 29.10.1974, n. 3260; 14.4.1975, n. 1416; 5.7.1977, n. 2928; 19.10.1977, n. 4469; 29.4.1980, n. 2837. In tal senso Risoluzione Min. Fin. 6.6.1990, n. 350388. 54 immediata tutela della sua posizione sostanziale; mentre, non incide in alcun modo la facoltà dello stesso di avvalersi dell’art. 1306, comma 2, cod. civ.. La preclusione processuale scaturente dalla res judicata è ostativa all’applicabilità dell’art. 1036 cod. civ. per il condebitore nei cui confronti sia intervenuto un giudicato diretto. Infine, considerato che l’art. 1306, comma 2, cod. civ. disciplina le obbligazioni solidali, né deriva che non può essere richiamato nelle ipotesi di obbligazioni distinte aventi ad oggetto imposte diverse79. In conclusione sul tema del litisconsorzio, come su altri aspetti del diritto sostanziale tributario, vi è una forte trasformazione dovuta, soprattutto, all’intervento della giurisprudenza di legittimità che attraverso le sue pronunce porta a dei veri e propri spostamenti del sistema. 4. L’obbligo di assistenza tecnica previsto dall’art. 12 del dlgs 546/92. Il nuovo contenzioso tributario si caratterizza per un elevato tecnicismo processuale con la conseguente previsione del legislatore di stabilire l’ obbligo, per il contribuente, di assistenza da parte di difensore abilitato. In prima battuta ricordiamo che l’art. 30 della legge delega 413/90, alla lettera h) disciplinava l’assistenza tecnica e prevedeva che: «delle parti diverse dall’Amministrazione avanti gli organi della giustizia tributaria ad opera di avvocati, procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali iscritti in apposito albo e, nelle materie di rispettiva competenza, ad opera di altri esperti in materia tributaria iscritti in albi o ruoli o elenchi istituiti presso l’Intendenza di finanza competente per territorio;….omissis ». Da questa impostazione discende la formulazione dell’art. 12 del d.lgs 546/92 che la circolare n. 98/E del 1996 definisce “una delle più importanti innovazioni del nuovo processo tributario”. Infatti, il previgente DPR 636/72 statuiva una difesa tecnica del tutto 79 V. Circolare Min. Fin. 28.11.1991, n. 11/5/6848. 55 facoltativa, in quanto, nei giudizi dinanzi alle Commissioni tributarie il contribuente poteva agire personalmente o mediante procuratore generale o speciale80. Il contribuente poteva, personalmente, proporre oltre il ricorso in primo grado anche l’appello e ricorso alla Commissione Centrale. La procura, invece, incontrava un limite poiché se conferita ad un parente o un’affine entro il quarto grado consentiva a quest’ultimo di agire personalmente; mentre, fuori da queste ipotesi vi era l’obbligo per il procuratore di essere assistito da uno dei soggetti abilitati indicati dall’art. 30 del DPR81. Questa struttura trovava le sue origini nella valutazione amministrativa che si dava al contenzioso tributario. Nel riprendere l’analisi dell’art. 12 del d.lgs. 546/92, dalla lettura del comma 1 si rileva che devono essere obbligatoriamente muniti di assistenza tecnica il ricorrente indipendentemente dalla veste giuridica, l’intervenuto in giudizio e il chiamato in giudizio ed infine il concessionario della riscossione. L’assistenza tecnica è riservata ad un difensore abilitato, figura che riguarda diverse categorie professionisti e la cui elencazione è sempre più aumentata. Utilizzando la divisione operata dalla circolare ministeriale n. 98/E del 1996 si può distinguere una abilitazione generale attribuita ad avvocati, procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali, purché iscritti nei relativi albi professionali; mentre, è attribuita un’abilitazione limitata e specifica a numerosi soggetti, pur se con varie limitazioni, esclusivamente per determinate materie. Considerato che l’assistenza tecnica dinanzi alle Commissioni tributarie investe numerosi soggetti, sempre se iscritti nei relativi albi di legge, alcune problematiche si pongono in base a questa previsione normativa. In primo luogo si pone la necessità di verificare se tutti i soggetti possono assumere 80 Per un ampia disamina delle problematiche e delle soluzioni adottate sull’argomento della difesa tecnica della parte nel processo tributario del decreto n. 636/72, si rimanda a GLENDI, Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, Milano, 1980, p. 862. 81 In tali termini Comm. Trib. Centr., XXI, 1.06.1983, n. 1175, in CTC, 1983, I, p. 593. 56 oltre alla difesa anche la rappresentanza del contribuente. La questione si può risolvere attraverso un collegamento tra le varie leggi professionali, dei soggetti abilitati dinanzi alle Commissioni tributarie, e l’art. 12 del d.lgs. 546/92. Da questa analisi risulta che il regolamento dell’ordinamento della professione forense82, RDL 1578/1933, disciplina espressamente l’attività di rappresentanza e di difesa dinanzi ad ogni tipo di giurisdizione; mentre, né la legge professionale dell’ordine dei ragionieri e dei periti commerciali, DPR 1068/1973, né quella dei dottori commercialisti, DPR 1067/1973, né quella degli altri professionisti indicati nel comma 2 dell’art. 12 riportano alcun riferimento di tale attività. La dottrina prevalente ritiene che l’art. 12 innova i vari ordinamenti professionali con l’attribuzione ai relativi iscritti facoltà che non erano originariamente previste. Un secondo problema da esaminare attiene ai limiti di competenza territoriale nel rispetto dei quali il professionista può validamente esercitare la propria attività. In ambito processuale civile i procuratori legali possono esercitare esclusivamente davanti a tutti gli uffici giudiziari del distretto in cui è compreso l’ordine circondaliare presso il quale sono iscritti, nonché, davanti al Tribunale amministrativo regionale che rientra nel distretto di competenza83. Il problema in ambito tributario si risolve negando l’esistenza di un limite territoriale, che troviamo in una norma di carattere generale, ma non in quella tributaria - speciale – che trova applicazione in virtù dell’art. 82 In particolare l’art. 7 del citato regolamento, secondo cui «davanti a qualsiasi giurisdizione speciale la rappresentanza, la difesa e l’assistenza possono essere assunte soltanto da un avvocato ovvero da un procuratore assegnato ad uno dei tribunali del distretto della Corte di Appello e sezioni distaccate nel quale ha sede la giurisdizione speciale». A detta di FINOCCHIARO A.- FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, p. 185, nt. 23 deve escludersi che detta disposizione sia stata abrogata dal nuovo assetto del contenzioso tributario, atteso che l’ultimo comma dello stesso articolo prevedeva che «nulla è innovato alle norme che disciplinano il procedimento davanti ai conciliatori, a quelle che regolano la rappresentanza e la difesa delle amministrazioni dello Stato e alle disposizioni particolari relative a determinati organi giurisdizionali». 83 Così la puntuale previsione degli artt. 5 e 6 del RDL 1578/1933, nel testo modificato con l. 406/1985. 57 14 delle disposizioni preliminari del codice civile84. Per quanto attiene l’ordinamento delle professioni di avvocato [e procuratore], disciplinato dal RDL 1578/1933, l’art. 7 prevede che davanti a qualsiasi giurisdizione speciale, è consentita l’assunzione della rappresentanza processuale, della difesa e dell’assistenza della parte soltanto da un avvocato assegnato ad uno dei tribunali del distretto della Corte di Appello e Sezioni distaccate, nel quale ha sede la giurisdizione speciale. Era sorta questione in ordine alla valenza di siffatta limitazione territoriale anche nell’ambito del processo tributario (per l’ammissibilità del ricorso sottoscritto da un avvocato non iscritto all’albo presso il tribunale della circoscrizione in cui ha sede la Commissione tributaria adita85). Il problema era ulteriormente complicato dalla precedente distinzione (abrogata con l. 24.2.1997, n. 27) tra avvocati e procuratori86 e dalla sussistenza della norma di cui all’art. 5 del Rdl 1578/1933, secondo cui i procuratori non potevano esercitare la professione fuori distretto.87 La natura di norma speciale dell’art. 12 d.lgs. n. 546/1992 rispetto alle leggi professionali, l’assenza di espresse limitazioni territoriali nello stesso d.lgs. e 84 Così BAFILE, Il nuovo processo tributario, Milano, 1994, p. 66, in cui espressamente si afferma che ogni professionista può esercitare la sua opera di difensore in tutto il territorio nazionale. Per un’opinione contraria si vedano GILARDI-LOI-SCUFFI, Il nuovo processo tributario, Milano, 1997, 56, secondo cui mentre l’avvocato potrà assumere la difesa ovunque, presso qualsiasi Commissione tributaria dello Stato, il procuratore legale potrà farlo solo innanzi alle Commissioni tributarie del distretto della Corte di Appello in cui l’ordine circondariale di iscrizione è compreso. In senso analogo anche BARTOLINI-REPREGOSI, Il codice del nuovo contenzioso tributario, Piacenza, 1996, p. 89. In giurisprudenza, in tal senso esplicitamente, Comm. Trib. Milano, 22.3.1994, n. 153; Id., 2.12.1994, n. 769, nonché 21.3.1995, n. 279, tutte in BT, 1995, p. 935, con nota di GIULIANI, Rappresentanza e difesa del contribuente nel processo tributario. 85 Vedi Comm. Trib. 1° grado Bolzano 18.11.1996, n. 192. In senso diametralmente opposto, Comm. Trib. Prov. Trieste 7.1.1997, n. 746, Riv. d. trib. 97, II, p. 401, con commento di RUSSO; GT 97, 273, con commento di GLENDI; Riv. d. fin. 97, II, p. 39, con commento di TESAURO. 86 Per l’irrilevanza nell’ambito del processo tributario v. GLENDI, GT 00, 276; MARINUCCI, Rass. trib. 96, p. 917. 87 Unanime la giurisprudenza di legittimità sull’operatività della limitazione territoriale anche nel caso in cui la qualità di procuratore ed avvocato si cumulassero nella medesima persona, non venendo meno siffatto divieto di esercizio dello ius postulandi extra districtum a cagione del fatto che la professione di avvocato può da tale persona essere svolta in qualsiasi distretto: C 99/944; C 94/3491; C92/8691. 58 l’inconfigurabilità di qualsivoglia criterio di ragionevolezza atto a supportare una discriminazione tra avvocati da un lato e tutti gli altri difensori dall’altro, non consente di enucleare in via interpretativa un limite di ordine territoriale per le prefate categorie nell’esercizio dell’attività difensiva davanti alle Commissioni tributarie. La rilevata insussistenza di limiti territoriali nell’esercizio della difesa, porta ad escludere l’applicabilità dell’art. 82, RD 37/1934 che impone ai procuratori esercenti il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale siano assegnati, di eleggere domicilio nel luogo ove ha sede l’autorità giudiziaria adita. Alla circostanza che nessuna norma del d.lgs. 546/1992 prevede un simile obbligo per il ricorrente, si aggiunge la considerazione che ex artt. 17 e 18 neppure la mancata elezione di domicilio nel territorio dello Stato vizia il ricorso, legittimando soltanto l’effettuazione delle comunicazioni e delle 88 notificazioni presso la segreteria della Commissione tributaria . D’altro canto, anche l’art. 82, al comma 2, stabilisce che «in mancanza della elezione del domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria». Passando ora ad esaminare i soggetti dotati di abilitazione a carattere limitato e specifico consideriamo, innanzitutto, i consulenti del lavoro per le materie concernenti le ritenute alla fonte sui redditi di lavoro dipendente ed assimilati e gli obblighi di sostituto d’imposta relativi alle ritenute medesime. Una abilitazione limitata viene attribuita ad ingegneri, architetti, geometri, periti edili, dottori agronomi, agrotecnici e periti agrari per le materie che attengono l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo tra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale. In materia di classamento e di attribuzione della rendita catastale i ricorsi derivano da un provvedimento 88 GLENDI, GT 00, 279. 59 dell’Ufficio tecnico erariale, quindi, la relativa impugnazione deve riguardare esclusivamente quel determinato oggetto. I soggetti iscritti nei ruoli dei periti ed esperti tenuti dalle Camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura89, iscrizione che deve risultare alla data del 30.09.1993, i quali sono abilitati per la subcategoria tributi, purché in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o equipollenti o di diploma di ragioneria limitatamente alle imposte di registro, di successone, i tributi locali, l’IVA, l’ILOR, l’IRPEF e l’IRPEG. Una serie di perplessità sorgono con riferimento a questi soggetti, ed in particolare al limite temporale del 30.09.1993. Infatti, l’iscrizione nei ruoli in parola, prima della data sopra indicata, era priva di conseguenze pratiche ed in considerazione di ciò si ritiene irrazionale non solo far derivare le conseguenze ora esaminate, ma nello stesso tempo limitare tali conseguenze ai soli iscritti fino al 1993. Infine, rientrano nell’elencazione i dipendenti delle associazioni di categoria rappresentate nel CNEL90 e i dipendenti delle imprese e delle loro controllate limitatamente alle controversie nelle quali sono parti, rispettivamente, gli associati e le imprese e le loro controllate, purché si tratti di soggetti in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o equipollenti o di diploma di ragioneria e della relativa abilitazione professionale. La forma di assistenza tecnica fornita da questi soggetti non si può qualificare come professionale, poiché, non avviene il conferimento di un incarico ad un professionista nell’ambito di un contratto d’opera91. 89 BAFILE, Il nuovo processo tributario, Milano, 1994, p. 67, per parte sua, qualifica tali soggetti come una categoria, molto contestata, di paraprofessionisti, ritenendo che gli stessi siano dotati di una abilitazione dichiarata oggettivamente limitata, ma che si estende alla quasi totalità dei tributi soggetti alla giurisdizione delle Commissioni. 90 L. 30.12.1986, n. 936, recante norme sul Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, in particolare l’art. 2. 91 Art. 2222 c.c. (Contratto d’opera): «Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro quarto». 60 5. La mancata nomina del difensore. Come esaminato già nel precedente paragrafo il nuovo contenzioso tributario, ossia quello disciplinato dal d.lgs 546/92, prevede come principio generale l’obbligo dell’assistenza tecnica in giudizio almeno per tutte le parti diverse dall’Ufficio del Ministero delle Finanze e dall’Ente locale nei cui confronti è stata proposto il ricorso. Parti private obbligate a munirsi di difensore tecnico sono, oltre al contribuente ricorrente, anche l’intervenuto e il chiamato in giudizio, in quanto divengono parti del processo. L’esclusione espressa dell’Ufficio del Ministero delle Finanze, rectius Ufficio locale dell’Agenzia fiscale, e dell’Ente locale nei cui confronti sia stato proposto il ricorso fa sì che il concessionario per la riscossione – anche quale resistente – e lo stesso Ente locale in veste di ricorrente debbano ritenersi assoggettati all’obbligo de quo. Il difetto di assistenza tecnica, ad eccezione dei casi in cui vedremo non essere obbligatoria, comporta l’inammissibilità del ricorso come si evince dall’art. 18, comma 4, in relazione al comma 3 e come si argomenta dall’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 12, senza possibilità di sanare il vizio tramite conferimento dell’incarico nel corso del processo92. Con sentenza 3.3.1999, n. 1781 la Suprema Corte aveva statuito che l’ambito di applicazione dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. 546/1992, nella parte in cui dispone la fissazione di un termine entro il quale la parte, costituita personalmente in giudizio, è tenuta a pena di inammissibilità a conferire l’incarico ad un difensore abilitato, non comprendesse le «controversie di valore superiore a 2.582,28 euro, nelle quali l’eventuale costituzione personale in giudizio della parte privata senza assistenza di difensore va considerata tamquam non esset e non comporta alcun intervento correttivo o sanante da parte dell’organo giudicante»93 92 Ex plurimis Cass. 7966/00. Nello stesso senso, anche Comm. Trib. Prov. Genova 13.3.1997, n. 85, in GT 97, 687 e Comm. Trib. Prov. Catanzaro 31.5.1997, n. 7, in GT 98, p. 362, entrambe con note di riferimento di GLENDI; Comm. Trib. Prov. Novara 6.12.1999, in Boll. trib. 2000, p. 793. 93 61 All’opposto, la Corte Costituzionale nella sentenza interpretativa di rigetto del 7.6.2000, n. 189, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 12, comma 5, e 18, comma 3 e 4, d.lgs. 546/1992, sollevata dalla Commissione tributaria di provinciale di Novara con ordinanza del 10.10.1998, con riferimento agli artt. 3 e 24, comma 1, della Costituzione, ha ritenuto che, nel caso in cui la parte abbia sottoscritto personalmente il ricorso nonostante il valore della lite ecceda l’importo di euro 2.582,28, l’inammissibilità dello stesso prevista dall’art. 18, comma 4, «scatta – per scelta del legislatore tutt’altro che irragionevole – solo a seguito di ordine ineseguito nei termini fissati e non per il semplice fatto della mancata sottoscrizione del ricorso da parte di un professionista abilitato». Il Giudice delle leggi ha interpretato il riferimento all’art. 12, comma 5, contenuto nell’art. 18, comma 3, come «un richiamo complessivo all’intero comma 5 e quindi anche al meccanismo dell’ordine da parte del Presidente della Commissione o della Sezione o del Collegio di munirsi di assistenza tecnica fissando un termine entro il quale la stessa “parte” è tenuta, a pena di inammissibilità, a conferire l’incarico ad un difensore abilitato». Aderendo a tale interpretazione, immediatamente definita da autorevole dottrina come «un vero e proprio infortunio»94, l’inammissibilità del ricorso sottoscritto personalmente dalla parte in casi non previsti dalla legge, dovrebbe essere dichiarata solo alla scadenza del termine concesso dal giudice alla parte, al fine di della nomina di un difensore abilitato e in quanto tale nomina non sia avvenuta. La Corte di Cassazione con una pronuncia di poco successiva alla decisione della Corte Costituzionale, ha confermato il proprio precedente orientamento, ritenendo che «soltanto nel caso in cui la controversia abbia un valore inferiore ai cinque milioni, il contribuente può stare in giudizio personalmente». Dunque il ricorso tributario avente ad oggetto un atto in cui viene manifestata una pretesa impositiva superiore a 2.582,28 euro, deve 94 RUSSO-FRANSONI, Il fisco 00/39, 12040; DE MITA, Il Sole-24 Ore, 8.7.2000; CEPPARULO, GT 00, p. 960 ss.; FERRARA, G. it. 01, p. 1061; GLENDI, Dir. e prat. trib., 00, p. 1756. 62 essere sottoscritto da un difensore abilitato, a pena di inammissibilità, a nulla rilevando il fatto che il ricorrente prospetti la manifesta infondatezza o abnormità della pretesa superiore ai cinque milioni: l’inammissibilità deriva dalla legge e non è condizionata alla mancata osservanza dell’ordine del giudice di munirsi di assistenza tecnica, previsto dall’art. 12, comma 5, d.lgs. 546/1992 e rimesso alla discrezionalità del giudice solo per le controversie di valore inferiore alla soglia indicata95. Pur tuttavia, la stessa sezione tributaria della Corte di Cassazione, nella sentenza 12.6.2002, n. 8369, si è pronunciata in senso diametralmente opposto, uniformandosi a quanto statuito dalla Consulta: sulla scorta di tale decisone l’inammissibilità di un ricorso sottoscritto personalmente dalla parte, scatta, non automaticamente, ma soltanto a seguito dell’inesecuzione dell’ordine di munirsi di un difensore tecnico che il giudice tributario può imporre al contribuente ex art. 12, 5° comma, del d.lgs. 546/199296. Con ordinanza 27.2.2003, n. 3042, la medesima sezione tributaria della Cassazione, rilevato il «chiaro contrasto» con quanto ritenuto dalla sentenza n. 1100/02 e quanto deciso dalla stessa Sezione tributaria della Suprema Corte, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione, ai fini dell’eventuale rimessione alle Sezioni Unite civili. Infine, la Corte di Cassazione si è pronunciata a Sezioni Unite con la sentenza del 2.12.2004, n. 22601, ritenendo che il ricorso non sottoscritto da difensore abilitato non debba essere immediatamente dichiarato inammissibile, in pedissequa adesione alla pronuncia interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale. Le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono limitate a «prendere atto dell’interpretazione sulla quale il giudice delle leggi ha fondato la propria decisione di rigetto e a condividerne il tenore, se non altro perché la diversa 95 Tale interpretazione delle norme di cui all’art. 12, 1° e 5° comma, e all’art. 18, 3° comma, d.lgs. 546/1992 è stata ribadita e pregevolmente argomentata con sentenza 29.1.2002, n. 1100, in G. it. 01, p. 2275; GT 03, 405, con nota di GLENDI. 96 Nello stesso senso, Comm. Trib. Reg. Marche 13.3.2001, Boll. trib. 01, p. 1573; Comm. Trib. Reg. Piemonte 6.10.2000; Comm. Trib. Prov. Perugia 12.10.2000, n. 132; Comm. Trib. Reg. Puglia, sez. distaccata Lecce 26.2.2003, n. 4 63 interpretazione – accolta da alcune sentenze di questa Corte – condurrebbe inevitabilmente ad una dichiarazione di incostituzionalità, ove la Corte Costituzionale dovesse rilevare la formazione di un diritto vivente in tal senso, espresso in una pronuncia delle Sezioni Unite». 6. Il ricorso proposto direttamente dalla parte. L’obbligo dell’assistenza tecnica per le parti private non è un precetto assoluto in quanto sono previste alcune importanti deroghe. La violazione dell’obbligo dell’assistenza determina come conseguenze processuali in base al comma 4 dell’art. 18 che: «il ricorso è inammissibile se non è sottoscritto a norma del comma precedente», da cui si evince che: «il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del ricorrente e contenere l’indicazione dell’incarico a norma dell’art. 12, terzo comma». Le deroghe all’obbligatorietà dell’assistenza tecnica sono due e la prima trova applicazione quando la controversia ha un valore inferiore ai cinque milioni di lire97. L’art. 12 al quinto comma, definisce il valore della lite, e secondo tale formulazione che riproduce sostanzialmente quella dettata dall’art. 2 quinques 4° comma, let. b) del d.l. 564/1994, convertito in l. n. 656/1994, si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste. La dottrina98 ha criticato questa impostazione, ossia lo scorporo degli interessi e delle sanzioni dal valore della controversia, poiché la ritiene contrastante con ogni esigenza di coerenza logica e giuridica Un caso particolare è stato affrontato dalla Commissione Provinciale di 97 Originariamente il valore era fissato in un milione di lire. Esso è stato elevato in un primo momento a tre milioni ad opera dell’art. 69 del d.l. 30.08.1993, n. 331, convertito in l. 29.10.1993, n. 427; quindi portato al suo attuale importo di cinque milioni di lire con il d.l. 15.03.1996, n. 123, non convertito, ma reiterato con d.l. 16.05.1996, n. 259, d.l. 22.06.1996, n. 329 e con d.l. 8.08.1996, n. 437, l’ultimo dei quali convertito in l. 24.10.1996, n. 556. 98 BLANDINI, Il nuovo processo tributario, Milano, 1996, p. 24. 64 Salerno. La questione sottoposta all’esame dei giudici, determinante per stabilire se vi fosse obbligo di assistenza tecnica, riguardava un unico atto di accertamento che inglobava più tributi che singolarmente non superavano il limite dei cinquemilioni di lire. La Commissione è giunta alla conclusione che in tali casi si deve tenere conto dell’ammontare dei singoli tributi e non della somma degli stessi e, quindi, ha escluso che vi fosse l’obbligo per il contribuente di nominare un difensore. Anche se la sentenza sia fondata sul tenore letterale dell’art. 12 del d.lgs. 546/92 che fa riferimento al tributo e non ai tributi, la conclusione raggiunta sembra andare contro l’obiettivo che il legislatore ha inteso perseguire attraverso l’obbligo dell’assistenza tecnica99. Inoltre, si deve rilevare che l’applicazione di questo principio comporterebbe per il contribuente, esposto ad un carico tributario superiore complessivamente ai cinquemilioni di lire, la possibilità di difendersi personalmente evitando l’assistenza tecnica obbligatoria prevista per evitare al contribuente di incorrere in errori procedurali tali da rendere la difesa inefficace. A sostegno di una diversa soluzione della questione basta considerare l’art. 10 del c.p.c., relativo alla competenza per valore, in cui espressamente si stabilisce che: «le domande nello stesso processo contro la medesima persona si sommano tra loro»100. Sempre ai fini della determinazione del valore della lite, problematica, è stata la questione relativa alla riduzione delle perdite d’esercizio dichiarate. Il Ministero ha affrontato il problema con la circolare n. 291/E osservando che in queste ipotesi spesso la rettifica operata dal Fisco non porta alla determinazione di un imponibile ma solo alla riduzione della perdita dichiarata. Quindi, in tali casi il valore della lite va determinato con riferimento all’imposta virtuale o alla maggiore imposta effettiva relativa alla differenza tra la perdita dichiarata e la minore perdita accertata dall’Ufficio. 99 In tal senso TESAURO, Il processo tributario, Torino, 1998, p. 238. Sul punto SILLA, Identikit più selettivo per i difensori, in Il Sole 24 ore, del 17.1.1997; DULCAMARE, Valore della lite e obbligo di assistenza tecnica, in Corr. trib., 1997, p. 2803. 100 65 Pensiamo all’ipotesi in cui la pretesa tributaria riguardi un dato importo, mentre il contribuente si limiti a contestare come non dovuto esclusivamente un importo minore ma sempre nel limite dei cinquemilioni; in tale stato di cose, applicando letteralmente l’art. 12, comma 5, sarebbe ammissibile un ricorso presentato dalla parte personalmente senza assistenza101. Nel caso di accoglimento parziale del ricorso in primo grado il contribuente che risulta soccombente, per il pagamento di un tributo il cui importo sia inferiore al limite dei cinque milioni, potrà proporre personalmente appello; mentre, nel caso in cui l’appello sia proposto dall’ufficio finanziario per un importo superiore alla soglia sopra indicata sarà indispensabile l’assistenza da parte di un difensore abilitato102. La seconda ipotesi che legittima il contribuente a stare in giudizio personalmente è statuita con riferimento all’oggetto della controversia stessa, ossia, nel caso di ricorso contro un ruolo formato dal Centro di servizi ai sensi dell’art. 10 del DPR 787/1980103. Il motivo di questa eccezione rispetto al principio dell’obbligatorietà dell’assistenza tecnica dinanzi agli organi di giustizia tributaria viene dalla dottrina maggioritaria104 giustificato nel fatto che normalmente si tratta di ricorsi semplici, basati su liquidazioni o rimborsi che non comportano alcun potere accertativo e valutativo da parte dell’Amministrazione. E’ comunque previsto che il Presidente della Commissione o della sezione o il collegio possono ordinare alla parte di munirsi di assistenza tecnica, fissando un termine entro il quale la stessa è 101 In tal senso BARTOLINI-REPREGOSI, Il codice del nuovo contenzioso tributario, Piacenza, 1996, p. 101. 102 In questi termini FINOCCHIARO A.-FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, p. 222-223. 103 Sul tema dei Centri di servizio, istituiti dall’art. 8 della l. 24.4.1980, n. 146, si segnalano in dottrina: CONSALTER, I Centri di servizio tributari, in F.,1981, 12; NAPOLITANO, I Centri di servizio: un nuovo strumento del sistema tributario, in BT, 1981, 55; RAI, I poteri dei Centri di servizio, in F, 1986, 3882; DI CIACCIA, I Centri di servizio: ragione d’essere e disfunzioni evitabili, in Tbt, 1987, 71; GIOVANNINI, Processo tributario: riflessioni sul ricorso presentato al Centro di servizio, in RDF, 1991, 358. 104 Così, ad esempio, D’ANGELO A.-D’ANGELO B., Manuale del nuovo contenzioso tributario con rassegna di giurisprudenza, Milano, 1994, p. 68, nonché BARTOLINIREPREGOSI, Il codice del nuovo contenzioso tributario, Piacenza, 1996, p. 102. Contra, per la mancanza di una giustificazione logica della eccezione in esame, BLANDINI, Il nuovo processo tributario, Milano, p. 24. 66 tenuta, a pena di inammissibilità, a conferire l’incarico ad un difensore abilitato. Conseguenza della mancata osservanza del termine indicato dal giudice tributario, che varia a seconda della fase in cui si trova la controversia, è l’estinzione del giudizio per inattività delle parti. L’ultima eccezione all’obbligo di assistenza tecnica riguarda quelle ipotesi in cui convergono nella stessa persona la qualità di difensore abilitato e di contribuente. Il comma 6, dell’art. 12 dispone che: «i soggetti in possesso dei requisiti richiesti nel comma 2 possono stare in giudizio personalmente senza l’assistenza di altri difensori». Da una interpretazione letterale del comma 6 si potrebbe ritenere di applicare a tutti coloro ai quali è riconosciuta l’abilitazione all’assistenza tecnica, indipendentemente dalla distinzione tra abilitazione generale o speciale, la possibilità di stare in giudizio personalmente senza l’assistenza di altri difensori. La conseguenza pratica di questa interpretazione consiste nell’ammettere la difesa a soggetti che non possono esercitare, a causa di limiti oggettivi e soggettivi, la difesa di terzi; pertanto, l’accoglimento di tale interpretazione non appare del tutto coerente con le altre disposizioni del dlgs 546/92. A tal proposito sembra più coerente, con quanto disposto dall’art. 12, ritenere che coloro i quali hanno una abilitazione “limitata” potranno difendersi da soli nei limiti di essa, dovendo invece far riferimento ad un difensore con abilitazione generale tutte le volte in cui la materia del contendere dovesse esulare dalla propria competenza. 67 CAPITOLO III LA RAPPRESENTANZA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE NEI GIUDIZI DINANZI LE COMMISSIONI TRIBUTARIE 1. La rappresentanza della parte Pubblica. Il processo tributario ha ad oggetto un rapporto d’imposta, pertanto, la parte resistente non potrà che essere, necessariamente, l’ufficio tributario che ha esercitato la pretesa. L’art. 10 del d.lgs. 546/92, seguendo la tradizione del DPR 636/72105, ha attribuito la capacità di essere parte del giudizio, anziché allo Stato, ai singoli uffici del Ministero delle Finanze. In questo modo si crea una frattura fra la parte sostanziale o materiale del rapporto obbligatorio d’imposta che il sentire comune vede nello Stato, per il tramite della propria struttura esponenziale del Ministero delle Finanze, e la parte destinataria degli effetti derivanti dagli atti posti in essere nel processo tributario. Si potrebbe, erroneamente, ritenere che l’Ufficio abbia solo la rappresentanza del Ministero delle Finanze, intesa come rappresentanza tecnica o patrocinio in giudizio, alla stessa stregua dell’assistenza del difensore della parte nel processo civile, cui fa riferimento l’art. 82 cpc. Invece, l’Ufficio patrocina le ragioni dell’Erario ma, innanzitutto, è parte del giudizio tributario in luogo del Ministero delle Finanze Quindi, si riconosce la capacità di essere parte ad un organo che, di regola, non dovrebbe averla, dal momento che l’ufficio periferico non è altro che un’articolazione organica dello Stato e nel caso di specie del Ministero delle Finanze. Infatti, l’art. 11, comma 1 del RD n. 1611, individua il Ministero come l’entità che dovrebbe avere titolo per essere parte. 105 Nel contesto della previgente disciplina del DPR 636/72 non vi era una disposizione puntualmente dedicata all’individuazione delle parti, sebbene vi fosse assoluta concordia nel ritenere – in base alle disposizioni contenute nel DPR 636e, in specie , dell’art. 17 – che fosse parte del giudizio l’Ufficio del Ministero delle Finanze che aveva emesso l’atto impugnato o non aveva erogato il rimborso richiesto. Sul punto, e per tutti, v. RUSSO, Processo tributario, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1987, p. 764, nonché TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, p. 79. 68 Tale situazione comporta che lo Stato, titolare del rapporto tributario sostanziale – dal lato attivo – non ha alcuna facoltà, poiché, viene attribuita la capacità di essere parte all’Ufficio locale106. La scelta operata nel giudizio tributario ha una propria logica in considerazione del fatto che all’Ufficio periferico spettano tutte le competenze in materia di controllo delle dichiarazioni d’imposta, emanazione degli atti impositivi, erogazione di rimborsi, formazione dei ruoli di riscossine e via enumerando. Dall’elencazione di cui sopra si rileva come l’Ufficio periferico sia il titolare dei poteri e degli obblighi afferenti l’attuazione del rapporto d’imposta e, quindi, si può ben comprendere l’opzione del legislatore di individuarlo quale parte del processo tributario. La questione si complica alla luce della recente disciplina dettata dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, in merito all’entrata in funzione delle Agenzie Fiscali. A far data dall’1 gennaio 2001, ed in particolar modo per quanto riguarda il contenzioso tributario, agli uffici dei Dipartimenti delle entrate del territorio del Ministero delle Finanze sono subentrati gli uffici dell’Agenzia delle entrate e dell’Agenzia del territorio. L’art. 57, comma 1 del d.lgs. 300/99 prevede che dette Agenzie sono istituite per la gestione delle funzioni finora esercitate dai diversi Dipartimenti del Ministero delle Finanze e sono ad esse trasferiti «i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze». All’art. 62, comma 2, del sopra indicato decreto legislativo, si indica l’Agenzia delle entrate competente a svolgere i servizi relativi al contenzioso di tutti i tributi già di competenza del Dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze. Inoltre, l’art. 20, comma 3 del DPR 107/2001, ha ribadito che «le Agenzie fiscali subentrano al Ministero nei rapporti giuridici, poteri, competenze e controversie relative alle funzioni ad esse trasferite e al proprio personale». 106 In realtà, il giudizio tributario non è l’unico in cui viene riconosciuta la capacità di essere parte e quella processuale ad un organo amministrativo periferico: si pensi, ad esempio, al regime dettato dall’art. 23 della l. 24 novembre 1981, n. 689 per il giudizio di opposizione all’ordinanza – ingiunzione in tema di sanzioni amministrative. 69 A conferma di questa statuizione si può osservare che non vi è nel d.lgs 300/99 alcun precetto che possa fondatamente far ritenere che al Ministero delle finanze residuano poteri o facoltà che afferiscano alle vicende del contenzioso tributario di fronte a qualsivoglia organo giurisdizionale. Pertanto, a partire dell’1 gennaio 2001, sono parti del processo tributario gli uffici periferici dell’Agenzia delle entrate107, tenuto conto del regolamento di amministrazione, approvato dal comitato direttivo dell’Agenzia medesima con deliberazione del 30 novembre 2009, all’art. 4, comma 1, dispone che le funzioni operative dell’Agenzia sono svolte da detti uffici, i quali curano la trattazione del contenzioso. Quindi, la capacità di essere parte che l’art. 10 del d.lgs 546/92 assegnava agli uffici del Ministero delle finanze, si deve riconoscere, implicitamente, in considerazione della normativa suddetta agli uffici locali dell’Agenzia delle entrate108. Lo stesso è da dirsi per gli uffici locali dell’Agenzia del territorio, che in base agli artt. 4, comma 1, lett. L) e 13, comma 1 dello statuto si vedono attribuita la gestione del contenzioso. Per i giudizi pendenti alla data dell’1 gennaio 2001, si è realizzata la successione a titolo universale degli uffici delle Agenzie fiscali a quelli dell’Amministrazione finanziaria dello Stato. Si dovrebbe rendere applicabile l’art. 110 cpc, con la conseguente interruzione del processo e riassunzione dello stesso ad opera o nei confronti degli uffici delle Agenzie fiscali. Nel processo tributario, l’interruzione prevista all’art. 40 del d.lgs. 546/92 interessa soltanto il venir meno delle parti diverse dall’ufficio fiscale109; questa circostanza porta a considerare 107 Negli stessi termini, v. MULEO S. L’attivazione delle agenzie fiscali ed i connessi profili in tema di legittimazione ad agire e processuale, in Rass. trib., 2001, p. 379 e ss., nonché la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 71 del 30 luglio 2001, in Guida normativa de Il Sole -24 Ore, n. 143 del 7 agosto 2001, 7. 108 Anche MULEO S., L’attivazione, cit.,è dell’avviso che si sia realizzata una modifica tacita dell’art. 10 del d.lgs. 546/92, che consente di attribuire la capacità di essere parti agli organi periferici delle Agenzie fiscali. 109 Cfr., per tutti, FINOCCHIARO A. – FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, p. 602 e ss.; BELLAGAMBA, Il contenzioso tributario dopo il Decreto legge 16 maggio 1996, n. 259, Torino, 1996, p. 158; MULEO, L’attivazione, cit., che segnala anche come l’art. 40 abbia riscontro nella disciplina del processo amministrativo, nel contesto del quale si reputa che il trasferimento di competenze fra enti pubblici non determini l’interruzione del giudizio. 70 inoperante il precetto generale dell’art. 110 cpc stante l’esistenza della disposizione speciale di cui all’art. 40 del d.lgs. 546/92. I nuovi Uffici che conservano le competenze funzionali e territoriali dei preesistenti uffici del Ministero delle finanze110 sono i destinatari degli atti introduttivi delle controversie tributarie di primo e secondo grado instaurate a partire dal 1 gennaio 2001; mentre, per tutti i giudizi in corso prima di tale data si considerano succeduti automaticamente agli organi che erano parti delle liti pendenti111. 2. Legittimazione e rappresentanza degli Uffici davanti alle Commissioni Tributarie. Come già anticipato nel paragrafo precedente con decreto del 28 dicembre 2000, il Ministero delle finanze, ai sensi dell’art. 73, comma 4, del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, ha stabilito che le Agenzie fiscali esercitano, a decorrere dal 1 gennaio 2001, tutte le attività e funzioni previste dalle norme e dagli statuti subentrando nelle funzioni in precedenza svolte dagli Uffici centrali e periferici dei Dipartimenti delle entrate, delle dogane e imposte indirette e del territorio. All’Agenzia delle entrate, ai sensi del più volte richiamato art. 62 del d.lgs. 110 L’art. 6, commi 3 e 4 del regolamento di amministrazione del 30 novembre 2001, prevede che: a) la competenza territoriale e l’articolazione interna degli uffici locali dell’Agenzia delle entrate “corrispondono a quelle dei preesistenti uffici delle entrate”; b) fino alla data di attivazione dei nuovi uffici locali continuano ad operare – quali uffici periferici dell’Agenzia – gli uffici distrettuali delle imposte dirette, gli uffici provinciali dell’imposta sul valore aggiunto, gli uffici del registro e le sezioni staccate delle Direzioni regionali. Per l’Agenzia del territorio, l’art. 13, comma 1 del menzionato statuto dispone che “l’Agenzia è articolata in uffici centrale e periferici. Tale articolazione, durante il processo di attuazione del regolamento di amministrazione, corrisponde a quella preesistente per le strutture del Dipartimento del territorio, le cui funzioni, ai sensi dell’art. 57, comma 1 del decreto istitutivo, sono trasferite all’Agenzia” e l’art. 9 del relativo regolamento di amministrazione sancisce che “tutte le strutture, i ruoli e poteri e le procedure precedentemente in essere nel Dipartimento del territorio alla data di entrata in vigore del presente regolamento manterranno validità fino all’attivazione delle strutture specificate attraverso le disposizioni di cui al precedente art. 8, comma 1”. 111 In senso conforme, v. pure MULEO, L’attivazione, cit., che riconosce come non vi sia necessità di integrare il contraddittorio nei riguardi degli uffici locali delle Agenzie fiscali. La successione nel processo di cui si discorre comporta che, nei confronti del successore, permangono tutti gli effetti giuridici favorevoli e sfavorevoli che si sono prodotti nei confronti del predecessore. 71 300/1999, sono trasferite le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali non assegnate specificatamente ad altre Agenzie, con la conseguente titolarità sia delle funzioni pubbliche relative, che dei rapporti giuridici e delle obbligazioni di pertinenza del Dipartimento delle entrate. L’assetto giuridico dell’Agenzia delle entrate si distingue nettamente, a seguito dell’intervento normativo, da quello attribuito alla precedente struttura. In questo contesto si pone la necessita di individuare in che modo si realizza la rappresentanza dell’Agenzia in relazione agli interventi strutturali che hanno interessato l’Amministrazione finanziaria. L’Amministrazione finanziaria usufruiva ex lege, ai sensi del RD 1611/1933 (che disciplina la rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato), del regime processuale di assistenza legale e di patrocinio previsto per le Amministrazioni dello Stato. Infatti, nella generalità dei casi la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza del fisco spettava all’Avvocatura dello Stato ed a questo organo legale, nella persona del Ministro, dovevano essere notificate tutte le citazioni, i ricorsi, qualsiasi atto di opposizione giudiziale e le sentenze. L’art. 10 del d.lgs. 546/92 statuisce che è parte nel processo «l’Ufficio del Ministero delle finanze…….che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto»; mentre l’art. 11, comma 2, dello stesso decreto dispone che «l’Ufficio del Ministero delle Finanze….omissis…sta in giudizio direttamente o mediante l’Ufficio del contenzioso della direzione regionale». Il citato decreto all’art. 12, comma 4, introduce un ipotesi di assistenza facoltativa dell’Organo legale stabilendo che:«l’ufficio del Ministero delle Finanze, nel giudizi di secondo grado, può essere assistito dall’Avvocatura dello Stato». Infine, un limite all’autonomia processuale del Ministero delle Finanze è stato fissato dall’art. 21 della l. 13 maggio 1999, n. 133, con la previsione che le sentenze pronunciate nel secondo grado del giudizio, ai fini del 72 decorso del termine breve di cui all’art. 325, secondo comma, cpc, vanno notificate all’Amministrazione finanziaria presso l’Avvocatura dello Stato. Il venir meno dell’applicazione dell’art. 1 del RD 1611/1933, a decorrere dal 1 gennaio 2001, ha determinato che l’Agenzia delle entrate ha la facoltà di richiedere l’assistenza dell’Avvocatura dello Stato. 3. La circolare dell’Agenzia delle entrate del 30 luglio 2001 n. 71/E/2001. Con la circolare 71/E del 30 luglio 2001 l’Agenzia delle entrate – Direzione centrale normativa e contenzioso – prende posizione sui problemi sollevati dal d.lgs 300/99. E’ bene prima di tutto sottolineare che i problemi derivanti dalla riforma dell’Amministrazione finanziaria, non si riflettono esclusivamente sul processo tributario ma interessano anche i rapporti ed i giudizi extra-fiscali ad esempio le controversie dinanzi al giudice ordinario o amministrativo. Per quanto attiene il processo tributario le questioni inerenti la legittimazione e la difesa del Fisco riguardano112: 1) i giudizi davanti alle Commissioni tributarie e regionali; 2) la notifica delle sentenze delle Commissioni tributarie regionali; 3) la proposizione del ricorso per Cassazione contro le sentenze delle Commissioni tributarie regionali. Nei giudizi davanti alle Commissioni tributarie provinciali e regionali, la legittimazione spetta agli Uffici locali delle Agenzie delle entrate, così come avveniva in passato, in applicazione di quanto stabilito dagli artt. 10 e 11 del d.lgs 546/92; mentre, nei giudizi di secondo grado, ma solo come ipotesi eccezionale, si può riscontare l’assistenza nel giudizio da parte dell’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 12, comma 4. 112 Questi problemi sono stati affrontati in dottrina e si segnalano, tra i primi autori che si sono occupati ex professo dell’argomento, BERLIRI, Le Agenzie fiscali – Conseguenze e problemi in ordine al contenzioso tributario, in Il fisco, n. 10/2001, p. 3841; MULEO, L’attuazione delle Agenzie fiscali ed i connessi profili di legittimazione ad agire e processuale, in Rass. trib. n. 2/2001, p. 377; PERRUCCI, L’entrata in funzione delle Agenzie fiscali, in Boll. trib. n. 3/2001, p. 181. 73 Ne consegue che all’Ufficio locale dell’Agenzia dovranno essere notificate le sentenze della Commissione tributaria regionale, in quanto, non trova applicazione l’art. 11 del RD 1611/1933, tranne i casi di notifica presso l’Avvocatura dello Stato per le controversie di secondo grado in cui si verifica l’assistenza diretta da parte di questo organo. Seguendo questa impostazione, saranno legittimati alla proposizione dei ricorsi per Cassazione gli Uffici locali del Fisco, ancorché difesi dall’Avvocatura dello Stato. Inoltre, la circolare afferma un’applicazione uniforme, ai giudizi instaurati prima e dopo il 1 gennaio 2001, senza considerare la possibilità di diverse soluzioni; in quanto, si pone la problematica in merito all’applicazione di una nuova disciplina ai rapporti e nei giudizi già pendenti prima della sua entrata in vigore. Le Agenzie fiscali delle entrate, delle dogane, del territorio e del demanio sono dotate di personalità giuridica di diritto pubblico, nonché, di autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria secondo quanto statuito dal d.lgs. 300/99 e dai rispettivi Statuti. Proprio in ragione di questa autonomia regolamentare ed organizzativa il decreto sopra citato nulla riporta sulla organizzazione interna delle singole Agenzie fiscali, ad eccezione dell’indicazione all’art. 57, comma 1, nella parte in cui prevede che: «alle Agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna Agenzia». Lo Statuto dell’Agenzia delle entrate all’art. 17 rubricato come “norma transitoria” dispone che: «alla data stabilita con decreto del Ministro di cui all’art. 73, comma 4, del decreto istitutivo, l’agenzia subentra al Ministero delle Finanze nei rapporti giuridici, poteri e competenze relativi ai servizi ad essa trasferiti o assegnati». Tuttavia, nei vari atti normativi non si trova un espresso riferimento alle disposizioni del d.lgs. 546/92, ed in particolare agli artt. 10, 11 e 12 con la conseguenza di dubitare della vigenza di questi articoli, anche se si deve 74 prendere atto di una tacita sostituzione113 ex lege della nuova struttura periferica interna delle Agenzie fiscali rispetto alla preesistente struttura operante sul piano processuale. Quindi, ad ogni singolo Ufficio dell’Agenzia spetta la qualità di parte e la capacità di stare in giudizio così come previsto dagli art. 10, 11 e 12 del d.lgs. 546/92. 4. L’Avvocatura dello Stato e la legittimazione nel giudizio di Cassazione. La legittimazione della parte pubblica e la sua difesa nel terzo grado del processo, prima dell’entrata in funzione delle Agenzie fiscali, spettava al Ministero delle finanze in persona del Ministro in carica e la sua difesa era obbligatoriamente affidata, ex lege, all’Avvocatura generale dello Stato114 113 Secondo MULEO, L’attuazione delle Agenzie fiscali ed i connessi profili di legittimazione ad agire e processuale, in Rass. trib. n. 2/2001, p. 379, mentre «non v’è dubbio che alle Agenzie fiscali vada riconosciuta in ambito processuale, per via dell’anzidetta titolarità di diritti sostanziali, la legitimatio ad causam», è dubbio «se le Agenzie fiscali siano anche dotate di legitimatio ad processum». L’autore propende comunque per l’affermativa, riconoscendo al d.lgs. n. 300/1999 «la valenza di “modifica tacita” del testo normativo del d.lgs. nn. 546/1992 e 300/1999 (lex posterior) possono, peraltro, far concludere, quanto alla loro peculiarità, che ognuna di essa è speciale nel suo proprio settore di intervento; allora, l’interpretazione abrogativa-integrativa avrebbe la conseguenza ed il pregio di far corrispondere al ruolo sostanziale attribuito alle Agenzie un’idonea attitudine processuale ed, al contempo, di rispettare la volontà del legislatore del 1992 di contemplare un rito nel quale l’organo che emette l’atto d’imposizione gode di legittimazione processuale ed è facultato a stare in giudizio direttamente, ai sensi dell’art. 11» 114 La normativa che regge l’Istituto nella sua attuale configurazione si articola in due testi legislativi fondamentali: il T.U. RD 30.11.1933, n. 1611 che segnò il culmine e la sistematizzazione di una serie di riforme maturate fra le due guerre e la l. 3.04.1979, n. 103 che, a sua volta, sistematizzò, da un lato, le nuove funzioni che l’Istituto era andato ad assumere nel nuovo assetto dello Stato repubblicano, accentuò, dall’altro, insieme alla vocazione giusitiziale, quella tecnico-professionale dell’Avvocatura nel quadro di una riforma che se pur parziale, ha valori di fondo ispirati a principi di efficienza e democraticità. La posizione acquisita dall’Istituto nel sistema della Costituzione vigente, certo esclude la sua immedesimazione con gli organi dell’amministrazione pubblica, nei cui confronti esercita la funzione istituzionale, autonoma ed indipendente, di consulenza e di difesa in giudizio. L’istituto è, infatti, attributario per legge, in via generale, del compito di provvedere «alla tutela legale dei diritti e degli interessi dello Stato», di corrispondere alla richiesta di consultazione di tutte le amministrazioni statali (tale richiesta può essere avanzata, oltre che dal Ministro preposto al Dicastero, anche da Direzioni generali e da altri uffici anche periferici dell’amministrazione), di «consigliare e dirigerle quando si tratti di promuovere, contestare o abbandonare giudizi» (art. 13, RD 1611/1933). A tal fine (e per gli altri compiti previsti dalla legge come l’esame di progetti di legge, regolamenti, capitolati, transazioni, contratti, ecc.), corrisponde direttamente con dette amministrazioni, che sono 75 tenute a fornirgli i chiarimenti, le notizie e i documenti necessari per l’adempimento delle sue attribuzioni (art. 35, RD 1611/1933). Tale disciplina concorre a chiarire la portata della statuizione di legge secondo la quale «gli uffici dipendono dal Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato (oggi Presidente del Consiglio dei Ministri) e sono posti sotto l’immediata direzione dell’Avvocato Generale» (art. 17, RD 1611/1933). Siffatta dipendenza dal vertice del governo, espressamente riferita agli «Uffici», non può che riguardare il sistema organizzatorio di questi, e così la provvista del personale e dei mezzi finanziari e strumentali, la costituzione dei rapporti di servizio (le nomine sono disposte per gli avvocati e procuratori, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio) e gli eventuali altri provvedimenti di stato giuridico nonché ogni altra iniziativa connessa con la responsabilità politica del Presidente del Consiglio e inerente l’organizzazione e alla rispondenza dell’attività dell’Istituto ai compiti di legge ai compiti della legge o sulla base di essa affidatigli. Fuori discussione è invece l’indipendenza e l’autonomia funzionale di ordine tecnico-professionale, vieppiù accentuata dalle innovazioni portate dalla l. n. 103 del 1979. Le due fondamentali funzioni dell’Avvocatura dello Stato sono la rappresentanza e difesa in giudizio, da un lato, e la consulenza legale, dall’altro. La prima è ispirata ad una tendenziale universalità di patrocinio, di fronte «a tutte le giurisdizioni» (art. 1 RD 30.10.1933, n. 1611). L’elencazione dai tradizionali giudizi civili, penali, amministrativi e arbitrali ai più recentemente contemplati giudizi dinanzi alla Corte Costituzionale ed ai Collegi comunitari ed internazionali sarebbe un fuor d’opera. Un primo gruppo di deroghe, dettate dalla necessità di non gravare il troppo esiguo organico dell’Avvocatura con una mole di cause di modesta importanza, è dato dai giudizi per insinuazione tardiva di crediti in procedure fallimentari, procedure di ammortamento ex art. 2016 c.c., esecuzione forzata sui mobili e sugli immobili ai sensi del RD 14.4.1910, n. 639, cause dell’Ente FF.SS. dinanzi a Pretori e Conciliatori e relative al contratto di trasporto e dai giudizi dinanzi alle Commissioni tributarie nonché giudizi di opposizione davanti al Pretore alla ordinanza-ingiunzione di pagamento o di confisca per contravvenzioni depenalizzate ex l. 24.11.1981, n. 689. In tali giudizi la lite è gestita direttamente da funzionari dell’Amministrazione, salva sempre la possibilità dell’Avvocatura di assumere, eventualmente su richiesta dell’Amministrazione, il patrocinio. In taluni casi tale intervento è prescritto dalla legge (ad esempio, opposizione ad insinuazione tardiva, opposizione nel procedimento di ammortamento). Non costituisce, invece, come è ovvio, eccezione al principio generale la facoltà che ha l’Avvocatura di rilasciare deleghe procuratorie ad avvocati del libero foro ed a funzionari dell’Amministrazione (art. 2 RD 1611/1933). Un secondo gruppo di deroghe è dato dalla particolare struttura del giudizio: dinanzi ai Tribunali penali e militari ed alla Corte Costituzionale in composizione integrata per i giudizi di accusa, non essendo prevista la costituzione di parte civile, è esclusa la partecipazione dell’Avvocatura; lo stesso avviene nei giudizi di conto e responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti, in cui il Procuratore generale assume anche la tutela degli interessi patrimoniali dello Stato. Una deroga ulteriore (art. 41 T.U. 1054/1924) prevede la possibilità, per l’Amministrazione, di farsi difendere in giudizio davanti al Consiglio di Stato da un dirigente dell’Amministrazione che ha emanato il provvedimento o da un referendario del Consiglio di Stato. La norma è caduta in desuetudine in punto di fatto ed è diffusa opinione che in punto di diritto debba considerarsi abrogata per incompatibilità con il nuovo assetto del processo amministrativo introdotto con la l. 16.12.1971, n. 1034, dove non si prevede una difesa sostitutiva dell’Avvocatura. L’abrogazione deve ritenersi pacifica con riguardo all’ipotesi di delega a referendari del Consiglio di Stato, meno convincente è per quanto riguarda i dirigenti dell’Amministrazione, specie in relazione a quanto osservato sull’inadeguatezza di organico dell’Avvocatura. Strettamente connesse con la difesa in giudizio sono le deroghe al comune diritto processuale in tema di rappresentanza (conferita ex lege con la conseguente esenzione della necessità del mandato ad litem), di foro speciale (foro dello Stato), di notifica, ecc. Per la notifica degli atti giudiziari l’art. 10 della l. n. 103 del 1979, innovando su di una regola pretoriamente introdotta dal Consiglio di Stato (C. St., Ad. plen., 15.1.1960, n. 1), ha infatti esteso a tutti i giudizi il principio della notifica presso l’Avvocatura dello Stato competente di tutti gli atti processuali diretti a soggetti da essa 76 con sede in Roma, luogo in cui dovevano essere notificati i ricorsi. Questa ricostruzione si basava sulla constatazione che gli artt. 10, 11 e 12 del d.lgs. 546/92 riconoscevano agli Uffici fiscali la qualità di parte, nonché, la loro capacità di stare in giudizio esclusivamente dinanzi alle Commissioni tributarie; mentre, per i giudizi successivi si applicava la regola generale prevista dall’art. 1 del RD n. 1611/1933, secondo cui: «la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo, spettano all’Avvocatura dello Stato» e, dall’art. 11, comma 1, dello stesso RD, che prevede: «tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali o dinanzi agli arbitri, devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria innanzi alla quale è pendente la causa, nella persona del Ministro competente». Inoltre, l’art. 9 della legge 3 aprile 1979, n. 103, contenente Modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato, ulteriormente specificava che: «l’Avvocatura generale dello Stato provvede alla rappresentanza e difesa delle Amministrazioni nei giudizi davanti alla Corte Costituzionale, alla Corte di Cassazione, al Tribunale superiore delle acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni anche amministrative, ed ai collegi arbitrali con sede in Roma, nonché nei procedimenti innanzi a collegi internazionali o comunitari». In tal senso si era ritenuto che la disciplina del giudizio per cassazione contro le sentenze delle Commissioni tributarie regionali era essenzialmente dettata dal codice di procedura civile all’art. 144 che stabilisce: «per le Amministrazione dello Stato si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli patrocinati introdotto con l. 25.3.1958, n. 260. Letta in combinato disposto con il successivo art. 14 della l. n. 103 del 1979 (che prevede l’obbligo per le cancellerie e segreterie di tutti i giudici di mettere a disposizione dell’Avvocatura dello Stato, anche se non costituita, copia di ogni ordinanza o sentenza emanata nei confronti di un soggetto pubblico da essa difeso) la norma configura una estensione anticipativi dell’art. 170 cpc ed appare idonea a garantire una maggiore funzionalità del patrocinio. Il vizio di notifica comporta una nullità sanabile (C. Cost., 8.7.1967, n. 27) ex tunc salvi i diritti quesiti con la costituzione in giudizio. 77 Uffici dell’Avvocatura dello Stato». Questa impostazione risulta profondamente modificata da quanto disposto dal d.lgs. n. 300/1999. In primo luogo, questo nuovo testo normativo ha conservato il Ministero delle finanze e poi il Ministero dell’economia e delle finanze, da un lato, istituendo a parte le Agenzie fiscali cui si riconosce la natura di persone giuridiche di diritto pubblico ma non quella di Amministrazioni dello Stato, che, come risulta inequivocabilmente dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 29/1993, costituiscono una species del più vasto genus delle Amministrazioni pubbliche115. La non espressa qualificazione delle Agenzie come Amministrazioni dello Stato, sia pure ad ordinamento autonomo, che di per sé porta ad escludere l’applicabilità ad esse degli artt. 1 ed 11 del RD 1611/1933, sta di fatto però 115 Il punto è stato particolarmente approfondito da MULEO, L’attuazione delle Agenzie fiscali ed i connessi profili di legittimazione ad agire e processuale, in Rass. trib. n. 2/2001, p. 391. L’autore propende per l’inquadramento delle Agenzie fiscali tra le Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, da ciò conseguentemente derivando che il ricorso per cassazione dovrebbe essere proposto contro l’Agenzia delle entrate in persona del Ministro delle finanze pro-tempore e notificato presso l’Avvocatura generale dello Stato, dando soprattutto rilievo alla funzione pubblicistica, «peraltro rilevantissima ed anzi essenziale per lo Stato», ad essa demandata, nonché al «collegamento tra Ministero delle finanze e Agenzie, riscontrabile soprattutto per ciò che concerne la nomina degli organi delle seconde», considerando, invece, la facoltatività della rappresentanza dell’Avvocatura dello Stato risultante dal combinato disposto dall’art. 72 del d.lgs. n. 300/1999 e dall’art. 43 del RD n. 1611/1933 non decisiva, posto che la rappresentanza dell’Avvocatura dello Stato «appare come posterius necessario in conseguenza della natura dell’ente piuttosto che non un elemento di per sé condizionante la natura stessa». Anche a voler astrattamente condividere quest’affermazione di carattere generale, non sarebbe facile recepire lo specifico assunto che nel caso la scelta operata dall’art. 72 del d.lgs. n. 300/1972, riferendosi espressamente all’art. 43 del RD 1611/1933 e non agli artt. 1 e 11 dello stesso RD, non sia propriamente basata sul presupposto che le Agenzie, pur essendo sicuramente enti dotati di personalità giuridica di diritto pubblico, come, non a caso, ben specificato all’art. 61, non siano invece qualificabili come Amministrazioni dello Stato, sia pure ad ordinamento autonomo, posto che proprio su questa distinzione si basa la diversificazione di disciplina espressa dal RD n. 1611/1933, e dato che, inoltre, non risulta in alcun modo dimostrato che attraverso il richiamo fatto all’art. 43, anziché agli artt. 1 e 11 del citato RD, si sarebbe voluto riconoscere a tali Enti «una maggiore specificità» ed una maggiore libertà di scelta defensionale in deroga ai casi assolutamente eccezionali di cui all’art. 5 dello stesso RD. Oltre a ciò, contrasta vistosamente con l’art. 68 del d.lgs. n. 300/1999, che riconosce al Direttore la rappresentanza dell’Agenzia, la tesi per cui il ricorso dovrebbe essere indirizzato all’Agenzia «in persona del Ministro delle finanze pro-tempore», in tal modo addossando al Ministero un diretto coinvolgimento nell’esercizio delle funzioni e dei servizi assegnati all’Agenzia, in aperto contrasto con la chiara voluntas legislativa di lasciare al Ministero compiti lato sensu organizzativi e d’indirizzo, che nulla hanno a che vedere con le funzioni e i compiti delle Agenzie. 78 che l’art. 72 del d.lgs. 300/1999, nel disciplinare la rappresentanza in giudizio delle Agenzie, espressamente statuisce che: «le Agenzie fiscali possono avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art. 43 del T.U. approvato con RD n. 1611/1933 e successive modificazioni», mentre, ancora da ultimo, il DPR n. 107/2001, all’art. 20, comma 3, dispone «alle Agenzie si applica, in materia di patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, il dettato dell’art. 43 del RD 30 ottobre 1933, n. 1611». L’art. 43 non attiene alle Amministrazioni dello Stato, per le quali ricordiamo è previsto il patrocinio obbligatorio ex artt. 1 e 11 dello stesso RD, bensì alle «Amministrazioni pubbliche non statali ed enti sopranazionali sottoposte a tutela ed anche sotto la vigilanza dello Stato», prevedendo che per esse «l’Avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi avanti alle autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali», peraltro «sempre che ne sia autorizzata da disposizioni di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con regio decreto», con l’ulteriore previsione che, qualora sia intervenuta detta autorizzazione, la rappresentanza e la difesa nei giudizi sopra citati sono assunte dall’Avvocatura dello Stato in via organica ed esclusiva, salva la facoltà di non avvalersi della stessa Avvocatura, previa adozione di apposita motivata delibera da sottoporre agli Organi di vigilanza. Né consegue che viene meno la ricostruzione secondo cui si distingue, nell’ambito del processo tributario, un primo livello dove gli Uffici del fisco rappresentano l’Amministrazione finanziaria, e un secondo livello che interessa solo il giudizio di Cassazione, in cui trova applicazione il principio generale che riconosce all’Avvocatura dello Stato la tutela delle situazioni giuridiche che fanno capo all’Amministrazione dello Stato in persona del Ministro in carica. Quindi, ai singoli Uffici periferici delle Agenzie fiscali si riconosce la qualità di parte e la relativa capacità di stare in giudizio in tutti i gradi con la conseguenza che i ricorsi per cassazione dovranno essere indirizzati e notificati ai singoli Uffici locali, salva la facoltà di avvalersi della difesa 79 dell’Avvocatura dello Stato. Per quanto attiene la struttura organizzativa dell’Agenzia delle entrate si deve richiamare il Regolamento di amministrazione, approvato con delibera del Comitato direttivo n. 4 del 30 novembre 2000, il cui testo è entrato in vigore dal 1° gennaio 2009. L’art. 2, al comma 2 prevede che: «l’Agenzia si articola in Uffici centrali e regionali, con funzioni prevalenti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, e in Uffici periferici, con funzioni operative». Gli Uffici periferici svolgono funzioni operative e secondo l’art. 5 del Regolamento si distinguono i seguenti tipi: a) direzioni provinciali; b) centri di assistenza multicanale; c) centri operativi e d) centri satellite. In particolare, l’art. 5, al comma 3 prevede che: «Le direzioni provinciali curano l’attività di informazione e assistenza ai contribuenti, la gestione di tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso. Sono strutturate, a seconda delle dimensioni della direzione provinciale, in uno o più uffici territoriali, individuati con atto del Direttore dell’Agenzia, e in un ufficio controlli. Gli uffici territoriali sono dedicati alle attività di informazione e assistenza, alla gestione delle imposte dichiarate e ai controlli formali, nonché ad altre tipologie di controlli individuate con atto del Direttore dell’Agenzia. L’ufficio controlli è dedicato a tutte le funzioni di controllo e accertamento, fatta eccezione per quelle affidate agli uffici territoriali, nonché al contenzioso e alla riscossione; può articolarsi in più aree, individuate in base alla numerosità e alle caratteristiche delle diverse tipologie di contribuenti e ai differenti tipi di attività da svolgere». A livello sistematico, la sottolineata maggiore unitarietà e continuità del processo tributario nell’arco dei suoi vari gradi troverebbe concreto riscontro in base a quanto stabilito dall’art. 62, comma 2, del d.lgs. 546/92, che prevede: «al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto»116, rilevando, comunque, la compatibilità di 116 Sulla particolare rilevanza sistemica che tutto l’art. 62, comma 1 e 2, del d.lgs. n. 546/92 ha nell’evoluzione della disciplina del processo che ne occupa, tenuto anche conto dell’istituzione dell’apposita sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione, si rinvia 80 questa norma con la necessità di affidare la difesa in cassazione ad avvocati iscritti nell’apposito albo o all’Avvocatura Generale dello Stato117. Una problematica strettamente connessa a quanto fin qui detto attiene la notifica delle sentenze di secondo grado. Secondo diverse critiche alla circolare dell’Agenzia delle entrate n. 71/E si è sostenuto118 che l’art. 21 della l. 133/1999 sarebbe tuttora vigente e dovrebbe essere integralmente applicabile per le notifiche delle sentenze delle Commissioni tributarie regionali ai fini della decorrenza del termine breve per ricorrere in Cassazione. A sostegno si è innanzitutto affermato che non sussisterebbe nessuna incompatibilità fra questa disposizione e quelle che disciplinano le Agenzie. La legitimatio ad causam sarebbe pur sempre rimasta in capo all’Amministrazione, posto che, nonostante l’intervenuto trasferimento di alcune competenze dal Ministero alle Agenzie, secondo quanto stabilito dalla prima parte dell’art. 57 del d.lgs. 300/1999, il trasferimento non avrebbe ad oggetto i rapporti sostanziali tributari ed i poteri inerenti la loro disciplina facenti capo al Ministero ma si attribuirebbe soltanto la fase di attuazione dei tributi. Questa ricostruzione poggia sulla supposta permanenza in capo al Ministero dell’Economia e delle finanze del potere impositivo e della titolarità delle situazioni soggettive ad esso correlate; tuttavia, tale asserita permanenza di poteri e rapporti è smentita dai dati normativi che hanno ben a GLENDI, Verso l’unità della giurisdizione tributaria, in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, Atti del Convegno I settanta anni di «Diritto e pratica tributaria» (Genova 2-3 luglio 1999), Padova, 2000, p. 607. 117 Verrebbe, quindi, in sostanza normativamente realizzato quanto, discutibilmente, dedotto in via interpretativa dalla precedente normativa, con la sentenza della Suprema Corte n. 1099/1999, che, mettendo in motivazione a confronto l’art. 1 del RD 1611/1933 (statuente l’inderogabilità della difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato) con il sopravvenuto art. 12 del d.lgs. 546/92 (statuente una semplice “facoltà” di scelta della difesa erariale), si poneva il «problema se tutto ciò non sia indifferente ai fini del ricorso per cassazione che nel vecchio testo del DPR 636/1972 non era regolato, mentre l’art. 50 del nuovo contenzioso lo richiama ed il successivo art. 62 dispone che al ricorso per cassazione e al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal cpc in quanto compatibili con quelle del decreto medesimo», dalla stessa sentenza risolto ritenendo evidente «che una ragione d’incompatibilità sia immanente al sistema che pone fuori gioco l’art. 1 del RD del 1933 e quindi, necessariamente, l’art. 11 dello stesso RD, il quale potrà applicarsi solo se, dinanzi alla Commissione regionale, l’Ufficio si sia fatto assistere dall’Avvocatura distrettuale». 118 P. RUSSO – G. FRANSONI, La notifica degli atti di parte e delle sentenze a seguito dell’istituzione delle Agenzie fiscali, in Riv. dir. trib. n. 11/2001, I, p. 899. 81 differenziato le Agenzie dalle Amministrazioni statali e dai Dipartimenti ministeriali119. Infatti, l’art. 57 del d.lgs. 300/1999, non mantiene nessun riferimento unitario in capo al Ministero con la conseguenza di rendere assolutamente priva di giuridico riconoscimento la conservazione a suo nome di una astratta titolarità di rapporti e funzioni. Nel tentativo di sostenere l’applicabilità dell’art. 21 si è osservato che la ratio di questa disposizione è quella di imporre la notifica della sentenza di secondo grado al soggetto cui spetta il patrocinio dell’Ente dinanzi alla Cassazione, in quanto, il termine breve – che decorre dalla data di notifica della sentenza – sarebbe troppo ristretto per consentire una tempestiva attuazione della decisione di ricorrere cassazione ove la notifica fosse stata effettuata all’Ufficio periferico. Ma se la ratio fosse stata questa la legge avrebbe dovuto indicare il luogo della notifica delle sentenze presso l’avvocatura generale dello Stato, all’epoca solo ed esclusivo organo legittimato a ricorrere in Cassazione per l’Amministrazione finanziaria120. 119 Come scrive BUTTUS, L’attuazione delle Agenzie fiscal: profili e problematiche di natura processuale, in Riv. dir. trib. n. 9/2001, I, p. 879, confrontando l’ideale struttura piramidale della preesistente organizzazione finanziaria ministeriale, può dirsi che l’Agenzia abbia preso il posto del Ministero delle finanze, al quale ora sono attribuite funzioni diverse ed estranee all’attuazione della norma fiscale, trasferite in toto – in unum con i mezzi ed il personale prima inquadrato presso il Ministero delle finanze – alla prima. Pur tuttavia, l’Agenzia dotata di propria soggettività non pare potersi considerare consentanea, omologa, del pregresso dipartimento: quello era (ed è ancora) articolazione (centrale) del Ministero, questa è autonomo soggetto di diritto pubblico, affatto differente da un’amministrazione statale. 120 Non vi è dubbio, infatti, che, ove spettassero, come allora sicuramente spettavano, all’Avvocatura generale dello Stato (sulla base, tra l’altro, anche dell’art. 9 della legge 3 aprile 1979, n. 103), la rappresentanza e la difesa delle Amministrazioni dello Stato secondo quanto evidenziato da NUSSI, Notifica della sentenza della Commissione tributaria regionale: un’interpretazione autentica di dubbia ragionevolezza, in Rass. trib., n.3/2000, p. 963, sul punto specificamente richiamato da RUSSO – FRANSONI, La notifica degli atti di parte e delle sentenze a seguito dell’istituzione delle Agenzie fiscali, in Riv. dir. trib. n. 11/2001, I, p. 901, sarebbe stata quella d’imporre la notificazione delle sentenze impugnabili per cassazione all’Amministrazione finanziaria dello Stato presso l’Avvocatura generale dello Stato, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnarle, come del resto condivisamene ritenuto dalla Suprema Corte di Cassazione , Sez.I, con sentenza 17 giugno 1998, n. 6034, prima dell’erroneo slittamento interpretativo operato dalla stessa Suprema Corte sulla scorta di altra dottrina verso al ritenuta notificabilità della sentenza di secondo grado agli Uffici periferici, nell’assunto che il discrimen tra soggettività di tali Uffici rispetto alla soggettività centralizzata fosse determinato dalla “notificazione”, anziché dalla pubblicazione della sentenza stessa. 82 Il richiamo fatto dall’art. 21 della l. 133/1999 all’art. 11 del RD n. 1611/1933 non è un mero espediente per individuare la disciplina della notifica delle sentenze; ma è connesso al regime obbligatorio di difesa dell’Amministrazione finanziaria ex art. 1 del RD citato, che demandava all’Avvocatura dello Stato il controllo generalizzato ex lege di tutto il contenzioso riguardante l’Amministrazione stessa. Nel sistema attuale in cui i vari Uffici periferici investono l’Avvocatura dello Stato della difesa di singole vertenze, si può ritenere priva di ogni ragion d’essere e di ogni residua funzionalità l’eccezionale disposizione di cui all’art. 21, che deve pertanto ritenersi tacitamente abrogata o non più applicabile alle sentenze delle Commissioni tributarie di secondo grado per i processi iniziati dopo il 1° gennaio 2001121. Non trova una conclusione il problema relativo alla determinazione dei soggetti ai quali la notifica della sentenza deve essere fatta, se all’Agenzia fiscale in persona del suo direttore presso la relativa sede legale122, o ai singoli Uffici periferici della stessa. Quest’ultima soluzione è in effetti quella preferibile considerato il riconoscimento di una perdurante legittimazione degli Uffici periferici sino all’esito del processo tributario unitariamente strutturato123. Sul punto, GLENDI, Notificazione di sentenze della C.T.R.: contrastante orientamento della Cassazione, in Corr. trib. n. 1/1999, 13; PISTOLESI, Sulla notifica del ricorso per Cassazione proposto dal contribuente avverso le sentenze delle Commissioni tributarie regionali, in Giur. it., 2000, p. 430; ROCCHITTA, Notifica di sentenza della C.T.R. all’Avvocatura generale dello Stato o ai singoli Uffici?, in GT – Riv. giur. trib. n. 4/1999, 304. 121 In tal senso, GLENDI, Legittimazione e difesa in giudizio dell’Agenzia del territorio, in Corr. trib. n. 7/2003, 583. 122 E’ questa la soluzione seguita da PISTOLESI, Le parti e la loro rappresentanza ed assistenza in giudizio, in Quad. Cons.pres.giust. trib. 4/00 in stretta coerenza con l’opinione, perfettamente condivisibile, che il limite della soggettività degli organi periferici termina con la pubblicazione e in armonia con la ritenuta legittimazione di un organo centrale riguardo al giudizio di terzo grado, senza peraltro tener conto che, se questa legittimazione era sicuramente sostenibile in base all’assetto normativo anteriore all’istituzione delle Agenzie, la stessa non è più viceversa accreditabile dopo quella nuova disciplina. 123 E’ questo un dato comune a tutta la giurisprudenza della Suprema Corte, fatta solo eccezione per la sentenza 9 febbraio 1999, n. 1094, in Corr. trib. n. 31/1999, p. 2372, con commento di GRIMALDI e in GT – Riv. giur. trib. n. 9/1999, p. 741, con il commento di DE MITA, con la quale sentenza si era, infatti, ritenuto che, tanto le sentenze delle Commissioni tributarie di secondo grado, quanto i ricorsi per cassazione dovessero essere notificati agli Uffici periferici dell’Amministrazione finanziaria dello Stato, a tale 83 Se la circolare 71/E/2001 dell’Agenzia delle entrate delinea questa soluzione, non altrettanto possiamo dire per la circolare 5/T del 2002 dell’Agenzia del territorio. Nella prima circolare, quella dell’Agenzia delle entrate, è detto esplicitamente che il ricorso per cassazione deve essere intestato e notificato all’Ufficio locale dell’Agenzia che era stata parte nel giudizio di secondo grado; mentre, nella circolare 5/T del 2002 si dice genericamente che il ricorso deve essere inoltrato all’Agenzia del territorio senza specificare se l’intestazione e la notifica debba propriamente essere fatta all’Agenzia del territorio presso la sede centrale in Roma ovvero presso i suoi Uffici periferici che sono stati parti nel secondo grado di giudizio. Al fine di chiarire queste diverse prese di posizione, è necessario partire dalla sancita inapplicabilità degli artt. 1 e 11 del RD 1611/1933, a seguito di quanto disposto dal d.lgs. 300/1999 ed in particolare dall’art. 72 che incide su tutta la struttura organizzativa e sulla problematica della legittimazione e della difesa della pars pubblica. Come già anticipato, sulla base degli artt. 1 e 11 del RD 1611/1933 si era sostenuto che la legittimazione attiva e passiva della pars pubblica spettava conclusione giungendo proprio in base al già allora ritenuto superamento della distinzione tra soggettività degli Uffici limitatamente ai primi due gradi e legittimazione esterna dell’Amministrazione finanziaria per il terzo grado. In particolare, con questa sentenza, mettendo in motivazione a confronto l’art. 1 del RD 1611/1933 (statuente l’inderogabilità della difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato), la Corte si era appositamente posta «il problema se tutto ciò non sia indifferente ai fini del ricorso per cassazione che nel vecchio testo del DPR n. 636/1972 non era regolato, mentre l’art. 50 del nuovo contenzioso lo richiama ed il successivo art. 62 dispone che al ricorso per cassazione e al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal cpc in quanto compatibili con quelle del decreto medesimo» e questo problema aveva per l’appunto ritenuto di poter risolvere osservando come «una ragione d’incompatibilità sia immanente al sistema che pone fuori gioco l’art. 1 del RD del 1933 e quindi, necessariamente, l’art. 11 dello stesso RD, il quale poteva applicarsi sol se, dinanzi alla Commissione regionale, l’Ufficio si sia fatto assistere dall’Avvocatura distrettuale». Questa decisione era in effetti criticabile con riferimento alla normativa all’epoca vigente, apparendo infatti azzardato ritenere l’intervenuta messa fuori campo degli artt. 1 e 11 del RD 1611/1933 per il solo fatto della subentrata disposizione dell’art. 12, comma 4, del d.lgs. 546/1992. Questa soluzione, all’epoca prematura, appare, peraltro, in oggi la sola imposta proprio dalla riforma delle Agenzie, essendo venuta meno l’Amministrazione finanziaria ed essendo stati gli artt. 1 ed 11 del RD 1611/1933 indiscutibilmente messi da parte anche per effetto dell’art. 72 del d.lgs. 300/1999, secondo cui le Agenzie fiscali «possono» soltanto avvalersi dell’Avvocatura dello Stato «ai sensi dell’art. 43» del RD 1611/1933, laddove l’Amministrazione finanziaria dello Stato era obbligatoriamente rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato in base agli artt. 1 e 11 dello stesso RD 1611/1933. 84 all’Amministrazione finanziaria o al Ministero con il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato e che, a fronte di questa generale previsione, gli artt. 10 e 11 del d.lgs. 546/1992, nel riconoscere la legittimazione agli Uffici periferici dell’Amministrazione stessa, rappresentavano una deroga espressamente limitata ai due gradi, così che nel terzo grado tornava a valere la regola generale anzidetta. Il venir meno dell’applicabilità degli artt. 1 e 11 del RD, sia nei confronti dell’Amministrazione delle finanze dello Stato o del Ministero competente, e sia nei confronti delle Agenzie, fa sì che non trovi più applicazione la precedente distinzione con la conseguenza che i dati normativi di riferimento sono gli artt. 10, 11, 12 comma 4 e 62 comma 1 e 2, del d.lgs. 546/92. Dagli artt. 10 e 11 risulta che sono parti abilitate a stare in giudizio, senza obbligo di difensore, gli Uffici periferici delle Agenzie fiscali; tuttavia, dall’art. 12, comma 4, risulta che detti Uffici possono essere assistiti dall’Avvocatura dello Stato in secondo grado. Ai sensi dell’art. 62 del d.lgs. 546/92 il ricorso per cassazione contro le sentenze delle Commissioni tributarie rientra nell’ambito di un processo tributario unitario così come avviene nel campo processualcivilistico124. In base al più volte richiamato d.lgs. 300/1999 – recante la riforma dell’organizzazione del Governo – con gli artt. 57 e 74 viene strutturalmente innovato il modello organizzativo del Ministero delle finanze che si trasforma in Ministero dell’economia e delle finanze con la conseguenza che specifiche attività, esercitate da alcuni Dipartimenti ed Uffici del preesistente Ministero, sono attribuite alle Agenzie fiscali alle quali si riconosce lo status di persone giuridiche di diritto pubblico. Per effetto dell’art. 68 dello stesso decreto legislativo le Agenzie possono stare in giudizi a mezzo del direttore che ne ha la rappresentanza, avvalendosi, eventualmente, del patrocinio facoltativo dell’Avvocatura dello Stato. Inoltre, l’art. 73, comma 4, affidava 124 Sulla essenziale portata unificante dell’art. 62 del d.lgs. 546/1992, soprattutto dopo l’introduzione della Sezione tributaria al vertice della Suprema Corte di Cassazione, vedi, in particolare, GLENDI, Rapporto tra nuova disciplina del processo tributario e codice di procedura civile, in Dir. prat. trib., 2000, I, p. 1760. 85 al Ministero delle finanze, il compito di stabilire la data a decorrere dalla quale le funzioni svolte dallo stesso Ministero sarebbero dovute essere affidate alle Agenzie fiscali. Tale termine viene espresso dal D.M. 28 dicembre 2000125 , il quale individuava il momento di attivazione delle Agenzie alla data del 1° gennaio 2001, con la contestuale acquisizione della titolarità di tutti i rapporti giuridici esistenti, già di pertinenza dei preesistenti Dipartimenti del Ministero delle Finanze. In questo contesto, il Comitato direttivo dell’Agenzia delle entrate, con delibera del n. 9 del 10 gennaio 2001, stabiliva con riserva di addivenire ad un assetto definitivo entro il 28 febbraio 2001, di avvalersi dell’Avvocatura dello Stato per le controversi per le quali le competenti Direzioni Regionali o Centrali avanzino richiesta di difesa, confermando, nel contempo gli incarichi della stessa già assunti relativamente ai rapporti facenti capo agli Uffici del Dipartimento del Ministero delle finanze. Secondo quanto chiarito dalla circolare dell’Agenzia delle entrate 30 luglio 2001, n. 71/E, si deve ritenere che, non essendo attribuita all’organo legale le rappresentanza in giudizio ex lege dell’Agenzia, la posizione dell’Avvocatura dello Stato, in base all’indirizzo assunto dalla Corte di Cassazione126, assuma rilevanza esterna solo a seguito della costituzione nel singolo rapporto. Tale affermazione, secondo quanto affermato dall’Agenzia, si riflette sulla disciplina degli atti prodromici all’incardinamento della lite e, in particolare, sulla notifica delle citazioni, dei ricorsi e di ogni altro atto di opposizione giudiziale per i quali tornano applicabili non più le disposizioni dell’art. 11, comma 1, del RD 1611/1933, che autorizza la notifica presso l’Ufficio dell’Avvocatura dello Stato, bensì i principi generali in tema di notificazioni degli atti alle parti processuali che, in applicazione degli artt. 137 e seguenti del c.p.c. prevedono la notifica presso l’Agenzia e, in particolare, presso l’Ufficio locale dell’Agenzia individuato in base a 125 Decreto ministeriale concernente le «Disposizioni recanti le modalità di avvio delle Agenzie fiscali e l’istituzione del ruolo provvisorio del personale dell’amministrazione finanziaria a norma degli articoli 73 e 74 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 330». 126 Cass. SS.UU., 11 aprile 1995, n. 4149. 86 specifiche norme nelle singole materie e con riferimento alle singole giurisdizioni. 87 BIBLIOGRAFIA ALEMANNO, Valida la notifica del ricorso all’Ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate, in Corriere tributario, 2003, fasc. 7 p. 553. AMBROSETTI, Il ricorso nel diritto tributario, Milano, 1999. AZZONI, Le parti e il litisconsorzio necessario nel nuovo processo tributario, in Foro italiano, 1993. BAFILE, Il nuovo processo tributario, Milano, 1994. BAFILE, La controversia tra sostituto e sostituito d’imposta: ancora un passo avanti, in Rivista di diritto tributario, II, 1994. BAGLIONE -MENCHINI -MICCINESI, Commentario al nuovo processo tributario, Milano, 2004. BARTOLINI -REPREGOSI, Il codice del nuovo contenzioso tributario, Piacenza, 1996. BATTISTONI -FERRARA, Appunti sul processo tributario, Padova, 1995. BELLAGAMBA, Il contenzioso tributario dopo il d.l. 16 maggio 1996, n. 259, Torino, 1996. BLANDINI, Il nuovo processo tributario, Milano, 1996. 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