Antologia degli autori più rappresentativi della sociologia

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Antologia degli autori
più rappresentativi
della sociologia
Contenuti
• Percorso 1
• Percorso 2
Il contesto storico culturale Storia del pensiero socionel quale nasce la sociolo- logico
gia: Rivoluzione industriale
e scientifico-tecnologica
Obiettivi
• Acquisire familiarità con il linguaggio proprio della sociologia.
• Entrare nel vivo delle nozioni e dei concetti teorizzati dai principali autori
della disciplina, attraverso la lettura di brani tratti dalle loro opere più
importanti.
Il contesto storico culturale
nel quale nasce la sociologia:
Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
❱❱ 1.L’immaginazione sociologica
Su cosa si concentra l’interesse? Su di un grande potere statale, su di una tendenza
letteraria particolare, una famiglia, una prigione, una fede? Ecco le questioni poste
dai migliori sociologi. Sono i cardini intellettuali classici dello studio dell’uomo
nella società, e sono le questioni che chiunque possegga immaginazione sociologica
solleva. Questa facoltà consiste nel saper passare da una prospettiva ad un’altra: da
una prospettiva politica ad una prospettiva psicologica, dall’esame di una singola
famiglia a uno studio comparativo dei vari bilanci nazionali del mondo, dalla scuola
di teologia alle istituzioni militari, dall’analisi dei problemi di un’industria petrolifera alla critica della poesia contemporanea. È la facoltà di abbracciare con la mente le
trasformazioni più impersonali e remote e le reazioni più intime della persona umana
e di fissarne il rapporto reciproco. A muoverla è sempre il bisogno di conoscere il
senso sociale e storico dell’individuo nella società e nel periodo in cui ha vita e valore.
Ecco, in breve, perché gli uomini sperano oggi di afferrare, mediante l’immaginazione sociologica, ciò che avviene nel mondo e di comprendere ciò che si svolge in loro
stessi in quanto punti di intersezione della biografia e della storia nella società. La
consapevolezza che l’uomo contemporaneo ha di se stesso come elemento esterno,
se non addirittura estraneo, si fonda in gran parte sull’assorbimento del concetto
della relatività sociale e del potere di trasformazione della storia. L’immaginazione
sociologica è la forma più feconda di tale consapevolezza.
(C. Wright Mills, L’immaginazione s­ociologica, il Saggiatore, Milano 1995)
❱❱ 2.La fisica sociale
Uno scienziato, amici miei, è un individuo che sa prevedere; ap­punto perché offre i
mezzi per prevedere l’avvenire la scienza è utile e gli scienziati sono superiori a
tutti gli altri uomini. La totalità dei fenomeni, di cui abbiamo conoscenza, è stata
suddivisa in varie classi, conformemente a diversi sistemi, uno dei quali è il seguente: feno­meni astronomici, fisici, chimici, fisiologici. Chiunque sceglie di de­dicarsi
allo studio delle scienze dà importanza a una di queste sud­divisioni. Voi conoscete
alcune fra le predizioni che gli astronomi fanno e sapete anche che essi annunciano
le eclissi; tuttavia ne fanno una quantità di altre di cui vi disinteressate e sulle quali
io non cercherò di intrattenervi; mi limiterò invece a dirvi due parole circa l’uso che
di esse si fa: quanto siano utili lo sapete benissimo. La posizione rispettiva dei vari
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punti della terra è stata esattamente determinata grazie alle predizioni degli astronomi; e sempre grazie a esse abbiamo i mezzi per navigare nei mari più vasti. Alcune
fra le predizioni dei chimici vi sono familiari. Un chimico vi dice che po­trete ottenere la calce mediante una pietra, ma non mediante un’altra; e vi dice che mediante una
certa quantità di ceneri, ricavata da una pianta di una data specie, laverete la vostra
biancheria al­trettanto bene che con una quantità assai maggiore, ricavata da una
pianta appartenente a una specie diversa; vi dice che mischiando una certa sostanza
con un’altra otterrete un prodotto dotato di una certa apparenza, fornito di una certa
proprietà.
Il fisiologo, il quale si occupa dei fenomeni dei corpi organizzati, se, per esempio,
siete ammalati, vi dice: Voi oggi provate i tali sin­tomi, e domani proverete questi
altri.
Non crediate, però, che io voglia suggerirvi che gli scienziati pos­sono prevedere
tutto; niente affatto, essi non solo non possono, ma anzi, ne sono sicuro, riescono a
prevedere con esattezza ben poche cose; però voi siete convinti quanto me che gli
scienziati, ciascuno nel proprio campo, sono coloro che possono prevedere il maggior
nu­mero di cose; e di ciò non vi è dubbio, perché essi acquistano la reputazione di
essere scienziati soltanto se le loro predizioni vengono verificate; oggi per lo meno
le cose vanno in questo modo, ma nel passato era ben diverso. Perciò è necessario
dare uno sguardo ai progressi compiuti dallo spirito umano; nonostante gli sforzi che
vado compiendo per essere chiaro, non sono perfettamente sicuro di essere capito
subito, alla prima lettura, ma, se vorrete riflettere un poco, finirete per riuscirvi.
I primi fenomeni che l’uomo ha osservato con una certa continuità sono quelli astronomici; è ciò per l’ottimo motivo che sono anche più semplici. All’inizio dei suoi
lavori nel campo dell’astronomia, l’uomo confondeva i fatti che osservava con quelli che immaginava, e questo guazzabuglio alquanto rudimentale, faceva le migliori
combinazioni possibili al fine di soddisfare tutte le richieste di predizioni circa l’avvenire; in seguito egli si andò sbarazzando dei fatti creati dalla sua immaginazione e,
dopo molto lavoro, finì per adottar­e un sistema sicuro di perfezionamento di questa
scienza. Gli astronomi accettarono soltanto i fatti constatati dall’osservazione, scelsero il metodo che meglio li collegava, e da allora cessarono di far compiere passi
falsi alla scienza. Ogniqualvolta viene presentato un nuovo sistema, prima di accoglierlo, essi verificano se collega i fatti meglio di quello che avevano adottato; se un
fatto nuovo viene aff­ermato, si assicurano, mediante l’osservazione, che realmente
esista. L’epoca di cui parlo (la più memorabile nella storia del progresso dello spirito
umano), è quella in cui gli astronomi cacciarono dalla loro società gli astrologi. Inoltre debbo farvi notare che da allora gli astronomi sono divenuti individui buoni,
modesti, hanno rinunciato fingere di conoscere ciò che invece ignorano, mentre anche
voi, da parte vostra, avete cessato di rivolger loro la richiesta impertinente di leggervi il destino negli astri.
I fenomeni chimici sono più complicati di quelli astronomici, e perciò l’uomo se ne
occupò molto tempo dopo. Studiando la chimica esso è caduto negli stessi errori in
cui cadde studiando l’astronomia; alla fine però i chimici riuscirono a sbarazzarsi
degli alchimisti.
La fisiologia si trova tuttora nella situazione sfavorevole attraverso quale dovettero
passare anche le scienze astronomiche e chimiche; fisiologi devono cacciare dalla
loro società i filosofi, i moralisti e i metafisici, come già gli astronomi cacciarono gli
astrologi, e i chimici gli alchimisti.
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Noi, amici miei, siamo dei corpi organizzati; ed è appunto consi­derando come fenomeni fisiologici i nostri rapporti sociali che io ho ideato il progetto che vi presento,
ed è attraverso considerazioni tratte dal sistema di cui mi servo per collegare i fatti
fisiologici che vi dimostrerò che il progetto che vi presento è buono.
Una lunga serie di osservazioni ha permesso di constatare come ogni uomo provi, a
un grado più o meno elevato, il desiderio di dominare la totalità degli altri uomini.
Ragionando, si vede chiara­mente che ogni uomo che non sia isolato, si trova in una
posizione attiva o passiva di predominio nei suoi rapporti con gli altri.
Voi stimate, e cioè accordate volontariamente una porzione di predominio nei vostri
confronti a quegli individui i quali, secondo voi, fanno cose utili; e avete il torto,
condiviso con tutta l’umanità, di non aver tracciato una linea di demarcazione abbastanza precisa fra le cose di un’utilità momentanea e quelle di una utilità duratura; tra
quelle di interesse locale e quelle di interesse generale; tra quelle che procurano dei
vantaggi a una parte dell’umanità, a scapito di tutti gli atri, e quelle che accrescono
la felicità generale. Voi, infine, non vi rendete ancora ben conto che vi è un solo interesse comune a tutti gli uomini: quello del progresso delle scienze.
Il sindaco del vostro villaggio vi procura certi vantaggi sui paesi vicini? ed ecco che
voi ne siete entusiasti e lo circondate di stima. Gli abitanti delle città manifestano in
modo analogo il desiderio di esercitare la loro superiorità sulle città vicine; le province rivaleggiano fra loro e tra le nazioni scoppiano lotte, determinate dall’interesse
particolare, cui viene dato il nome di guerre. Negli sforzi che tutte queste frazioni
dell’umanità compiono, quale parte tende diretta­mente al bene generale? Una parte
in verità assai esigua; e non è il caso di stupirsi, dal momento che l’umanità non ha
ancora preso alcun provvedimento al fine di accordare collettivamente delle ri­compense
a coloro i quali riescono a compiere lavori di utilità ge­nerale.
(Henri de Saint-Simon, Lettere di un abitante dì Ginevra in Opere,
Utet, Torino 1975)
[Henri de Saint-Simon (1760-1825) filosofo francese, annoverato tra gli esponenti del socialismo utopistico, inizia a ipotizzare lo studio della società, senza tuttavia che possa essere considerato un precursore.]
❱❱ 3.Lo sviluppo della cultura
Ogni generazione, ogni uomo, non deve ricominciare da capo a imparare come si
costruiscono gli utensili, i rifugi, come si caccia e come ci si difende dai pericoli
dell’ambiente particolare in cui si vive. Si impara per imi­tazione degli anziani e per
un insegnamento impartito da questi ul­timi in modo esplicito. Questo accade anche
tra gli animali in modo rudimentale. In moltissime specie esiste una conoscenza
istintiva, trasmessa dai geni, su come cacciare, fuggire, nutrirsi, e una conoscenza
appresa per esperienza individuale. Vi è sempre inoltre una interazione tra conoscenza innata e conoscenza acquisita. La conoscenza innata e conoscenza acquisita. La
conoscenza innata (come cammi­nare, scappare, distinguere pericoli) è sempre arricchita da tentativi ed errori, dall’espe­rienza, dalla memorizzazione di informazioni
intorno all’habitat (facilitata dalla curiosità istintiva) e dall’esercizio, facilitato dal
gioco (che è anch’esso mosso da spinte innate molto con­tigue a quelle della curiosità e dell’esplorazione). Ma si tratta di conoscenze abbastanza semplici, anche se non
sempre così semplici se si pensa alla conoscenza dei percorsi migratori degli uccelli,
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e comunque con un nucleo abbastanza stabile e ripetitivo, privo di innovatività.
Negli esseri umani queste conoscenze acquisite durante la vita dell’individuo sono,
da un certo momento in poi (è il momento in cui esso si differen­zia nettamente dalle
altre specie), assai complesse e legate alla conoscenza razionale e alla memoria.
Questa importanza delle tecniche acquisite, che utilizzano cioè molta informazione
intorno all’ambiente particolare e memoria di questa informazione, viene attribuita
da alcuni paleoantropologi al fatto che l’uomo, rispetto agli altri animali e anche rispetto agli altri primati, si trova ad avere un rap­porto molto instabile con il suo ambiente particolare. Il fatto di non avere un ambiente fisso e uniforme comporta la
necessità di accrescere le capacità di adattamento, cioè, ancor più che le semplici
tecniche, le speciali tecniche per risolvere i problemi, o metatecniche.
Questo significa che per l’uomo diventa decisiva, ancor più che la raccolta l’inter­
preta­zione delle informazioni, l’acquisizione di un abito scientifico, l’assorbimento
pratico nell’esplorazione sistematica e metodica del mondo. La trasmis­sione della
conoscenza attraverso le generazioni viene decuplicata dall’invenzione della scrittura e della simbolizzazione astratta, dalla produzione dei concetti e delle categorie.
L’influenza della scrittura sulla qualità della vita umana è stata fino a oggi passata in
sott’ordine, laddove meriterebbe un esame approfondito, che è stato avviato stranamente solo di recente. Il passaggio a un mondo influenzato dalla scrittura costituisce
la svolta più decisiva nella storia della società umana.
Abbiamo detto che la tecnica si applica in due campi principali sin dagli albori della
vita conosciuta dell’uomo. Il primo campo è quello del progressivo accrescimento,
per invenzioni nuove o per perfezionamento delle invenzioni, dell’efficacia delle
modalità di dominio sull’ambiente. L’ambiente non è per l’uomo, diversamente dagli
altri animali, una ristretta nicchia ecologica, ma un ampio universo continuamente
mutevole; l’uomo vive perennemente sulla frontiera […]
Ora l’accrescimento del dominio sull’ambiente è facilitato an­zitutto dalle forme di
cooperazione sociale e di divisione dei com­piti. Troviamo la cooperazione sociale
anche nelle specie diverse dall’uomo, nel campo della caccia, della difesa dai predatori e nella protezione dei piccoli. Ma è nella specie umana che l’organizzazione
sociale per dominare l’ambiente diventa e­stremamente articolata e complessa, e fa
compiere un salto al dominio sul­l’ambiente.
La storia della diversità umana nasce qui, nell’intensificazione dell’efficacia organizzativa e nella capacità di trasmettere, e quindi di accumulare, le conoscenze tecniche.
La trasmissione da una gene­razione all’altra delle tecniche di dominio è ciò che differenzia l’uomo. Non tanto il linguaggio che, in forma rudimentale, appartiene anche
agli animali, ma la capacità, semmai, di fare del linguaggio stesso, come di ogni altra
facoltà attinente al dominio, un utensile versatile al servizio dell’organizzazione.
Ancora oggi il linguaggio ha due fun­zioni completamente diverse: una funzione
espressiva, di comunicazio­ne delle emozioni e degli affetti, di costituzione della relazione e della socialità e di conservazione e una funzione informativa, di trasmissione di dati, cognizioni intorno a delle tecniche. I due tipi di linguaggio possono contaminarsi a vi­cenda, interferire fa loro, ma la loro funzione resta radi­calmente diversa: o il linguaggio serve alla tecnica e al dominio, o serve agli affetti e alle relazioni
È il primo tipo di linguaggio che, trasformandosi in scrittura, produce quell’enorme
potenziamento delle funzioni mentali al servizio della tecnica che è rappresentato
dalla memoria utilitaria. Attraverso la trasmissione orale linguistica prima e attraverso la scrittura poi, l’accumulo delle informazioni che viene reso possibile supera le
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capacità mentali dell’individuo storico, diventa la memoria del gruppo e poi della
specie, diventa un deposito di dati (di un certo tipo di dati) che può essere accresciuto quasi senza limiti, uno strumento inconcepibilmente potente di dominio. Si può
dire da questo punto di vista che la tecnica è anzitutto memoria e tecnica della memoria. Anche qui si deve tener conto che vi è l’altro tipo di memoria che non ha a che
fare con le cose, con le modalità efficaci, con la tecnica, ma che riguarda le relazioni.
La memoria delle persone («mi ricordo di te», «mi ricordo mia madre», «mi ricordo
che mi hai aiutato») è un fatto affettivo e non intellettuale, contrapposto alla memoria
delle cose. Essa è fatta di tante piccole e grandi emozioni, incontri gioiosi e ferite.
La memoria delle cose, invece, è come una mappa; con la scrittura, la registrazione
meccanica, i segni convenzionali essa può diventare sempre più ampia e dettagliata.
La nostra conoscenza, che sta al servi­zio del dominio e dell’efficacia, è come un gigantesco atlante, sempre più dettaglia­to e continuamente ampliabile: atlante planetario dell’universo, dell’in­finitamente grande, o atlante-mappa dell’infinitesimo, del
suba­tomico. I telescopi e microscopi elettronici continuano ad estendere illimitatamente questi atlanti.
L’altro tipo di memoria, la memoria degli affetti, non può andare oltre la concreta
esperienza storica di un individuo. La scrittura, la narrazione, possono parlarci delle
emozioni, delle passioni di uomini appartenenti ad altre epoche, ma solo in quanto,
in qualche modo, siamo poi in grado di sperimentare noi stes­si questi affetti; e questo
incontra dei limiti. L’espandibilità del­la memoria affettiva è quasi niente se confrontata all’espandibilità teoricamente illimitata della memoria delle cose, che è all’origine del potere immenso sulle cose stesse, sull’ambiente, e sugli uomini stessi considerati come cose.
La trasmissibilità delle informazioni sulle cose è dunque in sé la più importante delle invenzioni umane; essa ha effetti esplosivi, dirompenti; essa permette agli uomini
di non ricominciare ogni volta da capo (per ogni generazione) a scoprire l’ambiente
e il modo di domi­narlo, e una volta scoperto questo vantaggio premia e favorisce
mo­dalità di organizzazione sociale che consentono la conservazione del­l’informazione
memorizzabile.
(P. Maranini, Miseria dell’opulenza, Il Mulino, Bologna 1989)
[Paolo Maranini è un sociologo italiano che studia la condizione dell’uomo nella società della tecnica e il
conseguente controllo sociale, l’impatto delle trasformazioni tecnologiche sulla cultura e le risorse naturali.]
❱❱ 4.La teoria dell’attore
Per teoria dell’attore intendo una teoria capace di spiegare e di preve­dere i modi in
cui un individuo, partecipe d’uno o più sistemi sociali, ha agito o agirà in situazioni
differenti, in presenza di differenti parametri iniziali della sua condizione, includendo, tra questi ultimi, stati interni quali emozioni, bisogni, scopi, valori, schemi interpretativi, processi di ra­gionamento. Una teoria del genere parrebbe dover essere un
elemento co­stitutivo d’ogni teoria sociologica, in specie di quella che molti considerano pur sempre la teoria che meglio caratterizza la nostra disciplina, ovvero la teoria
dei sistemi sociali. Priva d’una teoria dell’attore, la teoria del siste­ma sociale si trasforma implicitamente in una sorta di behaviorismo acri­tico. Le situazioni, i dati
socioanagrafici, le affiliazioni di classe di partito o di cultura si configurano come
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input in una scatola nera, il cui contenu­to ignoto rappresenta appunto l’attore mancante, e dalla quale fuoriescono a titolo di output scioperi e voti, migrazioni e comportamenti devianti, pratiche religiose e ideologie.
In tal modo, anziché modellizzato consapevolmente come titolare del­l’iniziativa di
agire, l’attore viene inferito a posteriori tramite l’analisi sta­tistica dei risultati delle
sue azioni e razionalizzazioni. In assenza d’un mo­dello di soggetto agente cui riferirsi, l’analisi risulta orbata di incidenza cri­tica in due direzioni: verso il modello, che
in quanto assente non può ve­nire modificato, rettificato, fatto evolvere ponendolo a
fronte degli esiti delle predizioni e postdizioni in base ad esso formulate; e verso se
stessa, poiché qualsiasi predicato, desunto dai suoi calcoli, appare plausibile quan­do
il soggetto sia, com’è, totalmente indeterminato. Non è questa l’ulti­ma ragione della
scarsa cumulabilità delle ricerche sociologiche, che si av­verte nella sociologia italiana forse più che in ogni altra sociologia nazio­nale.
Una teoria dell’attore possiede una precisa rilevanza anche sul piano epistemologico.
Uno dei maggiori esiti dell’epistemologia del Novecento è consistito nel porre in luce
le interrelazioni che sussistono tra osservatore e oggetto osservato. In base a tali esiti
si conviene che non solo le osser­vazioni dipendono dal sistema di coordinate dell’osservatore, ma la descri­zione dell’oggetto osservato, sia esso un atomo, l’universo o
qualsiasi og­getto intermedio, riveste un senso solamente se è collegata in modo espli­
cito ad una descrizione dell’osservatore. Nell’analisi sociologica il proble­ma si raddoppia. A fronte dei sistemi socioculturali in cui è inserito, il sog­getto agente si pone
come un osservatore, il quale dovrebbe dunque venire descritto al solo scopo di poter
comprendere i sistemi che osserva. Tale de­scrizione non può avere altra forma che
una teoria dell’attore, un elemento portante della quale sono le rappresentazioni nella
mente dell’attore dei si­stemi sociali di cui fa parte o ai quali si riferisce.
D’altra parte, a fronte del soggetto agente è il sociologo che si pone co­me osservatore. Al fine di conferire un senso stabile alle proprie operazioni osservative, egli dovrebbe descrivere compiutamente se stesso, ma per far­lo necessita di una teoria
della costituzione dell’oggetto che specificamente osserva; oppure può affermare,
sebbene con qualche rischio, di essere un osservatore allo stesso titolo in cui lo è
l’attore che osserva. In ambedue i casi la mancanza d’una teoria locale del soggetto,
che in ragione della sua localizzazione socioculturale conviene specificare come attore, porta l’a­nalisi sociologica a ignorare questa doppia mediazione cognitiva, e a
rica­dere quindi sui sistemi oggetto come datità autonomamente costituite – illusione
tipica del realismo ingenuo, benché talora avvolta in panni idea­listici. […] Una teoria
dell’azione risulta in genere vincolata all’am­bito delle spiegazioni a posteriori degli
eventi osservati, poiché uno dei ca­ratteri essenziali dell’azione umana consiste nel
decidere caso per caso qual è il referente verso il quale si orienterà l’azione; ma per
comprendere simi­le processo di decisione è necessaria una teoria globale del soggetto agente, ovvero dell’attore. Le smentite, le sorprese alle quali sembra perennemen­
te esposta la spiegazione sociologica sono dovute in notevole misura al non uso d’una
teoria dell’attore.
(Luciano Gallino, L’attore sociale, Einaudi, Torino 1987)
[Luciano Gallino (1927) è uno dei più autorevoli sociologi italiani. Accanto alla teoria dell’attore sociale,
ricordiamo i suoi studi nel campo del lavoro e dell’economia, con particolare riferimento alle conseguenze
dello sviluppo delle nuove tecnologie, sia nel campo della produzione che della comunicazione.]
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❱❱ 5.L’era di Frankenstein
Nel suo romanzo Il mondo nuovo Aldous Huxley aveva profetizzato la fabbricazione
in serie di esseri umani. In contenitori di laboratorio, gli embrioni si sarebbero sviluppati secondo la propria futura funzione nella scala sociale, dagli alfa destinati al
comando fino agli epsilon prodotti per la servitù.
Settanta anni dopo la biogenetica ci promette, come regalo del nascente millennio, una
nuova razza umana. Cambiando il codice genetico delle generazioni future, la scienza
produrrà esseri intelligenti, belli, sani, magari immortali, a seconda del prezzo che ogni
famiglia potrà pagare. James Watson, premio Nobel, all’origine della struttura del DNA
e capo del progetto genoma umano, ci predice l’avvento del dispotismo scientifico.
Watson rifiuta qualsiasi limite alla manipolazione delle cellule riproduttrici umane:
non ci deve essere «nessun limite né alla ricerca né al commercio». Ed aggiunge senza esitazioni «dobbiamo restare entro i limiti delle leggi e dei regolamenti esistenti».
Gregory Pence, che tiene la cattedra di etica medica nell’università dell’Alabama,
rivendica il diritto dei genitori a scegliersi quali figli avere, «nello stesso modo con
cui gli allevatori realizzano incroci alla ricerca del cane più adatto per la famiglia».
E l’economista Lester Thurow, del Massachusetts Institute of Technology, si chiede
chi potrebbe rifiutarsi di programmare un figlio con elevato coefficente intellettuale.
«Se non lo fa lei – avverte – lo faranno i suoi vicini, e suo figlio sarà il più stupido
del quartiere».
Se la fortuna ci accompagna, le maternità del futuro genereranno superbimbi uguali
a questi geni. Il miglioramento della specie non richiederà più i forni a gas dove la
Germania ha purificato la razza, né la chirurgia che gli Stati Uniti, la Svezia e altri
paesi hanno applicato per evitare di riprodurre i prodotti umani di cattiva qualità. Il
mondo fabbricherà persone geneticamente modificate, come già fabbrica alimenti
geneticamente modificati.
2001, odissea nello spazio: già siamo nel 2001 e già ci nutriamo di cibi chimici, come
aveva annunciato oltre trent’anni fa il film di Stanley Kubrick. Oggi i giganti dell’industria chimica ci danno da mangiare. Questione di sigle: dopo il Ddt e il Pcb, che
finalmente sono stati proibiti – da anni si sapeva che causavano più cancro che felicità – è arrivato il turno dei Gm, gli alimenti geneticamente modificati. Da Stati
Uniti, Argentina e Canada i Gm invadono il mondo intero, e siamo tutti porcellini
d’India in questo esperimento gastronomico dei grandi laboratori.
In realtà, non sappiamo nemmeno cosa mangiamo. Tranne poche eccezioni, le etichette dei contenitori non ci avvertono se contengono ingredienti che hanno subito la
manipolazione di uno o vari geni. Monsanto, il più grande fornitore in questo campo,
non dà nessuna indicazione a proposito. Anche quando si tratta di latte che proviene
da mucche che sono state trattate con degli ormoni transgenici della crescita.
Secondo Lancet, giornale internazionale di servizi sulla salute, e secondo altre pubblicazioni scientifiche, questi ormoni favoriscono il cancro della prostata e del seno,
ma la FDA (Food and Drug Administration) degli Stati Uniti ne autorizza la vendita
senza nessuna menzione speciale sull’etichetta perché, in fin dei conti, questi ormoni
accelerano la crescita, aumentano il rendimento e di conseguenza la redditività.
Spazio alle priorità! E la prima è quella della salute sull’economia! In tutti i casi,
quando Monsanto è obbligata a confessare quello che vende, come per esempio nel
caso degli erbicidi, questo non cambia molto le cose. Qualche anno fa Monsanto ha
dovuto pagare una multa per avere fatto 75 false dichiarazioni sulle etichette dei bidoni dell’erbicida Round-Up. 3000 dollari americani per ogni falsa etichetta.
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Gli europei sono gli unici a difendersi, o almeno a cercare di difendersi. In Europa,
l’importazione di prodotti di ingegneria genetica è proibita in certi casi e in altri sottomessa a controllo. Dal 1998 l’Unione europea esige delle etichette chiare per la soia
geneticamente modificata ma è molto difficile mettere in pratica queste buone risoluzioni. La traccia si perde nelle manipolazioni successive: secondo Greenpeace, la soia
OMG è presente già nel 60% di tutti gli alimenti messi in vendita nel mondo intero.
Nelle manifestazioni ecologiste, un pesce gigante tiene un cartello con scritto: «Non
toccate i miei geni», al suo fianco un pomodoro gigante chiede la stessa cosa. Nel
mondo intero la protesta cresce. L’atteggiamento europeo è il risultato della pressione dell’opinione pubblica. Quando i contadini francesi distrussero dei campi di piante transgeniche a causa della nocività di questi prodotti per l’ecosistema, José Bové
diventò un eroe nazionale e dichiarò: «Noi altri consumatori e contadini, nessuno ci
ha mai consultato riguardo a questo. Mai!».
Lo Stato francese, che l’aveva fatto arrestare, ritirò l’autorizzazione concessa per la
coltivazione del mais inventato transgenico. Poco tempo dopo, l’impresa americana
Kraft Foods dovette ritirare milioni di Tortillas di mais della marca Taco Bell in seguito alle denunce dei consumatori che erano stati vittime di allergie.
Durante questo tempo, Madeleine Allbright, ex ministro degli affari esteri degli USA,
diceva e ripeteva in Europa che non c’era nessuna prova che gli alimenti geneticamente modificati fossero nocivi alla salute o all’ambiente. Gli europei hanno anche
altri motivi per non avere fiducia nelle piroette tecnocratiche sulla tavola da pranzo.
Sono ancora scottati dalla loro recente esperienza con la mucca pazza. Mentre ruminavano foraggio e erba medica, durante migliaia di anni, le mucche si erano comportate con buon senso esemplare e avevano accettato rassegnate il proprio destino. E fu
così, finché il folle sistema che ci dirige decise di obbligarle al cannibalismo. Le
mucche mangiarono mucche, ingrassarono di più, garantirono all’umanità più carne
e più latte, furono festeggiate dai padroni e applaudite dal mercato – e, di passaggio,
impazzirono. Il fatto diede origine a parecchie battute di spirito, finché cominciò a
morire la gente. Un morto, dieci, venti, cento...
Nel 1996 il Ministero inglese della Sanità informava la popolazione che il sangue e
le gelatine animali erano degli alimenti senza pericolo per il bestiame e inoffensivi
per gli esseri umani.
(Eduardo Galeano, «L’era di Frankenstein», il Manifesto, 10 gennaio 2001)
[Eduardo Galeano (1940): scrittore e giornalista uruguaiano, si occupa di problemi sociali e politici legati
alla globalizzazione e al neocolonialismo.]
❱❱ 6.Avalutatività
Si può dire che il concetto di avalutatività stia alla base della sua posizione, che si contrappone radicalmente alle altre tre con le quali Weber dissentiva. Dal punto di vista
storicistico, lo studioso era talmen­te radicato alla sua posizione culturale che la possibilità di trascenderla a favore di un nuovo livello di obbiettività era certamente problematica. Dal punto di vista marxista questo radicamento in un sistema sociocultu­rale
restava, ma era aggravato dall’impegno del movimento in favore del­l’azione politica
in nome dell’attuazione delle vedute dottrinali sull’ini­quità del capitalismo e delle
glorie future del socialismo. Il caso dell’uti­litarismo è un po’ più complesso, ma non
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veniva tracciata nessuna linea netta fra i fondamenti dell’obbiettività nel giudizio empirico da un lato è la difesa di determinate linee politiche dall’altro, perché quest’ultimo
problema era ridotto completamente al livello delle preferenze puramente individuali.
In contrasto con ciascuna di queste tre posizioni, quella di Weber si trova ad un livello di differenziazione molto più alto. Non è una pre­tesa che lo scienziato sociale si
astenga da qualsiasi impegno valutativo: ciò è messo perfettamente in chiaro dalla
posizione presa in Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione). La tesi è
piuttosto che nel suo ruolo di scienziato lo studioso deve dare il primato ad un particolare sottosistema di valori nel quale i risul­tati cercati del processo di indagine sono
da un lato la chiarezza, coeren­za e generalità dei concetti, e dall’altro la correttezza e
verificabilità em­piriche. Ma lo scienziato non è mai l’uomo totale e la comunità
scientifica non è mai la società totale. È inconcepibile che una persona o una socie­tà
si esauriscano in questi termini e che debbano esserci un uomo o una società «totalmente» economici. In ruoli individuali diversi e in altri sottosistemi della società
prevalgono naturalmente altre componenti di valore. Io interpreto dunque l’avalutatività come libertà di perseguire i valori della scienza entro i limiti rilevanti, senza che
su questi si sovrap­pongano valori contraddittori o irrilevanti rispetto a quelli dell’indagine scientifica. Questo comporta allo stesso tempo la rinuncia di qualsiasi pre­tesa
da parte dello scienziato a difendere, nella sua qualità di scienziato, delle posizioni di
valore che abbiano una base di significato sociale e culturale più ampia di quella
della sua scienza. Così dal punto di vista di Weber una espressione come «socialismo
scientifico» è inaccettabile quanto lo sarebbe quella di «scienza cristiana» se il termine scienza vi fosse inteso nel senso empirico. Gli orientamenti di condotta dei movi­
menti politici non sono mai semplici applicazioni di conoscenza scientifica, ma implicano sempre delle componenti di valore che sono analiticamente indipendenti
dalle scienze naturali o sociali. L’avalutatività implica inol­tre per la scienza la possibilità di non essere vincolata ai valori di una qualunque cultura storica particolare.
(Talcott Parsons, Teoria sociologica e società moderna,
Etas Kompass, Milano 1971)
❱❱ 7.L’osservazione dei fatti sociali
La prima regola, quella fondamentale, è di «con­siderare i fatti sociali come delle
cose».
Al momento nel quale diventa oggetto di scienza un nuovo ordine di fenomeni, questi si trovano già rappresentati nello spirito non soltanto mediante immagini sensibili, ma grazie a delle specie di concetti grossolanamente formati. Anteriormente ai
primi rudi­menti della fisica e della chimica, gli uomini avevano già – sui fenomeni
fisico-chimici – delle nozioni che superavano la pura percezione; tali sono, per esempio, quelle che traviamo mescolate a tutte le religioni. Gli è che, effettivamente, la
riflessione è anteriore alla scienza che non fa che servirsene con maggior metodo.
L’uomo non può vivere in mezzo alle cose senza far­sene delle idee in base alle quali
regola il suo comportamento. Soltanto, poiché queste nozioni sono più vici­ne a noi e
più a nostra portata delle realtà alle quali corrispondono, tendiamo naturalmente a
sostituirle a queste ultime ed a farne la materia stessa delle nostre speculazioni.
Invece d’osservare le cose, di descriverle, di para­gonarle, noi ci accontentiamo allora di prendere co­scienza delle nostre idee, di analizzarle, di combinarle. […] Non è
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
dunque elaborandole, in qualsiasi maniera, che si arriverà a scoprire le leggi della
realtà. Queste sono, al contrario, come un velo che si interpone tra le cose stesse e
noi, e che ce le maschera tanto meglio quanta più lo crediamo trasparente.
Non soltanto una tale scienza non può essere che mutilata, ma ancora manca di materia che la possa ali­mentare. Appena esiste, sparisce – per così dire – e si trasforma
in arte. Infatti, queste nozioni sono sup­poste contenere quanto v’è di essenziale nella
realtà, dato che vengono confuse colla realtà stessa. […] Questo sconfinamento
dell’arte sulla scienza, che impedisce a questa ultima di svilupparsi, è, d’altronde,
facilitato dalle stesse circostanze che determinano il risveglio della riflessione scientifica. Perché, siccome questa non nasce che per soddisfare delle necessità vi­tali, si
trova naturalmente orientata verso la pratica. I bisogni che essa è chiamata a soddisfare sono sempre urgenti e, di conseguenza, la spingono a concludere; essi reclamano non delle spiegazioni, ma dei rimedi.
Questa maniera di procedere è così conforme all’in­clinazione naturale del nostro
spirito, che la si ritrova persino all’origine delle scienze fisiche. È lei che diffe­renzia
l’alchimia dalla chimica, come l’astrologia dal­l’astronomia. È per suo mezzo che
Bacone caratterizza il metodo che seguivano i dotti del suo tempo e che egli combatte. Le nozioni delle quali abbiamo parlato sono quelle «notiones vulgares» o «praenotiones» che egli segnala alla base di tutte le scienze, dove prendano il posto dei
fatti. Sono questi «idola», una specie di fantasmi che ci sfigurano il vero aspetto
delle cose e che noi prendiamo tuttavia per le cose stesse. [...]
Se questo è avvenuto colle scienze naturali, a mag­gior ragione lo stesso doveva avvenire per la sociologia. Gli uomini non hanno atteso l’avvento della scienza sociale
per farsi delle idee sul diritto, sulla morale, sulla famiglia, sullo Stato, sulla società
stessa; perché non potevano farne a meno per vivere. Ora, è soprattutto in sociologia
che queste prenozioni – per riprendere l’espressione di Bacone – sono in condizioni
di domi­nare gli spiriti e di sostituirsi alle cose. Infatti, le cose sociali non si realizzano che per il tramite degli uomini; sono un prodotto dell’attività umana. Non sembrano quindi esser altro che la messa in opera di idee, innate o no, che noi partiamo
dentro di noi; non altro che la loro applicazione alle differenti circostanze che accom­
pagnano i rapporti degli uomini tra loro. L’organizza­zione della famiglia, del contratto, della repressione, dello Stato, della Società appaiano perciò come un sem­plice
sviluppo delle idee che noi abbiamo della Società, dello Stato, della giustizia ecc. Di
conseguenza, questi fatti ed altri loro analoghi sembrano non possedere una realtà
che dentro e per le idee che ne sono il germe e che diventano, quindi, la materia propria della sociologia.
Quello che finisce di fare completamente credito a questa maniera di vedere è il fatto
che il particolare della vita sociale sconfina in tutti i sensi oltre i limiti della coscienza, e questa non ne ha una percezione sufficientemente netta per sentirne la realtà.
Non aven­do dentro di noi dei legami abbastanza solidi né abba­stanza stretti, tutto
questo ci fa, con sufficiente facilità, l’effetto di non avere una base e di galleggiare
nel vuoto, materia semi-irreale e indefinitamente plastica. Ecco perché tanti uomini
di pensiero non hanno veduto negli ordinamenti sociali che delle combinazioni artificiali e più o meno arbitrarie, Ma se il particolare, se le forme concrete e circostanziate ci sfuggono, almeno noi ci rappresentiamo all’ingrosso e approssimativamente
gli aspetti più generali dell’esistenza collettiva, e sono pre­cisamente queste rappresentazioni schematiche e som­marie che costituiscono le prenozioni delle quali noi ci
serviamo per gli usi correnti della vita. Non possiamo quindi immaginare di mettere
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
in dubbio la loro consistenza, poiché la percepiamo nello stesso tempo della nostra.
Non soltanto esse sono in noi, ma, siccome sono un prodotto di esperienze ripetute,
acquistano dalla ri­petizione e dall’abitudine che ne risulta una specie d’ascendente e
di autorità. Le sentiamo resisterci quan­do cerchiamo di liberarcene. Ora, noi non
possiamo evitare di guardare come reale quello elle si oppone a noi. Tutto contribuisce quindi a farci vedere la vera realtà sociale.
Effettivamente, fino ad oggi, la sociologia ha più o meno esclusivamente trattato non
delle cose, ma dei concetti. Comte, è vero, ha proclamato che i fenomeni sociali sono
dei fatti naturali, sottoposti alle leggi natu­rali. Con questo ha implicitamente riconosciuto il loro carattere di cose. Perché non vi sono che delle cose nella natura. Ma
quando, uscendo da queste generalità filosofiche, egli tenta d’applicare il principio e
dedurre la scienza che vi era contenuta sono le idee che egli prende per oggetto di
studio. Infatti, quello che forma soprattutto la materia principale della sua sociologia,
è il progresso dell’umanità nel tempo. Parte dall’idea che si ha un’evoluzione continua
del genere umano, consistente in una realizzazione sempre più completa della natura
umana, ed il problema che egli tratta è la ricerca della legge di questa evoluzione.
Ora, anche supponendo che questa evoluzione esi­sta, la realtà sua non può essere
stabilita che dopo la creazione della scienza. Non si può quindi farne l’oggetto stesso
della ricerca se la si considera come una concezione dello spirito, non come una cosa.
[…] Viceversa i fenomeni sociali sono delle cose e devono essere trattati come delle
cose.
(Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico,
Newton Compton, Roma 1971)
❱❱ 8.Des Esseintes a Parigi
Il suo disprezzo per l’umanità aumentò; si accorse che il mondo, per la maggior parte, è composto di sacripanti e di imbecilli. Non aveva più alcuna speranza di trovare
in altri le sue stesse aspirazioni e ripugnanze, di incontrare un’intelligenza che, al pari
della sua, si compiacesse in una studiosa decrepitezza, di unire uno spirito acuto e a
tutto rilievo come il suo a quello di uno scrittore o di un letterato. […] Durante l’ultimo mese del suo soggiorno a Parigi, quando, deluso di tutto, abbattuto dall’ipocondria, schiacciato dallo spleen, era giunto a una tale sensibilità nervosa che la vista di
un oggetto o di un essere spiacevole si imprimeva profondamente sul suo cervello e
occorrevano parecchi giorni per cancellarne anche leggermente l’impronta, il volto
umano appena intravisto per via era stato uno dei suoi più lancinanti supplizi.
In realtà soffriva alla vista di certe fisionomie, considerava quasi come un insulto le
espressioni pater­ne o burbere di alcuni volti, sentiva una gran voglia di prendere a
schiaffi quel tale che bighellonava chiudendo le palpebre con aria saputa, quell’altro
che si dondolava sorridendo alla sua immagine davanti alle vetrine, quell’altro ancora che sembrava mettere sossopra un mondo di pensieri mentre divorava, con le sopracciglia contratte, tartine e fatti diversi di un giornale.
Fiutava là sotto una così inveterata stupidaggine, una tale esecrazione per le sue proprie idee, un tal disprezzo per la letteratura, per l’arte, per tutto quello che lui adorava,
bene impiantati in quegli stretti cervelli di bottegai, preoccupati solo di far birbanterie
e di far soldi, accessibili solo a quella bassa distra­zione degli spiriti mediocri che è la
politica, che rientrava in casa pieno di rabbia e si chiudeva a chiave con i suoi libri.
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
Infine odiava con tutte le sue forze le nuove generazioni, figliate di ignobili tangheri
che hanno il bisogno di parlare e di ridere forte nei ristoranti e nei caffè, che vi urtano senza domandarvi scusa sui marciapiedi, che vi gettano tra le gambe, senza il
minimo cenno di scusa o di saluto, le ruote di una carrozzina da bambini.
(Joris-Karl Huysmans, A ritroso, Rizzoli, Milano 1997)
[Joris-Karl Huysmans (1848-1907). Scrittore francese, esponente del decadentismo.]
❱❱ 9.Il lavoro nel Medioevo
Scomparso Carlo Magno, il centro culturale dell’Im­pero non è più la corte. Scienza,
arte, letteratura vengo­no ormai dai conventi; nelle loro biblioteche, nei loro scriptoria
e nelle loro officine si compie la parte più im­portante della produzione intellettuale.
Alla loro dili­genza e alla loro ricchezza, l’arte dell’Occidente cristiano deve la sua
prima fioritura. Moltiplicatisi i centri cultu­rali per lo sviluppo dei conventi, le tendenze artistiche cominciano a differenziarsi nettamente. Non si deve cre­dere che i monasteri fossero del tutto isolati; servivano a collegarli, se pur non molto strettamente, la
comune dipendenza da Roma, l’influsso generale del monachesi­mo irlandese e anglosassone e, più tardi, le congregazio­ni di riforma degli ordini. Già il Bédier ha accennato ai loro contatti col mondo laico e alla loro funzione nei pellegrinaggi, in cui
fungono da punti d’incontro fra pel­legrini, mercanti e giullari. Ma nonostante questi
rap­porti con l’esterno, i conventi restano unità sostanzial­mente autonome, raccolte in
se stesse, e più tenacemente fedeli alle loro tradizioni di quel che non fosse prima la
corte, sensibile al variare delle mode, o di quel che sarà, più tardi, la società borghese.
La regola benedettina prescriveva il lavoro manuale come quello intellettuale, e metteva l’accento soprattut­to sul primo. Come il feudo, così il convento cercava di sviluppare per quanto possibile un’economia autarchica, producendo tutto il necessario.
L’attività dei monaci si estendeva dal lavoro nei campi e negli orti all’artigia­nato. Fin
dal principio i lavori più pesanti furono sbrigati in gran parte dai contadini liberi e
dai servi e, più tardi, anche dai frati laici; ma l’artigianato, specie nei primi tempi, era
esercitato soprattutto dai monaci; e proprio attraverso l’organizzazione del lavoro
artigiano il monachesimo ha esercitato il più profondo influsso sullo sviluppo dell’arte e della cultura medievale. Se la produ­zione artistica procede in forma più ordinata,
con una certa divisione del lavoro, con metodi più o meno razio­nali, e se anche elementi della classe superiore attendono al suo esercizio, è tutto merito degli ordini
monastici. È noto che nei conventi dell’alto Medioevo prevalevano gli aristocratici;
certi conventi erano quasi esclusivamente riservati a loro. Così persone che altrimenti non avreb­bero mai preso in mano un pennello sporco, uno scal­pello o una cazzuola, entrarono direttamente in contatto con le arti figurative. Certo, il disprezzo per il
lavoro manuale è ancora molto diffuso nel Medioevo, e l’idea del «signore» resta a
lungo inscindibile da quella della vita oziosa; ma non c’è dubbio che ora, contrariamente a quel che accadeva nell’antichità, accanto alla vita si­gnorile, legata a un ozio
illimitato, anche la vita labo­riosa acquista un suo valore positivo, e questo nuovo
atteggiamento verso il lavoro si ricollega, fra l’altro, alla popolarità della vita monastica. Ancora nel tardo Medio­evo, nell’etica borghese del lavoro, quale si esprime, ad
esempio, negli statuti delle corporazioni, riecheggia lo spirito della regola conventuale. Non si può dimenticare, d’altronde, che nei conventi il lavoro viene ancora
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con­siderato, in parte, come penitenza e punizione; e an­che san Tommaso parla di
viles artifices (Comm. in Polit., 3. I. 4). Di una nobilitazione della vita ad opera del
lavoro non è ancora possibile parlare.
Dai monaci l’Occidente ha appreso a lavorare con me­todo; l’industria del Medioevo
è in gran parte opera lo­ro. Gli artigiani, ancora abbastanza numerosi nelle città come
eredi dell’antica industria romana, lavorarono – fino alla rinascita dell’economia
urbana – in limiti molto modesti, e diedero uno scarso contributo allo sviluppo delle
tecniche industriali. Certo, artigiani specializzati erano attivi anche presso le corti
palatine e nei maggiori feudi; ma essi appartenevano alla casa del re o alla ser­vitù, e
il loro lavoro conservava un carattere di attività domestica, ispirata alla tradizione
piuttosto che a finalità razionali. Solo nei conventi l’artigianato si svincola dall’ambito domestico. È nei conventi che si apprende a far economia di tempo, a dividere e
utilizzare razional­mente la giornata, a misurare lo scorrere delle ore e ad annunciarle
col tocco della campana. La divisione del lavoro diventa il principio fondamentale
della produzio­ne.
(Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1955)
[Arnold Hauser (1892-1978) storico dell’arte d’origine ungherese.]
❱❱ 10.Il tao della fisica
Più si studiano i testi religiosi e filosofici degli Indù, dei Buddhisti e dei Taoisti, più
risulta evidente che in ognuno di essi il mondo è concepito in termini di movi­mento,
di flusso e di mutamento. Questa qualità dina­mica della filosofia orientale sembra
essere una delle sue caratteristiche più importanti. I mistici orientali vedono l’universo come una rete inestricabile, le cui intercon­nessioni sono dinamiche e non statiche:
Questa rete cosmica è viva: si muove, cresce e muta continuamente. Anche la fisica
moderna è giunta a concepire l’universo come una siffatta rete di relazioni e, come il
misticismo orientale, ha riconosciuto che questa rete è intrinseca­mente dinamica. […]
La fisica moderna, quindi, rappresenta la materia non come passiva e inerte, bensì in
una danza e in uno stato di vibrazione continui, le cui figure ritmiche sono determinate dalle strutture molecolari, atomiche e nu­cleari. Questo è anche il modo in cui i
mistici orientali vedono il mondo materiale. Essi sottolineano tutti che l’universo deve
essere afferrato nella sua dinamicità, mentre si muove, vibra e danza; che la natura
non è in equilibrio statico ma dinamico. Per usare le parole di un testo taoista: «La
quiete in quiete non è la vera quiete. Soltanto quando c’è quiete in movimento può
apparire il ritmo spirituale che pervade cielo e terra».
In fisica ci accorgiamo della natura dinamica dell’u­niverso non soltanto quando
scendiamo alle piccole dimensioni – al mondo degli atomi e dei nuclei – ma anche
quando ci rivolgiamo alle dimensioni molto grandi, al mondo delle stelle e delle
galassie. Mediante i nostri potenti telescopi osserviamo un universo in moto incessante: nubi di gas idrogeno in rotazione si contrag­gono per formare stelle, riscaldandosi durante questo processo fino a diventare fuochi che ardono nel cielo. Quando
hanno raggiunto quello stadio, esse continuano ancora a ruotare, ed alcune emettono
nello spazio mate­riali che si muovono a spirale verso l’esterno e si conden­sano in
pianeti, i quali ruotano a loro volta attorno alla stella. Infine, dopo milioni di anni,
quando la stella ha consumato la maggior parte del suo combustibile, costi­tuito da
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idrogeno, essa si espande e poi si contrae nuo­vamente nella fase finale dei collasso
gravitazionale. Durante questa fase di forte contrazione possono avve­nire esplosioni
gigantesche e la stella può persino tra­sformarsi in un buco nero. Tutte queste attività
– la formazione di stelle dalle nubi di gas interstellari, la loro contrazione e successiva espansione e il loro collasso finale – possono essere osservate effettivamente in
un qualche punto del cielo.
Queste stelle che ruotano, che si contraggono, che si espandono o che esplodono sono
raggruppate in galassie di forme svariate – dischi piatti, sfere, spirali, ecc. – che a loro
volta non sono in quiete ma ruotano. La nostra galassia, la Via Lattea, è un immenso
disco di stelle e gas che gira nello spazio come un’enorme ruota, cosicché tutte le sue
stelle – compreso il Sole e i suoi pianeti – si muovono intorno al centro della galassia.
In effetti, l’universo è pieno di galassie disseminate nell’intero spazio che riusciamo
ad osservare, e tutte sono in rota­zione come la nostra.
Quando studiamo l’universo nel suo insieme, con i suoi milioni di galassie; raggiungiamo la massima scala di spazio e tempo; e ancora una volta, a quel livello cosmico,
scopriamo che l’universo non è statico, bensì in espansione! Fu questa una delle più
importanti scoperte dell’astronomia moderna. Un’analisi precisa della luce, proveniente dalle galassie lontane ha rivelato che l’inte­ro complesso delle galassie si
espande e che lo fa seguen­do uno schema preciso: la velocità di recessione di ogni
galassia che osserviamo è proporzionale alla distanza della galassia stessa. Quanto
più essa è distante, tanto più velocemente si allontana da noi; se si raddoppia la distanza, raddoppia anche la velocità di rècessione. Ciò è vero non solo per le distanze
misurate a partire dalla nostra galassia, ma vale con qualsiasi punto di riferi­mento. In
qualunque galassia vi capitasse di trovarvi, osservereste le altre galassie allontanarsi
velocemente da voi: le galassie più vicine si allontanerebbero alla velocità di alcune
migliaia di chilometri al secondo, le più lontane a velocità superiori, e quelle lontanissime a velocità prossime a quella della luce. La luce delle galas­sie che si trovano
ancora più lontane non ci raggiungerà mai, in quanto esse si allontanano da noi più
velocemen­te della velocità della luce. La loro luce è, secondo le parole di Sìr Arthur
Eddington, «come un corridore su una pista in espansione con il traguardo che si
allontana più rapidamente di quanto egli riesca a correre».
Per formarci un’idea più precisa del modo in cui l’universo. si espande, dobbiamo
ricordare che lo sche­ma teorico adatto per studiarne le caratteristiche su larga scala è
là teoria generale della relatività di Ein­stein. Secondo questa teoria, lo spazio non è
«piatto», ma «curvo», e il modo preciso in cui esso è incurvato è legato alla distribuzione di materia secondo le equazioni einsteiniane del campo. Queste equazioni
possono esse­re usate per determinare la struttura dell’universo nel suo insieme: esse
sono il punto di partenza della cosmo­logia moderna. […]. L’universo si espande [in
questo] modo: qualunque sia la galassia nella quale un osservatore si trovi, tutte le
altre galassie si allontaneranno da lui. Viene spontaneo porsi la seguente domanda a
propo­sito dell’universo in espansione: in quale modo ha avuto inizio tutto ciò? Dalla
relazione tra la distanza di una galassia e la sua velocità di recessione – nota come
legge di Hubble – si può calcolare il momento iniziale dell’e­spansione, o, in altre
parole, l’età dell’universo. Suppo­nendo che non vi sia stata alcuna variazione nella
veloci­tà di espansione, il che non è affatto certo, si ottiene un’età dell’ordine di dieci
miliardi di anni. Questa, quindi, è l’età dell’universo. Oggi, la maggior parte degli
studiosi di cosmologia crede che l’universo sia venuto in essere in un drammatico
evento all’incirca dieci miliardi di anni fa, quando l’intera sua massa scaturì dall’esplo
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
sione di una piccola sfera di fuoco pri­mordiale. L’attuale espansione dell’universo è
vista come la spinta residua di questa esplosione iniziale. Secondo tale modello del
«big-bang» (grande esplo­sione), l’istante in cui avvenne questa gigantesca esplo­sione
segnò l’inizio dell’universo e l’inizio dello spazio e del tempo. Se vogliamo sapere
cosa c’era prima di quel momento, incontriamo nuovamente serie di difficoltà di
pensiero e di linguaggio. Come dice Sir Bernard Lovell: «Qui raggiungiamo la grande barriera del pensiero, perché cominciamo a lottare con i concetti di spazio e tempo prima che essi esistessero così come noi li conosciamo in base alla nostra esperienza quotidiana. Mi sento come se fossi improvvisamente entrato in un grande
banco di nebbia nel quale il mondo familiare è scomparso».
Per quanto riguarda il futuro dell’universo in espan­sione, le equazioni di Einstein non
forniscono una rispo­sta univoca, ma sono compatibili con parecchie soluzio­ni che
corrispondono a differenti modelli dell’universo.
Alcuni modelli prevedono che l’espansione continuerà per sempre; secondo altri,
l’espansione sta rallentando e alla fine diventerà una contrazione. Questi modelli de­
scrivono un universo oscillante, che si espande per mi­liardi di anni, poi si contrae fino
a quando la sua massa totale è concentrata in una piccola sfera di materia, quindi si
espande nuovamente e così via, in un processo senza fine.
Questa idea di un universo che periodicamente si espande e si contrae, nella quale
compare una scala di tempo e spazio di proporzioni enormi, è comparsa non solo
nella cosmologia moderna, ma era già presente nell’antica mitologia indiana. Gli Indù,
che percepiva­no l’universo come un cosmo organico e in movimento ritmico, furono
in grado di elaborare cosmologie evolu­tive che si avvicinano molto ai nostri modelli
scientifici moderni. Una di queste cosmologie è basata sul mito indù di lila – il gioco
divino – nella quale Brahman si trasforma nel mondo. Lila è un gioco ritmico che
conti­nua in cicli senza fine, durante i quali l’Uno diviene i molti e i molti ritornano
nell’Uno. Nella Bhagavad Gita, il dio Krsna descrive il gioco ritmico di creazione
con le seguenti parole: «Tutti gli esseri... alla fine di un kalpa [o ciclo cosmi­co] tornano alla mia realtà; e al principio del ciclo successivo di nuovo io li emetto.
«Avvalendomi di quella realtà che è la mia propria, sempre di nuovo emetto tutta
questa molteplicità di esistenti, priva di ogni potere, dal momento che giace sotto il
dispotismo della prakrti [o natura].
«E tali atti non mi vincolano neppure, o possessore della ricchezza, poiché io sto a
sedere come colui che non è impegnato, non essendo io condizionato da attacca­mento
in questi atti.
«Avendo me come guida, la natura dà origine all’in­sieme delle cose mobili e delle
immobili; con questo mezzo [per questa via]... il mondo si volge e di nuovo si volge».
I saggi indù non ebbero timore di identificare questo ritmico gioco divino con l’evoluzione del cosmo nel suo insieme. Essi ritenevano che l’universo si espandesse e si
contraesse periodicamente e diedero il nome di kalpa all’inimmaginabile intervallo
di tempo che va dall’inizio alla fine di una creazione. La grandiosità di questo antico
mito è in realtà impressionante: alla mente uma­na sono occorsi più di duemila anni
per arrivare di nuovo a un concetto simile.
(Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1982)
[Fritjof Capra (1939). Fisico austriaco, studia le implicazioni filosofiche della scienza moderna mettendo in
luce l’armonia tra la saggezza orientale e le concezioni più recenti della scienza occidentale, i temi ecologici dello sviluppo sostenibile e della complessità.]
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❱❱ 11.La nascita del mercato mondiale
A partire dal XVI secolo, si formò nell’area atlantica un grande cir­cuito commerciale, noto come «commercio triangolare», imper­niato sulla tratta degli schiavi africani.
Il circuito comprendeva tre di­stinti tratti, collegati l’uno all’al­tro: tessili e altri manufatti (in ge­nere di bassa qualità) venivano in­viati dall’Europa all’Africa per es­sere
scambiati con schiavi; gli schiavi venivano inviati dall’Afri­ca alle Americhe, dove
erano ven­duti per acquistare prodotti agricoli e metalli; tali prodotti, frutto del lavoro
degli schiavi nelle pian­tagioni e nelle miniere, venivano inviati dalle Americhe in
Europa per essere venduti sui mercati na­zionali.
Chi gestiva quest’ultimo tratto del commercio triangolare realiz­zava i profitti maggiori. Con lo sviluppo del circuito si formarono, però, compagnie mercantili che, a
differenza dei singoli mercanti e delle compagnie minori, erano in grado di gestire
tutti e tre i tratti del commercio triangolare.
In Inghilterra, le cui sole impor­tazioni di zucchero dalle Indie oc­cidentali si quintuplicarono tra il 1720 e la fine del secolo, la famiglia Cunliffes di Liverpool allestì nel
1753 quattro navi, che effettuava­no due o tre viaggi all’anno lungo lo stesso circuito.
Raggiunta l’A­frica occidentale, le merci che era­no a bordo venivano scambiate con
schiavi. Quindi gli schiavi, in media 1210 per viaggio, erano tra­sportati e venduti
nelle Indie occi­dentali e in Nord America. Infine, le navi rientravano a Liverpool ca­
riche di zucchero e altri prodotti, acquistati col ricavato della vendi­ta degli schiavi.
Grazie al commer­cio triangolare, il traffico registra­to nel porto di Liverpool passò da
circa 18mila tonnellate nel 1719 ad oltre 260mila nel 1792.
Mercanti come i Cunliffes realiz­zavano in tal modo profitti anche del 300%, che
permettevano loro di accumulare colossali fortune. L’espressione «ricco come un
West Indian» diventò di uso corrente per indicare chi si era arricchito con il commercio delle Indie occi­dentali. I più facoltosi – come Samuel Fludyer, la cui fortuna
venne valutata nel 1767 in circa 900mila sterline, e William Beckford, dive­nuto nel
1770 sindaco di Londra­non lesinavano mezzi per acqui­stare un seggio in parlamento. A causa delle forti rivalità da parte degli aristocratici, solo pochi (ap­pena dodici
nel 1761) riuscirono ad arrivarvi, ma essi rappresenta­vano il gruppo politico che con­
centrava nelle proprie mani una crescente ricchezza, soprattutto sotto forma di denaro liquido.
Il commercio triangolare creava così, in Inghilterra e in altri paesi europei, le condizioni di una profonda trasformazione economica, sociale e politica: la borghesia
mercantile e bancaria (le cui radici affondavano nel Medioevo), avva­lendosi della
crescente forza eco­nomica che andava acquisendo con lo sviluppo del capitalismo
mercantile, dava la scalata al pote­re politico, in cui predominava l’a­ristocrazia.
Sempre a partire dal XVI secolo, il collegamento dell’area commercia­le atlantica con
quella asiatica, tra­mite l’Europa, determinava la for­mazione di una rete mercantile
che copriva tutti i continenti e, quindi, la nascita di un mercato mondiale.
La novità di tale mercato consi­steva non tanto nella sua estensio­ne: il commercio
intercontinentale era stato praticato, pur in misura minore, sin dall’antichità. Essa
con­sisteva soprattutto nel fatto che, al­la sua base, c’era lo sfruttamento coloniale
delle risorse umane e ma­teriali, esercitato dalle potenze eu­ropee in America, Africa
e Asia, praticamente su scala planetaria.
Ciò rendeva possibile in Europa un nuovo tipo di accumulazione, sia da parte della
nobiltà che dete­neva il potere politico, sia da parte della borghesia in fase di ascesa:
la loro ricchezza, infatti, non pro­veniva più solo dalla fonte tradi­zionale – il lavoro
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
dei contadini e degli artigiani – ma, in misura crescente, dallo sfruttamento delle
colonie d’oltremare e dal controllo delle principali rotte commerciali.
Furono l’oro e l’argento delle Ame­riche a determinare in Europa la pri­ma grande
trasformazione economi­ca: essi si convertirono in domanda di beni di consumo e
strumentali (tessili, derrate alimentari, armi, na­vi) che stimolarono la produzione industriale.
Lo sviluppo del commercio trian­golare e la conseguente formazio­ne di un mercato
mondiale provocarono un radicale mutamento nella geografia economica euro­pea: il
baricentro si spostò dal Me­diterraneo al Mare del Nord. Nel XV secolo, la regione
mediterra­nea era stata la più florida del mondo (con l’Italia centro-setten­trionale come
cardine) e nel XVI secolo aveva accresciuto la sua prosperità con le ricchezze affluite in Spagna e Portogallo dalle Ame­riche. Nel XVII secolo, invece, essa fu emarginata dallo sviluppo della regione del Mare del Nord, dovuto al prevalere della potenza econo­mica olandese e, successivamente, di quella inglese che le aveva strappato
la supremazia.
Allo stesso tempo, lo sviluppo del commercio triangolare e la for­mazione del mercato mondiale crearono in Europa le condizioni per un ulteriore cambiamento: la trasformazione capitalistica del sistema produttivo attraverso l’indu­strializzazione,
successivamente denominata «rivoluzione industriale», che iniziò in Inghilterra at­
torno alla metà del XVIII secolo. Fu lo sfruttamento coloniale delle ri­sorse umane e
materiali dell’Ame­rica, Africa e Asia, nel quadro del commercio triangolare e del
na­scente mercato mondiale, a creare la base economica (capitali, produ­zioni, mercati) che, unitamente ad altri fattori (anzitutto le continue innovazioni tecnologiche sin
dal Medioevo), determinò in Europa il passaggio dal capitalismo mercantile al capitalismo indu­striale e il conseguente sviluppo del processo di industrializzazione. Le
nuove colture (mais, patate, pomodori), portate in Europa dall’America meridionale,
e l’introdu­zione di nuove tecniche nella colti­vazione e nell’allevamento fecero aumentare la produzione agricola, migliorando il regime alimentare e incrementando
così la crescita de­mografica. Nelle campagne ingle­si venne a crearsi in tal modo, per
effetto dell’accresciuta produttivi­tà e dell’aumento della popolazio­ne, un esubero di
forza lavoro. Al­lo stesso tempo, soprattutto dopo il 1760, molti villaggi furono pri­vati
delle terre comuni, a causa delle leggi sulle recinzioni appro­vate dal parlamento.
Crebbe di conseguenza la manodopera a buon mercato che cercava sbocco nelle
miniere e nelle manifatture. Contemporaneamente, i lucrosi traffici del commercio
triangolare e l’aumento di produttività nelle campagne generarono una forte accumulazione di capitale che venne investito in misura crescen­te nella produzione mineraria e manifatturiera.
Puntando sul carbon fossile e sul ferro, l’Inghilterra imboccò la via della rivoluzione
industriale.
Ad avviare tale processo fu lo sviluppo, a livello industriale, del­la manifattura cotoniera. Intro­dotta nel XVII secolo in Inghilterra, dove già era diffusa quella la­niera col
sistema della produzione a domicilio, essa ebbe forte impul­so quando, nel 1701 e nel
1720, vennero varate alcune leggi che proibivano l’importazione dall’In­dia di un
tessuto in cotone stampa­to, detto calice.
Nella fase iniziale, l’industria co­toniera inglese si avvalse dei pro­cedimenti manuali
usati nella manifattura della lana e in quella del­la seta, la quale, pur limitata dall’alto
costo e dalla concorrenza continentale, si basava già su fab­briche e macchine a energia idrau­lica derivate da quelle italiane. Per questo i cotonifici furono costruiti per lo
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
più in vicinanza di corsi d’ac­qua nelle zone rurali. L’industria cotoniera, la cui forza
lavoro era costituita per la maggior parte da donne e bambini, si sviluppò rapi­damente
con il crescere della do­manda di manufatti di cotone. Ciò stimolò le innovazioni
tecnologi­che, come la navetta volante inven­tata nel 1733, il filatoio idraulico brevettato nel 1769 e quello a vapo­re introdotto attorno al 1790. Si de­terminò a questo
punto il passag­gio dallo stadio artigianale a quel­lo industriale, che portò alla nasci­ta
di grandi fabbriche in città dove il carbon fossile era a buon merca­to e la manodopera abbondante.
Il cotone grezzo da lavorare fu importato in misura crescente (da 500 tonnellate annue
agli inizi del Settecento a 2.500 nel 1770, a 25.000 alla fine del secolo) prima dall’India, quindi, attraverso il commercio triangolare, principal­mente dalle colonie britanniche nei Caraibi e in Nord America, an­che dopo che queste ultime si rese­ro indipendenti. Fu lo stesso cir­cuito a fornire all’industria coto­niera inglese gli sbocchi di merca­to
soprattutto quando, saturata la domanda interna, essa entrò in cri­si di stagnazione. I
tessuti a scac­chi di basso costo, fabbricati per la maggior parte con la materia pri­ma
prodotta nelle Americhe dagli schiavi africani, vennero espor­tati per l’80% in Africa
occidenta­le, dove erano scambiati con schia­vi, e per il 20% nelle Americhe, do­ve servivano a vestire la crescente popolazione di schiavi africani al lavoro nelle piantagioni.
(Manlio Dinucci, Il sistema globale, Zanichelli, Bologna 2004)
[Manlio Dinucci è il maggior studioso italiano di geopolitica: giornalista e autore di testi in cui affronta i
problemi della globalizzazione e del sistema economico che si è creato a seguito di questi processo.]
❱❱ 12.La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
Dal dualismo cartesiano all’idea di diritto naturale e più tardi all’ope­ra di Kant, i
secoli XVII e XVIII, malgrado la forza crescente del natu­ralismo e dell’empirismo
che preannunziano lo scientismo e il positivismo dell’Ottocento, restano fortemente
segnati, sul piano intellet­tuale, dalla secolarizzazione del pensiero cristiano, dalla
trasformazio­ne del soggetto divino in un soggetto umano, il quale è sempre meno
assorbito nella contemplazione di un essere viepiù nascosto, e diviene un attore, un
lavoratore e una coscienza morale.
Questo periodo si conclude con un grande testo: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, votata dall’Assemblea nazionale il 26 agosto 1789. La sua influenza ha superato quella delle dichiarazio­ni americane e il suo senso è ben diverso da
quello del Bill of Rights inglese del 1689. Questo testo è grande, non solo perché
proclama al­cuni principi in contraddizione con quelli della monarchia assoluta (prin­
cipi che, in questo senso, sono rivoluzionari), ma anche perché segna la conclusione
di due secoli di polemiche e dà all’idea dei diritti del­l’uomo un’espressione universale che contraddice l’idea rivoluziona­ria. La dichiarazione francese dei diritti si situa
alla congiunzione tra un periodo che fu dominato dal pensiero inglese e il periodo
delle ri­voluzioni che sarà dominato dal modello politico francese e dal pen­siero tedesco. È l’ultimo testo che proclama sulla scena pubblica la du­plice natura della
modernità, fatta al contempo di razionalizzazione e di soggettivazione, prima che per
un lungo secolo trionfino lo stori­cismo e il suo monismo.
Questo testo è stato identificato così strettamente con i principi della democrazia e
con il rovesciamento dell’Ancien Régime, in Francia e in molti altri paesi, che gli si
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
attribuisce, leggendolo con il rispetto che merita, un’unità che rende difficile la sua
comprensione. Così come la volontà di Clemenceau, nel 1889, di difendere l’eredità
della rivo­luzione tutta intera, in blocco, rendeva difficile, o addirittura impos­sibile,
l’analisi dei dieci anni che, partendo dalla proclamazione della sovranità popolare, si
conclusero con un colpo di stato militare. Si im­pone, al contrario, l’intreccio di due
temi contrapposti, quello dei di­ritti individuali e quello della volontà generale, che si
è soliti associare al nome di Locke il primo, di Rousseau il secondo, e con tanta forza che il problema centrale diventa quello di sapere cosa li unisca, cosa conferisca
unità e coerenza a questa dichiarazione. Abbiamo citato qui questo testo storico perché esso appartiene più al pensiero individuali­stico che al pensiero olista, per riprendere la contrapposizione formu­lata da Louis Dumont, giacché esso è segnato più
dall’influenza degli inglesi e degli americani che da quella dei patrioti francesi –
rappor­to di forze e di influenza che presto sarà rovesciato e farà trionfare una rivoluzione sempre più estranea e ostile all’individualismo dei di­ritti dell’uomo. In tal
senso questa dichiarazione segna la fine del pe­riodo prerivoluzionario, mentre invece
la dichiarazione del 1793 si situerà già pienamente entro la logica rivoluzionaria. La
preminenza del tema dei diritti individuali è chiaramente dimostrata dal preambolo
che pone i «diritti naturali inalienabili e sacri dell’uomo» a monte del sistema politico i cui «atti» in ogni istante potrebbero essere confron­tati al fine di ogni istituzione
politica, e dunque non possono essere valutati in riferimento all’integrazione della
società, al bene comune o a ciò che oggi chiameremmo interesse nazionale. L’articolo II enu­mera i principali diritti: libertà, proprietà, sicurezza e resistenza al­l’oppressione.
Il diritto di proprietà è precisato nell’articolo XVII, al quale si sono arrestati i lavori
dell’assemblea. L’articolo IV appartiene alla stessa logica individualistica. Ma, dinanzi all’uomo, si costruisce la figura del cittadino sin dal primo articolo, che afferma:
«Le distin­zioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune», e soprat­tutto
negli articoli III e VI, che pongono in primo piano le idee di na­zione e di volontà
generale. Queste due concezioni sono reciprocamente contrapposte, come osserva
Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto: «Se si confonde lo Stato con la società
civile e se lo si destina alla sicurezza e alla protezione della proprietà e della sicurezza personale, l’interesse degli individui in quanto tali è lo scopo supremo in vista del
quale essi sono riuniti e ne risulta che essere membri di uno Stato è facoltativo. Ma
il suo rapporto con l’individuo è ben altro se esso è lo spirito oggettivo; allora l’individuo stesso non ha oggettività, verità e moralità se non in quanto ne è un membro.
L’associazione in quanto tale è essa stessa il vero contenuto e il vero scopo, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita collettiva» [citato da Marcel
Gauchet nel Dictionnai­re critique de la Révolution française].
La contrapposizione tra queste concezioni non si basa sull’antitesi tra un olismo
tradizionale e un individualismo moderno; essa mette a confronto i due aspetti della
modernità. Da un lato, all’assolutismo della legge divina si sostituisce il principio
dell’utilità sociale, l’uomo deve essere considerato un cittadino ed è tanto più virtuoso quanto più sacrifica i propri interessi egoistici alla salvezza e alla vittoria della
nazione; d’altro canto, gli individui e le categorie sociali difendono i propri interessi
e i propri valori di fronte a un governo i cui appelli all’unità ostacolano le iniziative
individuali e dunque la sua stessa rappresentatività.
Questa contrapposizione non può essere superata con una migliore comprensione di
cosa sia la nazione, che è non già lo Stato ma il po­polo, e dunque la volontà generale, giacché questo riferimento appar­tiene a una delle due concezioni che si tenta di
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
combinare, e l’espe­rienza storica vieta assolutamente di identificare al bene comune
e ai diritti dell’uomo l’unanimismo delle folle. La risposta fornita dalla di­chiarazione
del 1789 è diversa e più elaborata: ciò che concilia l’inte­resse individuale e il bene
comune è la legge, formula quasi ovvia alla fine di un secolo in cui il pensiero sociale si confonde con la filosofia del diritto oppure è dominato da essa. La legge è concepita come espres­sione della volontà generale e come strumento dell’eguaglianza,
ma ha anche il compito di difendere indirettamente le libertà individuali de­finendo i
«limiti» che rendono la libertà di ciascuno compatibile con il rispetto dei diritti altrui.
Il che propone in poche parole una teoria della democrazia (parola che non compare
nel testo). Questo regime non è forse quello che combina la pluralità degli interessi
con l’unità della società, la libertà con la cittadinanza, grazie alla legge che non ha
principi propri diversi da questa funzione di mediare e di combina­re, in generale limitata e fragile, ma sempre indispensabile? Concezio­ne della legge meno ambiziosa
e soprattutto meno autoritaria di quel­la dei giuristi che hanno edificato lo Stato di
diritto, spesso entro la cornice della monarchia assoluta, e che hanno fatto della legge lo stru­mento della sottomissione dell’individuo a un bene comune ridefinito in
termini di utilità collettiva. Qui, al contrario, la legge è subordinata ai diritti naturali
dell’uomo; è incaricata dunque di combinare l’inte­resse di ciascuno con l’interesse
della società, il che fa uscire dall’uto­pia alla Rousseau, giacché l’individuo può essere egoista o disonesto e la parola «società» può celare gli interessi particolari dei
governi, della tecnocrazia o dei burocrati.
La maggioranza degli articoli della dichiarazione, a partire dagli ar­ticoli V e VI,
precisano le condizioni di applicazione della legge, e in particolare il funzionamento
della giustizia. Il che consente di ram­mentare la priorità dei diritti dell’uomo, specialmente nell’articolo IX che introduce l’habeas corpus, e nell’articolo X con la sua
strana for­mulazione: «Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose», che dà alla laicità la sua forma più lontana dallo spirito an­tireligioso dei
razionalisti dell’Ottocento, quella del rispetto delle li­bertà fondamentali, e dunque
della diversità culturale e politica in cui si incarnano i diritti dell’uomo. La dichiarazione si conclude non con l’articolo XVII, dedicato alla proprietà e già citato, ma in
realtà con l’articolo XVI, dedicato a Montesquieu e la cui stessa formulazione – «Ogni
società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri
non è determinata non ha costituzione» – de­cide risolutamente a favore dei diritti
individuali contro l’integrazio­ne politica, a favore della libertà contro l’ordine.
Le rivoluzioni che eliminano la monarchia assoluta dall’Inghilterra e dalle ex colonie
inglesi divenute Stati Uniti d’America, e dalla Francia, dunque sono state definite
dalla sovrapposizione del pensiero dei lumi e del dualismo cristiano e cartesiano.
L’individualismo borghese, che sopravviverà a lungo in questo periodo, ha combinato la coscien­za del soggette personale con il trionfo della ragione strumentale, il
pensiero morale con l’empirismo scientifico e con la creazione della scienza economica, in particolare in Adam Smith.
La storia dei due secoli successivi consisterà nella vicenda della se­parazione di questi due principi, così strettamente associati nel pen­siero di Locke: la difesa dei diritti
dell’uomo e la razionalità strumen­tale. Più questa costruirà un mondo di tecniche e
di potenza, e più il richiamo ai diritti dell’uomo si dissocerà, anzitutto nel movimento operaio, poi in altri movimenti sociali, dalla fiducia nella ragione stru­mentale.
L’umanità, trascinata dal progresso, si domanderà se non stia perdendo l’anima, se
non la stia vendendo al diavolo in cambio del dominio sulla natura. Non è ancora così
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
durante il Settecento, tanto resta predominante la lotta contro le tradizioni e i privilegi dell’An­cien Régime, prima che gli sconvolgimenti introdotti dalla Rivoluzio­ne
francese, dall’Impero napoleonico e dalla rivoluzione industriale giun­ta dalla Gran
Bretagna suscitino la crisi romantica che porrà fine alla proclamata identità tra l’esperienza interiore e la ragione strumentale. Ecco perché la dichiarazione dei diritti è
borghese e giusnaturalista al tempo stesso; il suo individualismo è contemporaneamente affer­mazione del capitalismo trionfante e resistenza della coscienza morale al
potere del principe. Creazione suprema della filosofia politica mo­derna, la dichiarazione dei diritti reca già in sé le contraddizioni che stanno per lacerare la società industriale.
Il trionfo della libertà in Francia, come, qualche anno prima, negli Stati Uniti d’America affrancati dalla dipendenza coloniale, pone termine a un periodo di tre secoli, che
costituisce ciò che gli storici hanno chia­mato «l’età moderna».
(Alain Touraine, Critica della modernità, Il Saggiatore, Milano 1992)
[Alain Touraine (1925). Sociologo francese si interessa ai problemi del lavoro e della produzione industriale e dell’analisi politica dei movimenti sociali.]
❱❱ 13.Il divenire della città
È convinzione diffusa che la città stia subendo da qualche tempo un cambiamento
radicale.
Si assiste, infatti, al superamento di alcuni modelli urbani tradizionali nel vecchio
continente e alla formazione di nuove città nel Terzo mondo, allo smantellamento di
grandi aree industriali nei Paesi più avanzati e all’implementazione di imponenti e
grandiose strutture produttive nei Paesi in via di sviluppo (PVS), alla conservazione
e riqualificazione di intere zone del tessuto cittadino della nuova Europa e al decollo
di avveniristici centri direzionali in alcune aree geografiche dell’Asia e del continente africano.
La formazione di città mondiali come Tokyo, New York, Los Angeles, Londra, Parigi, e la progressiva emigrazione dalla campagna verso le grandi città milionarie del
Sud del mondo come Città del Messico, il Cairo, Seul, Bombay, costituiscono due
dei principali fenomeni che caratterizzano la civiltà urbana contemporanea.
Il modello urbano tradizionale del nucleo chiuso ha sempre rigidamente contrapposto
la città alla campagna, fissando nella memoria collettiva l’immagine della città moderna con alta densità demografica, l’abitato continuo, concentrazione di potere,
ricchezza e divertimenti. Insomma un’isola cittadina che emerge dal piatto e uniforme paesaggio rurale.
Oggi si assiste, invece, a una inversione di tendenza per la quale l’isolamento urbano
si è rotto e la nuova forma urbana occupa sempre più spazio, oltrepassa i suoi tradizionali confini e dilaga nella campagna, mescolando ormai aspetti rurali ad altri tipicamente urbani e suburbani.
In questi ultimi decenni, la contrapposizione città-campagna si è notevolmente attenuata grazie a nuove forme e pratiche insediative extraurbane sostenute da una fitta
rete di comunicazione e dai sempre più veloci mezzi di trasporto pubblico e privato,
e dalla rivoluzione informatica, tutti elementi che hanno reso possibile il definitivo
decentramento di molte attività industriali e di servizi. Quindi, quello della città po22
Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
stindustriale è un territorio esploso, caratterizzato da nuovi insediamenti, ma soprattutto da autostrade telematiche che, creando una rete di istantanea adiacenza artificiale, rompono l’isolamento urbano: la città, in senso fisico e in senso virtuale, occupa sempre più spazio. […]
Con la mondializzazione delle economie e delle culture, il nostro mondo tende sempre di più ad assumere le caratteristiche di un unico grande «villaggio globale» dove
soggetti fra loro diversi e lontani fino a qualche decennio fa sono portati adesso a
confrontarsi e a conoscersi direttamente. Infatti, bisogna ancora una volta sottolineare che il mondo sta attraversando due processi che sembrano fra loro contraddittori
ma che, in realtà, lo sono solo apparentemente. Essi consistono, da una parte, nella
globalizzazione delle economie – che tende a trasformare il nostro pianeta in una
sorta di mercato unico – e, dall’altra, nel riemergere delle società locali, che, riaffermando il loro esserci ripropongono diverse identità, risorse e valori culturali di appartenenza […]
Nei paesi in via di sviluppo l’esplosione urbana ha provocato una forte speculazione
fondiaria, e il tessuto urbano risulta diviso in frammenti che, tra loro, presentano
grandissimi contrasti. I poveri, che rappresentano una parte molto consistente della
popolazione della città dei Paesi del Terzo mondo, non riescono a trovare alloggio e
sono costretti a installarsi in vecchi edifici in rovina situati nei quartieri del centro,
spesso sprovvisti dei servizi primari. Questi occupanti abusivi, che si insediano illegalmente in luoghi squallidi ai margini della città, danno origine nei vari Paesi del
Terzo mondo alle favelas, alle bidonvilles, agli squatters, ai barrios, ai cosiddetti
unauthorized settlements. Raramente si tratta di invasioni spontanee: in genere sono
pianificate da dirigenti o da associazioni di abitanti che prendono subito il controllo
amministrativo del quartiere; sorgono così nelle periferie forme precarie di lottizzazione a opera dei proprietari dei terreni, che tracciano strade e delimitano piccoli
lotti privi di infrastrutture e servizi.
Di conseguenza «rapidità di crescita e scarsità di risorse fanno sì che struttura e funzionamento della città del Terzo mondo siano completamente diversi da quella occidentale. Viceversa, Manila, Lagos o Caracas presentano molti tratti in comune, a tal
punto che, se non riducibili a un unico modello, esse possono essere ricondotte a una
medesima tipologia.
Nella maggior parte dei Paesi del Terzo mondo, il processo di occupazione del suolo
risulta illegale, ma negli ultimi anni questo fenomeno viene ampiamente tollerato
dalle istituzioni. Infatti, di fronte al fenomeno della forte urbanizzazione e alla mancanza di politiche abitative popolari, i poteri pubblici sono passati spesso dalla repressione alla regolamentazione dell’occupazione del suolo, e si incaricano oramai
di realizzare le principali infrastrutture e fornire alla comunità i servizi minimi. A
questi quartieri illegali e molto poveri, si contrappongono in modo stridente quelli
delle classi medie e ricche, che occupano spazi più ampi e gradevoli, caratterizzati
da una bassa densità abitativa, risultato, anche, del crescente uso dei mezzi di trasporto privati, che ha comportato l’allargamento smisurato delle zone residenziali nei siti
di maggior pregio. Inoltre, in alcune delle zone più agiate, a ridosso del centro, si
trovano selve di grattacieli lussuosi occupati da grandi società multinazionali. E,
infine, per dare un quadro più completo della frammentarietà della città terzomondiale, dobbiamo ricordare le cosiddette aree industriali, che, in maniera disordinata e
disomogenea, si insediano nel territorio urbano con una moltitudine di aziende familiari e piccole fabbriche con poche probabilità di espansione.
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Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociologia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica
È ormai convinzione consolidata che, nel terzo millennio, la città industriale dalla
struttura monocentrica si stia trasformando in un modello urbanistico polinucleare,
composto da tanti grandi, medi e piccoli insediamenti abitativi, produttivi e funzionali, sparsi su un territorio sempre più vasto e di difficile demarcazione. La contrapposizione città-campagna si è attenuata grazie a nuove forme insediative extraurbane
sostenute dai sempre più veloci mezzi di trasporto pubblico e privato, dalla rivoluzione informatica, dall’accessibilità e interdipendenza dei servizi, che hanno reso
possibile il definitivo decentramento di molte attività industriali e di servizi. Un territorio esploso, quello della città nuova, che con le sue autostrade informatiche e i
nuovi insediamenti produttivi segna una profonda ridefinizione del paesaggio con
l’urbanizzazione della campagna.
Il dilagare dell’urbanesimo nel paesaggio rurale prefigura oramai il divenire della
città basato su modelli urbanistici che danno vita talvolta alle grandi megalopoli come
quelle americane o giapponesi, o a modelli che seguono la composizione di estese
conurbazioni urbane, o la formazione di un’articolata rete di aree metropolitane caratterizzata da quella particolarità, tutta europea, di un sistema urbano diffuso. […]
Le tradizionali formazioni delle città, messe in discussione dal sistema-mondo, fanno
emergere in particolare nuove entità urbane che assomiglieranno sempre più a grandi snodi stradali dove andranno a incrociarsi flussi di lavoratori, scambi commerciali, conoscenze tecnologiche, operazioni finanziarie, riallocazione di capitali. Ci troviamo così di fronte a un’identità urbana sovranazionale e all’emergere di una nuova
proiezione spaziale/virtuale ed economica della città che da un contesto localista si
inserisce in un network mondiale.
È il caso di New York, Londra e Tokyo, che svolgono la funzione di centri finanziari
e dei servizi per l’intera economia internazionale. Queste grandi città mostrano alcuni tratti comuni, indipendenti dalla cultura in cui si sono originariamente sviluppate:
presentano una peculiare stratificazione sociale (fatta soprattutto di ceti professionali emergenti e di lavoratori del terziario avanzato relativamente poveri), hanno stili
di vita propri (che attraggono ampi strati sociali di tutto il pianeta), fanno un uso
massiccio delle nuove tecnologie di comunicazione, di cui sono al tempo stesso vetrina e luogo di sperimentazione. Sono città capitali, ma non di singoli Stati. Sono
capitali di una rete invisibile che avvolge l’intero pianeta. E come enormi pilastri che
reggono questa rete urbana transnazionale, Tokyo, New York, Londra possono essere considerate vere e proprie global cities che, con i loro edifici-mondo sedi delle
grandi corporations internazionali, si sfidano a tutto campo in un’arena mondiale
dominata ormai dalle comunicazioni virtuali.
Ma la nuova gerarchia urbana che sta prendendo forma proprio in questi anni, è
tutt’altro che assestata: è e rimarrà, per molti aspetti, una gerarchia mobile. Infatti,
parallelamente allo sviluppo di questa ragnatela urbana mondiale, sostenuta dalle
cosiddette global cities, troviamo altri sistemi urbani mobili come quello delle conurbazioni europee che, partecipando attivamente alla ridefinizione del territorio, mirano anch’esse a inserirsi in questa rete di città che controllano ormai l’economia
globale.
(Nicolò Leotta, Photometropolis, Le vespe, Milano 2000)
[Nicolò Leotta (1954) ha fondato con Guido Martinetti il Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università
degli Studi di Milano-Bicocca. Si occupa dei problemi della comunicazione all’interno della metropoli con
particolare riferimento all’arte urbana.]
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Storia del pensiero sociologico
❱❱ 1.Come sorge la sociologia?
Come sorge la sociologia? A questo interrogativo si possono dare tre risposte. In
primo luogo, si può sostenere che la sociologia esiste da sempre e che già la si ritrova, per esempio, negli autori classici greci e latini, per non menzionare quelli
orientali. In secondo luogo si può sostenere che la sociologia nasce con il padre
ufficiale di essa, Auguste Comte, coniatore del termine e quindi formalmente “in­
ventore” della disciplina. In terzo luogo, è possibile dimostrare che la sociologia
nasce storicamente con l’avvento della società industriale moderna e con il concetto di “società civile”. È vero infatti che si ritrovano negli autori classici riflessioni
e analisi di fenomeni sociali e politici importanti, ma solo occasionalmente tali riflessioni si pre­sentano collegate con dati empirici di prova e avvertono l’esigenza
d’una verifica, o di una falsifica, in senso proprio. D’altro canto la concezione della
sociologia che la vede legata all’insegnamento di Auguste Comte implica che una
scienza possa sorgere all’improvviso compiuta e perfetta, quasi scaturisse ex capite
Jovis, ad opera dei suoi autori, per così dire, ufficiali. La teoria che lega il sorgere
della so­ciologia all’avvento della società moderna è a nostro giudizio la più fondata in quanto non si dà sociologia senza società, e senza società di un certo tipo. La
sociologia è lo strumento di auto-ascolto ed eventualmente di auto-regolazione
fondamentale per le società che hanno abbandonato le “grandi tradizioni”, già statiche ed essenzial­mente contadine, e che hanno deciso di imboccare la strada della
modernizzazione, sostituendo, come supremo criterio di legittimità per le decisioni
rilevanti, il calcolo regionale all’autorità dell’“eterno ieri”, cioè ai valori della tradizione.
Non a caso, quindi, nel Sette­cento ha inizio lo studio sociologico della società e si
possono rin­venire i primi elementi per una definizione della sociologia come analisi
empirica, concettualmente orientata, delle strutture istituzio­nali e dei comportamenti collettivi socialmente rilevanti così come non a caso già nel Settecento la sociologia si presenta divisa in tre correnti ben distinte e consapevoli:
a) un indirizzo psicologico, che tende a identificare i sentimenti e le passioni che
influiscono sui rapporti sociali e rappresentano le forme generatrici delle forze
sociali e delle loro modificazioni;
b) un indirizzo economicistico, che tende a porre in luce, assai prima di Marx, se pure
meno sistematicamente, il peso degli interessi e il significato sociale della proprietà e della sua distribuzione; in base ad esso per la prima volta il fenomeno dell’ineguaglianza umana non è considerato né come un dato naturale né come voluto da
Dio, ma viene semplicemente collegato con altri fenomeni sociali;
c) un indirizzo ecologico e geo-ambientale, che mette in rilievo l’importanza del
fattore geografico e climatico-ambientale, con ri­guardo alla conformazione della
società e sottolinea il rapporto uomo-risorse naturali.
25
Storia del pensiero sociologico
Se poi la sociologia del Settecento trova in Inghilterra il suo ter­reno più fertile, ciò si
deve al fatto che l’evoluzione della società inglese precede quella di qualsiasi altro
paese europeo. […]
La concezione della sociologia come ricerca empirica, concettual­mente orientata,
aperta agli apporti inter-disciplinari, tesa ad integrare schema teorico e dato empirico,
fortemente consapevole della di­mensione storica e nel contempo legata al procedimento scientifi­che si esprime nella triplice sequenza “problemi – ipotesi – veri­fica”,
rappresenta lo sbocco di un lungo e vario processo evolutivo le cui origini possono
ragionevolmente collocarsi verso la metà del Settecento. Non v’è dubbio che un
elemento probabilmente ineli­minabile e di arbitrarietà si annida in qualsiasi tentativo
di periodizzazione, specialmente quando si tratti di una disciplina relativa­mente giovane, certamente più sciolta e spregiudicata ma anche meno sicuramente protetta da
un’antica e collaudata tradizione accademica. Tenendo tuttavia presenti fondamentali caratteristiche sia di ordine analitico-metodologico che contenutistico-sostanziale,
è dato distinguere, nello sviluppo della sociologia dalle origini ai nostri giorni, quattro grandi fasi:
a) fase sistematica (1750-1880);
b) fase della ricerca sociale circoscritta e della specificità (1890-1929);
c) fase neo-sistematica (1929-1955);
d) fase della sociologia critica (1955-...).
(Franco Ferrarotti, Sociologia, Accademia, Milano 1977)
[Franco Ferrarotti (1926) si è interessato dei problemi del mondo del lavoro e della società industriale e
postindustriale, dei temi del potere e della sua gestione, della tematica dei giovani, della marginalità urbana e sociale, delle credenze religiose, delle migrazioni. Una particolare attenzione è stata dedicata nelle sue
ricerche alla città di Roma. Il sociologo italiano ha sempre privilegiato un approccio interdisciplinare e insistito sull’importanza di uno stretto nesso tra impostazione teorica e ricerca sul campo.]
❱❱ 2.I classici
La maggior parte delle idee dei sociologi classici non si prestano facilmente a una
precisa verifica. Sono idee di carattere interpretativo, che ci orientano sui diversi modi
di guardare alle realtà sociali; tentativi di esprimere la direzione storica generale,
l’indirizzo fondamentale della società moderna, ossia, per dirla con Ruth Glass, «lo
Stato e il fato» delle collettività contemporanee. Sono tentativi di spiegare ciò che sta
accadendo nel mondo e di por mente a ciò che potrà accadere nel prossimo futuro.
I sociologi classici non conoscono l’inibizione dei limiti di competenza che è propria
delle discipline e delle specializzazioni accademiche: nel loro lavoro quelle che vengono ora chiamate scienze politiche, psicologia sociale, economia, antropologia e
sociologia sono tutte ugualmente adoperate e integrate in modo da fornire una visione panoramica della struttura sociale in tutti i suoi vari campi, dalla meccanica storica in tutte le sue diramazioni, e dalle funzioni degli individui in una grande varietà
di sfumature psicologiche.
Ma l’importante è che, anche quando le loro conclusioni risultano erronee o inadeguate – come per esempio nell’idea di Spencer sullo svolgimento della società militare in società industriale –, i sociologi classici riescono ugualmente col loro lavoro
26
Storia del pensiero sociologico
e col loro metodo di lavoro a dirci molte cose sulla natura della società e le loro idee
assumono una diretta rilevanza ai fini del nostro lavoro attuale.
Ma come può darsi, si domanderà, che questi uomini si sbagliavano tanto spesso, pur
restando tuttavia così grandi? La risposta va trovata, credo, in un dato caratteristico
del loro lavoro: le loro «grandi idee» consistono in quelli che potremmo chiamare dei
«modelli», contrapposti alle teorie specifiche o alle ipotesi particolari. Questi moduli di lavoro indicano: 1) i fattori a cui si deve prestare attenzione per comprendere un
qualche particolare aspetto della società o anche una società nel suo insieme e la
gamma delle relazioni possibili fra tali fattori. L’interazione di questi ultimi non è
tuttavia considerata su un piano di vaga casualità: a torto o a ragione, questi fattori
vengono organizzati secondo una stretta interconnessione, ognuno con una sua propria
incidenza casuale: le connessioni e il peso di incidenza che si attribuiscono ai singoli fattori costituiscono appunto le teorie specifiche.
In altri termini, i sociologi classici costruiscono dei modelli di società e se ne servono per sviluppare un certo numero di teorie. Il fatto importante è che né la validità,
né l’inesattezza di alcune di queste teo­rie specifiche necessariamente conferma o
infirma la utilità o la pertinenza dei modelli. Questi ultimi possono essere usati per la
costruzione di molte teorie: possono essere usati per correggere gli errori di teorie
alla cui elaborazione essi stessi sono serviti; e sono schemi facilmente ampliabili, in
quanto possono essere modificati sì da riuscire più utili come strumenti analitici ed
empiricamente più aderenti al corso dei fatti.
Sono questi modelli ad essere grandi, non soltanto in quanto contributi alla storia
della ricerca e della riflessione sociale, ma anche perché influiscono sul pensiero
sociologico successivo: essi rappresentano, a mio avviso, il dato vivo della tradizione
classica della sociologia e credo pure che ad essi si debba il fatto che con tanta persistenza e in circostanze assolutamente diverse si siano avuti tanti «rilanci» dei pensatori qui presentati; questo è, in breve, il perché della «classicità» delle loro opere.
(C.Wright Mills, Immagini dell’uomo, Milano 1982)
❱❱ 3.Una società è un organismo
Quando diciamo che lo sviluppo è comune agli aggregati sociali e agli aggregati organici, non escludiamo però interamente ogni co­munanza con gli aggregati inorganici: alcuni di questi, per esempio i cristalli, crescono in modo visibile; e tutti,
nell’ipotesi dell’evoluzione, sono ritenuti sorti, in un certo tempo, per via d’integrazione. Tut­tavia, in confronto alle cose che chiamiamo inanimate, i corpi viventi e le
società presentano in modo così evidente l’aumento della massa, che esso si può
considerare come caratteristico degli uni e delle altre. Molti organismi crescono durante tutta la vita; altri crescono durante una parte considerevole della loro vita. Lo
sviluppo sociale suole continuare o fino al tempo, in cui le società si dividono, o fino
al tempo, in cui sono schiacciate.
E questo è il primo carattere, per il quale le società si connettono al mondo organico,
e si distinguono sostanzialmente dal mondo inorganico.
È pure un carattere dei corpi sociali, come pure dei corpi viventi, che, mentre crescono in dimensione, crescono anche in struttura. Un animale inferiore, o l’embrione
d’un animale superiore, ha poche parti che si possano distinguere; ma mentre acquista una massa maggiore, le sue parti si moltiplicano, e simultaneamente si differen
27
Storia del pensiero sociologico
ziano. Lo stesso avviene di una società. Dapprima le diversità tra i suoi gruppi.
d’unità sono poco notevoli quanto a numero e a grado, ma facendosi essa più popolosa, le divisioni e le suddivisioni diveng­ono più numerose e spiccate. Inoltre, nell’organismo sociale, come in quello individuale, le differenziazioni cessano solo con
quella perfezione del tipo, che segna la maturità e precede la decadenza.
È vero che, anche in certi aggregati inorganici, come nell’intero sistema solare e in
ciascuno dei suoi membri, le differenziazioni di struttura s’accompagnano alle integrazioni; ma sono relativamente così lente e semplici, che si può non tenerne conto.
La moltiplicazione delle parti di natura diversa è così grande nei corpi politici e nei
corpi viventi, che costituisce un altro carattere comune sostan­ziale, che li distingue
dai corpi inorganici.
La comunanza sarà più completamente intesa, se si osserva che la progressiva differenziazione delle strutture è accompagnata dalla progressiva differenziazione delle
funzioni.
Le divisioni moltiplicantisi, primarie, secondarie e terziarie, che si verificano in un animale in sviluppo, non assumono senza scopo la maggiore o minore diversità, che intercorre fra loro. Insieme alle diversità nelle loro forme e nelle loro composizioni si hanno
diversità delle azioni, che compiono; si sviluppano in organi dissimili, che hanno compiti dissimili. Il sistema alimentare nell’assumere tutta la funzione di assorbire il nutrimento mentre assume anche i suoi ca­ratteri strutturali, diviene gradualmente distinto in
parti nettamente diverse; ognuna di questa ha una funzione specifica, che fa parte della
funzione generale. Un membro, destinato alla locomozione o prensione, acquista divisioni e suddivisioni che hanno compiti principali e secondari in quest’ufficio. Lo stesso
si verifica per le classi in cui si divide una società. Una classe dominante che sorga, non
solo diventa distinta dal resto, ma si assume un governo sul resto; e quando questa classe si distingue in più o meno dominanti, questi cominciano pure a compiere singole
funzioni di governo. Così pure avviene delle classi le cui azioni sono soggette a governo.
I vari gruppi, nei quali si dividono, hanno varie occupazioni; e ognuno di questi gruppi,
in se stesso, acquista minori differenze di parti con minori differenze di compiti.
E qui si vede chiaramente come le due classi di cose, che stiamo confrontando, si
distinguano dalle cose di altra natura; perché quelle differenze di struttura, che si
producono lentamente negli aggregati inorganici, non sono accompagnate da quelle
che possiamo dire differenze di funzioni.
Passando all’ultimo e più spiccato carattere del corpo politico e del corpo vivente,
vedremo perché in essi le azioni dissimili di parti di­verse sono da considerare come
funzioni, mentre non altrettanto possiamo dire delle azioni dissimili di parti dissimili in un corpo inorganico.
L’evoluzione determina negli uni e negli altri non solo semplici differenze, ma differenze che stanno in rapporti definiti, differenze, di cui ognuna rende possibile le altre.
Le parti di un aggregato inorganico sono in tale relazione, che l’una può subire un
gran cambiamento senza modificare il resto in modo apprezzabile. Ma avviene altrimenti nelle parti di un aggregato organico, o di un aggregato sociale. In ambedue le
trasformazioni delle parti si determi­nano vicendevolmente, e le azioni mutue delle
parti dipendono l’una dall’altra. In ambedue questa vicendevole dipendenza cresce
col progredire dell’evoluzione. Il tipo infimo di animale è tutto stomaco, tutto superficie respiratoria, tutto arti. Lo sviluppo di un tipo fornito di appendici, con cui possa
muoversi o impadronirsi del cibo, può avere luogo solo se queste appendici, perdendo la facoltà di assorbire direttamente il nutrimento dai corpi circostanti, sono forni28
Storia del pensiero sociologico
te di nu­trizione dalle parti, che conservano questa facoltà di assorbimento. Una superficie respiratoria, cui son condotti i fluidi circolanti per essere aerati, può formarsi solo a condizione che la perdita simulta­nea delle attitudini a fornirsi di materiali
per la respirazione e per la crescita, sia compensata dallo sviluppo di una struttura,
che porti questi materiali. Lo stesso si verifica in una società. Ciò che noi chiamiamo
con perfetta proprietà la sua organizzazione, presuppone un fatto della stessa natura.
Finché è rudimentale, tutti sono guer­rieri, cacciatori, costruttori di capanne, fabbricanti di utensili: ogni parte soddisfa da sé ai propri bisogni. Il progresso fino al punto di avere un esercito permanente può aver luogo solo quando sorgono ordinamenti
tali per cui il resto possa fornire l’esercito di vettovaglie, di vestiti, di munizioni da
guerra. Se qua la popolazione si occupa esclusivamente di agricoltura e là di miniere,
se questi manifatturano i beni, mentre quelli li distribuiscono, ciò può avvenire a
condizione che, in cambio d’un certo servizio reso da una parte alle altre, cia­scuna di
queste altre parti presti i propri servizi nelle debite pro­porzioni.
Tale divisione del lavoro, che fu dapprima osservata dagli econo­misti come un fenomeno sociale, e quindi riconosciuta dai biologi come fenomeno dei corpi viventi e
chiamata “divisione fisiologica del lavoro”, è quella che fa della società, come dell’animale, un corpo vivente. Non si può insistere abbastanza sulla verità che, rispetto a
questo carattere fondamentale, l’organismo sociale e l’individuale sono del tutto simili. Quando si vede che in un mammifero, l’arre­starsi dei polmoni produce l’immediato arresto del cuore; che, se lo stomaco non compie affatto il suo ufficio, tutte le
altre cessano a poco a poco di agire; che la paralisi degli arti costringe tutto il corpo
alla morte per mancanza di cibo e per non poter sfuggire ai pericoli; che persino la
perdita di organi piccoli, come gli occhi, priva il ri­manente di servizi assegnati alla
sua conservazione, non possiamo non ammettere che la mutua dipendenza delle parti
sia un carattere essenziale. E quando in una società vediamo che i lavoratori di ferro
si fermano, se i minatori non forniscono i materiali; che i sarti non possono fare il loro
mestiere, se mancano quelli che fabbricano filati e tessuti; che i produttori di manufatti non operano, se non operano i produttori e i distributori degli alimenti; che i
poteri governativi, i pubblici ufficiali, i giudici, non possono mantener l’ordine, se le
cose necessarie alla vita non sono loro fornite dai governati, siamo co­stretti a dire che
la mutua dipendenza delle parti è altrettanto rigo­rosa. Per quanto i due generi di aggregati siano dissimili per altro aspetto, sono simili per questo carattere fondamentale.
S’intende più chiaramente, come le azioni combinate delle parti reciprocamente dipendenti costituiscano la vita del tutto e come ne risulti un parallelismo tra la vita
nazionale e l’individuale, se si os­serva che la vita di ogni organismo visibile è costituita dalla vita di unità troppo piccole per esser viste a occhio nudo.
(Herbert Spencer, Principi di Sociologia, UTET, Torino 1968)
❱❱ 4.Rivoluzione industriale e classi sociali
La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco
contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni
volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.
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Storia del pensiero sociologico
Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni
sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per
di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi.
La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato
gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi,
nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta.
La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due
grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra:
borghesia e proletariato.
Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo
popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia.
La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla sorgente
borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e
delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento
rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.
L’esercizio dell’industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al
fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura.
Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le
diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa.
Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione
industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto
medio industriale subentrarono i milionari dell’industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.
La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla
scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha
reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha
accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal
medioevo.[...]
Ogni società si è basata finora, come abbiamo visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava.
Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a
membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza.
(Karl Marx, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1962)
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Storia del pensiero sociologico
❱❱ 5.La borghesia classe rivoluzionaria
La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali,
idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo
al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo
interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo
egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle
innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di
commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato,
diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano
venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il
poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. [...]
Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo. Essa
ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di
produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione
di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti.
Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi
fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni
cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato
la propria posizione e i propri reciproci rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia
a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve
costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime
industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno.
Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita
o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le
materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono
consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere
soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una
interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così
per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene
comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili,
e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.
31
Storia del pensiero sociologico
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche
le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale
spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace
xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione
della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa
loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un
mondo a propria immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città
enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto
di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia
ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l’Oriente dall’Occidente.
La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi
di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza
necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da
vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una
sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di
classe, entro una sola barriera doganale.
Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme
le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine,
l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le
ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d’interi continenti, la navigabilità dei
fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?
Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo
grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle
quali la società feudale produceva e scambiava, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione
invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.
Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.
(Karl Marx, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1962)
❱❱ 6.Che cosa è un fatto sociale
Prima di cercare quale è il metodo più confacente allo studio dei fatti sociali, è necessario sapere quali sono i fatti che vengono così chiamati. Questa definizione è
tanto più necessaria in quanto ci si serve di tale qualifica senza malta precisione. Essa
s’impiega correntemente per designare presso a poco tutti i fe­nomeni che si verificano nell’interno della società, per poco che essi presentino, grazie ad un determinato
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Storia del pensiero sociologico
ca­rattere generale, qualche interesse sociale. Ma, a questa stregua, non v’è, si può
dire, avvenimento umano che non possa esser qualificato sociale. Ogni individuo
beve, dorme, mangia, ragiona e la società ha tutto l’interesse che queste funzioni si
esercitino regolarmente. Se per­tanto questi fatti fossero sociali, la sociologia non
avreb­be un oggetto che le fosse proprio ed il suo dominio si confonderebbe con quello della biologia e della psi­cologia.
Viceversa, in realtà, in ogni società esiste un grup­po determinato di fenomeni che si
distinguono, grazie a caratteri spiccatamente diversi, da quelli che studiano le altre
scienze della natura.
Quando assolvo il mio compito di fratello, di sposo o di cittadino; quando rispetto gli
impegni che ho pre­so, io compio dei doveri che sono ben definiti, al di fuori della mia
persona e dei miei atti, secondo il dirit­to e secondo i costumi. Anche quando tali
doveri sono in armonia coi miei propri sentimenti e che ne sento interiormente la
realtà, questa non cessa d’essere ob­biettiva, poiché non sono io che li ho creati ma li
ho ricevuti dall’educazione. Quante volte, d’altronde, ca­pita che noi ignoriamo i
particolari degli obblighi che ci incombono e che, per conoscerli, dobbiamo consul­
tare il Codice ed i suoi interpreti autorizzati. Allo stesso modo, le credenze e le pratiche della sua vita religiosa, il fedele le ha trovate bell’e fatte quando è nato. Se esse
esistevano prima di lui, ciò significa che esistono al di fuori di lui. Il sistema di segni
dei quali mi servo per esprimere il mio pensiero, il sistema di monete che impiego
per pagare i miei debiti, gli stru­menti di credito che utilizzo nelle mie relazioni com­
merciali, le pratiche seguite nella mia professione ecc. funzionano indipendentemente dagli usi che ne faccio. Si prendano l’uno dopo l’altro tutti i membri dei quali è
composta la società; quanto precede potrà esser ripe­tuto per ciascuno di essi. Ecco
dunque delle maniere d’agire, di pensare e di sentire che presentano questa rimarchevole proprietà: esse esistono al di fuori delle coscienze individuali.
Non soltanto questi tipi di condotte o di pensiero sono esteriori all’individuo, ma sono
datati d’una po­tenza imperativa e coercitiva in virtù della quale s’impongono a lui,
lo voglia o non lo voglia. Senza dubbio, quando io mi ci conformo di buon grado,
questa coerci­zione non si fa o si fa poco sentire, essendo inutile. Ma non è meno un
carattere intrinseco di questi fatti e la prova ne è che essa si afferma appena io tento
di resistere. Se provo a violare le regole del diritto, que­ste reagiscono contro di me
in maniera tale da impedire il mio atto, quando vi sia ancora tempo; oppure da annullarlo e da ristabilirlo sotto la sua forma normale se è compiuto e riparabile, o da
farmelo espiare se non può esser riparato in altra maniera. Si tratta di massi­me puramente morali? La coscienza pubblica tende ad impedire qualsiasi atto che le offenda,
mediante la sorveglianza che essa esercita sulla condotta dei citta­dini e le pene speciali delle quali dispone.
In altri casi, la costrizione è meno violenta; non cessa però d’esistere. Se io non mi
sottometto alle con­venzioni del mondo; se, vestendomi, non tengo alcun conto degli usi
correnti nel mio paese e nella mia classe sociale, le risate che provoco, l’ostracismo nel
quale mi si tiene, producono, anche se in una maniera più atte­nuata, gli stessi effetti
d’una pena propriamente detta. In altri campi, la costrizione, pur non essendo che indi­
retta, non è meno efficace. Io non sono obbligato a parlare francese coi miei compatrioti, né d’impiegare le monete legali: ma è impossibile che io possa fare diversamente. Se
cercassi di sfuggire a questa necessità, il mio tentativo fallirebbe miseramente.
Industriale, nulla mi vieta di lavorare con dei pro­cedimenti e dei metodi dell’altro
secolo: ma se lo faces­si, mi rovinerei certamente. Ed anche se effettivamente potessi
33
Storia del pensiero sociologico
liberarmi da queste norme e violarle con succes­so, ciò non avverrebbe mai senza che
io fossi obbligato a lottare contro di esse. Quand’anche queste fossero fi­nalmente
vinte, mi farebbero sufficientemente sentire la loro potenza coattiva mediante la resistenza che op­porrebbero. Non vi è innovatore, anche felice, le cui iniziative non
vengano ad urtarsi contro opposizioni di questo genere.
Ecco dunque un ordine di fatti che presentano dei caratteri molto specifici: consistono in modi di agire, di pensare e di sentire, esteriori all’individuo, e che dotati d’un
potere di coercizione per virtù del quale gli si impongono. Ne consegue che non si
possono confondere coi fenomeni organici, poiché consistano in rappresentazioni ed
azioni; né coi fenomeni psi­chici, che non hanno esistenza che nella coscienza individuale e per azione di questa. Costituiscono dunque una specie nuova ed è a loro che
deve essere data e riservata la qualifica di «sociali».
Questa si adatta loro, perché è chiaro che, non avendo l’individuo per substrato, non
possono averne un altro all’infuori della società, sia essa la società politica nella sua
integralità, sia uno qualunque dei gruppi parziali che essa racchiude, confessioni
religiose, scuole politiche o letterarie, corporazioni professionali ecc. D’altra parte,
è a questi solo che essa conviene; perché la parola «sociale» non ha un senso definito che a condizione di designare unicamente dei fenomeni che non entrano in alcuna
delle categorie di fatti già costituiti e deno­minati. Sono dunque il campo specifico
della sociologia.
È vero che la parola «costrizione», colla quale noi li definiamo, rischia di allarmare
gli zelanti partigiani d’un individualismo assoluto. Siccome essi professano che l’individuo è perfettamente autonomo, sembra loro che lo si diminuisca tutte le volte che
gli si fa sentire che egli non dipende soltanto da se stesso. Ma siccome oggi è incontestabile che la maggior parte delle nostre idee e delle nostre tendenze non sono
elaborate da noi, ma ci vengano dall’esterno, queste idee e tendenze non possono
penetrare in noi che imponendosi: è tutto quello che significa la nostra definizione.
D’altronde è risaputo che ogni costrizione sociale non esclude neces­sariamente l’intervento della personalità individuale.
Però, siccome gli esempi che abbiamo citato (regole giuridiche, morali; dogmi religiosi; sistemi finanziari ecc.) consistono tutti in credenze e pratiche costituite, si
potrebbe ritenere, da quanto precede, che non si abbia fatto sociale che dove si ha
un’organizzazione definita. Viceversa, vi sono altri fatti che, senza pre­sentare queste
forme cristallizzate, hanno e la stessa obbiettività e lo stesso ascendente sull’individuo.
Si tratta di quelle che si chiamano «le correnti sociali». Così, in una assemblea, i
grandi movimenti d’entusia­smo, d’indignazione, di pietà che si producono, non hanno per punto d’origine alcuna coscienza particolare. Vengono a ciascuno di noi
dall’esterno e sono suscetti­bili di trascinarci nastro malgrado.
Senza dubbio può capitare che, abbandonandomi a loro senza riserva, io non senta la
pressione che eserci­tano su di me. Ma questa si rivela dal momento in cui io cerco di
lottare contro di loro. Che un individuo tenti d’opporsi ad una di queste manifestazioni collet­tive, ed i sentimenti che egli nega si rivoltano contro di lui. Ora, se tale potenza di coercizione esteriore si afferma con questa chiarezza nei casi di resistenza,
vuol dire che esiste, anche se inconscia, nei casi inversi. Noi siamo allora ingannati
da una illusione che ci fa credere che abbiamo elaborato noi stessi quello che ci viene
im­posto dall’esterno. Però, anche se la compiacenza alla quale ci lasciamo andare
maschera l’impulso subito, non lo sopprime affatto. Allo stesso modo che l’aria non
cessa d’essere pesante anche se noi non ne sentia­mo più il peso. E così, mentre abbia34
Storia del pensiero sociologico
mo spontaneamen­te collaborato, da parte nostra, all’emozione comune, l’impressione
che noi avremmo provata se fossimo stati soli sarebbe stata ben differente. Una volta,
poi, che l’assemblea si è sciolta, che queste influenze sociali han­no cessato d’agire
sopra di noi e che ci ritroviamo soli con noi stessi, i sentimenti attraverso i quali siamo
passati ci fanno l’effetto di qualche cosa d’estraneo, dove non ci riconosciamo più. Ci
accorgiamo allora che li avevamo subiti molto di più che non li avessimo creati. Capita persino che ci facciano orrore, tanto era­no contrari alla nostra natura.
(Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico,
Newton Compton, Roma 1971)
❱❱ 7.Le classi sociali
Ogni ordinamento giuridico (non soltanto quello «statale») agi­sce direttamente, mediante la sua configurazione sulla distribuzione della potenza caratteristica di una
comunità – e ciò non soltanto per la potenza economica, ma anche per qualsiasi altra
potenza. Per «potenza» intendiamo qui in generale la possibilità, che un uomo o una
pluralità di uomini possiede, di imporre il proprio volere in un agire di comu­nità
anche contro la resistenza di altri soggetti partecipi di questo agire. Naturalmente la
potenza «economicamente condizionata» non si iden­tifica con la «potenza» in generale. Il sorgere di un potere economico può essere piuttosto, al contrario, la conseguenza di una potenza che sussiste per altri motivi. La potenza non viene da parte sua
desiderata soltanto per scopi economici (di arricchimento); piuttosto la potenza, anche
quella economica, può essere apprezzata «per se stessa», e molto sovente l’aspirazione verso di essa è condizionata anche dall’«onore» sociale che ne consegue. Ma non
ogni potenza conferisce onore sociale. Il tipico boss americano e il tipico speculatore all’ingrosso vi rinunciano consapevolmente, e in generale è precisamente la potenza «semplice­mente» economica e soprattutto la «nuda» forza del denaro che non
costituisce un fondamento riconosciuto di «onore» sociale. D’altra parte non soltanto la potenza costituisce il fondamento dell’onore. Al contrario, l’onore sociale (prestigio) può costituire – e ha spesso co­stituito – la base di una potenza anche di carattere economico. L’or­dinamento giuridico può garantire l’onore al pari del potere. Ma
esso non costituisce di regola la fonte primaria, ma anche qui costituisce un soprappiù
che rafforza la possibilità del suo possessore, ma non lo può sempre garantire. Noi
chiameremo «ordinamento sociale» il modo in cui l’«onore» sociale si distribuisce
in una comunità tra gruppi tipici dei soggetti che ne partecipano. Naturalmente l’ordinamento sociale sta con l’«ordinamento giuridico» in un rapporto simile a quello
in cui sta l’ordinamento economico. L’ordinamento sociale non si identifica con
questo, dato che l’ordinamento economico rappresenta unicamente il modo di distribuzione e di impiego dei beni e delle prestazioni econo­miche; però è in larga misura
condizionato da esso, e a sua volta lo influenza.
Le «classi», i «ceti» e i «partiti» costituiscono precisamente fenomeni di distribuzione della potenza all’interno di una comunità.
Le «classi» non costituiscono delle comunità nel senso qui stabi­lito, ma rappresentano soltanto fondamenti possibili (e ricorrenti) di un agire di comunità. Noi parleremo
di «classe» quando a una pluralità di uomini è comune una specifica componente
causale delle loro possibilità di vita, nella misura in cui questa componente è rappresen­
tata semplicemente da interessi economici di possesso e di guadagno – nelle condi
35
Storia del pensiero sociologico
zioni del mercato dei beni o del lavoro («situazione di classe»). È un fatto economico tra i più elementari che il modo in cui la disposizione del possesso materiale è
distribuita tra una pluralità di uomini che si incontrano e concorrono sul mercato a
scopo di scambio crea di per sé specifiche possibilità di vita. Questa distribuzione, in
base alla legge dell’utilità marginale della concorrenza, esclude i non possi­denti da
tutti i beni di maggior pregio, a favore dei possidenti, e di fatto monopolizza per essi
il loro acquisto. Essa monopolizza – in circo­stanze per il resto eguali – le possibilità
di guadagni di scambio per tutti coloro che, provvisti di beni, non devono senz’altro
dipendere dallo scambio, aumentando in generale la loro potenza nella lotta dei prezzi con coloro che, sprovvisti di possesso, non possono offrire niente altro che le loro
prestazioni di lavoro, in natura o sotto forma di pro­dotti del loro lavoro, e che devono assolutamente smerciarli per vivere. Essa monopolizza inoltre la possibilità di
trasferire un possesso dalla sfera dell’utilizzazione come «patrimonio» alla sfera
dell’impiego come «capitale», vale a dire la funzione imprenditoriale e tutte le possibilità di partecipazione diretta o indiretta al profitto capitalistico. […]
Sono gli interessi economici univoci, e precisamente quelli legati all’esistenza del
«mercato», che creano la «classe». Ciononostante il concetto di «interesse di classe»
ha vari significati, e non è un concetto empirico univoco, appena con esso si intenda
qualcosa d’altro rispetto all’effettivo orientamento degli interessi di una certa «media»
degli individui sottoposti ad una situazione di classe, quale deriva con una certa probabilità dalla situazione stessa. A parità di situazione di classe e di altre circostanze,
la direzione nella quale ad esempio il singolo lavoratore perseguirà con probabilità i
suoi interessi può essere molto diversa, a seconda, ad esempio, che per una determinata prestazione egli venga qualificato – nella sua valutazione – ad un livello alto,
medio o basso; e anche a seconda che dalla «situa­zione di classe» sia sorto o meno
un agire di comunità di una parte più o meno grande dei soggetti da essa interessati
in comune, o addi­rittura un’associazione tra essi (ad esempio un «sindacato»), dalla
quale l’individuo si possa ripromettere determinati risultati. L’emergere di una associazione o anche di un agire di comunità da una situazione di classe non rappresenta
affatto un fenomeno universale. Piuttosto, la sua in­fluenza può esaurirsi in una reazione essenzialmente omogenea, e cioè (nella terminologia qui adottata) in un «agire
di massa»; oppure non si produce nemmeno questa conseguenza. Spesso poi sorge
soltanto un agire di comunità amorfo. Così, ad esempio, il «brontolio» dei lavo­ratori,
noto all’etica orientale antica, il quale esprimeva la disapprova­zione morale dell’atteggiamento del padrone – disapprovazione che, nel suo significato pratico, si può
presumere equivalesse a un fenomeno che diventa di nuovo sempre più tipico del
recente sviluppo industriale, cioè alla tendenza a «frenare» (cioè all’intenzionale limitazione della prestazione lavorativa) da parte dei lavoratori, in virtù di un consenso tacito. Il grado in cui dall’«agire di massa» degli appartenenti alla clas­se sorge un
«agire di comunità» – e eventualmente anche delle asso­ciazioni – è legato a condizioni generali di cultura, in modo particolare di natura intellettuale, e al grado dei
contrasti che sono sorti, e special­mente alla perspicuità della connessione tra le cause e gli effetti della «situazione di classe». […]
«Situazioni di classe» esistettero in una forma così specificamente semplice e chiara
nell’antichità e nel Me­dioevo nei centri cittadini, specialmente quando venivano ammassati grandi patrimoni in virtù di un commercio, di fatto monopolizzato, di prodotti industriali della località in questione o di sostanze alimentari; altri esempi si possono trovare in certe circostanze nell’agricoltura delle epoche più diverse, con l’affer36
Storia del pensiero sociologico
marsi dello sfruttamento economico ac­quisitivo. L’esempio storico più importante
della seconda categoria è dato dalla situazione di classe del «proletariato» moderno.
Ogni classe può quindi essere portatrice di qualche «agire di classe» – di cui sono
possibili innumerevoli forme – ma non lo è necessariamente: in ogni caso essa non
costituisce una comunità, e considerarla concettualmente equivalente a una comunità è fonte di equi­voci. È vero che di regola uomini posti in una stessa situazione di
classe reagiscono a situazioni così concrete come quella economica con un agire di
massa rivolto nella direzione più adeguata agli interessi della media, e questo è fatto
in fondo semplice, ma importante per la com­prensione degli avvenimenti storici.
[…] Se le «classi» in sé non «sono» comunità, tuttavia le situazioni di classe sorgono
soltanto sul terreno di una comunità. Soltanto che l’agire di comunità che dà loro vita
non è in prevalenza un agire di comunità degli appartenenti alla medesima classe, ma
è invece un agire tra appartenenti a classi differenti. Ad esempio, l’agire di comunità
che determina immediatamente la situazione di classe dei lavoratori e degli imprenditori è costituito dal mercato del lavoro, dal mercato dei beni e dall’impresa capitalistica. Ma l’esistenza di una impresa capitalistica presuppone a sua volta quella di
un agire di comunità di forma molto particolare, diretto a tutelare il possesso dei beni
in quanto tale, e spe­cialmente la disponibilità in linea di principio libera dei mezzi di
pro­duzione da parte degli individui; essa presuppone cioè un «ordina­mento giuridico»,
e di forma molto specifica. Ogni genere di situazione di classe, in quanto fondata
soprattutto sulla potenza del possesso in quanto tale, si realizza nella forma più pura
quando tutti gli altri motivi determinanti delle relazioni reciproche sono il più possibile assenti, in modo che la potenza del possesso sul mercato possa venir utilizzata
nella forma più sovrana. […]. Oggi invece il punto cruciale è la determinazione dei
salari. Il passaggio è costituito da quelle lotte per l’accesso al mercato e per la determinazione del prezzo dei pro­dotti che ebbero luogo all’inizio dell’età moderna tra
provveditori e artigiani domestici.
Un fenomeno generale delle antitesi di classe con­dizionate dalla situazione di mercato, che deve quindi essere ricordato, è il fatto che esse si agitano nelle forme più aspre
tra i soggetti che sono realmente interessati in modo diretto come avversari nella lotta dei prezzi. L’astio dei lavoratori non colpisce il redditiere o l’azionista a il banchiere – anche se proprio nelle casse di questi affluisce un profitto in parte maggiore e in
parte «più sprovvisto di lavoro» ri­spetto a quello dell’industriale o del direttore dell’impresa; esso colpisce invece quasi esclusivamente questi ultimi, quali avversari diretti
nella lotta dei prezzi. Questo semplice fatto è spesso stato decisivo per l’im­portanza
della situazione di classe nella formazione dei partiti politici. Esso ha per esempio reso
possibili le diverse varietà del socialismo patrimoniale e i tentativi di alleanza – almeno un tempo frequenti – dei ceti minacciati con il proletariato, contro la «borghesia».
❱❱ 8.La burocrazia
Il modo specifico di funzionamento della burocrazia moderna si esprime nel modo
seguente.
I. Esiste il principio delle competenze di autorità definite, disci­plinate in modo generale mediante regole, cioè mediante leggi e regola­menti amministrativi. Ciò comporta:
1) una stabile suddivisione delle attività regolari richieste per gli scopi della formazione burocratica dominante – in forma di doveri di ufficio;
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Storia del pensiero sociologico
2) i poteri di comando necessari per l’adempimento di questi compiti sano pure
suddivisi in modo stabile e limitati mediante regole nei mezzi coercitivi (fisici o
sacrali o di altro tipo) loro attribuiti;
3) all’adempimento regolare e continuativo dei campiti così sud­divisi, e all’esercizio
dei diritti corrispondenti, si provvede in modo sistematico con l’assunzione di
persone fornite di una qualificazione regolata in via generale.
Questi tre momenti rappresentano, nel potere di diritto pubblico, la sussistenza di un
«organo di autorità» burocratico e, nel potere eco­nomico privato, quella di un’«impresa» burocratica. In questo senso tale istituzione si è sviluppata completamente per
la prima volta nelle comunità politiche e religiose dello stato moderno, e nell’economia pri­vata con le più avanzate formazioni capitalistiche. Anche in formazioni politiche molto vaste quali quelle dell’antico Oriente, e così pure nei regni di conquista
germanici o mongolici e in molte formazioni statali feudali, gli organi permanenti di
autorità forniti di competenza stabile non sono la regola ma l’eccezione. In essi il
detentore del potere affida i compiti più importanti a fiduciari personali, commensali o servitori di corte con incarichi e competenze non rigidamente delimitate, e create volta a volta per il singolo caso.
II. Esiste il principio della gerarchia degli uffici e della serie delle istanze, cioè di un
sistema rigidamente regolato di sovra-ordinazione e sub-ordinazione degli organi di
autorità con controllo dei superiori sugli inferiori – sistema che offre anche ai dominati una possibilità rigida­mente regolata di appellarsi dall’istanza inferiore a quella
superiore.
Quando si abbia un completo sviluppo del tipo, questa gerarchia è orga­nizzata in modo
monocratico. Il principio della serie gerarchica delle istanze si trova tanto nelle formazioni statali ed ecclesiastiche quanto in tutte le altre formazioni burocratiche, come
le grandi organizzazioni di partito e le grandi imprese private – qualora si vogliano
chiamare «organi di autorità» anche le istanze private. Con un completo svi­luppo del
principio di «competenza», però, la subordinazione gerar­chica non vuol dire, almeno
negli uffici pubblici, che l’istanza «supe­riore» sia abilitata a richiamare a sé gli affari dell’istanza «inferiore». La regola è proprio l’opposto, e perciò nel caso del disbrigo di una partita da parte di un ufficio incaricato non può aversi alcuno sposta­mento.
III. La moderna condotta dell’ufficio si fonda su documenti (atti) che vengono conservati in originale o in copia, e su un apparato di funzionari subalterni e scritturali
di ogni tipo. Il complesso dei funzionari attivi in un organo di autorità, e l’apparato
di mezzi e di atti ad esso corrispondente, costituisce un «ufficio» (nelle imprese private esso è spesso designato come «ufficio commerciale»). L’organizzazione moderna degli organi di autorità separa completamente la sede dell’uf­ficio dall’abitazione
privata, e ciò in quanto distingue del tutto l’atti­vità di ufficio come ambito isolato
rispetto alla sfera della vita privata, e così pure distingue le finanze e i mezzi dell’ufficio dal possesso privato del funzionario. Questa situazione è il prodotto di un lungo
sviluppo; oggi essa si trova sia nelle imprese economiche pubbliche che in quelle
private, e in queste si estende anche all’imprenditore dirigente. Quanto più conseguentemente è realizzato il tipo moderno della gestione degli affari – e gli inizi si
trovano già nel Medioevo – tanto più sono separate la contabilità di ufficio e l’amministrazione domestica, la cor­rispondenza di affari e la corrispondenza privata, il patrimonio di affari e il patrimonio privato. Si può affermare che la peculiarità
dell’impren­ditore moderno consiste nel fatto che egli si considera come «primo funzionario» della sua impresa, nello stesso modo in cui il dominatore di uno stato
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Storia del pensiero sociologico
moderno specificamente burocratico si dice il «primo ser­vitore» di esso. Che l’attività di un ufficio statale e quello di un’azienda economica privata siano qualcosa di
essenzialmente differente da un punto di vista interno, è un’idea propria dell’Europa
continentale – a cui gli americani sono completamente estranei.
IV. Ogni attività di ufficio, e almeno ogni attività specializzata – cosa specificamente
moderna –, presuppone normalmente una mi­nuziosa preparazione specializzata. Ciò
vale sempre più per i moderni dirigenti e impiegati di un’impresa, economica privata come per i fun­zionari statali.
V. L’attività di ufficio – quando questo sia completamente svi­luppato – pretende
tutta la capacità lavorativa del funzionario, pre­scindendo dalla circostanza che il
tempo del lavoro di ufficio sia stabilmente determinato. Ciò è di norma il prodotto di
un lungo sviluppo negli uffici pubblici e privati: viceversa, una volta la norma era che
gli impegni di ufficio fossero assolti come «professione secondaria»
VI. La condotta dell’ufficio del funzionario segue regole generali che possono essere
apprese, e che sono più o meno fisse ed esaurienti. La conoscenza di tali regole rappresenta perciò una tecnica particolare – a seconda dei casi, si tratta della giurisprudenza o della teoria dell’amministrazione o della ragioneria – che i funzionari posseggono.
Il vincolo alle regole della moderna condotta dell’ufficio è tanto radicato che la moderna teoria scientifica ammette per esempio che una competenza attribuita ad un’autorità per la disciplina di determinate materie, mediante regolamento, non la legittima
ad una disciplina me­diante comandi stabiliti caso per caso, ma soltanto alla
regolamenta­zione astratta. Ciò costituisce la più netta contrapposizione al tipo di
regolamentazione dominante che, per esempio nel patrimonialismo, ricevono tutte le
relazioni non determinate dalla tradizione sacra, e che vengono dispensate mediante
privilegi individuali e incarichi di favore.
(Max Weber, Economia e società, edizioni di Comunità, Milano 1961)
❱❱ 9.Livello sociale e livello individuale
Fra la massa e il singolo esiste una differenza di livello: la stessa che sorge (e può
essere compresa) ogni volta che i modi e le qualità del «far massa» – quelli che assimilano l’individuo a una collet­tività – vengono distinti da altri, tipici della sfera pri­
vata e tali da isolare una persona dal suo gruppo di ap­partenenza. […] L’individuo
può possedere le qualità più fini e evolute: ma ogni volta che ciò accade, diventa
anche meno probabile la sua uguaglianza rispetto agli altri (os­sia la formazione di
unità), mentre le sue caratteristiche divengono sempre più incomparabili e, infine, si
ridu­cono quei margini di sensibilità primitive che lo accomunano agli altri, fino a dar
vita ad una massa unitaria. Può allora accadere che il «popolo» sia erroneamente
inteso come una «massa», senza che gli individui se ne sentano partecipi, anche perché, cosi facendo, di indi­vidui non si parla affatto. L’individuo, se considerato come
tale e come un tutto, possiede delle qualità supe­riori rispetto a quelle che lo accomunano ad un collet­tivo.
Secondo le parole di Schiller: «Gli uomini, singo­larmente presi, sono abbastanza
arguti e intelligenti. Ma provate a metterli insieme e avrete di fronte una banda d’imbecilli». Heine, invece, dedica più attenzione al mo­mento in cui, dall’incontro fra
personalità diverse, emergono come tratti comuni gli elementi più infimi di ciascuna.
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Storia del pensiero sociologico
Scrive infatti: «Raramente mi avete capito e raramente io ho capito voi. Solo se ci
trovassimo nel le­tame potremmo capirci al meglio».
Questa differenza di livello fra il soggetto individuo e il soggetto massa si estende a
tutta la vita sociale ed è tal­mente ricca di implicazioni da spingermi ad elencare qualche altro parere: soprattutto di quelle personalità che, trovandosi in una posizione
particolare – ancorché diversa –, seppero accumulare una vasta esperienza in materia
di relazioni pubbliche. Solone pare abbia detto che i suoi ateniesi erano tante volpi
astute, ma una volta riuniti sul Pnyx si trasformavano in un gregge di pecore. Nelle
sue memorie, descrivendo le sedute del parlamen­to di Parigi all’epoca della fronda,
il Cardinale di Retz osserva che molte corporazioni, pur contenendo anche degli
esponenti autorevoli e istruiti, in sede di consulta­zione comune solevano comportarsi come la plebe e obbedivano ai suoi stessi istinti e alle medesime passioni. Come
Solone, anche Federico il Grande dichiara che i suoi generali, se presi ad uno ad uno,
sono le persone più razionali del mondo: ma una volta riuniti in un con­siglio di guerra si comportano come tante pecore. Identico è il parere dello storico inglese Freeman,
che osser­va come la Camera Bassa – a giudicare dal rango dei suoi esponenti – sia
una corporazione aristocratica: ma durante le sedute non ha nulla di diverso da
un’accoz­zaglia di democratici. Il massimo studioso delle corpo­razioni inglesi rileva
come nelle loro assemblee di massa si prendano delle decisioni tanto assurde e dannose da indurre la maggior parte delle Unions a rinunciarvi e a preferire le assemblee
di delegati.
Vediamo dunque come, da una varietà di osservazioni, emerga un parere concorde.
Esse, d’altronde, a prescin­dere dal contenuto, hanno una rilevanza sociologica non
solo per la loro generalità, ma anche perché sim­boleggiano delle situazioni e dei fenomeni di grande importanza storica. Il mangiare e il bere (ossia le funzioni più antiche, ma anche le meno elevate sul piano intellettuale) possono essere il trait d’union
(spesse volte il solo) fra persone e gruppi del tutto eterogenei. Nei circoli per soli
uomini, anche se culturalmente elevati, ci si abbandona spesso al racconto di storielle oscene. Nei gruppi giovanili, la gioia più scatenata e l’unione più stretta fra membro e membro si ottiene con dei giochi di società, il cui carattere è spesso dei più
triviali e pri­mitivi. La necessità di appartenenza ad una grande massa (e di restarvi il
più a lungo possibile) torna così a detri­mento del carattere. Essa infatti spoglia il
singolo della sua cultura individuale e lo costringe a scendere tanto in basso da potersi associare con chiunque. […] Le azioni della massa puntano dritto allo scopo e
cercano di raggiungerlo per la via più breve: questo fa sì che, a dominarle, sia sempre
una sola idea, la più semplice possibile. Capita assai di rado che, nelle loro coscienze, i membri di una grande massa ab­biano un vasto campionario di idee in comune
con gli altri. Inoltre, data la complessità della realtà contem­poranea, ogni idea semplice deve anche essere la più ra­dicale ed esclusiva. Ciò spiega il successo dei partiti ra­dicali nei periodi di grandi turbolenze di massa e la de­bolezza dei partiti moderati, nel loro sforzo di risolvere le vertenze con gli strumenti del diritto. […] La
massa non mente né simula mai, anche perché, data la sua struttura psichica, le manca il benché minimo senso del­la responsabilità.
[…] In generale, chiunque abbia voluto agire sulla massa lo ha sempre fatto con un
appello ai sentimenti e solo di rado si è servito di argomenti teorici. Questo vale
principalmente per una massa che si trovi concen­trata in un sol luogo. In tal caso
assistiamo ad un fe­nomeno che potremmo indicare come suscettibilità col­lettiva.
Tipica della grande massa è assai spesso una passione, un’eccentricità, un’irritabilità
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Storia del pensiero sociologico
che difficilmen­te compare nei suoi membri singolarmente presi. Il fenomeno interessa anche gli animali che vivono aggregati: il battito d’ali più leggero, uno scatto anche
minimo di qualcuno, possono scatenare nel branco una vera e propria forma di timor
panico. L’effetto alle volte ab­norme di sollecitazioni episodiche, l’alternarsi vertigi­
noso di impulsi d’odio e d’amore, la suscettibilità quasi incomprensibile della massa,
che la spinge a un’azione dirompente e annulla ogni distanza individuale tutto questo,
insomma, deriva dall’effetto congiunto di mol­teplici effusioni del sentimento che,
propagandosi fra gli individui, si sommano in un’eccitazione collettiva che il singolo
non basta a spiegare. È questo uno dei fenomeni più istruttivi nel campo della sociologia pura: l’individuo è posseduto dalla massa – ­e dal suo «stato d’animo» turbinoso – come da un po­tere esterno, che lo oppone a se stesso e al suo volere. Ciò, nonostante il fatto che la massa consista solo di in­dividui, delle loro forme di reciprocità,
e sviluppi una dinamica che, date le dimensioni, appare come qualcosa di oggettivo,
capace di nascondere a ciascuno il relativo apporto individuale. Di fatto, l’individuo
ne è partecipe proprio perché trascinato nel suo stesso vortice. […] Innumerevoli
esempi ci insegnano come sia proprio l’in­telletto individuale a venir meno di fronte
al crescere dell’emotività, quasi che il numero delle persone a con­tatto fungesse da
moltiplicatore per una potenza di sen­timento che è l’individuo stesso a trasmettere.
A teatro o nelle assemblee capita più volte di ridere per delle bat­tute che, in privato,
non si ascolterebbero nemmeno: le stesse di cui, con vergogna, ci informano i resoconti parlamentari, quando riportano un’espressione come: ilarità! In simili momenti di eccitazione collettiva, a soc­combere non sono solo le istanze critiche dell’intelletto, ma anche quelle della moralità. Da ciò, infatti, traggo­no spiegazione i cosiddetti crimini collettivi: quelli in cui ciascuno si proclama innocente con piena certezza
soggettiva e buon diritto oggettivo, poiché, dilatandosi ol­tremisura, le vibrazioni del
sentimento assorbono anche la quota di energia psichica che provvede, di regola, a
mantenere unita la personalità e a farne qualcosa di re­sponsabile. Questo coinvolgimento nella massa, pur possedendo anche una dimensione etica – che si mani­festa in
un nobile fervore e nella più completa disponi­bilità al sacrificio –, non può che apparirci abnorme e irrazionale: in sua presenza, l’individuo è spinto al di là delle norme
valutative da cui, più o meno attivamente, aveva tratto impulso la sua coscienza.
In base alle considerazioni fin qui svolte, la formazione di un livello sociale può essere espressa in questa for­mula: quel che è comune a tutti, può solo appartenere a chi
possiede di meno. […]
È dunque illusorio credere che il livello di una comunità unitaria (o per lo meno tale
da un punto di vista pratico) sia per davvero il livello «medio». Per calcolare questa
«media» bisognerebbe sommare le posizioni di tutti gli individui e dividere il risultato per il loro numero. Ma ciò equivarrebbe ad elevare la posizione dei più umili,
con un’operazione tanto irreale quanto improduttiva. La comunità, semmai, si trova
tanto più vicina al loro livello, quanto più spesso accade che tutti i suoi membri siano
accomunati da valori e attività uniformi. Per sua natura il comportamento collettivo
tende a coincidere con quello delle persone più umili e, a meno di non confondermi
a mia volta, penso sia esatto parlare di «mediocrità» quando si vuole intendere non
il valore medio di una totalità di individui e prestazioni, ma in una qualità di gran
lunga inferiore. […] Il livello sociale non si individua quasi mai con quello degli
individui più umili: tende a coincidervi, ma resta il più delle volte al di sopra. C’è
infatti una forma di resistenza che, in diversa misura e da parte degli individui più
dotati, tende ad opporsi a questo abbassamento collettivo. La sua azione impedisce
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Storia del pensiero sociologico
che l’agire della comunità precipiti verso i livelli più bassi. […] l’uomo può regredire facilmente, ma progredisce con molta fatica.
(Georg Simmel, Forme e giochi di società, Feltrinelli, Milano 1983)
❱❱ 10.Lo spirito libero
O sancta simplicitas! In quale strana semplificazione e fal­sificazione vive l’uomo!
Non si finisce mai di meravigliarsi quando si è assistito ad un tale prodigio! Come
abbiamo reso chiaro e libero e facile e semplice tutto quanto ci circonda! Come abbiamo saputo dare a noi stessi un lascia-passare per tutto ciò che è superficiale e al
nostro pensiero una divina avidità di salti spavaldi e di paralogismi! – come abbiamo
imparato fin dall’inizio a conservarci la nostra ignoranza, per godere di una libertà,
una sicurezza, una imprudenza, una riso­lutezza, una serenità di vita appena concepibili, per godere della vita! E, solo su questo fondo di ignoranza ormai saldo e granitico ha potuto erigersi finora la scienza; la volontà di sapere sulla base di una volontà molto più potente, della vo­lontà di non-sapere, di incertezza, di non-verità! Non
come suo contrario, ma – come suo perfezionamento! […] Correte a nascondervi! E
usate la vostra maschera e l’astuzia perché vi si confonda con altri! O vi si tema un
poco! E non dimenticate il giar­dino, il giardino dalle inferriate d’oro! E abbiate uomini in­torno a voi che siano come un giardino, – o come musica sulle acque, quando
è sera, e già il giorno diventa ricordo: – sce­gliete la buona solitudine, la libera, coraggiosa, lieve solitu­dine, che vi dà anche un diritto di restare ancora, in un certo
senso, buoni! Come rende velenosi, astuti, cattivi questa lunga guerra, che non si
lascia condurre con violenza e a viso aperto! Come rende personali una lunga paura!
una lunga attenzione al nemico, a un nemico possibile! Questi respinti dalla società,
eternamente perseguitati, istigati con perfidia, – compresi gli eremiti per forza, gli
Spinoza e i Giordano Bruno – alla fine diventano sempre, e sia pure sotto la maschera più spirituale, e forse addirittura senza saperlo, dei raffinati ricercatori di vendetta
e avvelenatori. […] Ogni persona eletta tende istintivamente al suo rifugio e alla sua
intimità, dove poter essere libera dalla massa, dai molti, dai troppi, dove poter dimenticare la regola «uomo», in quanto sua eccezione: – escluso l’unico caso, che egli
venga spinto da un istinto ancora più forte direttamente su questa regola, come uomo
della conoscenza in senso sublime ed eccezionale. Chi nel rapporto con gli uomini
non ha assunto, secondo le circostanze, tutti i colori della pena, verde e grigio di
nausea, fastidio, pietà, tetraggine, abbandono, non è certo un uomo di gusto superiore; ma se egli non si assume volontariamente tutti questi pesi e questo fastidio, se li
elude sempre e rimane, come si è detto, silenzioso e superbo, rinchiuso nella sua
torre, allora una cosa è certa: egli non è fatto, non è predestinato alla conoscenza.
Perché, se lo fosse, dovrebbe dirsi un giorno «al diavolo il mio buon gusto! la regola
è più inte­ressante dell’eccezione, – di me, che sono l’eccezione!» – e scenderebbe in
basso, soprattutto «dentro». Lo studio dell’uo­mo medio, lungo, severo che vuole
molte simulazioni, superamenti di sé, fiducia, cattive compagnie – ogni compagnia è
cattiva, eccetto quella dei propri pari –: costituisce una parte necessaria della biografia di ogni filosofo, forse la più sgrade­vole, la più maleodorante, la più ricca di delusione. Ma se egli ha fortuna, come si addice a un beniamino della cono­scenza, allora
incontrerà chi gli abbrevierà e gli mitigherà il compito, – intendo i cosiddetti cinici,
dunque quei tali che riconoscono semplicemente in sé la bestia, la volgarità, la «re­
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Storia del pensiero sociologico
gola» e che oltre a ciò possiedono tuttavia abbastanza spiri­tualità e sensibilità per
sentire la necessità di parlare di sé e dei propri simili dinnanzi a testimoni: – talvolta
si roto­lano persino nei libri come nei loro stessi escrementi. Il Ci­nismo è l’unica
forma nella quale anime volgari rasentano l’onestà – e di fronte al cinismo più rozzo
o più raffinato l’uomo superiore deve aprire bene le orecchie e congratularsi ogni
volta con sé stesso, se proprio di fronte a lui il pagliac­cio sfrontato o il satiro della
scienza parlano a voce alta, Ci sono persino casi nei quali alla nausea si mescola
l’incanto: lì, cioè, dove per un capriccio della natura, il genio è unito a un tale sfrontato caprone e a una scimmia, come nel caso del­l’Abbé Galiani, l’uomo più profondo,
il più acuto e forse anche il più sporco del suo secolo – fu molto più profondo di
Voltai­re e di conseguenza anche molto più silenzioso. È accaduto già molto spesso
che, come si è accennato, si abbia una testa di scienziato su un corpo di scimmia, un
intelletto eccezional­mente fine in un’anima volgare – un caso per nulla raro, in particolare fra i medici e i fisiologi della morale. E ogni volta che si parla senza amarezza, anzi tranquillamente del­l’uomo come di un ventre con due bisogni e di una testa
che ne ha uno solo; dovunque si veda, si cerchi e si voglia ve­dere sempre solo fame,
libidine sessuale e presunzione, come se esse fossero gli unici e veri moventi delle
azioni umane; in breve, dove si parli «male» dell’uomo – e neppure con cattiveria –,
lì l’amante della conoscenza, dovrà ascoltare con acuta attenzione e con zelo dovrà
tendere l’orecchio sopratutto quando si parla senza indignazione. Poiché l’uomo indignato, e colui che sempre si strazia e si sbrana con i propri denti (o in sostituzione
di sé strazia il mondo, o Dio, o la società), può sì secondo la morale, essere superiore al satiro che ride; pago di sé, ma in ogni altro caso è il caso più comune, più insignificante, meno istruttivo. E nessuno mente quanto l’in­dignato. […]
Ciò che è balsamo e nutrimento per la specie più elevata degli uomini, deve essere
quasi veleno per una specie assai diversa e infe­riore. Le virtù dell’uomo comune
avrebbero forse in un filosofo il significato di vizio e di debolezza; sarebbe possibile
che un uomo di tipo superiore, posto che degenerasse e an­dasse in rovina, giungesse
solo in questo modo a possedere le qualità in virtù delle quali fosse sentita la necessità di ve­nerarlo come un santo, nel mondo abietto nel quale è spro­fondato. Esistono
libri che hanno per l’anima e per la salute un valore opposto a seconda che se ne
serva un’anima vol­gare, un’inferiore forza vitale, oppure la più elevata e pos­sente;
nel primo caso quei libri sono pericolosi, stritolano e dissolvono, nell’altro sono i
richiami dell’araldo che invitano i più prodi a dar prova del loro valore. I libri per
tutti sono sempre libri maleodoranti: vi si attacca l’odore della piccola gente. Dove
il popolo mangia e beve, persino dove adora, lì di solito c’è fetore. Non bisogna entrare in una chiesa, se si vuole respirare aria pura.
(Friedrich Nietzsche, Al di là dei, bene e del male, Newton Compton,
Roma 1977)
❱❱ 11.La scienza della politica
L’emergere e lo sparire dei problemi nel nostro orizzonte intellettuale sono governati da un principio di cui non siamo ancora pienamente­ consapevoli. La nascita e la
scomparsa di interi sistemi gnoseologici possono conclusivamente essere riportati a
certi fattori e divenire pertanto comprensibili. Ci sono già stati dei tentativi, nella
storia dell’arte, volti a scoprire per quali ragioni e quando la scultura o altre espres
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Storia del pensiero sociologico
sioni figurative diventano le forme d’arte dominanti di un’età. Allo stesso modo, la
sociologia del sapere dovrebbe cercare di spiegare le condizioni per cui nascono e
s’affermano certi problemi e discipline. A lungo andare, il sociologo dovrebbe essere in grado di non attribuire realtà e la soluzione delle varie questioni alla sola presenza e abilità degli individui. I complessi rapporti sussistenti tra i diversi problemi,
in un dato tempo e luogo, vanno in ogni caso, considerati nel quadro generale della
società in cui si danno, anche se esso non può sempre fornirci un’idea esatta di tutti
i particolari. È pur vero che il singolo ha talora l’impressione dell’assoluta autonomia
delle sue convinzioni, della loro indipendenza dall’assetto sociale; non è davvero
infrequente per uno che vive in un mondo provinciale e socialmente ristretto pensare
­alle proprie cose, come a fatti del tutto isolati e di cui lui solo è responsabile. La sociologia non può, tuttavia, accontentarsi di questa prospettiva limitata ed immediata.
I fatti che all’apparenza sono sle­gati e isolati debbano venire intesi in quel dinamico
e sempre nuovo piano di esperienza che costituisce la loro vera concretezza. Solo in
un tale contesto essi acquistano significato. Se la sociologia della cono­scienza dovesse conseguire un qualche successo in questo tipo d’analisi, molte questioni che sino
ad ora sono rimaste oscure potrebbero essere chiarite. Un tale progresso ci consentirebbe infatti di capire perché la sociologia e l’economia sono di data recente, perché
esse hanno progredi­to in certi paesi e in altri sono state invece impedite e ostacolate
ogni mezzo. Diverrebbe ugualmente possibile rispondere ad un problema, cui mai è
stata data risposta, e cioè al fatto che noi non abbiamo ancora assistito ad alcun sviluppo della scienza politica. In un mondo pervaso da un ethos razionalistico come il
nostro, ciò costituisce una notevole anomalia.
Non esiste quasi sfera dell’esistenza di cui non s’abbia una qualche conoscenza scientifica e per cui non valgano efficaci metodi di insegna­mento. Si deve allora pensare
che proprio la parte dell’attività umana dal cui controllo dipende il nostro destino, sia
ostica al punto che la scienza non riesca a violarne i segreti? Non si possano trascurare gli aspetti problematici della questione. Quel che resta da vedere è se essa rifletta semplicemente uno stato provvisorio che si può superare o se invece noi non abbiamo già raggiunto, in questa sfera, il massimo e definitivo grado di conoscenza.
Si può osservare, in favore della prima possibilità, che le scienze sociali sono ancora
nello stato d’infanzia. Sarebbe allora legittimo con­cludere dall’immaturità delle più
fondamentali fra tali discipline anche l’arretratezza di questa scienza «applicata». Se
così fosse, basterebbe soltanto attendere che questo ritardo venga meno, e certamente la suc­cessiva ricerca sarebbe poi in grado di esercitare sulla società un con­trollo
paragonabile a quello che oggi operiamo sul mondo fisico.
La tesi opposta si fonda invece nella vaga consapevolezza che la prassi politica costituisca qualcosa di qualitativamente diverso da ogni altro tipo di esperienza umana,
e che di conseguenza la sua compren­sione presenti ostacoli assai maggiori di quanto
non avvenga per gli altri campi del sapere. Ne segue che tutti gli sforzi per sottomettere questi fenomeni all’analisi scientifica sono considerati condannati all’in­successo
a causa della loro particolare natura.
Una corretta impostazione del problema sarebbe già un successo rimarchevole. Renderci conto della nostra ignoranza costituirebbe in­vero un grande passo in avanti, in
quanto ci spiegheremmo allora perché la conoscenza e la comunicazione non sono in
questo caso possibili. Pertanto il nostro primo compito consiste in una rigorosa definizione del problema. Esso si pone in questo modo: che cosa s’intende allorché domandiamo: è possibile una scienza della politica?
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Storia del pensiero sociologico
Ci sono alcuni aspetti della politica che sano immediatamente com­prensibili e comunicabili. Un esperto e navigato leader politico do­vrebbe infatti conoscere la storia del
proprio paese e quella delle nazioni vicine, le quali costituiscono il teatro delle sue
iniziative; ne con­segue che la conoscenza della storia e una rilevante informazione
stati­stica sono indispensabili per la sua attività. Inoltre, un capo politico dovrebbe
sapere qualcosa anche delle istituzioni politiche di quei paesi a cui è interessato. È
comunque indispensabile che la sua esperienza non sia solo giuridica, ma includa
anche una conoscenza delle relazioni sociali che sano a base della struttura istituzionale e insieme ne assi­curano il funzionamento. Del pari, egli non deve ignorare le
idee poli­tiche tradizionali del proprio paese, né può restare all’oscuro di quelle appartenenti ai suoi avversari. Ci sono ancora altri problemi, sebbene meno immediati,
che sono venuti in discussione nel nostro tempo: intendiamo riferirci, ad esempio,
alle tecniche con cui poter disporre delle folle, senza le quali è impossibile affermarsi in una democrazia di masse come l’attuale. La storia, la statistica e la teoria politica, la socio­logia, la storia delle idee e la psicologia sociale rappresentano, tra le
molte altre discipline, campi del sapere particolarmente importanti per il leader politico. Se noi volessimo tracciare un vero e proprio curricu­lum della sua educazione,
gli studi in questione dovrebbero esservi senza dubbio inclusi. Le discipline già menzionate non offrono, comunque, molto di più di una conoscenza pratica, utilizzabile
appunto dal poli­tico di professione. Ma esse, anche se prese nel loro complesso, non
bastano a darci una scienza della politica e, al massimo, possono servire come sue
discipline ausiliarie. Se per politica intendessimo la semplice gamma delle nozioni
pratiche utili per la condotta del leader o dell’uomo di partito, nessun dubbio si potrebbe levare sull’esistenza di una tale scienza e sulla sua insegnabilità. L’unico
problema pedagogico consi­sterebbe, in questo caso, nel trascegliere dal numero
pressoché infinito dei fatti quelli più rilevanti ai fini dell’azione politica.
È tuttavia evidente che la questione «Quali condizioni richiede una scienza della
politica e come può essa venire insegnata?» non si riferisce all’insieme di notizie
pratiche sopra menzionate. In che consiste allora il problema?
Le discipline che abbiamo esaminato sono strutturalmente con­nesse solo nella misura in cui si occupano della società e dello Stato come se fossero i prodotti finali della
storia passata. La prassi politica, invece, si interessa dell’assetto sociale e dello stato
nel loro nascere e nel loro formarsi. Essa ha che fare con un processo nel quale ogni
momento dà luogo a una situazione irripetibile e da cui si cerca di isolare qualcosa
che abbia un valore permanente. Nasce allora la que­stione: «C’è una scienza di questo divenire, una scienza dell’attività creatrice?».
Il primo stadio nell’elaborazione del problema è così raggiunto. Qual è (nell’ambito
della società) il significato di questo contrasto tra ciò che è stato e ciò che sta divenendo? […]
Per razionale che la nostra vita attuale possa sembrare, tutti i progressi che in tal
senso si sono compiuti fino qui sono solamente parziali, in quanto i più importanti
settori della vita sociale sono tuttora ancorati all’irrazionale. La nostra vita economica, sebbene assai sviluppata nel suo aspetto tecnico e prevedibile in taluni suoi rapporti, non presenta, nel suo insieme, un ordine assoluto. Malgrado tutte le tendenze
verso il monopolio e l’organizzazione, la libera competizione gioca ancora un ruolo
decisivo. La nostra struttura sociale si definisce in termini di classe; ciò significa che
non sono tanto i fatti oggettivi, quanto le forze irrazionali della lotta sociale a decidere il posto e la funzione dell’indivi­duo nella società. Non altrimenti, il potere nella
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Storia del pensiero sociologico
vita della singola na­zione e del mondo si consegue con la lotta, che è di per sé irrazionale e in cui il caso ha non poca importanza. Queste forze irrazionali costitui­scono
quella sfera della vita sociale che non è ancora organizzata e nella quale il comportamento, nel senso che s’è accennato, e la politica diven­gono necessari. Le due principali sorgenti dell’irrazionalismo nella strut­tura sociale (ovvero la lotta incontrollata e il predominio della forza) sono alla base della società tuttora disorganizzata, per
cui la politica si rende indispensabile. Attorno a questi due centri, si accumulano que­
gli altri profondi elementi irrazionali che noi di solito chiamiamo emo­zioni. Dal
punto di vista sociologico, esiste senza dubbio una connessione tra la parte della
società ove prevalgono la lotta e la forza e l’integra­zione sociale delle reazioni emozionali.
Il problema deve allora essere formulato così: Quale conoscenza possediamo o è
possibile ottenere di questa parte della vita sociale e del tipo di comportamento che
in essa si presenta? Esso ci si presenta nella forma più facile per essere chiarito. Una
volta determinato dove comincia il regno della politica e dove il comportamento (nel
senso che s’è detto) diviene effettivo, noi siamo in grado di indicare quali siano le
difficoltà che si frappongano allo studio dei rapporti tra la teoria e la pratica.
(Karl Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna 1957)
❱❱ 12.Le istituzioni totali
Le organizzazioni sociali – o istituzioni nel senso comu­ne del termine – sono luoghi,
locali o insiemi di locali, e­difici, costruzioni, dove si svolge con regolarità una certa
attività. In sociologia non esiste un modo particolare di classificarle. Alcune istituzioni, come la stazione centrale, sono accessibili a chiunque si comporti in modo
decente; altre, come l’Union Club di New York, o i laboratori di Los Alamos sembrano più esclusive e rigorose circa il li­vello dei loro partecipanti; altre ancora, come
negozi o uf­fici postali, sono costituite da alcuni membri fissi che vi svolgono un
certo servizio, e da un continuo fluire di per­sone che lo richiedono. Altre, come case
e fabbriche, coin­volgono un gruppo meno fluttuante di partecipanti. In al­cune istituzioni si svolgono attività dalle quali viene sanci­ta la condizione sociale di coloro che
ne fanno parte, il che può essere più o meno gradito. Altre invece consentono il raggrupparsi di persone allo scopo di svolgere un tipo di attività ricreative da loro scelte,
sfruttando il tempo rima­sto libero da attività impegnative. In questo saggio viene
isolata e riconosciuta come naturale e ricca di possibilità di indagine, un’altra categoria di istituzioni, i cui membri sembrano avere tanti elementi in comune con quelli delle altre che, per studiarne una, risulterebbe utile esaminarle tutte.
Ogni istituzione si impadronisce di parte del tempo e degli interessi di coloro che da
essa dipendono, offrendo in cambio un particolare tipo di mondo: il che significa che
tende a circuire i suoi componenti in una sorta di azio­ne inglobante. Nella nostra
società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con
un potere inglobante – seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere
inglobante o totale è simbolizza­to nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita
ver­so il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche
dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o
brughie­re. Questo tipo di istituzioni io lo chiamo «istituzioni to­tali» ed è appunto il
loro carattere generale che intendo qui analizzare.
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Storia del pensiero sociologico
Le istituzioni totali nella nostra società possono essere raggruppate – grosso modo
– in cinque categorie. Primo, le istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi
(isti­tuti per ciechi, vecchi, orfani o indigenti). Secondo, luoghi istituiti a tutela di
coloro che, incapaci di badare a se stes­si, rappresentano un pericolo – anche se non
intenziona­le – per la comunità (sanatori per tubercolotici, ospedali psichiatrici e lebbrosari). Il terzo tipo di istituzioni totali serve a proteggere la società da ciò che si
rivela come un pericolo intenzionale nei suoi confronti, nel qual caso il benessere
delle persone segregate non risulta la finalità immediata dell’istituzione che li segrega (prigioni, peni­tenziari, campi per prigionieri di guerra, campi di concen­tramento).
Quarto, le istituzioni create al solo scopo di svolgervi una certa attività, che trovano
la loro giustifica­zione sul piano strumentale (furerie militari, navi, collegi, campi di
lavoro, piantagioni coloniali e grandi fattorie, queste ultime guardate naturalmente
dalla parte di coloro che vivono nello spazio riservato ai servi). Infine vi sono le organizzazioni definite come «staccate dal mondo» che pe­rò hanno anche la funzione
di servire come luoghi di prepa­razione per religiosi (abbazie, monasteri, conventi ed
altri tipi di chiostri). Una suddivisione delle istituzioni totali così formulata non è né
chiara, né esauriente, né può ser­vire di base per uno studio analitico dell’argomento.
Essa risulta tuttavia capace di darci una definizione significati­va della categoria, come
punto di partenza concreto. […] Nessuno degli elementi che descriverò sembra tipicamente peculiare delle istitu­zioni totali, né può essere condiviso da tutte. Ciò che è
ti­pico nelle istituzioni totali è che ciascuna di esse rivela, ad un altissimo grado, molti elementi in comune in questo ti­po di caratteristiche. […] Uno degli assetti sociali
fondamentali nella società mo­derna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a
lavo­rare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza alcuno schema razionale di carattere glo­bale. Caratteristica principale delle istituzioni
totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abi­tualmente separano
queste tre sfere di vita. Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si
svolge a stretto contatto di un enorme grup­po di persone, trattate tutte allo stesso modo
e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta dall’una
all’altra, dato che il complesso di attività è imposto dall’alto da un siste­ma di regole
formali esplicite e da un corpo di addetti alla loro esecuzione. Per ultimo, le varie
attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, apposita­mente
designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.
Queste caratteristiche possono essere riscontrate, isola­tamente, anche in luoghi che
non hanno niente a che fare con le istituzioni totali. Ad esempio, le nostre grandi
organizza­zioni commerciali, industriali e culturali vanno sempre più fornendo luoghi
di ristoro e svaghi ricreativi per il tempo libero dei loro dipendenti. Tuttavia il fatto
di poter gode­re di una più vasta gamma di possibilità, conserva – sotto molti aspetti
– un carattere volontario e ci si preoccupa, anzi, di non far estendere il potere usuale
dell’autorità fi­no a questo territorio. Analogamente le «casalinghe» o le famiglie che
vivono nelle fattorie di campagna possono svolgere le loro attività vitali più importanti all’interno di una medesima area recintata, senza tuttavia essere irreggi­mentate
collettivamente, dato che non svolgono loro attività giornaliere a stretto contatto di
gruppi di persone nelle loro medesime condizioni.
Il fatto cruciale delle istituzioni totali è dunque il do­ver «manipolare» molti bisogni
umani per mezzo dell’or­ganizzazione burocratica di intere masse di persone – sia che
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Storia del pensiero sociologico
si tratti di un fatto necessario o di mezzi efficaci cui l’organizzazione sociale ricorre
in particolari circostanze. Ne conseguono alcune importanti implicazioni.
Quando si agisce su gruppi di individui, accade che essi siano controllati da un personale la cui principale attività non risulta la guida o il controllo periodico (come può
es­sere in molti rapporti fra datore di lavoro e lavoratore), quanto piuttosto un tipo di
sorveglianza particolare, quale quella di chi controlla che ciascun membro faccia ciò
che gli è stato chiesto di fare, in una situazione dove si tenderà a puntualizzare l’infrazione dell’uno contrapponendola all’evidente zelo dell’altro che, per questo, verrà
costante­mente messo in evidenza. Che sia il gruppo di persone controllate a precedere il costituirsi del piccolo staff con­trollore o viceversa, non è questo il problema; ciò
che con­ta è che l’uno è fatto per l’altro.
Nelle istituzioni totali c’è una distinzione fondamentale fra un grande gruppo di persone controllate, chiamate op­portunamente «internati», e un piccolo staff che controlla. Gli internati vivono generalmente nell’istituzione con limitati contatti con il
mondo da cui sono separati, men­tre lo staff presta un servizio giornaliero di otto ore
ed è socialmente integrato nel mondo esterno. Ogni gruppo tende a farsi un’immagine dell’altro secondo stereotipi li­mitati e ostili: lo staff spesso giudica gli internati
malevo­li, diffidenti e non degni di fiducia; mentre gli internati ri­tengono spesso che
il personale sì conceda dall’alto, che sia di mano lesta e spregevole. Lo staff tende a
sentirsi superiore e a pensare di aver sempre ragione; mentre gli in­ternati, almeno in
parte, tendono a ritenersi inferiori, de­boli, degni di biasimo e colpevoli. (Nelle situazioni in cui si richiede allo staff di vivere nell’istituzione, è presumibile che esso
avverta di essere sottoposto ad una particolare privazione, oltre al fatto di essere
soggetto ad una condizione di dipendenza che supera ogni aspettativa).
(Erving Goffman, Asylums, Einaudi, Torino 1969)
❱❱ 13.Scientificizzazione della politica e opinione pubblica
La scientificizzazione della politica oggi non denota ancora un dato di fatto, ma indica pur sempre una tendenza, a dimo­strazione della quale si possono citare dei dati:
sono soprattutto l’ampiezza della ricerca eseguita su ordinazione statale e l’am­montare
di consulenza scientifica nei servizi pubblici che segnano tale sviluppo. Veramente
fin dall’inizio lo Stato moderno, for­matosi in connessione con il traffico mercantile
di economie na­zionali e territoriali emergenti, a partire dai bisogni di un’ammi­
nistrazione finanziaria centrale, dovette ricorrere alla competenza di funzionari con
formazione giuridica. Questi però disponevano di un sapere tecnico, che nel suo
genere non si distingue sostan­zialmente dalla competenza, per esempio, dei militari.
Come que­sti dovevano organizzare gli eserciti permanenti, così i giuristi dovevano
organizzare l’amministrazione permanente; il loro com­pito consisteva più nell’esercizio di un’arte che nell’applica­zione di una scienza. Soltanto a partire da una generazione circa, anzi, in grande stile solo a partire dalla seconda Guerra mon­diale, burocrati, militari e politici si orientano nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche in
base a rigorose raccomandazioni scien­tifiche. Così viene raggiunto un nuovo livello
di quella «razio­nalizzazione», alla luce della quale Max Weber ha interpretato il
formarsi del dominio burocratizzato degli Stati moderni. Non che gli scienziati abbiano conquistato il potere nello Stato, però l’esercizio del dominio all’interno e
l’affermazione della potenza contro nemici esterni non sono più razionalizzati sol48
Storia del pensiero sociologico
tanto con la mediazione di un’attività amministrativa organizzata sulla base della
divisione del lavoro, regolata secondo competenze e vinco­lata a norme stabilite.
Piuttosto essi sono stati ancora una volta modificati nella loro struttura dalla normatività oggettiva di nuove tecnologie e strategie. […]
L’opinione pubblica esterna alla scienza diventa già molto spesso, in presenza di una
divisione del lavoro molto spinta, la via più breve per la comprensione interna tra gli
specialisti estraniati gli uni agli altri. Ma di que­sta costrizione a tradurre informazioni scientifiche, che deriva da bisogni della ricerca stessa, profitta anche la comunicazione pre­caria tra gli scienziati e il vasto pubblico dell’opinione politica.
Un’ulteriore tendenza che agisce anch’essa contro la paralisi della comunicazione tra
i due ambiti, risulta dalla necessità in­ternazionale della coesistenza pacifica di sistemi
sociali concor­renti. Le regole di segretezza militari, che bloccano il libero af­flusso di
informazioni scientifiche al pubblico, si accordano sem­pre meno infatti con le condizioni di un controllo degli arma­menti che sta diventando sempre più urgente. […]
Nella misura in cui le scienze vengono effettivamente utilizzate per la prassi politica,
cresce oggettiva­mente per gli scienziati la necessità di riflettere, ora andando an­che
oltre le raccomandazioni tecniche da essi prodotte, sulle con­seguenze pratiche che ne
derivano. Ciò si è verificato in grande stile per la prima volta nel caso degli scienziati atomici occupati alla costruzione delle bombe atomiche e nucleari.
In seguito si sono svolte discussioni, in cui scienziati autore­voli hanno discusso le
conseguenze politiche della loro prassi di ricerca; così per esempio sui danni provocati dal fall-out radioattivo per la salute presente della popolazione e per la sostanza
genetica del genere umano. Ma gli esempi sono scarsi. Tuttavia, essi mostrano che
scienziati responsabili, indipendentemente dalla loro competenza specifica, spezzano
i limiti della loro opinione pubblica interna alla scienza e si rivolgono direttamente
all’opi­nione pubblica, quando vogliono o evitare conseguenze pratiche connesse alla
scelta di certe tecnologie, oppure criticare determi­nati investimenti per la ricerca
sulla base dei loro effetti sociali. […] Da un lato non possiamo più contare su istituzioni garantite per una discussione pubblica nel vasto pubblico dei cittadini; dall’altro, un sistema di big science, basato sulla divisione del lavoro, e un apparato burocra­
tico di dominio possono fin troppo bene accordarsi reciproca­mente avendo escluso
l’opinione pubblica politica. L’alternativa che ci interessa non consiste affatto nel
preordinare da una parte un gruppo dirigente che sfrutta efficacemente un potenziale
di sapere essenziale per la sopravvivenza al di sopra di una popola­zione manipolata
dai mezzi di comunicazione di massa, e dall’al­tra un altro gruppo dirigente che, essendo isolato dall’afflusso di informazioni scientifiche, non può fare in modo che il
sapere tecnico entri, se non scarsamente, nel processo di formazione della volontà
politica. Si tratta piuttosto di vedere se un capitale di sapere carico di conseguenze
debba venire incanalato soltanto nella disposizione di uomini manipolanti tecnicamente, oppure anche recuperato nel linguaggio posseduto da uomini comuni­canti.
Una società scientificizzata potrebbe costituirsi come ca­pace di sé solo nella misura
in cui scienza e tecnica fossero me­diate con la prassi sociale attraverso le teste degli
uomini.
(Jurgen Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza,
Bari 1974)
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Storia del pensiero sociologico
❱❱ 14.Sorvegliare e punire
Damiens era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a «fare confessione pubblica
davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi», dove doveva essere «condotto e
posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera
ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla piazza di Grêve, e su un
patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso
delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto
parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato
piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo
corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento».
«Alla fine venne squartato, – racconta la ‘Gazzetta di Amsterdam’. – Quest’ultima
operazione fu molto lunga, perché i cavalli di cui ci si serviva non erano abituati a
tirare; di modo che al posto di quattro, bisognò metterne sei; e ciò non bastando ancora, si fu obbligati, per smembrare le cosce del disgraziato a tagliargli i nervi e a
troncargli le giunture con la scure […]
Tre quarti di secolo più tardi, ecco il regolamento redatto da Léon Faucher «per la
Casa dei giovani detenuti a Parigi».
«ART. 17. La giornata dei detenuti comincerà alle sei del mattino d’inverno, alle
cinque d’estate. Il lavoro durerà nove ore al giorno in ogni stagione. Due ore al giorno saranno consacrate all’insegnamento. Il lavoro e la giornata termineranno alle nove
d’inverno, alle otto d’estate.
ART. 18. Sveglia. Al primo rullo del tamburo, i detenuti devono alzarsi e vestirsi in silenzio, mentre il sorvegliante apre la porta delle celle. Al secondo rullo essi devono essere in piedi e fare il loro letto. Al terzo, essi si mettono in fila per andare alla cappella
dove si fa la preghiera del mattino. Ci sono cinque minuti d’intervallo fra ciascun rullo.
ART. 19. La preghiera è fatta dal cappellano e seguita da una lettura morale o religiosa. Questo esercizio non deve durare più di mezz’ora.
ART. 20. Lavoro. Alle sei meno un quarto d’estate, alle sette meno un quarto d’inverno, i detenuti scendono in cortile dove devono lavarsi le mani e la faccia e ricevere la
prima distribuzione di pane. Immediatamente dopo si raggruppano secondo i laboratori e si recano al lavoro, che deve cominciare alle sei d’estate e alle sette d’inverno.
ART. 21. Pasto. Alle dieci i detenuti lasciano il lavoro e si recano in refettorio; si
lavano le mani nei cortili e si raggruppano per squadra. Dopo la colazione, ricreazione fino alle undici meno venti.
ART. 22. Scuola. Alle undici meno venti, al rullo del tamburo, si formano le file, e si
entra in scuola per squadre. L’insegnamento dura due ore, impiegate alternativamente nella lettura, nella scrittura, nel disegno lineare, nel calcolo.
ART. 23. Alla una meno venti, i detenuti lasciano la scuola per squadre, e si recano
nelle loro corti per la ricreazione. Alla una meno cinque, al rullo del tamburo, si riuniscono secondo i laboratori.
ART. 24. Alla una i detenuti devono essere di nuovo nei laboratori: il lavoro dura fino
alle quattro.
ART. 25. Alle quattro si lasciano i laboratori per recarsi nei cortili dove i detenuti si
lavano le mani e si riuniscono per squadre per il refettorio.
ART. 26. Il pranzo e la ricreazione che segue durano fino alle cinque: in questo momento i detenuti rientrano nei laboratori.
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Storia del pensiero sociologico
ART. 27. Alle sette d’estate e alle otto d’inverno, il lavoro finisce; si fa un’ultima
distribuzione di pane nei laboratori. Una lettura di un quarto d’ora avente per oggetto nozioni istruttive o qualche tratto commovente è fatta da un detenuto o da un
sorvegliante e seguita dalla preghiera della sera.
ART. 28. Alle sette e mezzo d’estate e alle otto e mezzo d’inverno, i detenuti devono
essere riportati nelle loro celle, dopo il lavaggio delle mani e l’ispezione dei vestiti
fatta nei cortili; al primo rullo del tamburo, svestirsi, al secondo mettersi a letto. Si
chiudono le porte delle celle ed i sorveglianti fanno la ronda nei corridoi, per assicurarsi dell’ordine e del silenzio».
Ecco dunque un supplizio e un impiego del tempo. Non sanzionano gli stessi crimini,
non puniscono lo stesso genere di delinquenti. Ma ciascuno definisce bene un certo
stile penale. Meno di un secolo li separa. È l’epoca in cui tutta l’economia del castigo viene ridistribuita, in Europa e negli Stati Uniti. Epoca di grandi «scandali» per la
giustizia tradizionale, epoca di innumerevoli progetti di riforme; nuova teoria della
legge e del crimine, nuova giustificazione morale o politica del diritto di punire;
abolizione delle antiche ordinanze, scomparsa del diritto consuetudinario; progetto o
redazione di codici «moderni»: Russia, 1769; Prussia, 1780; Pennsylvania e Toscana,
1786; Austria, 1788; Francia, 1791, anno Quarto, 1808 e 1810. Una nuova era, per la
giustizia penale.
Fra tante modificazioni, ne coglierò una: la sparizione dei supplizi. Oggi siamo un
po’ portati a trascurarla: forse ai suoi tempi aveva dato luogo a troppa retorica; forse
era stata, troppo facilmente e con troppa enfasi, attribuita ad una «umanizzazione»
che autorizzava a non esaminarla. E, in ogni modo, quale è la sua importanza se la
paragoniamo alle grandi trasformazioni istituzionali, coi loro codici espliciti e generali, le loro regole di procedura unificate; la giuria adottata quasi ovunque, la definizione del carattere essenzialmente correttivo della pena, e la tendenza, che non cessa
di accentuarsi a partire dal secolo Diciannovesimo, ad adattare i castighi ai colpevoli? Punizioni meno immediatamente fisiche, una certa discrezione nell’arte di far
soffrire, un gioco di dolori più sottili, più felpati, spogliati del loro fasto visibile,
merita tutto questo un’attenzione particolare, quando senza dubbio non è niente di
più che l’effetto di rivolgimenti più profondi? Tuttavia un fatto esiste: in pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o
sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. È scomparso il
corpo come principale bersaglio della repressione penale. […]
L’eliminazione del supplizio è una tendenza che si radica nella grande trasformazione
degli anni 1760-1840, ma non giunge a compimento: possiamo dire che la pratica del
supplizio ha ossessionato a lungo il nostro sistema penale e vi è tuttora presente. La
ghigliottina, questa macchina di morte rapida e precisa, aveva iniziato in Francia una
nuova etica della morte legale. Ma la Rivoluzione l’aveva subito rivestita di un grandioso rituale scenografico. Per anni fece spettacolo. È stato necessario spostarla fino
alla barriera di Saint-Jacques, sostituire la carretta scoperta con una vettura chiusa, far
passare rapidamente il condannato dal furgone al palco, organizzare le esecuzioni ad
ore impossibili, e, da ultimo, sistemare la ghigliottina entro la cinta delle prigioni e
renderla inaccessibile al pubblico (dopo la esecuzione capitale di Weidmann, nel 1939),
sbarrare le strade che danno accesso alla prigione dove è nascosto il patibolo e dove
l’esecuzione si svolge in segreto (esecuzione di Buffet e di Bontemps alla Santé, nel
1972), processare i testimoni che raccontano la scena, perché l’esecuzione non sia più
uno spettacolo e rimanga uno strano segreto tra la giustizia e il suo condannato. Basta
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Storia del pensiero sociologico
evocare tutte queste precauzioni per comprendere come la morte penale resti ancora
oggi, nella sua essenza, uno spettacolo che bisogna, giustamente, vietare.
Quanto alla presa sul corpo, anch’essa, alla metà del secolo Diciannovesimo, non era
stata del tutto eliminata. Senza dubbio la pena non è più centrata sul supplizio come
tecnica per far soffrire, e ha preso come oggetto principale la perdita di un bene o di
un diritto, ma un castigo come i lavori forzati o perfino come la prigione – pura privazione della libertà – non ha mai funzionato senza un certo supplemento di punizione che concerne proprio il corpo in se stesso: razionamento alimentare, privazione
sessuale, percosse, celle di isolamento.
Conseguenza non voluta, ma inevitabile, della carcerazione? In effetti la prigione, nei
suoi dispositivi più espliciti, ha sempre comportato, in una certa misura, la sofferenza fisica. La critica spesso rivolta, nella prima metà del secolo Diciannovesimo, al
sistema carcerario (la prigione non è sufficientemente punitiva: i detenuti hanno meno
freddo, meno fame, minori privazioni, nel complesso, di molti poveri e perfino di
molti operai) indica un postulato che non è mai stato chiaramente abbandonato: è
giusto che un condannato soffra fisicamente più degli altri uomini. La pena ha difficoltà a dissociarsi da un supplemento di dolore fisico. Cosa sarebbe, un castigo incorporeo?
Nei meccanismi moderni della giustizia penale, permane quindi un fondo «suppliziante», un sottofondo non ancora completamente dominato, ma avvolto, in maniera
sempre più ampia, da una penalità dell’incorporeo. L’attenuarsi della severità penale
nel corso degli ultimi secoli è fenomeno ben noto agli storici del diritto. Ma, a lungo,
è stato considerato in maniera globale, come un fenomeno quantitativo; meno crudeltà, meno sofferenza, maggior dolcezza, maggior rispetto, maggiore «umanità». In
effetti queste modificazioni sono accompagnate da uno spostamento nell’oggetto
stesso dell’operazione punitiva. Diminuzione d’intensità? Forse. Sicuramente, un
cambiamento di obiettivo. […]
(Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976)
❱❱ 15.Il disagio della postmodernità
Nel 1929 comparve a Vienna Das Unbehagen in der Kultur, un saggio che inizialmente doveva essere intitolato Das Unglúck in der Kultur. Il suo autore era Sigmund
Freud. In italiano l’opera è nota come Il disagio della civiltà. La stimolante e provocante lettura freudiana delle pratiche della modernità entrò nella co­scienza collettiva
e finì per strutturare profondamente il modo di valutare le conseguenze (intenzionali
e non) dell’avventura moderna. [...]
Nello scambio, qualcosa si guadagna e qualcosa va irrimediabilmente perduto: questo
era il messaggio di Freud. Come «cultura» o «civiltà», la modernità ha a che fare con
la bellezza («questa cosa inutile che ci aspettiamo la civiltà stimi»), la pulizia («ogni
genere di sporcizia ci sembra incompatibile con la civiltà») e l’ordine («ordine è una
specie di coazione a ripetere che decide, grazie ad una norma stabilita una volta per
tutte, quando, dove e come una cosa debba essere fatta, in modo da evitare esitazione
e indugio in tutti i casi simili tra loro»). La bellezza (cioè tutto ciò che produce il
piacere sublime dell’armonia e la perfezione della forma), la pulizia e l’ordine sono
acqui­sizioni non trascurabili a cui certamente non si rinuncia senza dispiacere, dolore, o rimorso. Ma neppure si possono ottenere senza pagare un prezzo elevato. Gli
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Storia del pensiero sociologico
esseri umani non hanno alcuna predisposizione «naturale» a ri­cercare e preservare la
bellezza, a fare le pulizie e ad osservare la routine dell’ordine. (Anche se in qualche
oc­casione sembrano mostrare un tale «impulso», si tratta sempre di una inclinazione
inventata, acquisita e coltivata, il segno più evidente di un processo di incivilimento
in atto.) Gli uomini devono essere costretti a rispettare e ad apprezzare l’armonia, la
pulizia e l’ordine. La loro libertà di agire sulla base di impulsi deve essere limitata e
sotto­posta a restrizioni. I vincoli imposti sono dolorosi: offrono protezione alla sofferenza ma generano ulteriore tormento.
«La civiltà è costruita su una restrizione delle pulsioni». In particolare, la civiltà
(leggi modernità), «impone grandi sacrifici» alla sessualità e all’aggressività dell’uomo. «Il desiderio di libertà, perciò, si volge o contro forme e pretese particolari della
civiltà, o contro la civiltà tutta». E non può essere altrimenti. La vita civile, così dice
Freud, propone in una unica soluzione, piaceri e sofferenze, soddisfazione e disagio,
obbedienza e ribellione. La civiltà – l’ordine impo­sto sul disordine naturale dell’umanità – è un compromes­so, un contratto continuamente messo in discussione e da rinegoziare. Il principio di piacere è in questo caso ridotto in funzione del principio di
realtà, mentre le norme definiscono chiaramente ciò che si deve intendere per «realtà». «L’uomo civile ha scambiato una parte delle sue possibilità di felicità per un po’
di sicurezza». Per quanto realistici e plausibili possano essere i nostri tentativi di
agire miglio­rando le imperfezioni delle condizioni attuali, «forse è bene abituarsi a
pensare che ci sono alcune difficoltà intrinseche alla natura della civiltà in grado di
resistere a qualsiasi tentativo di intervento».
Freud parlava dell’ordine, orgoglio della modernità e punto di partenza di ogni altra
sua realizzazione (sia che si manifestasse sotto la stessa dimensione dell’ordine o si
ce lasse sotto le categorie della bellezza e della pulizia), in termini di «coazione»,
«regolazione», «soppressione» o «ri­nuncia forzata». Il disagio, profondamente intrecciato alla modernità, nasceva da un «eccesso di ordine» e dalla sua inseparabile
compagna: la morte della libertà. Esposta alla triplice minaccia della caducità del
corpo, dell’incontrol­labilità della natura selvaggia, e dell’aggressività del prossi­mo,
la condizione di sicurezza richiedeva il sacrificio della libertà: prima di tutto, della
libertà individuale di procurar­si il piacere. Nella cornice di una civiltà ripiegata sulla
sicurezza, maggiore libertà significava minore frustrazione. In una civiltà che sceglie
di limitare la libertà in nome della sicurezza, l’incremento dell’ordine implica la
crescita della frustrazione.
Il nostro, però, è un tempo di deregulation. Il principio di realtà è chiamato a difendersi, oggi, di fronte ad un tribunale in cui il principio di piacere è il giudice che
presiede la corte. «L’idea che ci siano difficoltà intrinseche alla natura della civilizzazione che resistono a qualsiasi tentati­vo di intervento» sembra aver perduto la sua
originaria inequivocabile evidenza. La coazione e la rinuncia forzata che un tempo
erano irritanti necessità, combattono oggi la loro battaglia contro la libertà individuale senza avere ga­ranzie di successo.
Settant’anni dopo la stesura de Il disagio della civiltà, la libertà individuale regna
sovrana; è il valore in base al quale ogni altro valore deve essere valutato e la misura
con cui la saggezza di ogni norma e decisione sovra-individuale va confrontata. Ciò
non significa, però, che gli ideali di bellez­za, pulizia e ordine, che avevano accompagnato gli uomini e le donne nel loro viaggio dentro la modernità, siano stati abbandonati o che abbiano perso il loro lustro originale. Al contrario, essi oggi devono
essere perseguiti – e realizzati – attraverso sforzi, percorsi e volontà individuali.
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Storia del pensiero sociologico
Nella sua attuale versione postmoderna, la modernità sembra avere trovato la pietra
filosofale che Freud aveva congedato come fantasia ingenua e dannosa: essa si propone di fondere il prezioso metallo di un «ordine puro» e di una «pulizia meticolosa»
estraendo direttamente la materia prima dalla umana (troppo umana) ricerca di piaceri, sempre più nume­rosi e sempre più appaganti – una ricerca che un tempo era del
tutto screditata e condannata come autodistruttiva. La«mano invisibile», uscita indenne, forse perfino rinvigorita, da due secoli di tentativi diretti a rinchiuderla nel
guanto d’acciaio delle regole e del controllo razionali, ha rigua­dagnato fiducia e
successo. La libertà individuale, un tempo un peso e un problema (forse il problema)
per tutti i costruttori dell’ordine, è diventata il vantaggio e la risorsa maggiore nel
continuo processo di autocreazione dell’universo umano.
Nello scambio, qualcosa si guadagna e qualcosa va irrimediabilmente perduto: la
vecchia regola rimane vera oggi come un tempo. Solo che i guadagni e le perdite
hanno invertito le loro posizioni: gli uomini e le donne postmoderni scambiano una
parte delle loro possibilità di sicurezza per un po’ di felicità. II disagio della modernità nasceva da un tipo di sicurezza che assegnava alla libertà un ruolo troppo limi­tato
nella ricerca della felicità individuale. Il disagio della postmodernità nasce da un
genere di libertà nella ricerca del piacere che assegna uno spazio troppo limitato alla
sicurezza individuale.
Ogni valore acquista rilevanza (come Georg Simmel osservava molto tempo fa) nella misura in cui, per poterlo ottenere, si devono abbandonare e sacrificare altri valori.
D’altra parte, quanto meno un valore è disponibile e tanto più si fa intenso il suo
bisogno. Il valore della libertà eserci­ta il fascino maggiore quando deve essere sacrificata sull’al­tare della sicurezza. Quando è la sicurezza a dover essere sacrificata nel
tempio della libertà individuale, essa assorbe tutto lo splendore della sua precedente
vittima. Se la noia e la monotonia pervadono le giornate di coloro che inseguo­no la
sicurezza, l’insonnia e gli incubi infestano le notti di chi persegue la libertà. In entrambi i casi, la felicità va perduta. Ascoltiamo di nuovo Freud: «Noi siamo fatti in
tal modo da essere in grado di ricavare un piacere intenso solo dal contrasto e molto
poco dal normale stato delle cose». Perché? Perché «ciò che chiamiamo felicità [...]
deriva dalla soddisfazione (di solito improvvisa) di bisogni che sono stati accuratamente repressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico». In
questo modo, una condizione di libertà senza sicurezza non assicura una quan­tità di
felicità maggiore rispetto ad una sicurezza senza libertà. Un mutamento nella configurazione delle faccende umane non rappresenta sempre un passo avanti verso uno
stato di felicità più intensa, anche se può sembrare tale nel momento in cui si compie.
La rivalutazione di tutti i valori è un momento felice ed esaltante, ma i valori rivalutati non garantiscono necessariamente uno stato di beatitudine.
Non ci sono guadagni senza perdite, ed è inutile sperare in una loro prodigiosa separazione: anzi, i guadagni e le perdite specifici di ogni accordo di convivenza umana
vanno accuratamente conteggiati in modo da poter cercare l’equilibrio ottimale tra i
due; anche se (o, piuttosto, poi­ché) la sobrietà e la saggezza faticosamente acquisite
pre­servano noi, uomini e donne postmoderni, dall’abbando­narci al sogno ad occhi
aperti di un resoconto in cui compaia solo il consuntivo dei nostri crediti.
L’ultima parola spetta alla libertà. Ogni gioco prevede vincitori e perdenti. Nel gioco
della libertà, però, la differenza tra le due categorie tende ad essere sfumata, se non del
tutto cancellata. Chi ha perso si consola con la speranza di vincere la prossima volta,
mentre la gioia del vincitore è offuscata dal presentimento della perdita. Per entrambi,
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Storia del pensiero sociologico
la libertà significa che nulla è stabi­lito in modo permanente e che la ruota della fortuna
può ancora girare. I capricci della sorte rendono incerta la con­dizione di entrambi. Ma
l’incertezza è portatrice di messag­gi differenti: ai perdenti dice che non tutto è ancora
perdu­to, mentre ai vincenti sussurra che ogni trionfo tende ad essere precario. Nel
gioco della libertà, il perdente si ferma prima della disperazione e il vincitore si ferma
prima di raggiungere l’assoluta certezza dei propri mezzi. Entrambi scommettono
sulla libertà ed entrambi hanno motivo di lamentarsi. Nessuno accetterebbe chiaramente restrizioni alla libertà, ma nessuno è totalmente sordo al fascino della certezza, che
in realtà si propone di curare i mali della libertà uccidendo il paziente.
(Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999)
❱❱ 16.La fotografia
Si potrebbe dire della fotografia ciò che Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto)
diceva della filosofia: «Nessun’altra arte, nessun’altra scienza è esposta a così supremo disprezzo che chiunque presume di possederla d’un tratto». A differenza di attività culturali più esigenti, come il disegno, la pittura o la pratica di uno strumento
musicale, a differenza perfino dalla frequenza ai musei o dall’ascolto ai concerti, la
fotografia non presuppone né la cultura trasmessa dalla Scuola, né il tirocinio e il
«mestiere» che conferiscono pregio ai consumi e alle pra­tiche culturali comunemente ritenute più nobili, escluden­done i non iniziati.
Niente si oppone più direttamente all’immagine comune della creazione artistica come
l’attività del fotografo ama­tore; che spesso chiede all’apparecchio di compiere al suo
posto il maggior numero possibile di operazioni, identifi­cando il grado di perfezione
della macchina che utilizza con il suo grado di automatismo. Tuttavia, sebbene la
produ­zione dell’immagine sia interamente devoluta all’automati­smo dell’apparecchio,
l’inquadratura rimane una scelta che impegna valori estetici ed etici: se, astrattamente, la natura e i progressi della tecnica fotografica tendono a rendere ogni cosa oggettivamente «fotografabile», ciò non toglie che di fatto, nell’infinità teorica delle fotografie tecnicamente pos­sibili, ogni gruppo selezioni una gamma precisa e definita di
soggetti, di generi e di composizioni. «L’artista – dice Nietzsche (La gaia scienza)
– sceglie i suoi soggetti: è il suo modo di lodare». Poiché è una «scelta che loda»,
poiché rappresenta l’inten­zione di fissare, cioè solennizzare ed eternizzare, la fotografia non può essere esposta ai rischi della fantasia individuale e pertanto, con la
mediazione dell’ethos, interiorizzazione delle regolarità oggettive e comuni, il. gruppo subordina questa pratica alla regola collettiva, in modo tale che la minima fotografia esprime, oltre le intenzioni esplicite di chi l’ha fatta, il sistema degli schemi
percettivi, di pensiero e di valutazione comune a tutto un gruppo.
In altri termini, l’area di tutto ciò che si propone a una determinata classe sociale
come realmente fotografabile (cioè, il contingente di fotografie «fattibili» o «da fare»,
in opposizione all’universo delle realtà oggettivamente foto­grafabili, date le possibilità tecniche dell’apparecchio), ri­sulta tracciata da modelli impliciti che si lasciano
cogliere attraverso la pratica della fotografia e il suo prodotto, poi­ché essi determinano oggettivamente il senso che un gruppo conferisce all’atto del fotografare come
promozione ontolo­gica di un oggetto percepito in oggetto degno di essere fotografato, cioè fissato, conservato, comunicato, esibito e ammirato. Le norme che organizzano la cattura fotografica del mondo secondo l’opposizione tra il fotografabile e il
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Storia del pensiero sociologico
non fotografabile, sono indissociabili dal sistema di valori impliciti propri di una
classe, una professione o una scuola artistica, e di cui l’estetica fotografica costituisce
sempre un aspetto malgrado la sua disperata protesta d’autonomia. Capire adeguatamente una fotografia, abbia essa per autore un contadino corso, un piccolo borghese
di Bologna o un professionista parigino, non significa soltanto cogliere i significati
che proclama, cioè in una certa misura le intenzioni esplicite dell’autore, ma soprattutto decifrare il sovrappiù di significato che tradisce in quanto partecipe del simboli­
smo di un’epoca, d’una classe o d’un gruppo artistico. Considerato che, a differenza
delle attività artistiche pienamente consacrate, come la pittura o la musica, la pratica
della fotografia è ritenuta accessibile a tutti, dal punto di vista tecnico come da quello economico, e chi vi si dedica non si sente affatto legato a un sistema di norme
esplicite e codificate che definiscano la pratica legittima nel suo og­getto, le sue occasioni e la sua modalità, l’analisi del signi­ficato soggettivo o oggettivo che i soggetti
conferiscono alla. fotografia come pratica o come opera culturale, appare un mezzo
privilegiato per cogliere nella loro espressione più autentica le estetiche (e le etiche)
proprie ai differenti gruppi o classi e in particolare «l’estetica popolare» che vi si può
eccezionalmente manifestare.
In effetti, quando tutto farebbe credere che questa atti­vità senza tradizioni e senza
esigenze sia abbandonata all’anarchia dell’improvvisazione individuale, risulta invece che niente è più regolato e convenzionale della pratica della fotografia e delle fotografie d’amatore: le occasioni di foto­grafare, come pure gli oggetti, i luoghi e i
personaggi foto­grafati o la composizione stessa delle immagini, tutto sem­bra obbedire a norme implicite che s’impongono senza ecce­zione e che gli amatori accorti o gli
esteti riconoscono come tali, ma solo per denunciarle come difetti di gusto o impe­rizia
tecnica. […] Riconosciuta la fotografia come oggetto di studio sociolo­gico, bisognava innanzitutto stabilire in che modo ogni gruppo o classe regoli e organizzi la pratica
individuale, conferendole funzioni conformi ai propri interessi; non si potevano tuttavia assumere direttamente a oggetto gli indi­vidui singoli e i rapporti che essi intrattengono con la foto­grafia come pratica o come oggetto di consumo, senza rischiare di
cadere nell’astrazione. Solo la decisione meto­dologica di studiare in primo luogo i
gruppi reali doveva poi far comprendere (o impedire di dimenticare) che il significato e la funzione conferiti alla fotografia sono diret­tamente connessi alla struttura del
gruppo, alla sua mag­giore o minore differenziazione e soprattutto alla sua posi­zione
nella struttura sociale. Così, il rapporto che il contadino ha con la fotografia non è in
ultima analisi altro che un aspetto del rapporto che egli intrattiene con la vita urbana,
identificata con la vita moderna. […] Allo stesso modo che il contadino, respin­gendo
la pratica della fotografia esprime il suo rapporto con il sistema di vita urbano, rapporto entro e attraverso il quale egli sperimenta la particolarità della sua condizione,
così il significato che i piccolo-borghesi conferiscono alla pratica della fotografia
traduce o tradisce la relazione delle classi medie con la cultura, cioè con le classi superiori déten­trici del privilegio delle pratiche culturali ritenute più no­bili, e con le
classi popolari da cui a tutti i costi cercano di distinguersi, manifestando nelle pratiche
che sono loro accessibili la maggiore buona volontà culturale. Per questa ragione i
membri dei fotoclub credono di nobilitarsi cultu­ralmente tentando di nobilitare la
fotografia, surrogato a loro misura e a loro portata delle arti nobili, e insieme di ritrovare nella disciplina del gruppo quel corpo di regole tecniche ed estetiche di cui si
sono privati respingendo come volgari quelle che reggono la pratica popolare. Il rapporto esistente fra gli individui e la pratica della fotografia è per sua natura mediato,
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Storia del pensiero sociologico
poiché comporta sempre il riferimento al rapporto che i membri delle altre classi intrattengono con la fotografia, e da lì a tutta la struttura dei rapporti fra le classi.
Cercare di superare le astrazioni di un oggettivismo falsa­mente rigoroso al prezzo di
uno sforzo per ristabilire i sistemi di relazioni adombrati dietro le totalità precostruite, significa tutt’altro che cedere alle seduzioni dell’intuizioni­smo il quale, risvegliando le abbaglianti evidenze della falsa familiarità, non fa che trasfigurare, nel caso
particolare, le banalità quotidiane sulla temporalità, l’erotismo, la morte in presunte
analisi essenziali. Dal momento che la fotografia si presta poco, almeno in apparenza,
a uno studio specifi­camente sociologico, essa fornisce la sospirata occasione di sperimentare che il sociologo, dedito a decifrare ciò che è sempre soltanto senso comune,
può occuparsi dell’immagine senza diventare visionario. Che cosa rispondere, a
quelli che si aspettano che la sociologia procuri loro delle «vi­sioni», se non, con le
parole di Max Weber, «che vadano al cinema»?
(Pierre Bourdieu, La fotografia. Guaraldi, Rimini 1972)
❱❱ 17.La società dello spettacolo
E senza dubbio il nostro tempo... preferisce l’im­magine alla cosa, la copia all’originale, la rappre­sentazione alla realtà, l’apparenza all’essere... Ciò che per esso è sacro
non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. Anzi il sacro s’ingiganti­sce ai
suoi occhi via via che diminuisce la verità e l’illusione aumenta, cosicché il colmo
dell’illusio­ne è anche per esso il colmo del sacro.
(Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de L’Essenza del cristianesimo)
1. Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era
direttamente vissuto si è allontanato in una rappre­sentazione.
2. Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita si fondono in un
corso comune, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà
considerata parzialmente si afferma nella sua propria unità generale in quanto pseudomondo a parte, oggetto della sola contemplazione. La specializzazione delle im­magini
del mondo si ritrova, compiuta, nel mondo autonomizzato dell’immagine, in cui il
menzognero ha mentito a se stesso. Lo spettacolo in generale, come in­versione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente.
3. Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come una parte della società, e come stru­mento di unificazione. In quanto parte della società, esso
è espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto
stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il cen­tro
della falsa coscienza; e l’unificazione che esso com­pie non è altro che un linguaggio
ufficiale della separa­zione generalizzata.
4. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui,
mediato dalle immagini.
5. Lo spettacolo non può essere compreso come un abu­so del mondo visivo, prodotto delle tecniche di diffu­sione massiva delle immagini. Esso è invece una Weltanschauung divenuta effettiva, tradotta materialmen­te. È una visione del mondo che si
è oggettivata.
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Storia del pensiero sociologico
6. Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stes­so tempo il risultato e il
progetto del modo di produ­zione esistente. Non è un supplemento del mondo rea­le,
la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’ir­realismo della società reale. In tutte
le sue forme parti­colari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto di
distrazioni, lo spettacolo costitui­sce il modello presente della vita socialmente
dominan­te. Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione,
e il suo consumo conseguente.
Forma e contenuto dello spettacolo sono entrambe l’i­dentica giustificazione totale
delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza
permanente di questa giustificazione, in quanto occu­pazione della parte principale
del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.
7. La separazione fa essa stessa parte dell’unità del mon­do, della prassi sociale globale che si è scissa in realtà e in immagine. La pratica sociale, di fronte alla quale si
pone lo spettacolo autonomo, è anche la totalità rea­le che contiene lo spettacolo. Ma
la scissione che è in questa totalità la mutila al punto da far apparire lo spettacolo come
il suo scopo. Il linguaggio dello spettacolo è costituito da dei segni della produzione
imperante, che sono nello stesso tempo la finalità ultima di questa produzione.
8. Non si può opporre astrattamente lo spettacolo e l’at­tività sociale effettiva; questo
sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. Nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla
contemplazione dello spet­tacolo, e riproduce in se stessa l’ordine spettacolare por­
tandogli un’adesione positiva. La realtà oggettiva è pre­sente da entrambi i lati. Ogni
nozione così fissata non ha per fondo che il suo passaggio nell’opposto: la realtà
sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Que­sta alienazione reciproca è l’essenza e il sostegno della società esistente.
9. Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momen­to del falso.
10. Il concetto di spettacolo unifica e spiega una grande diversità di fenomeni apparenti. Le loro diversità e i loro contrasti sono le apparenze di questa apparenza orga­
nizzata socialmente, che deve essere essa stessa ricono­sciuta nella sua verità generale. Considerato secondo i suoi propri termini, lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come mera apparenza. Ma
la critica che rag­giunge la verità dello spettacolo lo scopre come la ne­gazione visibile della vita; come una negazione della vita che è divenuta visibile.
11. Per descrivere lo spettacolo, la sua formazione, le sue funzioni, e le forze che
tendono alla sua dissoluzione, bisogna distinguere artificialmente degli elementi inse­
parabili. Analizzando lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso
dello spettacolare, in quan­to si passa sul terreno metodologico di questa società che
si esprime nello spettacolo. Ma lo spettacolo non è nient’altro che il senso della pratica totale di una for­mazione economico-sociale, il suo impiego del tempo. È il momento storico che ci contiene.
12. Lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso
non dice niente di più di questo, che «ciò che appare è buono, ciò che è buo­no appare».
L’attitudine che esso esige per principio è questa accettazione passiva, che ha di fatto già
ottenu­to con il suo modo di apparire senza repliche, con il suo monopolio dell’apparenza.
13. Il carattere fondamentalmente tautologico dello spet­tacolo deriva dal semplice
fatto che i suoi mezzi sono al tempo stesso il suo scopo. Esso è il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna. Esso copre l’intera superficie del
mondo e si bagna indefini­tamente alla propria gloria.
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Storia del pensiero sociologico
14. La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fonda­mentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine
dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non
vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.
15. In quanto indispensabile ornamentazione degli oggetti attualmente prodotti, in
quanto esposizione generale del­la razionalità del sistema, e in quanto settore economi­
co avanzato che foggia direttamente una moltitudine cre­scente di oggetti immagine,
lo spettacolo è la principa­le produzione della società attuale.
(Guy Debord, La società dello spettacolo
in Commentari sulla società dello spettacolo, SugarCo, Milano 1990)
❱❱ 18.Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità
[Nota del Traduttore: Il termine surmodernité è stato tradotto sempre con «surmo­
dernità» ricorrendo ad un uso raro, ma già esistente in italiano, in cui il sur francese
non si traduce con l’equivalente italiano «sovra». Un esempio classico è costituito
dai termini «surreali­smo» e «surrenale».
[…] La ragione per la quale in italiano il termine non-lieux risulta «nonluoghi», senza il trattino, è che nella lingua italia­na, al contrario di quella francese, verso le parole composte si nutre una certa resistenza semantica e di assimilazione nel lin­guaggio.]
Prima di prendere l’auto, Pierre Dupont [Come dire il signor Qualunque – N.d.T.]
ritira del danaro al bancomat. L’apparecchio accetta la carta di credito autorizzandolo a ritirare milleotto­cento franchi. Pierre Dupont schiaccia il pulsante 1.800. L’apparecchio chiede di avere un istante di pazienza, poi emette la somma stabilita
ricordan­dogli di non dimenticare la carta di credito. «Grazie della vostra visita» conclude, mentre Pierre Dupont sistema le banconote nel portafoglio.
Il tragitto è facile: entrare a Parigi per l’autostrada A11 non pone problemi a quell’ora
della domenica.
Non deve fare file all’entrata, paga con la carte bleue al casello di Dourdan, circonvalla Parigi prendendo il raccordo anulare e raggiunge Roissy per l’A1.
Parcheggia al secondo piano sotterraneo (zona J), lascia scivolare la ricevuta del
parcheggio nel porta­foglio, poi si affretta verso gli sportelli di imbarco dell’Air France. Si libera con sollievo della valigia (venti chili giusti), mostra il biglietto alla hostess
chiedendole di poter avere un posto fumatore dal lato corridoio. Sorridente e silenziosa, la donna fa un cenno con la testa dopo aver verificato sul suo computer, poi gli
dà biglietto e carta di imbarco. «Imbarco satellite B ore 18» [Nell’aeroporto parigino
Satellite è il nome che viene dato alle aree di attesa da cui ci si imbarca – N.d.T.]
precisa.
Si presenta in anticipo al controllo di polizia per fare qualche acquisto al duty-free.
Compra una bottiglia di cognac (un souvenir della Francia per i suoi clienti asiatici)
e una scatola di sigari (per uso personale). Ha cura di conservare la fattura assie­me
alla carte bleue.
Scorre rapidamente con lo sguardo le vetrine lus­suose – gioielli, abiti, profumi –, si
ferma alla libre­ria, sfogliando qualche rivista prima di scegliere un libro poco impegnativo – viaggio, avventura, spio­naggio –, poi riprende la sua passeggiata senza
im­pazienza.
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Storia del pensiero sociologico
L’uomo assapora la sensazione di libertà datagli sia dall’essersi sbarazzato del bagaglio sia, più inti­mamente, dalla certezza di dover solo attendere il corso degli avvenimenti una volta «messosi in rego­la» grazie al fatto di aver intascato la carta di
imbar­co e di aver declinato la propria identità. «A noi due Roissy!»: non è in questi
luoghi sovrappopolati, dove si incrociano ignorandosi migliaia di itinerari indi­viduali,
che sussiste oggi qualcosa del fascino incer­to dei terreni incolti, delle sodaglie e degli
scali, dei marciapiedi di stazione e delle sale d’attesa dove i passi si perdono, di tutti
i luoghi dell’incontro for­tuito dove si può provare fuggevolmente la possibi­lità residua dell’avventura, la sensazione che c’è solo da «veder cosa succede»?
L’imbarco avviene senza problemi. I passeggeri con la carta di imbarco segnata Z
sono invitati a presentarsi per ultimi, facendoli così assistere un po’ divertiti al leggero e inutile pigia pigia delle lettere X e Y all’uscita del satellite.
Attendendo il decollo e la distribuzione dei gior­nali, sfoglia la rivista della compagnia
aerea e immagina il possibile itinerario del viaggio percorren­dolo col dito: Héraklion,
Larnaca, Beirut, Dharan, Dubai, Bombay, Bangkok – più di novemila chilo­metri in
un batter d’occhio e qualche nome che di tanto in tanto ha fatto parlare di sé la cronaca. Dà uno sguardo alle tariffe di bordo esentasse (duty­free price list), verifica che
le carte di credito siano accettate anche sui voli a lunga percorrenza, legge con soddisfazione i vantaggi della «business class», di cui beneficia grazie alla intelligente
generosità della sua ditta. […] Si decolla. Sfoglia più rapidamente il resto della rivista […]. Una pubblicità della carta Visa riesce a rassicurarlo («Accettata a Dubai e
ovunque voi viaggiate... Viaggiate con fiducia con la vostra carta Visa»). Poi getta
uno sguardo distratto su alcune recensioni di libri e, per interesse professionale, si
attarda un istante su quella che riassume un’opera intitolata Euromarketing: «L’omogeneizzazione dei bisogni e dei comportamenti di consumo fa parte delle ten­denze
forti che caratterizzano il nuovo ambito inter­nazionale dell’impresa... A partire
dall’esame dell’incidenza del fenomeno di globalizzazione sull’im­presa europea,
sulla validità e il contenuto di un eu­romarketing e sull’evoluzione prevedibile del
mar­keting internazionale, vengono dibattute numero­se questioni». Per finire, la recensione evoca «le con­dizioni propizie allo sviluppo di un mix il più stan­dardizzato
possibile» e «l’architettura di una comu­nicazione europea».
Un po’ sognante, Pierre Dupont ripone la sua rivista. La scritta Fasten seat belt [«Allacciare le cinture», in inglese nel testo – N.d.T.] si spegne. Si aggiusta la cuffia,
sceglie il canale 5 e si lascia invadere dall’adagio del concerto n.1 in do maggiore di
Joseph Haydn. Per qualche ora (il tempo di sorvolare il Mediterraneo, il Mare Arabico e il golfo del Bengala) sarà solo.
(Marc Augé, Nonluoghi: introduzione ad un’antropologia della surmodernità,
Elèutera Editrice, Milano 1993)
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Glossario
Glossario
A
Abasia: incapacità di camminare. Simbolicamente rappresenta l’impossibilità, dopo aver rimosso un
trauma psichico, di prenderne coscienza e di “andare avanti”.
Abilità: competenza o capacità verificabile nello svolgere un’attività.
Abitudine: acquisizione di un comportamento che, con il passar del tempo e con l’esperienza, diventa
istintivo e automatico.
Abulia: mancanza di atti volontari. Il soggetto abulico è incapace sia di intraprendere un’azione sia di
continuarla.
Accomodamento: capacità di modificare i propri schemi mentali, per acquisire nuove informazioni.
Acculturazione: processo attraverso il quale un gruppo, interagendo con altre componenti della società,
acquisisce, riformulandoli e adattandoli, i tratti costitutivi delle culture di queste ultime.
Acrofobia: angoscia a causa delle vertigini che si manifestano nei soggetti che hanno paura di cadere da
grandi altezze.
Adattamento: capacità d’adeguamento alle esigenze del mondo esterno.
Addestramento: acquisizione, attraverso un esercizio continuo, di abilità e di abitudini.
Agenti socializzatori: istituzioni (famiglia, scuola, mass media e così via) attraverso le quali si realizza
la socializzazione di un individuo.
Agorafobia: paura di stare in pubblico, di attraversare le strade o le piazze. È un disturbo di natura
nevrotica e produce un’ingiustificata fobia verso ogni luogo aperto e pubblico.
Alienazione: estraniazione nei confronti della propria attività fisica e mentale; è un sentirsi estraneo
economicamente, culturalmente e socialmente nei confronti della realtà in cui si vive.
Altruismo: attenzione disinteressata verso il benessere e la felicità degli altri.
Ambiente: insieme di persone e di oggetti che interagiscono, influenzandosi reciprocamente. Esso può
essere geografico, culturale e sociale.
Ambivalenza: atteggiamento che è rappresentato da stati emotivi contrapposti, ma diretti verso la stessa
persona od oggetto.
Analogia: relazione di somiglianza tra due o più oggetti.
Anecumene: territorio disabitato o solo temporaneamente abitato.
Angoscia: paura dell’indeterminato o dell’ignoto.
Anomia: mancanza di norme e di regole.
Anonimia: fenomeno che si ha quando una persona vive in strada o in un raggruppamento aperto. Si vive
una situazione d’anonimia, perché il rapporto tra gli individui non è basato sulla conoscenza reciproca.
Anoressia: forma di permanente inappetenza; è causata da un grave disturbo psichico che, se non curato,
può avere gravi conseguenze fino alla morte.
Anosmia: incapacità di percepire gli odori.
Ansia: paura del determinato. Consiste in una preoccupazione eccessiva per eventi della vita quotidiana.
Antropologia: scienza che studia l’uomo e le culture.
61
Glossario
Apatia: incapacità di reagire emotivamente alla presenza di stimoli, anche interessanti.
Aprassia: disturbo motorio che comporta l’incapacità di eseguire correttamente i movimenti del corpo.
Areogramma: grafico statistico.
Ascritto: è un attributo di status o di ruolo che un individuo possiede dalla nascita (sesso, etnia e così
via).
Atteggiamento: insieme di convinzioni, credenze e sentimenti che possono predisporre un soggetto a
reagire favorevolmente o sfavorevolmente verso qualcuno o verso un evento.
Attendibilità: coerenza di un test, come strumento di misura, in rapporto all’oggetto della ricerca.
Attenzione: processo che consiste nel percepire e selezionare soltanto determinati stimoli, ignorandone
altri.
Attitudine: capacità innata o acquisita ad apprendere e ad esercitare, con una certa abilità, un’attività.
Attributo di ruolo: caratteristica esteriore o segno di riconoscimento di una posizione sociale.
Autorità: particolare influenza di un soggetto sugli altri. Essa viene resa comprensibile con comandi,
ordini, intimazioni e leggi. Chi la subisce, però, la ritiene anche legittima. Diversamente si trasforma
in autoritarismo.
B
Bisogno: stato di tensione che si mette in moto per la presenza di una deprivazione.
Borghesia: classe sociale che, secondo la teoria marxista, detiene i mezzi di produzione ed è, perciò,
dominante.
Bulimia: frequente necessità di mangiare; è causata dalla paura negli adolescenti di essere abbandonati
affettivamente dalla madre.
Burocrazia: apparato amministrativo di uno Stato.
C
Cambiamento sociale: qualsiasi mutamento della struttura sociale.
Campione: in senso statistico, è una serie di valori estratti da un universo o popolazione.
Campo di variazione: indice statistico di dispersione.
Canale: via lungo la quale viaggia un messaggio per far in modo che dall’emittente arrivi al ricevente.
Capitalismo: sistema economico che si fonda contemporaneamente sul mercato autoregolato e sulla
proprietà privata dei mezzi di produzione.
Capro espiatorio: forma d’aggressività spostata. Un soggetto frustrato attribuisce la causa della sua
frustrazione ad una vittima innocente e indifesa.
Carenza: termine che indica uno stato d’insufficienza.
Carisma: potere eccezionale che si attribuisce a un soggetto.
Caso: minima unità d’osservazione.
Casta: gruppo di famiglie socialmente stratificato e rigidamente definito.
Categoria: in filosofia, il termine indica i predicati generali o le forme a priori della conoscenza.
Categoria sociale: insieme di persone che, pur non avendo valori e norme in comune, sono, tuttavia,
legate da qualche caratteristica.
Cellula nervosa: unità anatomica e funzionale del sistema nervoso.
Cervello: parte del sistema nervoso che controlla sia l’attività psicologica sia fisiologica.
Ceto sociale: gruppo di persone che hanno in comune interessi, attività e posizione sociale.
Chiesa: organizzazione religiosa.
Chiusura: in psicologia, tendenza percettiva a riempire vuoti o a chiudere parti separate.
62
Glossario
Cibernetica: studio dei meccanismi che regolano i sistemi di controllo nelle macchine e negli esseri
umani.
Classe sociale: insieme di persone consapevoli della propria condizione economica e sociale e, quindi,
storicamente determinate.
Codice: insieme di simboli e di regole in possesso sia dell’emittente sia del ricevente nella comunicazione.
Codificazione: processo con il quale le informazioni vengono inserite nel sistema di memorizzazione.
Coefficiente di correlazione: indice numerico utilizzato per esprimere il grado di correlazione tra due
valori.
Collettività: insieme di individui che hanno, in base ai valori e alle norme comuni, sentimenti di solidarietà.
I membri della collettività, essendo numerosi, non riescono ad interagire e a comunicare in forma
diretta.
Comportamentismo: teoria psicologica che studia il comportamento.
Comportamento: attività manifesta, osservabile e misurabile nell’organismo vivente.
Comportamento deviante: comportamento o modo di agire che devia dalle norme.
Comunicazione: azione che l’emittente compie per trasmettere un messaggio al ricevente.
Comunicazione di massa: sistema di comunicazione sociale.
Comunicazione interpersonale: trasmissione di messaggi, con modalità verbali, non verbali e paraverbali,
tra due o più soggetti.
Comunismo: sistema economico nel quale, eliminata la proprietà privata dei mezzi di produzione, la
ricchezza è distribuita equamente.
Comunità o Gemeinschaft: forma di collettività nella quale i rapporti tra gli individui sono fondati sulla
solidarietà e sull’altruismo.
Concettualizzazione: processo per raggruppare mentalmente cose, eventi e persone simili.
Condizionamento: fattore che determina un apprendimento condizionato dalla realtà circostante.
Conflitto: in psicologia, situazione in cui convivono due stimoli opposti; in sociologia è la simultanea
presenza di gruppi con culture diverse.
Conflitto di classe: lotta tra la classe sociale che non possiede i mezzi di produzione o dominata e quella
che li possiede o dominante.
Conflitto di ruolo: situazione di conflitto in un soggetto che svolge contemporaneamente più ruoli.
Conformismo: adattamento alle regole imposte dal gruppo egemone.
Connotativo: significato emotivo di una parola o di un simbolo.
Considerazione sociale: misura della valutazione che qualcuno riceve per come occupa una certa posizione
sociale.
Consumo: modo con il quale l’utenza risponde alla commercializzazione dei prodotti.
Contesto: situazione nella quale avvengono trasmissione e ricezione di messaggi.
Controcultura: valori e norme che si contrappongono a quelli della cultura dominante.
Controllo sociale: controllo che determina l’osservanza dei valori e delle norme da parte di un gruppo.
Conurbazione: processo d’agglomerazione urbana. Tale processo tende, partendo dai centri minori e
periferici di una città e progressivamente espandendosi, ad integrarsi pienamente con il centro urbano.
Convention: riunione o incontro, promosso da un’azienda, per festeggiare una ricorrenza.
Correlazione: indice statistico che stabilisce in che misura due eventi variano.
Coscienza di classe: consapevolezza di appartenere, in base alla propria posizione sociale, ad una
determinata classe.
Costumi o mores: norme sociali alle quali gli uomini attribuiscono un forte significato etico.
Crescita zero: fenomeno demografico d’equilibrio, in una società, tra la natalità e la mortalità.
Cultura: in senso antropologico, è un insieme di valori, di norme e di concezioni.
Cultura della povertà: forma di cultura che si sviluppa, nelle società industrialmente avanzate, tra gli
emarginati.
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Glossario
Curva di distribuzione: curva a campana, che descrive la distribuzione dei punteggi relativi ad un campione
casuale.
D
Definizione: descrizione accurata di un concetto.
Denotativo: significato primario di una parola o di un simbolo.
Desocializzazione: perdita di valori, di norme e di concezioni dell’ambiente in cui si vive.
Devianza: deviazione dai valori, dalle norme e dalle concezioni della cultura dominante.
Deviazione standard dalla media: indice statistico di dispersione.
Diade: legame interpersonale tra due soggetti.
Disadattamento: stato di conflitto tra un soggetto e il suo ambiente.
Discalculia: difficoltà nell’apprendimento dell’aritmetica.
Discriminazione: processo che l’organismo, secondo Pavlov, mette in moto per rispondere in modo
diverso a stimoli identici.
Disgrafia: difficoltà ad acquisire la capacità della scrittura.
Dislessia: difficoltà ad acquisire la capacità della lettura.
Disprassia: forma d’alterazione dell’organizzazione e della coordinazione motoria.
Dissonanza cognitiva: situazione in cui un soggetto percepisce una discrepanza tra due opinioni o
atteggiamenti diversi.
Disuguaglianza sociale: condizione di soggetti, gruppi o classi, che a causa delle loro caratteristiche,
hanno differenti possibilità di accedere alle ricompense sociali.
E
Ecumene: territorio stabilmente abitato.
Effetto alone: tendenza ad attribuire a qualcuno, in modo improprio e non rispecchiando la realtà, una
valutazione falsata da altri aspetti relativi alla persona.
Emancipazione: processo attraverso il quale alcuni gruppi, considerati immaturi ed ineguali, acquisiscono
prima l’eguaglianza giuridica e in seguito quella sociale nei confronti dell’intera società.
Emarginazione: fenomeno che si manifesta quando un gruppo di soggetti non riesce ad integrarsi nella
società ed è costretto a vivere ai suoi margini.
Empatia: compartecipazione al modo di essere altrui; è comprensione degli altri, mettendosi al loro posto
in certe situazioni.
Epistemologia genetica: scienza che, fondata da Piaget, studia il modo di formarsi e di organizzarsi degli
elementi cognitivi.
Estinzione: progressivo indebolirsi dei comportamenti appresi.
Etnocentrismo: mettere al centro della realtà la propria cultura, per manifestare l’appartenenza etnica.
Etologia: scienza che studia i comportamenti degli animali.
Evoluzione: processo attraverso il quale le forme di vita semplici producono forme sempre più complesse.
F
Famiglia: nucleo fondamentale di una società.
Feedback: informazione di ritorno.
Fissazione: incapacità, da parte di un soggetto, di cogliere, in un determinato problema, un punto di vista
nuovo.
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Glossario
Fobia: disturbo ansiogeno; paura irrazionale per una situazione o per un oggetto.
Frequenza: numero di volte che si presenta un evento o un fenomeno in un certo ambito ed in un
determinato tempo.
Frustrazione: stato psicologico attraverso il quale a qualcuno viene impedito di raggiungere degli scopi
o di soddisfare dei desideri.
G
Gene: unità di trasmissione ereditaria.
Generalizzazione: tendenza ad estendere le stesse risposte anche a stimoli che hanno qualche aspetto in
comune.
Genetica: scienza che studia tutti i meccanismi di trasmissione ereditaria dei geni.
Gregarismo: tendenza, presente soprattutto negli animali, a vivere insieme.
Gruppo: insieme di persone che sono vicine fisicamente e psicologicamente.
Gruppo d’appartenenza: gruppo sociale cui un individuo fa riferimento e appartiene, perché ne condivide
i valori, le norme e il modo di pensare.
Gruppo di pari: gruppo di coetanei (spesso adolescenti), regolato e strutturato da norme che sono vincolanti
per tutti i membri.
I
Identificazione: processo attraverso il quale un bambino, secondo la psicoanalisi, acquisisce e interiorizza
le caratteristiche del genitore del proprio sesso.
Ideologia: l’ideologia è un termine coniato nel 1796 da Destutt de Tracy e significa “scienza delle idee”.
Nell’accezione marxiana assume il significato di falsa coscienza, perché gli individui, essendo alienati,
si rappresentano la realtà in maniera mistificata.
Immagazzinamento: conservazione dei ricordi codificati nel tempo.
Inchiesta: tecnica per compiere indagini sulla realtà.
Inconscio: insieme di processi psichici di cui non si ha esperienza diretta.
Indice statistico: valore statistico che fornisce allo studioso, in modo immediato, un’idea di come vanno
le cose.
Inferenza: procedimento razionale che consiste nel passare, per induzione, da conoscenze sicure a
conclusioni nuove su realtà che s’ignoravano.
Informazione: processo con il quale si assumono e si trasmettono conoscenze.
Input: informazione in entrata.
Integrazione sociale: capacità da parte di un soggetto di adattarsi e di integrarsi ad un’altra cultura.
Intelligenza: capacità di adattarsi in modo attivo a situazioni diverse.
Interazione sociale: processo di comunicazione tra due o più persone fisicamente vicine, che s’influenzano
reciprocamente.
Interazionismo simbolico: indirizzo di sociologia che si fonda sul presupposto che gli uomini si
comportano nella società in base ai significati che, attraverso il processo d’interazione, attribuiscono
alle cose e agli altri.
Interesse: impulso che induce un soggetto ad agire per conseguire un risultato.
Intervista: tecnica per eseguire indagini statistiche.
Istinto: comportamento fisso e stereotipato.
Istituzione: insieme di norme durevoli che sopravvivono agli individui; tali norme formano un sistema
di regole, che si tramandano da una generazione ad un’altra.
Istogramma: grafico per rappresentare dati statistici.
65
Glossario
L
Leader: soggetto capace di svolgere un ruolo decisivo sia nel controllare sia nel gestire il potere e le
informazioni che circolano in un gruppo.
Leadership: posizione e relativo ruolo di un leader in un gruppo.
Libido: energia con la quale si manifesta la pulsione sessuale.
Lingua: insieme di regole grammaticali e lessicali con le quali gli uomini di una comunità comunicano.
Linguaggio: insieme di simboli con i quali si comunicano dei messaggi. Il linguaggio si compone di
strutture (suoni, parole e regole di combinazioni) e di significati (segni convenzionali).
Linguistica: scienza che studia il sistema dei suoni (fonologia), la formazione delle parole (morfologia)
e le regole per dare una struttura alle frasi (sintassi).
Livello d’aspirazione: obiettivo che un individuo, convinto della riuscita, si prefigge.
M
Manipolazione: influenza che alcuni esercitano, in maniera subdola, su altri.
Marcatura del territorio: tecnica che utilizzano gli animali per stabilire il possesso di un territorio;
vengono segnati i confini in modo tale che gli estranei, venendone a conoscenza, li rispettino.
Marketing: tecnica che, attraverso l’analisi delle motivazioni e degli atteggiamenti dei consumatori,
studia il mercato e aiuta a predisporre l’organizzazione delle vendite.
Massa: moltitudine di soggetti che si trova in condizione di passività nei confronti del potere.
Maturazione: processo di crescita fisiologica dell’individuo, che si risolve nella graduale e regolare
modificazione del comportamento.
Megalomania: tendenza a sopravalutare le proprie capacità.
Metodo: procedimento attraverso il quale, elaborando giudizi e risolvendo problemi, si raggiungono gli
obiettivi prefissati.
Misantropia: pulsione di un generico disprezzo o odio per il genere umano.
Misoginia: pulsione di un generico disprezzo e di rifiuto nei confronti del sesso femminile. Per alcuni
studiosi tale pulsione è considerata un disturbo nevrotico.
Misurazione: processo attraverso il quale si assegna un numero ad un evento o ad un fenomeno, secondo
regole matematiche.
Mobilità sociale: possibilità degli uomini, che vivono in una società, di spostarsi in modo ascendente o
discendente da un ceto sociale ad un altro.
Mobilitazione sociale: processo attraverso il quale si produce la mobilità sociale.
Moda: indice statistico di posizione centrale.
Modellamento: procedimento che fa, in maniera graduale, assumere un comportamento, che si conforma
a quello desiderato.
Modernizzazione: processo di trasformazione socio-culturale di una società.
Motivazione: forza interiore che fornisce al comportamento l’energia necessaria per indirizzarlo verso
uno scopo.
Mutamento sociale: qualsiasi cambiamento della struttura sociale.
N
Nevrosi: disturbo psichico che determina comportamenti dannosi, giacché l’individuo che ne è affetto,
pur essendone consapevole, non riesce ad uscire da tale stato.
Norma sociale: aspettativa dalla quale dipende l’agire o il non agire sociale degli individui.
66
Glossario
O
Omeostasi: livello ottimale delle funzioni organiche, che si mantiene attraverso un meccanismo automatico
di regolazione.
Ontogenesi: sviluppo di un organismo dall’embrione alla vita adulta.
Operazione: in psicologia, azione mentale caratterizzata dalla reversibilità del pensiero.
Opinione: forma di giudizio che comporta una predizione dei comportamenti degli individui e degli
eventi.
Ordine politico: sistema, attraverso il quale alcuni soggetti esercitano, dopo averlo acquisito, il potere
politico sulla collettività.
Organizzazione: complesso apparato, materiale ed immateriale, utile per raggiungere fini istituzionali.
Orientamento: insieme di conoscenze, messe in atto, per indirizzare un soggetto verso scelte motivate.
Osservazione: constatazione di eventi che si presentono in natura o nella realtà sociale.
Output: informazione in uscita.
P
Pacificazione: superamento di uno stato di conflitto tra gli individui o d’aggressività di un gruppo verso
gli altri.
Parametro: costanza di una funzione, utile per definire la forma di una curva.
Paura: reazione emotiva alla realtà circostante.
Permanenza dell’oggetto: consapevolezza da parte di un bambino di circa otto mesi che gli oggetti
continuano ad esistere anche quando scompaiono o quando, ad esempio, vengono nascosti.
Personalità: insieme di caratteristiche e di modalità individuali; è sintesi di maturazione e d’apprendimento.
Pigmalione: forma di pregiudizio; l’effetto Pigmalione è rappresentato dalle aspettative che ha qualcuno
nei confronti di un altro. Ad esempio, le aspettative dell’insegnante, positive o negative, nei confronti
di un alunno. Quest’ultimo ha, infatti, un alto livello di aspirazioni e un buon rendimento scolastico,
se è tale l’aspettativa dell’insegnante; un basso livello di aspirazioni e uno scarso rendimento, se,
anche in questo caso, è tale l’aspettativa dell’insegnante.
Placebo: sostanza inerte, ma che, somministrata al posto di un farmaco attivo, produce, per autosuggestione,
effetti sostitutivi e benefici per un paziente.
Pluralismo: situazione in cui il potere è distribuito, all’interno di una società, tra gruppi e interessi diversi.
Posizione: posto che si occupa nella vita sociale.
Potere: particolare condizione con la quale si realizza una pressione psicologica e sociale su una persona
o su un gruppo.
Pragmatica: parte della linguistica che studia come debba essere usato il linguaggio nella vita sociale.
Pregiudizio: predisposizione ben radicata, negativa o positiva, su persone, su oggetti e su gruppi sociali.
Pressione sociale: tendenza a far cambiare comportamento e opinioni a persone o a gruppi.
Prestigio sociale: valutazione sociale che viene accordata ad una posizione, indipendentemente dalla
persona che la occupa.
Problem solving: espressione inglese che designa le fasi da percorrere per risolvere concretamente un
problema.
Processo: svolgimento sequenziale di fenomeni in rapporto tra loro.
Profezia che si autoadempie: comportamento involontario secondo le aspettative di qualcuno che valuta
o discrimina un altro.
Psicoanalisi: studio dei meccanismi psicologici inconsci e profondi della personalità.
Psicologia: scienza che studia la personalità come sintesi di maturazione e apprendimento.
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Glossario
Psicosi: disturbo psicologico che denota perdita di contatto con la realtà.
Psicoterapia: uso di tecniche psicologiche per curare le malattie mentali.
Pulizia etnica: tentativo e, talvolta, anche realizzazione di sterminio di intere popolazioni o generazioni,
ritenute de facto nemiche e inferiori.
Pulsione: spinta che un bisogno, sottostante alla coscienza, fornisce al comportamento per realizzare una
gratificazione.
Q
Questionario: tecnica per realizzare una ricerca.
Quoziente intellettivo: indicatore del livello d’intelligenza. Si calcola mettendo in rapporto l’età mentale
e quella cronologica e moltiplicando il quoziente per cento.
R
Raggruppamento: tendenza, secondo la psicologia della Gestalt, ad organizzare gli stimoli in strutture
coerenti.
Razionalizzazione: meccanismo di difesa dell’Io.
Razzismo: insieme di pregiudizi negativi di un soggetto, appartenente ad una determinata razza, nei
confronti di un altro soggetto di una razza diversa.
Reato: attività delittuosa.
Recettore: dispositivo dell’organismo, sensibile agli stimoli periferici.
Reificazione: capacità di oggettivare un concetto astratto.
Retina: superficie interna dell’occhio sensibile alla luce e sulla quale cadono le immagini degli oggetti
percepiti.
Riapprendimento: apprendere nuovamente le informazioni temporaneamente dimenticate.
Richiamo: riprodurre integralmente un’informazione.
Riconoscimento: capacità di individuare un’informazione già memorizzata in precedenza.
Riflesso: risposta automatica e immediata di un soggetto alle stimolazioni esterne.
Rimozione: meccanismo per respingere nell’inconscio i ricordi e gli impulsi che il Super-io non ritiene
accettabili.
Rinforzo: evento che tende a far aumentare la probabilità che una risposta possa ripetersi.
Ripetizione: un continuo ripetere alcune informazioni per immetterle nella memoria a lungo termine.
Risposta: reazione ad una stimolazione fisica o psicologica, che si manifesta attraverso un comportamento.
Rivoluzione: cambiamento rapido e radicale dei valori, delle norme e del modo di pensare degli uomini
che vivono in una società.
Ruolo: aspettativa bilaterale (ciò che un soggetto rappresenta in una determinata posizione e nello stesso
tempo il comportamento richiesto deve essere verificabile e consequenziale).
S
Sanzione: positiva quando si è ricompensati per aver adeguatamente osservato le norme; negativa quando
viene applicata la legge per i trasgressori delle norme.
Scala: insieme di valori statistici; serve per stabilire le posizioni e gli intervalli lungo una dimensione.
Scarto semplice medio: indice statistico di dispersione.
Schema: concetto che interpreta e organizza un’informazione.
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Glossario
Schizofrenia: forma di psicosi, caratterizzata da disorganizzazione logica e da una percezione alterata
della realtà.
Sé: personalità individuale, percepita soggettivamente.
Secolarizzazione: processo sociale e culturale, attraverso il quale si sottrae, introducendo valori e norme
laici, un soggetto al controllo ideologico e religioso.
Segregazione: impiego di luoghi separati da parte di gruppi sociali diversi ed emarginati.
Selettività: risposta percettiva nei confronti soltanto di alcuni stimoli.
Semantica: studio del significato che deriva dall’interpretazione dei morfemi, delle parole e delle frasi.
Semiotica: studio della natura dei segni linguistici.
Sensazione: processo per individuare e identificare gli stimoli.
Set percettivo: predisposizione psicologica e mentale a percepire solo alcuni elementi e non altri.
Significatività statistica: grado d’affidabilità che una misura statistica rappresenti la realtà.
Simbolo: elemento rappresentativo di una cosa diversa da quella utilizzata.
Simbolo di status: indicatore di posizione sociale.
Simulazione: rappresentazione, messa in atto per facilitare uno studio, degli elementi fondamentali di
un fenomeno.
Sintassi: insieme di regole che sono alla base sia della formazione sia della comprensione di un linguaggio.
Socializzazione: assunzione da parte di un individuo dei valori, delle norme e delle convinzioni
dell’ambiente circostante.
Società: insieme di organizzazioni, di istituzioni, di gruppi e di individui.
Sociobiologia: studio dell’evoluzione del comportamento sociale degli uomini. Tale studio si basa sui
principi della selezione naturale.
Sociogramma: grafico che rende evidente le interazioni e le dinamiche dei membri di un gruppo.
Sociometria: rappresentazione grafica delle interazioni sociali e dei rapporti di rifiuto o d’attrazione tra
i membri di un gruppo.
Sociologia: scienza che studia, spiega e descrive l’agire sociale degli individui.
Solidarietà: sentimento che i membri di un gruppo o di una comunità hanno per un reciproco sostegno
e per un aiuto nei confronti di chi ha bisogno.
Sondaggio d’opinione: inchiesta su un campione di popolazione per conoscere opinioni su determinati
argomenti.
Statistica: scienza che rileva e rappresenta i fenomeni collettivi o di massa.
Stato: apparato legislativo, amministrativo, giudiziario e militare di una società.
Status: posizione che occupa un individuo nella società.
Stereotipo: valutazione precostituita, semplicistica e generalizzata; riguarda un gruppo o una categoria
di persone.
Stimolo: elemento esterno ad un individuo che determina una risposta.
Stratificazione sociale: strutturata disuguaglianza tra i ceti sociali o tra le categorie di individui in ordine
gerarchico.
Stress di ruolo: condizione in cui si trova chi, nei rapporti quotidiani, è costretto ad interpretare ruoli
diversi e conflittuali.
Struttura: disposizione delle parti che formano un tutto.
Subcultura: insieme di valori, norme e concezioni di un gruppo, che, all’interno di una società, si distingue
dalla cultura dominante.
Svantaggio: difficoltà, relativa, in un gruppo o in una società, a soggetti appartenenti ai nuclei familiari
disagiati ed emarginati.
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Glossario
T
Tabù: ciò che, in alcune culture, è rigorosamente proibito e spesso anche sancito con punizioni severe.
Tabulazione: trasferimento dei dati di una ricerca, dopo averli raccolti, su tabelle.
Tasso di mortalità: numero annuo, nella misurazione statistica, di casi di morte in una determinata
popolazione.
Tasso di natalità: numero annuo, nella misurazione statistica, di casi di nascite in una determinata
popolazione.
Tecnica: strumento per raggiungere degli obiettivi.
Temperamento: tendenza a provare stati emotivi; esso è anche l’intensità delle risposte che caratterizzano
un individuo.
Tempo di reazione: metodo fondato da Donders; consiste nel tempo che passa tra uno stimolo e la relativa
risposta.
Teoria: insieme di principi logici che analizzano ed organizzano la realtà.
Territorialità: insieme di comportamenti che tendono a definire e a stabilire i confini di un territorio.
Test: prova cui può essere sottoposto un soggetto allo scopo di misurarne l’intelligenza, studiarne la
personalità e valutarne le attitudini.
Tipo ideale: astrazione che il sociologo compie nell’osservare casi reali.
Tradizione: un tramandare valori, norme e concezioni, ritenuti positivi e diffusi all’interno di una
popolazione.
Transfert: processo che mette in moto in un paziente l’esigenza di trasferire sul terapeuta le emozioni,
legate ad altre relazioni.
U
Umore: disposizione emotiva per la quale un soggetto dà tonalità sgradevole o gradevole ai suoi stati
psicologici.
Universo: in senso statistico, è la popolazione che è rappresentata da un campione.
Usi o folksways: usanze comuni o convenzioni della vita quotidiana.
V
Validità: misura che stabilisce il grado d’attendibilità di ciò che si vuole misurare.
Variabile: elemento che viene, in un esperimento, preso in esame.
Varianza: indice statistico di dispersione.
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