Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Capitolo 7 OCCIDENTE E ORIENTE NEL VI SECOLO 1. I REGNI ROMANO-GERMANICI 1.1 Nuovi regni nelle antiche province Un accenno al Medioevo Con il 476 e la scomparsa della figura dell’imperatore in quello che era stato l’impero romano d’Occidente, si fa convenzionalmente cominciare il Medioevo. Il Medioevo in realtà è “invenzione” degli umanisti, letterati e artisti del XV secolo, che, riscoprendo la civiltà e la cultura del mondo greco e latino, percepirono l’epoca immediatamente precedente alla loro come un’età di decadenza, oscura e irrazionale. La considerarono, perciò, solo un’epoca di transizione, “età di mezzo” tra due età civili ed evolute. La definizione di Medioevo ha ormai perso l’originario carattere spregiativo e oggi si preferisce sottolinearne gli aspetti positivi. Le profonde trasformazioni che lo hanno caratterizzato, spesso drammatiche, hanno infatti consentito un’originale fusione dell’antico mondo romano con quello germanico e con la cultura cristiana, che ha dato vita all’Europa moderna. Si suole suddividere il Medioevo in due fasi: Alto Medioevo, dal 476 all’anno Mille, e Basso Medioevo dal 1000 al 1492, anno della scoperta dell’America. Si tratta, come è evidente, di date convenzionali, perché in realtà i cambiamenti storici non possono fissarsi in un anno. Lo sfaldamento dell’impero Nel corso del V secolo, in 70 anni, dal 406, quando i barbari valicarono la frontiera del Reno, al 476, quando scomparve la figura dell’imperatore d’Occidente, i germani imposero il proprio controllo su varie province occidentali, sottraendole all’autorità imperiale, e diedero origine a diversi regni indipendenti, distruggendo in questo modo l’unità dell’impero. Nel 476 i nuovi regni, definiti romano-barbarici o romano-germanici, erano sei e, con l’eccezione del regno dei vandali in Africa, presentavano caratteristiche comuni. Tra vecchio e nuovo La caratteristica più evidente nei regni romano-germanici era la presenza di elementi nuovi che si innestavano su strutture preesistenti. Il loro stesso nome sottolinea la convivenza in essi di etnie diverse: l’elemento germanico, costituito da una pluralità di popoli, anche se politicamente dominante in realtà rappresentava un’esigua minoranza (c’è chi parla di un 2% della popolazione complessiva, chi di 1 milione di germani su un totale di 16 milioni di abitanti), che restava separata dalla maggioranza costituita da romani e popolazioni ormai da tempo romanizzate, come, ad esempio, i galli. La spartizione del potere Germani e romani stabilirono un diverso rapporto con l’autorità. Per i primi a capo del regno era il loro re, che deteneva tutti i poteri, acquisiti per diritto di conquista, al punto che lo Stato tendeva a confondersi con la sua proprietà personale. Era il re ad assicurare la protezione militare dei sudditi, dai quali esigeva in cambio fedeltà. Per i romani, invece, il potere era ancora nelle mani dell’imperatore d’Oriente, mentre il re germanico rappresentava solo un comandante militare di truppe alleate che l’imperatore legittimava al comando di una regione dell’impero. I germani, però, non avevano un’organizzazione che potesse farsi carico della gestione dello Stato; dovevano quindi affidarsi ai funzionari e alle strutture amministrative dell’impero. Così il potere venne suddiviso: ai germani, che costituivano essenzialmente l’esercito, spettava il potere politico 1 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia e militare e la difesa dello Stato, ai romani l’amministrazione pubblica e la burocrazia. Tuttavia anche nell’azione di governo, i re germani chiesero spesso la collaborazione di giuristi e letterari romani. Leggi separate Il dualismo era particolarmente evidente a livello giuridico. Una profonda e sostanziale differenza divideva il diritto germanico da quello romano. Il diritto romano era codificato in norme scritte, elaborate in secoli di tradizione giuridica, e applicava il principio della territorialità delle leggi, secondo il quale chi abita in un territorio è tenuto a rispettarne le leggi. Il diritto germanico era un diritto consuetudinario, basato cioè su consuetudini e abitudini tramandate oralmente da una generazione all’altra, e applicava il principio della personalità delle legge, per cui ogni individuo era soggetto alla legge del suo popolo, anche quando viveva nel territorio di un altro. I germani quindi non imposero le proprie leggi, ma non accettarono neppure quelle romane. Così i matrimoni misti, che nel IV secolo ancora si praticavano, furono vietati. La distinzione tra i due popoli nell’amministrazione della giustizia col tempo creò non poche difficoltà. I germani allora recepirono alcune norme del diritto romano e codificarono le proprie norme utilizzando il latino, cioè la lingua che meglio esprimeva i principi giuridici. I primi a intraprendere questa via furono i visigoti nel 654. Da ariani a cattolici Anche le differenze religiose non erano irrilevanti: i germani erano ariani, i romani cattolici e, benché fossero tutti cristiani, la distanza restava incolmabile. Infatti i cattolici consideravano eretici gli ariani; i germani, da parte loro, vivevano la fede come un modo per affermare la propria identità di fronte alla maggioranza cattolica. Il clero cattolico, però, divenuto un punto di riferimento per la popolazione, aveva acquistato un enorme prestigio e con grande abilità riuscì a ottenere la conversione di molti sovrani che divennero un modello trainante per l’intera popolazione. Entro la fine del VI secolo l’arianesimo fu quasi del tutto abbandonato e il cattolicesimo divenne un elemento unificante tra le diverse popolazioni europee. Separazione o assimilazione? La convivenza tra germani e romani produsse quindi, sia pure in tempi lenti, una progressiva assimilazione e una trasformazione radicale della società. I germani erano affascinati da un modello di vita che ritenevano superiore, ma anche timorosi di perdere la propria identità e la propria fierezza guerriera tra le mollezze di una civiltà troppo raffinata. I romani, da parte loro, guardavano con sufficienza i barbari che non sapevano scrivere e avevano leggi incomprensibili e strane abitudini, ignoravano che cosa significasse vivere in città ed erano eretici. L’integrazione inizialmente appariva quindi difficile. La necessità di convivere però produsse i suoi frutti. I germani non infierirono sugli abitanti dell’impero. Già assuefatti all’hospitalitas, nel momento in cui ebbero il potere nelle loro mani si limitarono a prelevare da 1/3 a 2/3 delle terre di proprietà dei latifondisti, secondo l’usanza dell’hospitalitas. Sulla società romana l’esproprio non ebbe conseguenze molto gravi perché i terreni erano lasciati in gran parte incolti per mancanza di manodopera. La nobiltà romana, d’altra parte, sapeva di non avere la forza per contrastare i nuovi arrivati e capiva l’importanza di avere un esercito forte e un potere stabile in grado di difendere i suoi interessi; quindi, malgrado le iniziali diffidenze, si adattò presto a collaborare con i germani e addirittura a modificare certe consuetudini. Si era perso, d’altronde, il senso di appartenenza a uno stato e l’interesse delle classi dirigenti era ormai rivolto solo alle realtà locali. Ancor meno risentirono del cambiamento i coloni romani che passarono, insieme alla terra, semplicemente da un padrone all’altro, senza vedere diminuire i loro canoni d’affitto come avevano sperato. 2 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Da guerrieri a latifondisti Sulla società barbarica invece gli effetti dell’hospitalitas furono rilevanti. I capi militari divennero proprietari terrieri e si trasformarono in una nuova aristocrazia fondiaria che assimilò i modi di vita e gli interessi della nobiltà romana. Essi distribuirono appezzamenti di terra anche ai guerrieri, trasformandoli in piccoli proprietari o in coloni. Pertanto, se la struttura sociale romana non venne sconvolta, quella germanica perse il suo originario fondamento egualitario. In compenso l’integrazione garantì vitalità duratura ai nuovi regni. Non tutti i regni romano-barbarici procedettero comunque sulla stessa linea: la sintesi tra germani e romani si verificò nel regno dei visigoti e, ancor di più, in quello dei franchi, mentre la scissione si mantenne sempre nel regno vandali, che, però, proprio per questo, ebbe vita breve. 1.2 L’Occidente in declino Cambiamento d’asse Il segno più evidente dei cambiamenti conseguenti alla creazione dei nuovi regni fu lo spostamento dell’asse politico. L’impero romano aveva come centro Roma, che aveva progressivamente esteso il suo dominio a raggiera tutto intorno al Mediterraneo e aveva fatto del bacino l’asse dell’impero che univa est e ovest. Ora invece era difficile individuare un centro e con la creazione dei regni in regioni a volte marginali, come la Britannia, l’asse si era spostato a nord e aveva acquisito una direzione nord-sud. Il Mediterraneo perse importanza, tanto più che i commerci languivano. Da allora le regioni mediterranee costituiscono il confine meridionale dell’Europa. La crisi demografica Il decremento demografico avviato sin dalla peste del 180 raggiunse il suo acme tra il VI e il VII secolo, dopo che alle solite cause, epidemie e carestie, si erano aggiunte le razzie, i saccheggi, le devastazioni dei campi e delle città e infine le invasioni. L’età media della popolazione si collocava tra i 19 e i 29 anni, la mortalità infantile era altissima e la povertà incrementava il ricorso all’aborto e all’infanticidio. Città in sofferenza Il fondamento stesso dell’impero, le città, che avevano rappresentato la sua forza maggiore e il centro di irradiamento della cultura, già nel III secolo in Europa avevano cominciato a spopolarsi (memo) e ora, con un’economia sempre più arretrata, decaddero quasi del tutto. In Italia, dove la tradizione urbana era molto forte, restarono importanti per il loro ruolo amministrativo soprattutto Milano, Verona, Ravenna, Pavia e, naturalmente, Roma, capitale della Chiesa anche se non più dell’impero. Eppure anche Roma, che nel II secolo contava un milione di abitanti, all’inizio del V secolo ne ospitava forse 200.000. A permettere la sopravvivenza, nel corso del Medioevo, a queste e ad altre poche città fu la presenza del vescovo, che, nella chiesa cattedrale (G), il nuovo fulcro della città, svolgeva i riti più importanti, consentiva il culto delle reliquie dei santi, amministrava i beni ecclesiastici e la giustizia. Così mentre erano in stato di abbandono il foro e i templi, non più frequentati, le terme, perché i cristiani non approvavano la promiscuità dei bagni pubblici, gli anfiteatri, perché la Chiesa non ammetteva la violenza degli spettacoli del circo, gli acquedotti e le strade in rovina per mancanza di fondi per la manutenzione, le chiese al contrario fiorivano. Per costruirle venivano spesso adoperati i materiali prelevati dagli edifici pubblici ormai in disuso. Con l’avvento dei germani, nelle città sopravvissute si insediarono i comites, i “compagni” del re, cui erano affidati compiti di controllo militare e politico. Anch’essi contribuirono a garantire la sopravvivenza della vita urbana. Memo 3 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Negli ultimi secoli prima di Cristo le città si erano ingrandite perché vi affluivano in massa i ceti più poveri alla ricerca di lavoro e distribuzioni gratuite di grano. Ma con la crisi del III secolo le distribuzioni calarono ed era più probabile trovare lavoro nelle villae di campagna, dove i ricchi si cercavano di sfuggire alle incursioni barbariche. Le città cominciarono allora a spopolarsi. Glossario Cattedrale È la chiesa sede del vescovo titolare di una cattedra, il seggio che li qualifica come eredi degli apostoli. La cattedra, infatti, era in origine il seggio di un’alta autorità. Dida per img di città fortificata su un’altura Città in movimento Le città a volte non morivano davvero, venivano solo spostate e cambiavano nome. Sparivano dalla costa, dai luoghi esposti agli attacchi dei barbari, soprattutto dalle pianure, e ricomparivano, con altri nomi, a volte come semplici fortezze o piccoli centri fortificati, nell’interno o sulle alture, persino in montagna. La gente spaventata cercava infatti luoghi più sicuri in cui rifugiarsi. Campagne incolte La decadenza del mondo romano segnò anche il declino delle campagne: spopolate in conseguenza del calo demografico, delle carestie, della tassazione, devastate dai barbari, saccheggiate dai briganti, caddero in abbandono, invase dalle erbe e dalle foreste. I nuovi arrivati germani, poi, erano allevatori seminomadi che praticavano l’allevamento brado e soprattutto la caccia nei boschi, mentre si dedicavano poco a un’agricoltura misera praticata in campi aperti, senza limiti segnati. Diffusero così in Europa un altro tipo di alimentazione, rispetto a quella mediterranea dei romani, il cui simbolo erano il pane e il vino. Ora si propagarono la cacciagione, il pesce, il miele, il lardo e cereali più scadenti che avevano bisogno di meno cure del frumento: segale , miglio ecc. Il numero dei contadini diminuì sensibilmente e i grandi proprietari, laici ed ecclesiastici, risentivano della mancanza di manodopera, tanto che la Chiesa raccomandava, con spirito molto poco cristiano, agli amministratori delle sue proprietà, di non liberare gli schiavi, perché “era ingiusto che gli schiavi godessero della libertà, quando i monaci lavoravano la terra tutto il giorno”. Si diffusero persino le razzie di uomini liberi da rendere schiavi: a quanto pare anche i vescovi ne organizzavano, se la Chiesa sentì il dovere di vietarle loro espressamente. 1.3 Il monachesimo e la cultura Cultura per pochi Con la crisi delle istituzioni e delle città, le scuole pubbliche scomparvero, anche perché i germani, quasi completamente analfabeti, non ne sentivano l’esigenza e gli aristocratici potevano permettersi maestri privati. Col tempo, d’altronde, gli stessi romani preferirono, come i barbari, un’educazione militare e trascurarono quella letteraria. La cultura antica rimase patrimonio di pochi letterati, quasi tutti uomini di chiesa. Ma a salvare i testi classici intervenne soprattutto un nuovo fenomeno che dall’Oriente si diffuse anche in Occidente: il monachesimo. Dall’Irlanda con fervore Le forme di monachesimo che si erano sviluppate in Oriente a partire dal III secolo, soprattutto nelle forme esasperate dell’isolamento eremitico, poco si confacevano alla mentalità occidentale, in cui restava ancora forte il senso della vita sociale. Fu quindi soprattutto il monachesimo cenobitico (memo) ad attecchire nella nuova realtà occidentale, dove, per altro, rinnovò forme e finalità. A dare l’avvio al monachesimo in Occidente fu il fervore religioso dei monaci irlandesi. L’Irlanda per la sua posizione decentrata non aveva avuto quasi nessun contatto col mondo romano ed era 4 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia stata risparmiata dai flussi migratori. Fu cristianizzata alla fine del V secolo da alcuni monaci partiti dalla Britannia e guidati dal nobile romano Patrizio. Poi dall’Irlanda partirono gruppi di monaci animati da zelo missionario che convertirono le popolazioni celtiche del Galles e della Cornovaglia, anch’esse risparmiate dalle invasioni degli angli e dei sassoni. Per i celti fu un modo per tutelare l’eredità della propria cultura, anche se integrata con nuovi elementi di matrice cristiana. Via via i monaci irlandesi si diffusero in tutta Europa, spingendosi nelle città occupate, nelle campagne devastate, negli accampamenti degli invasori. Era un monachesimo ancora molto vicino a quello orientale, caratterizzato dall’ascetismo, fatto di digiuni prolungati e punizioni corporali, e spesso votato al martirio. Memo Il monachesimo cenobitico, diffusosi in Egitto, Palestina e Siria a partire dal IV secolo, si basava sulla vita in comune nei cenobi, monasteri in cui si doveva rispettare una regola, pregare, fare penitenza. Dal V secolo il fenomeno cominciò ad attecchire anche in Occidente, Messaggeri di cultura La scelta, tipica dei monaci, di allontanarsi dal mondo fece nascere anche l’idea della peregrinazione, dell’esilio volontario dalla propria terra per compiere una missione al servizio della fede, un’idea assente nel monachesimo orientale. Dovunque giungessero, Norvegia, Svezia, forse addirittura Groenlandia, per convertire popolazioni per lo più rurali ancora pagane, i monaci irlandesi costruivano monasteri che diventavano centri di diffusione della fede cristiana e della cultura e davano nuovo slancio all’attività produttiva nelle campagne. San Colombano, tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, fondò il monastero di Luxeuil in Francia, quello di San Gallo in Svizzera e, nel 612, quello di Bobbio, sull’Appennino emiliano, presso Piacenza, che fu sede di un’importante biblioteca e di uno scriptorium. Lo scriptorium era il luogo riservato nelle abbazie alla copiatura di manoscritti non solo di testi sacri, ma anche di cultura classica. Fu proprio l’opera dei monaci amanuensi (G) di qualsiasi ordine a salvare il patrimonio culturale dell’antichità. Glossario Monaci amanuensi erano i monaci addetti a trascrivere “a mano”, come dice la parola, i testi antichi. Era un lavoro molto più complesso e faticoso di quanto oggi si possa pensare. Dida per img di Bobbio Nel XV secolo i testi della biblioteca di Bobbio andarono dispersi in varie biblioteche d’Europa. Il rapporto dei monaci con la Chiesa In Oriente i monaci erano refrattari persino a rispettare le regole del mondo che abbandonavano, sia quelle dell’impero sia quelle della Chiesa, e spesso dovettero essere richiamati all’ordine. Ma anche in Occidente i monaci avevano maggiore autonomia dal papato rispetto alle altre istituzioni della Chiesa. Erano infatti laici che decidevano di vivere in comune, di rinunciare a proprietà e famiglia, senza però essere inseriti in una struttura gerarchica come gli ecclesiastici (G). Il loro rapporto con la religione era quindi personale e svincolato dalle norme della Chiesa; quelli che viaggiavano, poi, non erano neppure controllabili. In Irlanda e in Britannia, addirittura, i ruoli erano invertiti: era la struttura ecclesiastica a poggiare sui monasteri anziché sulle diocesi ed erano gli abati a svolgere quei compiti religiosi e amministrativi che nel resto d’Europa svolgevano i vescovi. A portare ordine nella situazione di anarchia che si era venuta a creare con la diffusione del monachesimo fu soprattutto la regola stabilita da san Benedetto. Glossario 5 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Ecclesiastico L’aggettivo indica tutto ciò che fa parte dell’apparato della Chiesa: sono ecclesiastici i sacerdoti, i vescovi, i chierici, i diaconi ecc.; sono enti ecclesiastici le chiese e le parrocchie, ma non i monasteri, che sono genericamente enti religiosi. L’opera di san Benedetto Benedetto nacque a Norcia, in Umbria, nel 480 da una famiglia della piccola aristocrazia locale, e visse nel periodo drammatico della guerra greco-gotica. Ritiratosi a vita eremitica a Subiaco, viveva di contemplazione e preghiera, ma quando fu raggiunto da persone che volevano condividere con lui la stessa esperienza, nel 528 fondò un monastero a Montecassino, accanto al quale sua sorella Scolastica ne fondò uno femminile. Contrariamente ai monaci vaganti, Benedetto affermò la necessità della stabilità, perché i monaci fossero punto di riferimento costante dell’intera comunità: per questo era loro vietato allontanarsi dalla propria sede. Inoltre essi non erano liberi come i monaci vaganti, ma sottoposti all’autorità dell’abate a capo del monastero. La vita che vi si svolgeva era comunitaria e Benedetto la regolamentò scrivendo una Regola, che col tempo divenne la più seguita dal monachesimo europeo. Era improntata, infatti, alla moderazione e alla misura, non prevedeva punizioni corporali, né penitenze o digiuni eccessivi, perché Benedetto riteneva che i monaci non dovessero essere tutti asceti e pronti al martirio, ma comuni esseri umani. Divisa in 73 capitoli, la Regola si basava sui tre voti di povertà, castità e carità e sull’obbedienza all’abate, custode delle regole; i monaci erano tenuti a partecipare agli uffici divini, alla preghiera e ai pasti in comune e a svolgere lavori sia manuali che intellettuali: la formula che sintetizzava la regola benedettina divenne quindi «Ora et labora», cioè “prega e lavora”. Ora et labora «L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci in determinate ore devono attendere al lavoro manuale e in altre ore, anch’esse determinate, alla lettura spirituale». Ordinava così la regola di san Benedetto, che dava indicazioni anche su ogni possibile aspetto della vita comunitaria. Perciò nei monasteri benedettini regnava l’ordine e l’equilibrio. Per diventare monaco occorreva sottoporsi a un periodo di noviziato, in cui si doveva imparare innanzitutto a leggere e scrivere. Nel monastero si viveva come fratelli sottoposti all’autorità dell’abate, che, come indicava il suo nome derivato dall’aramaico abba, svolgeva la funzione di padre. Ad ogni fratello l’abate, che era affiancato da un priore, assegnava un compito: di cellerario addetto all’approvvigionamento, di guardiano per controllare chi entrava o usciva dall’abbazia (G), di maestro dei novizi e così via. La vita era scandita dall’alternanza ad ore fisse di preghiera e lavoro, una scansione che ben presto dettò il ritmo del tempo per tutta la società medievale. La giornata cominciava con la recita corale dell’ufficio, proseguiva con le attività agricole e artigianali (i monaci si costruivano da sé gli strumenti agricoli in ferro che erano considerati importanti tanto quanto gli arredi sacri) e la copiatura dei testi sia sacri che pagani, tutte attività che occupavano da 5 a 7 ore al giorno. I servizi per la comunità erano svolti a turno da tutti i monaci Ad altre ore prefissate si cantavano in coro salmi e inni sacri e si svolgevano i pasti, due nel periodo da pasqua a settembre, quando più intenso si faceva il lavoro nei campi, uno solo negli altri mesi. Il monastero era un centro produttivo economicamente autosufficiente in cui regnava un’atmosfera di laboriosa umiltà che l’avvicinava al mondo contadino. Nei momenti di bisogno era proprio dal monastero che partivano gli aiuti per la popolazione in difficoltà. Glossario Abbazia È il monastero retto da un abate. Esistono infatti monasteri retti da un priore oppure monasteri che, privi di un vertice gerarchico, fanno capo ad altri monasteri più strutturati. 6 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia I benedettini e la Chiesa Ogni abbazia benedettina era autonoma, pur mantenendo vincoli di fratellanza con le altre e di sottomissione all’autorità del vescovo. Infatti i monasteri benedettini sorsero in accordo coi vescovi e molti monaci ricoprirono anche cariche episcopali. La loro funzione era essenziale soprattutto per l’evangelizzazione delle regioni non romanizzate e delle zone rurali situate in zone già in parte cristiane, dove il cristianesimo si era diffuso soprattutto nelle città, mentre nelle campagne restavano ampie sacche di paganesimo. I monasteri, che sorgevano in luoghi isolati, lontani dalla civiltà, svolgevano un’opera di civilizzazione, oltre che di evangelizzazione. Benedetto morì nel 547, la sua regola non ebbe però immediata fortuna e convisse con altre forme monastiche, finché nel 590 un monaco benedettino divenne papa, con il nome di Gregorio I Magno, e favorì la diffusione del proprio ordine: dopo soli due secoli tutti i monasteri occidentali erano benedettini. Carta dei regni romano-germanici 1.3 Tracce d’Europa I primi regni romano-germanici Per due secoli, il VI e il VII, il quadro europeo fu in continuo cambiamento, sia per gli spostamenti di massa che proseguivano, pur con minore intensità, sia per l’evoluzione dei regni romanogermanici che si erano formati già prima della caduta dell’impero, sia per la nascita di nuovi regni subito dopo il suo crollo definitivo. In Britannia Nell’isola la dominazione romana, piuttosto recente (dopo i primi tentativi di Cesare, la Britannia meridionale era diventata provincia solo con Claudio nel 42-43), non aveva avuto tempo di radicarsi e solo in parte aveva potuto romanizzare le preesistenti popolazioni celtiche. Dopo che nel 405 Stilicone abbandonò l’isola a se stessa, non fu difficile ad angli, iuti e sassoni insediarvisi tra il 440 e il 450. Erano popolazioni barbare non romanizzate perché, stanziate a nord-est del Reno, nella Germania settentrionale e nei Paesi Bassi, non avevano avuto contatti col mondo romano. Sbarcati sulle coste orientali della Britannia costituirono sette piccoli regni autonomi che azzerarono l’assetto sociale e culturale imposto dall’impero romano, distrussero le città e ogni traccia della dominazione romana, imposero la loro lingua sul latino e i loro culti pagani sul cristianesimo, spingendo contemporaneamente le popolazioni celtiche dei britanni, parzialmente romanizzate, negli attuali Galles, Cornovaglia e nel nord della Gallia che da loro prese il nome di Bretagna. In Gallia La Gallia, al contrario della Britannia, conquistata da Cesare nel 52 a.C., era profondamente romanizzata e aveva dato molti senatori a Roma. Nel III secolo un usurpatore era riuscito a creare persino un “impero delle Gallie”. Nel 406 nella regione dilagarono i vandali, originari della regione a oriente della Vistola, e gli svevi, in latino suebi, che già nel 123 a.C. dimoravano in Germania ed erano stati affrontati da Cesare. Le due popolazioni avevano valicato, insieme a una massa di altri popoli, il Reno ghiacciato e rimasero tre anni nella regione straziandola. Ma poi sopraggiunsero dalla Calabria, dov’erano giunti dalla Mesia, attraverso Grecia e Illiria, i visigoti che, dopo avere spinto vandali e svevi verso la Spagna, si stabilirono nella parte sudoccidentale della Gallia, l’Aquitania, fondarono il primo regno romano-germanico, con capitale Tolosa, nel 418 ottennero dall’imperatore Onorio il diritto di riscuotere le tasse e di governare di fatto il regno, sia pure rispettando le leggi romane. Nel 429, inviati in Spagna per 7 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia contrastare i vandali, li cacciarono e si stabilirono anche in Spagna costituendo il più grande regno romano-germanico del V secolo, che andava dalla Loira a quasi tutta la Spagna. Più a est, nella regione della Gallia tra il medio corso del Rodano e le Alpi, si erano invece stanziati i burgundi, una popolazione germanica che, proveniente dalle regioni del Baltico, tra Germania e Polonia, si era poi stabilita nella regione renana settentrionale, nel 406 aveva sfondato la frontiera del Reno insieme ai vandali e poi aveva tentato di penetrare nella Gallia belgica, ma era stata fermata dal generale Ezio. Calati verso la valle del Rodano, nella regione che da loro prende il nome di Borgogna, i burgundi diedero vita a un regno con capitale Lione, che rimase indipendente fino al 534 e fu poi inglobato in quello dei franchi. Nella regione nord-orientale, a cavallo del Reno, erano insediati i franchi, che tra la fine del V e l’inizio del VI secolo costituirono, come vedremo, un grande regno. In Spagna Anche la penisola iberica era profondamente romanizzata, ma subì invasioni più violente di quelle che aveva subito la Gallia. Proprio dalla Gallia nel 409 giunsero in Spagna i vandali e gli svevi. Gli svevi si stabilirono nella regione di nord-ovest della penisola, l’attuale Portogallo, mentre i vandali furono presto sconfitti dai visigoti federati dei romani e nel 429 furono condotti da Genserico verso sud, in Andalusia. Lì requisirono tutte le imbarcazioni nei porti spagnoli e traghettarono in Africa attaccando la provincia romana. La Spagna fu inglobata nel regno dei visigoti di Tolosa. Per gran parte del VI secolo il regno visigoto fu tormentato da conflitti tra l’aristocrazia e il re e tra germani ariani e cattolici romani. La stabilità fu poi garantita dalla conversione del re Recaredo (586-601), che sollecitò la conversione del suo popolo e la fusione tra goti e romani, favorendo i matrimoni misti. Il re promulgò, inoltre, nel 654 un codice di leggi, il Libro delle sentenze (Liber iudiciorum), il primo ad avere validità sia per i visigoti sia per i romani perché era ispirato al diritto di entrambi i popoli. Grazie a queste scelte il regno dei visigoti in Spagna sopravvisse fino all’VIII secolo, quando fu conquistato dagli arabi. In Africa: un regno germanico fuori dall’Europa Sbarcato dalla Spagna in Africa coi suoi 50.000 vandali, Genserico fondò un regno che si estendeva lungo le coste settentrionali, dall’attuale Algeria alla Libia, e aveva come capitale Cartagine. Impadronitosi della potente flotta romana ormeggiata nel porto cartaginese spadroneggiò nel Mediterraneo occidentale con la pirateria e i saccheggi, compreso quello di Roma nel 455. Genserico morì nel 477 e il suo regno non gli sopravvisse a lungo perché nel 534 fu conquistato dall’impero romano d’Oriente. La fragilità del regno dei vandali fu dovuta a una politica di devastazione e al rifiuto di ogni tipo di integrazione con le popolazioni profondamente romanizzate della provincia africana. La loro cultura, basata solo sulla guerra e la razzia, si tradusse in una dominazione molto dura, segnata da stragi della popolazione, atti di una ferocia spietata, distruzioni di città, esproprio totale delle terre e dei beni della nobiltà e della chiesa, persecuzione dei vescovi. Per di più i vandali avevano deboli strutture politiche e le divisioni interne impedirono loro di sfruttare la posizione di forza che pure erano riusciti a conquistare nel Mediterraneo. Così, quando si scontrarono con l’imperatore d’Oriente, appoggiato dalle genti romane e dal clero cattolico del loro regno, ne furono travolti. 8 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia 2. DUE REGNI IN PRIMO PIANO 2.1 Il regno dei franchi in Gallia Due scelte a confronto Due regni meritano un’attenzione particolare, sia per il loro ruolo storico, sia perché rappresentano due diversi modi di rapportarsi alla Chiesa cattolica e all’impero d’Oriente. La differenza non è di poco conto, perché determinò una sorte diversa per i due regni. È una prova di quanta forza mantenesse l’impero d’Oriente e quanta ne avesse acquistata la Chiesa. La scelta politica del cattolicesimo I franchi erano un insieme di tribù germaniche spesso in lotta tra loro. Nel III secolo si erano stabiliti nelle regioni del basso e del medio Reno, trasformandosi da nomadi in stanziali; nel IV secolo erano diventati federati dei romani sotto Giuliano l’Apostata (361-63); alla fine del V avevano fondato numerosi piccoli regni spesso in conflitto, che infine il re Clodoveo (481-511) riunì sotto il suo potere. Il re apparteneva alla dinastia dei Merovingi, discendenti dal mitico Meroveo, che sarebbe vissuto tra il IV e il V secolo. La dinastia restò a capo del regno fino al 751, indebolendosi col passare del tempo. Clodoveo promosse l’integrazione tra i capi militari germanici, i proprietari terrieri gallo-romani e il clero cattolico: incoraggiò i matrimoni misti, affidò ad aristocratici gallo-romani posti di comando nell’esercito e si garantì l’appoggio del Chiesa e dell’aristocrazia di fede cristiana convertendosi lui stesso nel 496 al cristianesimo (mentre la maggioranza dei germani era ariana) e promuovendo la conversione dei sudditi. Con una cerimonia pubblica spettacolare si fece battezzare dal vescovo di Reims e diede così al suo potere un’investitura sacra, che resterà caratteristica dei sovrani franchi. Storia di parole Franco Il regno dei franchi assunse ben presto un ruolo dominante in Europa, tanto che il termine “franco” divenne per bizantini e arabi sinonimo di occidentale. Il termine fa parte ancora della nostra lingua, non solo perché indica una moneta, il franco svizzero – e un tempo anche il franco francese – ma perché è sinonimo di libero, come nelle espressioni “zona franca”, esente da imposizioni fiscali; “porto franco”, dove le merci sbarcano senza pagare tasse doganali; “franchigia”, esenzione dal pagamento di una somma. “Farla franca” significa invece uscire impunito da un’azione disonesta, mentre una persona “franca” è leale, aperta e sincera; il “franco tiratore”, invece, è il soldato irregolare che fa azioni di guerriglia nelle retrovie di eserciti che hanno invaso un territorio, ma oggi indica anche il parlamentare che nel segreto dell’urna vota diversamente da quanto deciso dal suo partito. L’organizzazione dello Stato Politicamente, i re franchi si ispirarono alle istituzioni imperiali romane: invece che restare, come gli altri re germanici, soltanto i capi militari del regno, dopo aver esautorato l’assemblea dei guerrieri, accentrarono anche il potere politico nelle proprie mani. Il governo risiedeva nel Palatium, letteralmente il “palazzo”, da intendersi però non come reggia, ma come corte costituita dai funzionari e dai compagni d’arme del re, che, secondo l’uso germanico, non restava fissa in un palazzo, ma seguiva il sovrano nei suoi spostamenti. I franchi lasciarono in vita il sistema amministrativo romano: lo Stato era suddiviso in circoscrizioni sottoposte ai conti (da comites, “compagni”), alti funzionari e uomini di fiducia del re che avevano il compito di amministrare la giustizia, arruolare i soldati, organizzare nuove forme di tassazione. Essi dovevano rispondere solo al re delle proprie decisioni e venivano dal re ricompensati con proprietà terriere. Si venne a formare così la nuova aristocrazia franca che si affiancò e si fuse con quella romana. 9 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia L’integrazione giuridica Anche nel campo del diritto, i franchi scelsero la via della commistione: il re continuò ad emanare l’ordine ufficiale che i capi germani emanavano per la propria tribù (definito banno), ma ne estese la validità a tutti i sudditi, franchi e romani, adottando il principio della territorialità delle leggi, tipicamente romano. Anche l’eribanno, cioè la chiamata alle armi, non riguardò solo i franchi ma anche i romani. Espansione e divisione Intrapresa l’espansione territoriale con l’appoggio del clero, Clodoveo estese i confini del regno dai Pirenei al Reno e all’Atlantico, annettendo al suo regno la maggior parte della Gallia, tra cui nel 507 il regno visigoto di Tolosa. Dai franchi la Gallia prese il nome di Francia. Alla morte di Clodoveo nel 511, i suoi successori occuparono anche il territorio dei burgundi (534) e la Provenza (537), l’antica provincia romana, ancora sotto il dominio di Roma ormai governata dagli ostrogoti. Però, tra i vari rami della dinastia merovingia scoppiarono lunghe lotte per la successione. La tradizione franca, infatti, considerava il territorio dello Stato proprietà personale del re, che fondava il suo primato sulle altre famiglie aristocratiche proprio sulla maggiore estensione delle sue proprietà. Alla morte del re, il regno, in quanto proprietà personale, doveva essere spartito tra gli eredi. L’unità del regno perciò si frantumò e si formarono tre regni: la Neustria, a nord-ovest della Gallia, comprendeva la valle della Senna e l’odierna Normandia con capitale l’antica Lutetia Parisiorum, l’attuale Parigi, capitale dei galli parisii già all’epoca di Cesare; l’Austrasia, con capitale Metz, si estendeva negli attuali Belgio e Paesi Bassi; la Burgundia, il paese dei burgundi, nella valle del Rodano, gravitava intorno alla città di Chalon, e avrà poi come capitale Lione. Restava indipendente l’Aquitania, la regione a sud-ovest, dove era ancora forte il potere dell’aristocrazia romana. Non costituiva un regno vero e proprio e fu sottoposta ora all’uno ora all’altro dei tre regni, che si scontrarono per tutto il VII secolo senza che i vari re riuscissero a ricostituire l’unità. L’espansione si arrestò e i franchi dovettero anche fronteggiare la pressione dei barbari alle frontiere. 2.2 L’Italia degli ostrogoti Ascesa degli ostrogoti Gli ostrogoti erano i goti dell’est, stanziati nel III secolo nelle regioni a nord del mar Nero, tra il Dnestr e il Dniepr, dove erano finiti, nel IV secolo, sotto il controllo degli unni. Quando, alla morte di Attila (453), l’impero unno si era disgregato, gli ostrogoti si erano stabiliti in Pannonia (Ungheria) e avevano cominciato le proprie incursioni nell’impero d’Oriente fino a ottenere il permesso di stanziarsi entro i confini dell’impero con lo statuto di federati. A garanzia dell’alleanza, il loro re diede in ostaggio all’imperatore il proprio figlio ancora bambino Teodorico. Questi crebbe dunque alla corte di Costantinopoli e ne fu affascinato, ne assorbì la cultura e le tradizioni, imparò il greco e il latino. Eppure, quando dopo dieci anni di permanenza alla corte imperiale ritornò presso il suo popolo, non si trattenne dal guidarlo contro l’impero. L’imperatore Zenone allora adottò una tattica ormai consolidata e deviò le incursioni dei goti verso occidente, affidando formalmente l’incarico a Teodorico di liberare l’Italia da Odoacre, il re degli eruli che aveva spodestato l’ultimo imperatore d’Occidente. Questi, infatti, non si era mai vista ufficialmente riconosciuta l’autorità sulla penisola ed era perciò considerato un usurpatore. Per di più aveva intrapreso una politica espansionistica, occupando la Dalmazia, il Norico (l’attuale Austria) e si avvicinava ormai ai confini dell’impero d’Oriente. Il regno ostrogoto in Italia 10 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Teodorico colse nell’ordine di Zenone l’occasione per realizzare il sogno di diventare l’erede degli imperatori romani. Quando nel 489 giunse in Italia, l’aristocrazia romana lo accolse come legittimo rappresentante dell’imperatore e lo appoggiò contro Odoacre. La guerra durò quattro anni, fino al 493, quando Odoacre infine si arrese in cambio della vita. Subito dopo la resa, però, Teodorico lo fece assassinare insieme ai suoi familiari e si installò nella penisola con tutto il proprio popolo, forse 50.000 persone. Mantenne il titolo di re degli ostrogoti, ma governò l’Italia solo come rappresentante dell’imperatore, servendosi di funzionari, ministri e consiglieri romani, come Simmaco, Severino Boezio e Cassiodoro. Scheda tra storia e filosofia La cultura per sfuggire ai barbari Boezio e Cassiodoro erano i maggiori esponenti della cultura latina del VI secolo, chiamati da Teodorico a collaborare alla sua corte, ma sempre in bilico tra la fedeltà al re barbaro e quella all’imperatore, com’erano in bilico tra antichità e Medioevo. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (Roma,480-Pavia,526) apparteneva a una famiglia dell’alta nobiltà romana. Profondo conoscitore del pensiero di Aristotele, era considerato l’ultimo dei filosofi romani e il primo di quelli medievali e seppe fondere cristianesimo e cultura classica. Accusato di tradimento e condannato a morte dal re, in attesa dell’esecuzione scrisse in carcere un’opera, il De consolatione philosophiae, in forma di dialogo misto di versi e prosa, in cui immaginava di ricevere la visita di una donna maestosa, la Filosofia. Ella lo consolava, spiegandogli che il dolore è la condizione dell’uomo, ma se ne può guarire ricorrendo alla ragione e alla fede, che coincidono entrambe con Dio. L’opera ebbe larga diffusione in tutto il Medioevo e fu ammirata anche da Dante. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro preferì invece allontanarsi spontaneamente dalla corte di Teodorico quando capì che era ormai impossibile una collaborazione tra romani e goti. Fondato un monastero a Vivarium, in Calabria, scrisse un’opera enciclopedica in cui definì più precisamente una distinzione, già presente in altre opere, tra le arti liberali del trivium (grammatica, dialettica e retorica) e quelle del quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica), che rimase fondamentale nella cultura medievale. La pax Teodoriciana Teodorico non volle rischiare che il suo popolo perdesse la propria identità e quindi impose una netta separazione tra ostrogoti e romani: proibì i matrimoni misti, non concesse l’uso delle armi ai romani, vietò ai goti di imparare il latino e di entrare in senato, difese l’arianesimo e mantenne la distinzione del diritto. Non attentò però al cattolicesimo, rispettò l’aristocrazia e le tradizioni culturali romane e promosse la collaborazione tra i due popoli. Il rispetto per la cultura romana, che aveva appreso nella sua permanenza a Costantinopoli, lo spinse a restaurare, oltre alle mura, ai palazzi, ai granai e agli acquedotti, anche terme e anfiteatri e a riproporre spettacoli e giochi circensi. A Ravenna, la capitale del regno, Teodorico fece costruire la splendida basilica di Sant’Apollinare Nuovo, dedicata al culto ariano, come il battistero degli Ariani, ma anche un suo Mausoleo, come avevano fatto Augusto e tanti altri imperatori dopo di lui. La politica di separazione e nel contempo di collaborazione garantì alla penisola un ventennio di pace – tanto che sul modello di quella Augusta si parla di pax Teodoriciana – che produsse benefici effetti: favorì la ripresa della produzione agricola e dei commerci, malgrado le pessime condizioni delle strade, e fece rifiorire la vita culturale: Milano divenne sede di un centro studi dove si trascrivevano testi di autori classici; a Roma una scuola di grammatica, retorica, medicina e diritto era patrocinata dallo stesso Teodorico; a Ravenna venne realizzata una preziosa traduzione dei Vangeli in goto, scritta con inchiostro argenteo e iniziali in oro su pergamena di color porpora, il colore degli imperatori. 11 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia La politica estera di Teodorico tra successi e fallimenti Anche verso il mondo esterno Teodorico intraprese una politica intelligente, facendo dell’Italia il centro di una serie di alleanze e di legami matrimoniali, volti a consolidare il dominio ostrogoto sulla penisola e sulla Rezia, il Norico, la Dalmazia e la Pannonia; a contenere l’espansionismo dei franchi e a difendere l’Occidente dall’ingerenza dell’impero d’Oriente. Questa politica resse finché non salì al potere dei franchi Clodoveo, che estese il suo dominio alla Gallia meridionale, mentre la sua conversione al cattolicesimo lo avvicinò alla Chiesa e allo stesso imperatore, isolando Teodorico. Anche con Costantinopoli i rapporti del re ostrogoto si fecero difficili e peggiorarono quando salì al trono Giustino. L’imperatore, dal 520, scatenò una persecuzione contro gli ariani, tra cui i goti di Teodorico, per rafforzare il potere dell’imperatore quale garante dell’ortodossia cattolica. Il declino Col fallimento della sua politica estera, Teodorico perse l’appoggio della classe senatoria romana e i rapporti con la Chiesa si fecero tesi. Il re cominciò a sospettare che si stesse costituendo un’alleanza tra l’imperatore, la Chiesa, l’aristocrazia romana e i franchi e avviò una politica di persecuzioni nei confronti dei senatori, che portò alla morte di Boezio nel 526 e addirittura, l’anno successivo, del papa Giovanni I, che, inviato a Costantinopoli per trattare con l’imperatore, avendo fallito la sua missione, fu imprigionato e lasciato morire in carcere. Alla morte di Teodorico nel 526, la storia del regno ostrogoto in Italia si intrecciò con quella dell’impero d’Oriente. 3. L’IMPERO ROMANO D’ORIENTE 3.1 Le cause di una lunga vita L’impero privilegiato Mentre l’Occidente si sfaldava in tanti piccoli regni, l’impero d’Oriente rimaneva la più grande potenza dell’epoca: si estendeva dai Balcani meridionali all’Asia Minore, dall’Eufrate all’Egitto, ed era destinato a restare in vita per altri mille anni, fino al 1453, quando fu conquistato dai turchi. I fondamenti della sua forza erano le istituzioni romane, la cultura greca e la religione cristiana. Soprattutto nei primi secoli, l’Oriente mantenne viva l’idea che l’Occidente fosse ancora parte integrante dell’impero romano, sebbene momentaneamente governato da usurpatori barbari, i quali, per altro, per governare dovevano chiedere il permesso all’imperatore. Il latino restava la lingua dell’amministrazione, del diritto e della giustizia; gli abitanti si definivano “romei”, cioè romani, anche se la cultura dominante era quella greca e la lingua più diffusa il greco, che nel 610 divenne la lingua ufficiale. A fare da collante tra le varie popolazioni che abitavano l’impero era anche la religione cristiana. Uno Stato saldo e un potere forte L’impero d’Oriente, al contrario di quello occidentale, riuscì a sostenere e a contrastare gli attacchi alle frontiere e a resistere per altri mille anni per ragioni insieme politiche, geografiche ed economiche. La struttura dello Stato in Oriente si manteneva solida grazie a un buon apparato amministrativo, a un esercito e a una flotta potenti che garantivano la difesa, a una sapiente amministrazione della giustizia regolata dal diritto romano, a un’efficiente scolarizzazione. Il potere imperiale non aveva perso autorità a vantaggio dei capi barbari dell’esercito, com’era accaduto in Occidente, perché era fortemente centralizzato. Chiuso nel “sacro palazzo”, costruito come una città nella città al centro di Costantinopoli, circondato da una corte sfarzosa, l’imperatore era considerato sacro, in quanto rappresentante di Dio sulla terra. A lui ci si poteva avvicinare solo con un complesso cerimoniale, 12 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia che ne sottolineava la natura quasi divina. Il suo controllo sull’esercito lo rendeva molto forte e nei confronti della Chiesa egli consolidò il cesaropapismo (memo) già avviato da Costantino: l’imperatore nominava il patriarca di Costantinopoli, cioè la massima autorità religiosa della Chiesa orientale, convocava e presiedeva i concili ecumenici, aveva la responsabilità di tutelare l’ortodossia e dirimere le questioni religiose, reprimendo le eresie. Tuttavia il cesaropapismo, in alcuni momenti, presentò anche l’altra faccia della medaglia: le contestazioni e le ribellioni a sfondo religioso si trasformarono automaticamente in ribellioni politiche. Memo Il cesaropapismo era la tendenza degli imperatori a considerare la Chiesa e la sfera religiosa a loro subordinate. Talvolta l’imperatore, il “cesare”, pretendeva di assumere funzioni e poteri del “papa”. Lontano dalle invasioni, al centro dei commerci Una fortuna per l’impero orientale fu la sua posizione defilata rispetto alle direttrici delle ondate migratorie, rivolte per lo più verso l’Europa continentale, e solo raramente verso est. Nei rari casi in cui le migrazioni puntavano sull’impero, gli imperatori provvidero a deviarli verso occidente, come fece Zenone con gli ostrogoti. L’unica frontiera a rischio era quella con i persiani. Le città, risparmiate dalle invasioni, continuarono a essere il centro della vita economica e sociale, le strade ben tenute garantivano gli scambi commerciali, dalle coste mediterranee partivano le grandi vie di comunicazione con il lontano Oriente su cui viaggiavano seta, spezie, perle, pietre preziose, tappeti e altri oggetti di lusso. L’impero era il punto d’incontro di tutte le vie commerciali che vi arrivavano da ovest (Italia e Spagna), da est (Cina, India, Persia), da nord (regione danubiana e Russia) e da sud (Arabia ed Egitto). L’efficienza del sistema viario garantiva gli scambi commerciali: dalle coste mediterranee partivano le grandi vie di comunicazione con il lontano Oriente, su cui viaggiavano seta, spezie, perle, pietre preziose, tappeti e altri oggetti di lusso. Il progresso delle conoscenze I flussi commerciali facilitavano lo scambio di conoscenze e lo sviluppo tecnologico: la “nuova Roma" fu grande anche perché seppe assorbire le idee degli altri ed essere un crogiuolo di popoli e di saperi. Certamente fu aiutata nelle sue fortune da un saldo sistema monetario: mentre altrove si regrediva al baratto, il solido d’oro manteneva intatto il proprio valore ed era la moneta degli scambi internazionali, il “dollaro” medievale! Nonostante un’economia solida, che creava benessere e incremento demografico, anche nell’impero d’Oriente tuttavia la pressione fiscale era oppressiva e ben presto ridusse alla fame masse di contadini. dida Il fuoco greco Tra le scoperte più rilevanti del periodo fu quella del cosiddetto fuoco greco. Si trattava probabilmente di una miscela di zolfo o petrolio, calce viva (cioè pura, senz’acqua) e resina di pino, che lanciata contro truppe e navi nemiche provocava incendi violentissimi che non potevano essere spenti con l’acqua, ma, a quanto riferisce un cronista del X secolo (Liutprando di Cremona), solo dall’aceto. Costituì a lungo l’arma segreta dei bizantini e contribuì alla loro potenza militare. Il suo nome deriva dal fatto che “greco” e “bizantino” erano ormai usati come sinonimi: “fuoco greco” indicava appunto l’arma segreta dei bizantini. Geostoria Sul Corno d’oro 13 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Costantinopoli, l’antica Bisanzio che Costantino aveva trasformato nella propria capitale ricostruendola tra il 324 e il 330 e attribuendole il proprio nome, costituiva un ponte tra Europa e Asia. Ripreso anche il suo antico nome greco, Bisanzio rimase per tutto il Medioevo la “città” per eccellenza in sostituzione dell’Urbe, tanto che il suo nome attuale Istanbul deriva dal greco eis tèn Pólin “verso la Città”. Edificata su sette colli, sulle rive di una penisola che si protendeva nel Bosforo e delimitata a nord dal Corno d’oro, una stretta insenatura che fungeva da porto, la città si trovava in posizione strategica sotto tutti i punti di vista. Risultava imprendibile via mare, perché il Corno d’oro in caso di pericolo veniva chiuso con un sistema di catene che impediva l’accesso ai nemici e teneva al riparo la flotta imperiale. L’unico accesso via terra era protetto da mura sin dall’epoca di Settimio Severo (II secolo). Costantino ne aveva costruite altre allargando la città di due terzi verso ovest. Teodosio all’inizio del V secolo dovette ulteriormente ampliare l’estensione della città che contava un milione di abitanti, costruendo nuove mura ancora più verso l’interno della penisola. Con un sistema difensivo costituito da tre cerchia di mura, Bisanzio risultava inespugnabile e infatti cadde solo quando fu costruito dai turchi ottomani, che nel 1453 assediavano la città, un gigantesco cannone tanto potente da distruggere le sue mura. Città tutta d’oro La posizione della capitale era strategica anche dal punto di vista militare, perché vicina sia alla penisola balcanica, sempre sotto la minaccia di invasioni barbariche, sia al confine con il pericoloso impero persiano. E strategica era anche per i commerci perché metteva in comunicazione il Mediterraneo con il mar Nero. Costruita dagli architetti di Costantino secondo i moduli dell’urbanistica romana, ruotava intorno al sacro palazzo, un vero labirinto di stanze che accoglievano la corte, decorato fastosamente con mosaici e opere d’arte provenienti da tutto l’impero, circondato da mura inaccessibili. In una sala tinta di porpora le donne della famiglia imperiale partorivano i loro figli “porfirogeniti”, nati appunto nella stanza di porpora; nella sala del trono apparecchi meccanici ingegnosi servivano a impressionare gli ambasciatori stranieri. Dal palazzo un passaggio voluto da Costantino portava direttamente all’ippodromo, costruito sul modello degli anfiteatri di Roma. Col tempo la città, divenuta il centro del Mediterraneo, si era arricchita di grandi fori, porticati, immensi palazzi e monumenti grandiosi, trasformandosi nel mito di una città “tutta d’oro”, che ispirava sogni impossibili di conquista. Fine geostoria dida Il gioiello di Bisanzio Un ruolo di primo piano nel costruire il mito di Costantinopoli giocò la splendida basilica di Santa Sofia, il “gioiello di Bisanzio”, come la definì uno storico dell’epoca. Costruita da Costantino su un antico tempio pagano e ricostruita da Giustiniano, utilizzando materiali preziosi provenienti da tutto l’impero, persino marmi e colonne dei più famosi templi pagani, talmente imponente che si avvistava dal mare, la basilica era il centro della fede cristiana in Oriente, la sede del patriarca che rivaleggiava con il papa. Era in realtà solo la cappella del palazzo, la chiesa personale dell’imperatore, che la usava come edificio di rappresentanza per le cerimonie ufficiali. 3.2 Il regno di Giustiniano L’ultimo imperatore romano (527-565) La storia dell’impero d’Oriente nel VI secolo si identifica in gran parte con il regno di Giustiniano, un imperatore tanto discusso quanto esaltato, sicuramente l’ultimo imperatore romano. Dopo di lui non si parla più di impero romano d’Oriente, ma di impero bizantino. 14 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Giustiniano, nato nel 482 in Illiria da una famiglia di umilissime origini, era nipote dell’imperatore Giustino e aveva collaborato e ispirato la politica dello zio. Quando gli succedette nel 527, trovò le finanze dello Stato in condizioni ottime, le frontiere tranquille, un apparato burocratico esoso ma efficiente. L’idea ispiratrice della sua politica fu la renovatio imperii, la restaurazione dell’antico impero romano, che attuò attraverso il rafforzamento del potere imperiale, l’affermazione dell’ortodossia cattolica in tutto l’impero, indispensabile a garantire l’appoggio della Chiesa, il potenziamento dell’organizzazione amministrativa e giuridica, per assicurare in tutto l’impero il rispetto delle stesse leggi, la riconquista delle province occidentali. Una rinnovata immagine del potere La forza del potere nasce anche dall’immagine che sa dare di sé e Giustiniano lo sapeva: come tutti i grandi imperatori avviò quindi un ambizioso programma di lavori pubblici, a volte grandiosi, che resero Costantinopoli una città splendida, degna di rappresentare il primato dell’impero su tutti gli stati contemporanei. Il simbolo più tangibile fu la meravigliosa chiesa di Santa Sofia, capolavoro assoluto dell’arte e dell’architettura, che esprimeva anche il primato della fede cristiana. Ma non bastava ad assicurare a Giustiniano l’appoggio del papa; così egli si presentò subito come difensore dell’ortodossia, sulla linea di Costantino. La scelta comportava la repressione dell’eresia monofisita (G), diffusa soprattutto in Egitto e Siria, e la prosecuzione della politica di persecuzioni dello zio Giustino, che, oltre al favore della Chiesa, procurava anche le simpatie della popolazione, in maggioranza ortodossa. Le spinte separatiste di Egitto e Siria, le ribellioni e i conflitti, invece, furono appianati con l’intermediazione dell’imperatrice Teodora, donna bellissima, volitiva e spregiudicata, seguace dell’eresia monofisita e abile diplomatica. Per debellare anche le ultime forme di paganesimo Giustiniano, oltre a mandare al rogo i libri pagani, nel 529 chiuse la gloriosa Accademia di Atene, la scuola filosofica creata da Platone quasi un millennio prima, dove insegnavano gli ultimi filosofi pagani, che si rifugiarono in Persia, presso il re Cosroe. Glossario Eresia monofisita Dottrina cristiana che ammetteva solo la natura divina di Cristo, ma fu considerata contraria all’ortodossia, quindi eretica. Dida Come davanti a Dio Giustiniano impose a chi si presentava al suo cospetto di stendersi a terra con braccia e gambe ben aperte e di sfiorare con le labbra il piede dell’imperatore e dell’imperatrice. Ma anche solo arrivare a lui era impresa ardua, perché la sua figura era protetta da uno sbarramento di funzionari e cortigiani, come il silenziario, che imponeva l’assoluto silenzio alla presenza del sovrano. Generi e generazioni Il potere di un’imperatrice Imperatrici e Auguste Nonostante i profondi cambiamenti del V e VI secolo, la condizione femminile non mutò radicalmente. Tuttavia si intravidero alcuni spiragli di cambiamento, soprattutto ai livelli alti della società. Nell’impero bizantino, ad esempio, poterono governare tre imperatrici, tra cui la potente Irene (VIII secolo); alcune sostennero l’attività di governo dell’imperatore; altre nominarono il successore del marito morto, altre ancora furono invece reggenti dei figli minori. Anche se non sempre, la moglie dell’imperatore poteva essere incoronata Augusta, quindi imperatrice (a partire dal VII secolo il termine fu sostituito da Basilissa, cioè “regina” in greco), e 15 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia allora poteva partecipare alle cerimonie pubbliche, emettere moneta, autenticare documenti con sigilli speciali, indossare vesti e insegne imperiali, disporre di finanze autonome e di personale amministrativo. Una grande donna dietro un grande imperatore Il caso più famoso di imperatrice è quello di Teodora, la moglie di Giustiniano, che l’imperatore elevò ad Augusta, imponendo ai sudditi un giuramento di fedeltà non solo a lui ma anche a lei. E lei sedeva nei concili indetti dal marito e vi prendeva la parola, anche se prima di farlo chiedeva scusa! Benché la fonte principale di notizie su Teodora, Procopio di Cesarea, infarcisca i suoi racconti di pettegolezzi e maldicenze e la presenti come una donna scaltra e immorale, persino dai suoi racconti, come da altre fonti, si intuisce che ella fu intelligente e coraggiosa. Nata probabilmente nel 500, figlia di un impiegato all’ippodromo che Costantino aveva fatto costruire a Costantinopoli, Teodora, rimasta orfana di padre, divenne ballerina, attrice e mima, tutti mestieri per secoli equiparati alla prostituzione. Quando Giustiniano allora quarantenne la conobbe, nel 521, restò ammaliato dalla sua bellezza e la volle come amante. Poi ottenne dallo zio Giustino una legge che consentiva le nozze tra nobili e attrici “convertite” ai buoni costumi. Teodora era stata per un certo periodo in Egitto, dov’era entrata in contatto con i cristiani monofisiti e si era convertita. Anche dopo il matrimonio si rifiutò di passare all’ortodossia, proteggeva i monofisiti, all’occorrenza li nascondeva e bloccava i procedimenti giudiziari a loro carico. Un simile atteggiamento le consentiva di affermare la propria autonomia dal marito e, nel contempo, di garantire a lui il proprio appoggio nel trattare coi monofisiti. Questi erano per lo più rappresentati dai ceti imprenditoriali, mentre gli aristocratici erano ortodossi. Così i due coniugi uniti nel governo seppero bilanciare le due forze sociali più vitali dell’impero. Il contributo di Teodora nella politica giustinianea si evidenziò al momento della sua morte, quando Giustiniano, rimasto solo, si ritrovò in difficoltà nella gestione dei conflitti sociali. Imperatrice e donna Teodora trattava accordi diplomatici con i persiani e con i goti, impartiva ordini ai governatori delle province, teneva a bada astuti ministri di corte, prendeva provvedimenti per migliorare la sorte delle giovani che venivano avviate a mestieri degradanti, come la prostituzione: le riscattava dai loro padroni, le accoglieva in un ospizio e ne avviava il reinserimento sociale. Promosse leggi che equiparavano le figlie nel diritto di successione e davano alle donne coniugate il diritto di esercitare il controllo della propria dote. Ultras d’altri tempi L’episodio in cui più evidente apparve il ruolo dell’imperatrice fu la cosiddetta rivolta di Nika, scoppiata nel 532 tra le due tifoserie degli Azzurri e dei Verdi, legate alle corse di carri all’ippodromo amatissime dalla gente. I due gruppi si prendevano cura dell’organizzazione delle gare e le finanziavano; i loro capi erano i dignitari posti al comando delle milizie di polizia urbana. La divisione tra i due gruppi era anche religiosa e politica: gli Azzurri erano conservatori e cattolici, in genere favoriti dall’imperatore, i Verdi eretici e oppositori del regime. Gli scontri e i tafferugli tra i due gruppi, capaci di mobilitarsi come veri eserciti, erano frequenti. Quando l’imperatore nel gennaio del 532 fece impiccare sette dei loro membri accusati di omicidio, le due fazioni rinunciarono alla reciproca ostilità per coalizzarsi contro il sovrano al grido della parola d’ordine Nika, che in greco significa “Vinci!” ed era l’incitamento che si lanciava ai propri favoriti nelle gare dei carri. Per sei giorni infuriarono violenti combattimenti, metà della città fu incendiata, i rivoltosi distrussero gli edifici pubblici, uccisero funzionari e arrivarono ad assediare il sacro palazzo, dove Giustiniano si era asserragliato. Quando sentì che i cancelli erano stati divelti, l’imperatore voleva abdicare fuggendo con le navi, ma in una concitata riunione con la corte, ecco «si presentò loro l’imperatrice Teodora e li ammonì con queste parole: “Forse una donna non dovrebbe permettersi di dare consigli a uomini e mostrarsi coraggiosa in mezzo a gente che trema di 16 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia paura: mi pare che in questo momento non sia il caso di sottilizzare quali siano o non siano le buone regole del comportamento. […] Quanto a me, il mio parere è che proprio in questo momento la fuga sia assolutamente inopportuna, anche se porta alla salvezza della vita. […] Ma se tu, imperatore, hai in mente di metterti in salvo, nulla te lo può impedire: abbiamo molte ricchezze, e laggiù c’è il mare, ci sono delle navi. Bada, però, se una volta al sicuro sarai veramente più felice e non preferirai essere morto piuttosto che salvo» (Procopio, Le guerre. Persiana, Vandalica, Gotica, Einaudi, Torino, 1977). L’imperatore rinunciò a fuggire e a salvarlo giunse a marce forzate il generale Belisario che aveva appena sconfitto i persiani in Oriente e soffocò la ribellione nel sangue, con 35.000 morti e i cadaveri dei capi delle due fazioni gettati in mare senza sepoltura cristiana. Dida Da prostituta a santa Teodora morì di cancro nel giugno del 548, Giustiniano le dedicò una provincia in Libia, la popolazione la considerò una santa. Fine scheda La renovatio del diritto (528-534) Il terzo punto del progetto di restaurazione dell’impero, oltre al rinnovamento dell’immagine imperiale e del rapporto con la Chiesa di Roma, riguardò il diritto. Non c’era mai stata a Roma la stesura di una costituzione e di un codice organico di leggi, ma solo la promulgazione di numerose leggi. Nel corso dei secoli, però, norme, leggi e sentenze si erano andate accumulando e sovrapponendo, perché quando se ne promulgavano di nuove non venivano abrogate le vecchie, e la stratificazione di materiali giuridici nel tempo e nello spazio immenso dell’impero rendeva difficile anche solo reperire le norme. Per raccogliere quindi tutto il materiale giuridico, eliminarne le contraddizioni e le norme non più in vigore, riordinarlo e classificarlo per facilitarne l’accesso e lo studio, nel 528 Giustiniano nominò una commissione di esperti, presieduta dall’insigne giurista Triboniano, col compito di redigere un codice, che sarà poi definito Corpus iuris civilis (“Raccolta del diritto civile”). Attraverso il codice giustinianeo il diritto romano si centralizzò e si eliminarono le differenziazioni territoriali, perché il codice era esteso a tutto l’impero; si garantì inoltre la certezza del diritto: tutto il diritto vigente infatti si trovava nel codice e, d’altra parte, aveva valore di legge solo quello che si trovava nel codice. La struttura inedita del diritto Il Corpus, la cui redazione si concluse dopo sei anni di lavoro, si articolava in quattro sezioni: Codex, “codice”: conteneva le norme emanate dagli imperatori a partire da Adriano fino a quelle emanate dallo stesso Giustiniano poche settimane prima dell’entrata in vigore del codice; Digesta o Pandectae, “digesto”, cioè raccolta, o “pandette”, cioè trattazioni, era una raccolta di sentenze e commenti selezionati dei più insigni giuristi romani, su cui i giudici potevano fondare le proprie sentenze; Institutiones, “istituzioni”, cioè l’insieme delle nozioni del diritto: era una sorta di manuale a uso degli studenti che si avviavano alla carriera di funzionari; Novellae, “nuove”: rappresentavano una sezione aperta del Corpus, destinata a contenere le norme emanate da Giustiniano dopo la pubblicazione del Corpus nel 534. L’articolazione perfettamente ordinata e coerente del Corpus, opera dei giuristi guidati da Triboniano, ne ha fatto la base del diritto moderno. 17 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Alla riconquista dell’Occidente Per completare la restaurazione dell’unità dell’impero, Giustiniano doveva a questo punto riconquistare le antiche province ormai trasformate in regni dai barbari. Ma prima era necessario assicurare la sicurezza alle frontiere orientali. Sul trono di Persia regnava Cosroe I, le cui mire espansionistiche erano chiare: nel suo palazzo di Ctesifonte teneva sotto il suo trono tre seggi vuoti, riservati all’imperatore romano, a quello cinese e al gran khagan che regnava sui mongoli in Asia centrale, per riceverli, quando fossero giunti, come sosteneva il re, a rendergli omaggio. Per frenare i progetti di Cosroe, nel 532 Giustiniano stipulò con lui un accordo, versandogli una cospicua indennità. Le forze dell’impero non erano infatti sufficienti a sostenere tante guerre quante ne sarebbero state necessarie per tornare agli antichi confini. Così Giustiniano si limitò a unificare il Mediterraneo, presentando la riconquista come la liberazione dall’eresia ariana. Anche in questo caso egli seppe circondarsi di esperti collaboratori, tra cui due valenti generali, prima Belisario e poi Narsete. La fine dei vandali (533-534) La riconquista partì nel 533 dal regno che si presentava più fragile. Dopo la morte di Genserico i vandali in Africa non erano stati in grado di fronteggiare l’ostilità della popolazione cristiana, esasperata dal loro potere tirannico, che imponeva con la violenza l’arianesimo e una netta separazione dei due gruppi etnici. L’economia era crollata, la potenza marittima perduta, i berberi, i nomadi del Sahara, compivano continue incursioni nel regno vandalo. In pochi mesi Belisario poté così riconquistare l’Africa settentrionale ed entrare trionfalmente a Cartagine nel 534. I vandali sopravvissuti si dispersero e sparirono dalla scena della storia. La guerra gotica (535-553) Giustiniano, incoraggiato dal successo sui vandali, intraprese subito la riconquista, assai più significativa, dell’Italia, scatenando la guerra contro il regno dei goti. Alla morte di Teodorico, il regno era passato alla figlia Amalasunta che governava a nome del figlioletto, il quale però morì a otto anni nel 534. Amalasunta per poter governare fu costretta a sposare il cugino Teodato, capo del partito antiromano, che la fece imprigionare e poi strangolare. Giustiniano trovò questa una buona ragione per attaccare il regno ostrogoto. Alla volta dell’Italia inviò un piccolo contingente dall’Africa che, dopo aver conquistato la Sicilia, occupò Napoli e Roma nel 536. I goti non riuscirono a impedire che Ravenna capitolasse nel 540, ma non si arresero ed elessero un nuovo re, Totila (il cui nome significa “l’immmortale”), un abile comandante che si rivelò anche un intelligente capo di Stato. La capitale deserta Totila infatti comprese che non avrebbe sconfitto le truppe imperiali senza l’appoggio della popolazione e varò quindi dei provvedimenti volti ad avvantaggiare le classi umili e a indebolire i grandi proprietari terrieri favorevoli all’imperatore: alleggerì la pressione fiscale e le prestazioni dei coloni, liberò gli schiavi. Riuscì così a ristabilire il potere dei goti sull’Italia settentrionale e centrale e su Corsica e Sardegna, solo in parte su Sicilia e Italia meridionale, dove riconquistò Napoli (543). Quando attaccò Roma, le truppe imperiali asserragliate nel mausoleo di Adriano ne usarono le statue come proiettili di lancio contro i nemici! Totila li sconfisse, fece prigionieri i senatori e li portò via con sé, ordinando alla popolazione, che ormai non raggiungeva più di 20 000 abitanti, addensati soprattutto attorno alla basilica di San Pietro, di abbandonare la città e distribuirsi in Campania: così Roma, la capitale del mondo, per una quarantina di giorni rimase completamente disabitata! La vittoria imperiale e la sconfitta dell’Italia 18 Originale autore con revisione Lazzarini in rosso – Con note Amelia Totila riuscì a salvare dai saccheggi le città riconquistate, ma non poté impedire che l’Italia subisse le conseguenze della guerra: campi devastati, città spopolate, carestie, epidemie, miseria… Al comando delle truppe imperiali intanto era subentrato Narsete, che nella battaglia presso Gualdo Tadino nel 552 ottenne la vittoria e la morte di Totila, annientando così la resistenza dei goti. Nel 554 l’Italia divenne una provincia dell’impero con un decreto, la Prammatica Sanzione, che riorganizzava il governo e l’amministrazione della penisola intorno a un esarca, un rappresentante dell’imperatore con sede a Ravenna. Il potere imperiale si rivelò assai più gravoso e ingiusto di quello ostrogoto. Anziché provvedere a risollevare l’economia al tracollo, a riparare gli acquedotti ormai inutilizzabili, a ripopolare le città, arginando il calo demografico che toccò il suo apice proprio dopo la guerra gotica (dagli 8-10 milioni di abitanti dell’età augustea, dopo la guerra gotica l’Italia non contava più di 4-5 milioni di abitanti), l’imperatore restituì gli schiavi agli antichi padroni e si rifece delle spese di guerra imponendo nuove pesantissime tasse. I romani dicevano che sarebbe stato meglio essere schiavi dei goti piuttosto che dei bizantini: in fondo i primi consideravano l’Italia una nuova patria e forse avrebbero potuto farne uno stato unitario, come quello dei franchi, mentre la vittoria imperiale condannò la penisola ad una drammatica divisione che si sarebbe sanata solo nel 1861, con l’unità d’Italia. La Spagna ultima tappa (553-554) Giustiniano non demordeva: per rifare finalmente del Mediterraneo un mare nostrum, un lago romano, ora occorreva riconquistare la Spagna, dov’era stanziato il regno dei visigoti. Nel 553 l’imperatore occupò quindi la costa mediterranea della penisola, ma non riuscì a procedere oltre, perché l’impegno in Occidente, gravosissimo per l’impero, l’aveva costretto a sguarnire le difese orientali e agevolato le mire del re Cosroe. L’impero in difficoltà Nell’ultimo quindicennio di regno Giustiniano fu costretto a controllare con crescente difficoltà i territori conquistati, a fronteggiare la grave crisi economica e l’ostilità dei persiani a est – che nel 540 attaccarono la Siria e deportarono la popolazione di Antiochia – e di una nuova popolazione che si affacciava a nord, gli slavi. Neppure l’impero d’Oriente poteva sostenere attacchi simultanei da Oriente e da Nord, così l’imperatore dovette accettare di limitare il suo potere entro i confini consolidati. A peggiorare la situazione, dal 541 era intervenuta la peste bubbonica che, scoppiata in Etiopia, si era diffusa in tutto il Mediterraneo, dalla penisola iberica alla Persia e imperversò fino al 580. La popolazione ne venne decimata: nella sola Costantinopoli morì più di un terzo degli abitanti. Giustiniano morì molto vecchio, il 14 novembre del 565, dopo quasi quarant’anni di regno, lasciando l’erario privo di risorse e un impero traballante: il suo sogno non aveva fatto i conti con la realtà, ma, in compenso, il suo codice di leggi mantiene viva la sua memoria ancora oggi. 19