Recensione a: Roberto Esposito, Da fuori

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Recensione a:
Roberto Esposito, Da fuori
di Francesco Marchesi
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31 maggio 2016
È un libro tutto politico l’ultima fatica di Roberto Esposito. Più ancora del consueto,
in effetti, perché politico è il punto d’intersezione dei tre livelli che lo compongono. Da
fuori ruota infatti primariamente attorno all’impasse visibile e conclamata in cui la politica
europea è avvitata almeno a partire dall’inizio della crisi economico-finanziaria del 2008,
e sulla simmetrica afasia dei saperi che di questa stasi, aggravata dal riprodursi incessante
del fenomeno migratorio e dalla crescita del terrorismo internazionale, hanno tentato una
diagnosi. Ma se è la filosofia, come emerge nelle pagine introduttive, a poter mappare con
maggiore perspicuità una congiuntura che appare tanto violenta quanto muta all’ortodossia delle scienze economiche e sociali, essa è in grado di assolvere a un tale compito solo
confrontandosi con ciò che risiede al suo esterno, nel suo fuori. Una estrinsecità rispetto
al concetto che se in una certa parte del dibattito filosofico contemporaneo (per la verità
molto italiano) è identificata in un astratto ed equivoco “reale”, nel lavoro di Esposito appare più chiaramente qualificata come politica, anche nella sedimentazione in un pensiero
che è, secondo una formula antica, pratica teorica. Questo dunque il secondo asse di articolazione del testo, propedeutico ad un terzo di matrice, per così dire, politico-culturale.
È infatti a una serrata comparazione tra alcune delle più significative tradizioni filosofiche
del Novecento europeo, attorno alla duplice problematica del rapporto con il fuori della e
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dalla filosofia e del nesso più o meno costitutivo con lo spazio europeo, che viene affidata
la possibilità di una risoluzione, o almeno un radicale ripensamento, del problema politico
che investe il continente. Un confronto, orientato e non neutrale, che investe la teoria
critica francofortese, il post-strutturalismo francese nella sua versione prevalentemente
anglo-americana di French Theory, e giunge all’approdo di un pensiero italiano colto certo
ancora nel suo farsi, ma rispetto al quale Esposito è impegnato da alcuni anni nel duplice
tentativo di identificazione dei caratteri a esso peculiari e di autentica costituzione degli
stessi in quanto autore di punta, assieme ad altri pensatori tra cui Giorgio Agamben e Toni
Negri, di questo orizzonte speculativo.
Un’operazione, quella di Esposito, svolta grazie a un ravvicinato e complesso lavoro filosofico teso a rendere commensurabili linguaggi per molti versi lontani, e contestualmente ipotesi preferenziale che inquadra una relazione antagonistica tra questi retaggi. Una
tensione differenziale rivelata dalla semantica entro cui i tre stili filosofici definiscono la
produzione concettuale, a partire dalla teoria critica francofortese, al cui centro Esposito
legge un tratto ancora classicamente filosofico per quanto assunto nella chiave, appunto
critica, della precedenza logica del negativo, di volta in volta incarnata nel legame con saperi non filosofici quali la psicanalisi, oppure nella radicale ricerca del tardo Adorno sull’aconcettuale: «assunta nella sua pienezza, l’identità lascia emergere qualcosa che va al di
là di sé – che Adorno definisce “non identico” o “aconcettuale” […]. Esso non è qualcosa
che si configuri come una qualunque entità – è semplicemente la linea d’ombra che taglia
l’identità, esponendola alla sua esteriorità» (p. 92).
In una relazione di successione egemonica (dal Marcuse filosofo del ‘68 alla ricezione
americana di Foucault e Derrida) si colloca rispetto al tentativo, plurale e non univoco dei
pensatori raccolti attorno all’Istituto per la Ricerca Sociale, la riflessione di area francese
che progressivamente prende congedo dall’eredità strutturalista. Anch’essa eterogenea e
divisa in almeno due grandi filiazioni – l’una heideggeriana, che precipita nel decostruzionismo, l’altra nietzschiana in particolare a fuoco in Michel Foucault e Gilles Deleuze – questo arcipelago di posizioni si trova riunito a partire dal lemma teoria, il quale allude tanto
alla ricerca di un piano di positività descrittiva quanto all’esposizione al rischio della neutralizzazione del conflitto. Una soglia, quella a cavallo tra le semantiche, non del tutto sovrapponibili, di neutralizzazione e indecidibilità, varcata senza indugi dalla decostruzione
(soprattutto nei suoi esiti “americani”, come precisa l’autore), ma assiduamente frequentata anche da quel pensiero del fuori, secondo la definizione datane da Foucault nell’articolo
omonimo del 1966, che con più chiarezza ha guardato al conflitto e alla biopolitica contro
gli effetti spoliticizzanti della descrizione neutrale. Se infatti «ciò che colloca Derrida al di
qua, non soltanto di un lessico, ma di un orizzonte categoriale di tipo politico, è la stessa
logica della neutralizzazione […] in opera nella ricerca di un Terzo sottratto sia all’affermazione che alla negazione» (p. 131), «né Foucault né Deleuze […] interrompono il circuito neutrale dell’equivalenza tra le forze; così come non individuano, nel flusso delle differenze, la
linea dello scontro principale lungo la quale esso acquista pregnanza politica» (p. 171). Su
questo stesso crinale lavora, fin dai suoi inizi precedenti e successivi alla French Theory, la
linea del pensiero italiano che Esposito identifica con le diverse anime della scuola operai2
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sta, in parte e con esiti differenti approdate alla problematica biopolitica, la cui ascendenza profonda può però essere individuata già nell’originale postura di “non filosofi” come
Machiavelli e Vico. Esposito esplicita a partire da una diversa concezione del conflitto la
rottura imposta da un paradigma che, almeno per la sua parte biopolitica, deve molto alla
riflessione francese ma si afferma esattamente nella sua crisi: «ma – ecco il punto che pare
sfuggire ai francesi e che invece è messo in luce dal nuovo pensiero italiano – le forze non
si equivalgono sul piano qualitativo. E anzi si oppongono proprio in ragione della loro differente natura. Mentre le une sono attive, le altre reattive» (p. 170). Se dunque la dimensione
primaria della riflessione francortese è la negazione e quella post-strutturalista francese è la
neutralizzazione, l’orizzonte ragionativo tipicamente italiano sarebbe quello dell’affermazione.
Un quadrante discorsivo non più dialettico ma neppure decostruzionista, piuttosto al lavoro su un’immediatezza che sfuma la rigida distinzione tra azione e pensiero, rileggendo
quest’ultimo come prassi, e su campi non più presi entro la matrice linguistica ma collocati
nei confini del rapporto che la politica intrattiene con le dimensioni della vita biologica e
con il lessico della teologia, ancora all’opera quest’ultima nelle forme contemporanee del
potere, al di là di una secolarizzazione intesa non raramente come semplice laicizzazione.
Che la ricostruzione di Esposito non risulti priva di qualche resto, sia ermeneutico
che propriamente teoretico, è persino ovvio alla luce dell’ambizione modellizzante dell’operazione interpretativa complessiva, che per questo chiede di essere valutata per la sua
logica complessiva. A questo riguardo un particolare ruolo nella definizione della catena
argomentativa è occupato dal nesso analogico che vincola i capitoli di apertura e chiusura del testo, e dai brevi capitoli denominati articolazione dedicati all’esame dei momenti
d’interazione, e spesso d’attrito, fra le opzioni tedesca, francese e italiana. Una ripetizione
differenziale quella che Esposito individua tra le filosofie della crisi europea a cavallo delle
due guerre mondiali e la contemporanea crisi del ruolo del sapere filosofico in Europa: crisi
cui non sono in grado di rispondere né il ritorno all’origine greca del legame tra Europa e
filosofia ostinatamente ricercato, in modalità alternative, da Husserl e Heidegger, ma neppure gli incontri/scontri, riassunti nei capitoletti intermedi, che hanno di volta in volta
coinvolto Habermas e Lyotard sul destino della modernità, Derrida e Agamben sul vincolo
tra politica e vita e, infine, le discussioni sulla costruzione europea che tra anni ‘80 e ‘90
hanno impegnato le stesse scuole habermasiana e decostruzionista. Dibattiti che, è difficile
non concordare con l’autore, segnalano il disarmo o quantomeno la decrescente potenza
descrittiva delle proposte degli ultimi eredi delle tradizioni francortese e derridiana.
È la conclusione del testo a segnalare, a fianco dell’orizzonte speculativo dell’Italian
Thought, un’apertura sul piano propriamente politico a proposito del nesso filosofia-Europa. Una possibilità individuata nel dialogo, che attraversa l’intera ultima parte del lavoro,
con una tradizione di area francese che appare all’autore in parte immune agli esiti paralizzanti in cui sono incorse le sue correnti maggioritarie: «quanto all’Europa, comincia ormai
a emergere l’inadeguatezza di un approccio indeterminato […]. In verità ciò vale soprattutto
per la corrente derridiana e molto meno per la rinnovata scuola althusseriana – Balibar,
Rancière e, con un profilo diverso, Badiou. Ma ciò non basta a cancellare un certo deficit di
progettualità politica in larga parte della filosofia francese sull’Europa» (p. 227). Le posizio3
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ni di Étienne Balibar sembrano in effetti il perno di un dialogo differito che attraversa l’intera meditazione di Esposito sull’Europa. Il terreno su cui precipita l’itinerario concettuale
costruito in Da fuori appare infatti quello della pensabilità stessa di un popolo europeo
delineato, discusso e da ultimo ripreso nel recente Europe: crise et fin (Le bord de l’eau, 2016)
dal più noto allievo di Althusser. Esposito introduce la linea conflittualista e affermativa
del pensiero italiano su un campo originariamente pensato da Balibar nei termini universalistici di una nuova cittadinanza: «è vero che un popolo europeo – inteso nella modalità
omogenea prefigurata dalla teoria della sovranità e dal mitologema teologico-politico del
potere costituente – non esiste in Europa. Come forse non esiste più in nessuno dei suoi
Paesi. Ma al suo posto, in ciascuno di essi, si muovono da tempo due popoli contrapposti,
senza avere ancora trovato la forma politica del conflitto che può farli incontrare. Essi sono
entrambi interni alla categoria classica di popolo, ma esterni alla semantica sovrana dello
Stato» (p. 238). La modalità in cui Esposito traccia qui una linea di demarcazione rigida tra
le due polarità ricorda quella frattura che Ernesto Laclau ha individuato come condizione
ineludibile alla costituzione di ogni configurazione politica (“egemonica”, nel suo caso).
La riaffermazione – al momento neppure pensabile – di una apertura del potere europeo all’antagonismo e alla partecipazione, contro e oltre i fenomeni correlati della neutralizzazione e della spoliticizzazione, appare in ultima istanza la posta in gioco delle pagine
finali del testo. Qui Esposito riprende le tesi, ancora di Balibar, su Violence et civilité (Galilée, 2010) a proposito della relazione di “supplementarità” tra la violenza “normale” del
politico e l’”estrema violenza” vettore della sua disgregazione. Successioni veicolate attraverso quelle che il filosofo francese chiama strategie di civiltà, termine ritorna nell’Italian
Thought delineato da Esposito: «non è inutile ricordare che il termine “civiltà”, e ancora di
più quello di “civilizzazione”, tutt’altro che stasi, quiete, immobilità, implica, al contrario,
movimento e mobilitazione. […] Ma il termine “civile”, proprio in Machiavelli e in Vico,
porta anche un altro significato, che ancora di più risuona, se non nella realtà, quantomeno
nell’idea, di un’Europa possibile. Alludo alla dimensione “popolare”» (p. 236).
Innestando su tale sfondo l’eredità “italiana” del “vivere civile” machiavelliano e dell”incivilimento” vichiano, segnati da una coloritura parziale e conflittuale, nonché da
un’esigenza, processuale e storica, di sovvertimento della congiuntura, Esposito sembra
introdurre una sfumatura di significato in parte irriducibile alle conclusioni di Balibar e,
contemporaneamente, ulteriore rispetto agli esiti del suo stesso pensiero fino a questo momento. Sia Esposito che Balibar, si potrebbe sostenere, pensano politicamente la riforma
delle istituzioni europee nella cornice dell’irreversibilità del processo di unificazione, che
propongono di integrare con un salto di qualità democratico inteso come rappresentanza
di esigenze antagonistiche e supplemento di azione soggettiva. Filosoficamente però, entrambi gli autori, offrono forse strumenti per identificare soluzioni differenti, pur in continuità con gli esiti espliciti della loro proposta politica: l’attenzione della scuola althusseriana e delle pagine conclusive del libro di Esposito, in entrambi i casi a stretto contatto
con l’eredità machiavelliana, verso un pensiero della storia come strutturazione e destrutturazione delle forme politiche nel rapporto ricorsivo tra violenza e vivere civile, indica una
linea strategica che, ancora non diversamente dalle tesi di un Laclau, permette di pensare
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la riorganizzazione democratica delle istituzioni europee attraverso un forse inaggirabile
passaggio attraverso la loro disgregazione. Una disarticolazione quale transitorio recupero
di un luogo in cui il politico non sia identificato esclusivamente con il potere, in vista di
una rinnovata integrazione di segno alternativo.
Come esperito da altri continenti insomma, un passaggio per il fuori non solamente
spaziale ma, infine, inevitabilmente segnato dalla discontinuità temporale.
Roberto Esposito
insegna Filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore a Pisa.
Egli parte dalla constatazione dell’esaurirsi del tradizionale lessico della
politica e dalla consapevolezza della necessità di una sua diversa formulazione.
Su tale presupposto, la sua ricerca si incentra sulla rielaborazione di questa
tradizione all’interno di nuove esigenze, a partire da una reinterpretazione delle
categorie classiche della filosofia. A tal fine nelle sue opere lascia interagire
saperi e linguaggi differenti, dalla filosofia alla letteratura, all’arte, alla poesia,
all’antropologia, alla teologia. La sua opera è tradotta e studiata in diverse
lingue.
R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero,
Einaudi 2013.
R. Esposito, Le persone e le cose, Einaudi 2014.
Roberto Esposito, Da Fuori. Una filosofia per
l’Europa, Einaudi, Torino, 2016, pp. 256
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