Il piano di immanenza deleuziano: immagine e orientamento Viviana Verdesca Un ritratto si dice ben riuscito quando coglie in un soggetto tutte le età. È un buon segno, dunque, se nel ritratto di un viso adulto, per esempio, si accendono tratti infantili o affiorano linee di invecchiamento: significa che il ritrattista ci sa fare. Non bisogna però equivocare: non si tratta tanto di invecchiare o di ringiovanire in qualche modo l’immagine di chi si ha dinnanzi, ricorrendo magari a trucchi del mestiere, quanto piuttosto di intuire zone di indiscernibilità tra le età capaci di trasfigurarne i lineamenti. È come se ogni pennellata dovesse generare un doppio effetto: un effetto di somiglianza, tale per cui la copia ritratta sia facilmente riconducibile al modello (“è lui”), e un effetto di dissomiglianza, capace di insinuare tra il modello e la figura un senso di estraneità (“non è lui”)1 . L’abilità del ritrattista, la sua malizia, consisterebbe per così dire nel vedere nel volto (letteralmente: in ciò che a lui si volge) più di quanto non si dia a vedere. L’arte del ritratto, dunque, sarebbe un’arte di cattura, di doppia cattura, che disegna ciò che vede e mira a ciò che si ritrae. Ma che cosa si ritrae? In prima battuta, è possibile dire che ciò che si ritrae non va cercato nel presente, nel quale il soggetto viene immortalato, ma bisogna subito aggiungere che pure, paradossalmente, non si manifesta altrove. Ciò che sfugge è infatti la soglia che il soggetto, presentificato nella sua figura, varca per diventare ciò che è: ovvero un individuo di poco più vecchio rispetto al presente appena trascorso e di poco più giovane rispetto al presente che è prossimo a venire. Lungo questa soglia, 1 Questo doppio effetto potrebbe essere detto in una parola rassomiglianza; nella definizione che ne dà Ronchi rassomigliante è infatti ciò che manifesta nei riguardi del modello, cui si impronta, «un non-so-che di dissimile, una estraneità diffusa e non localizzabile» (R. Ronchi, Il pensiero bastardo. Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, Marinotti, Milano 2001, p. 53; cfr. inoltre pp. 150-163). c 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera) Copyright ° Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine di lucro. 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Questa soglia, che fessura il tempo e al contempo lo tiene insieme3 , rivendica per sé uno statuto speciale: non partecipando del presente, essa accompagna ogni sua pulsazione come l’istante intemporale che incessantemente lo lavora; non partecipando dell’essere (poiché per l’appunto non è una creatura del presente), essa si muove lungo il fragile margine dell’esistenza, attingendo una qualche parvenza di essere proprio da questa eccezionale collocazione extra-essere. Non vi è luogo specifico in grado di corrispondere a questo limite4 : nessun dove può infatti accogliere la natura paradossale che lo caratterizza e tollerare di conseguenza che gli opposti coesistano nella loro reciproca irrelatezza; ma per ciò stesso occorrerà spingersi oltre e indicare che in questa soglia è sancito l’aver luogo di ogni tempo presente e risiede, per estensione, la condizione di possibilità di qualsivoglia cosa frequenti la sua breve durata temporale. In altre parole potremmo anche dire che tra i lembi di tale insondabile fessura si occulta il che di ogni figura: infatti, ogni cosa, accadendo, si figura in tale caduta; che rivesta una particolare figura è dunque l’unica traccia del passaggio attraverso il varco 2 Riferendosi a questo divenire illimitato che permette lo scorrere del tempo, Ronchi commenta: «che il tempo scorra secondo una successione significa che è continuo. Questa continuità è un fatto di cui però bisogna rendere conto. Essa implica che tra il prima e il dopo che ordinano la successione sia data una relazione di identità e di differenza. In assenza della prima non vi sarebbe infatti continuità, in assenza della seconda successione» (ibid., p. 28). Per esemplificare quanto va sostenendo, Ronchi si rifà all’incisiva formula della continuità di Poincaré, che, come riconosce Ronchi stesso, è sostanzialmente di derivazione platonico-aristotelica; secondo tale formula «perché la successione sia vissuta come tale bisogna allora che la continuità tra gli estremi A e B, sia garantita da un medio X, differente da entrambi» (ibid., p. 28), per cui: A = X, X = B, A 6= B. A fondamento del tempo, a garanzia del suo scorrimento, occorre pertanto ammettere un medio X che sia simultaneamente il suo prima (A) e il suo dopo (B). Lungo la faglia mediana, ora indicata, il tempo non cessa di divenire sdoppiandosi illimitatamente in se stesso; ed è precisamente questo il senso di quanto si andava illustrando. Per quanto riguarda le osservazioni di Ronchi, è bene annotare che il contesto, dal quale le abbiamo estrapolate, è quello di una ricerca condotta intorno alla natura paradossale dell’exaiphnēs, il quale, come è noto, gioca un ruolo fondamentale all’interno del Parmenide di Platone. L’esempio utilizzato nel corso della nostra esposizione, chiamando in causa vecchiaia e giovinezza, ripete a suo modo l’esempio che Platone sviluppa nel dialogo sopra citato (cfr. Platone, Parmenide, 141 a-d). 3 Questa doppia vocazione, nella quale il tempo si divide, trova nella seguente riflessione di Serres una giustificazione “letterale”: «ecco, ritrovate, le radici più antiche del termine tempo, tèmnw, tagliare a pezzetti, e tèinw, tendere in modo continuo» (M. Serres, Le origini della geometria, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1995, p. 35). 4 Solo un luogo atipico può corrispondere a questa soglia, ovvero un luogo capace di accogliere il divenire di ogni cosa e quindi capace di sopportare il conseguente illimitarsi infinito del divenire nei suoi due sensi; Ronchi riconosce tale luogo nella chōra platonica, che con le sue due radici etimologiche chōrizein (separare, dividere) e chōrein (contenere) ben si accorda con le due anime del tempo che, prese insieme sulla soglia del divenire, se lo contendono (cfr. R. Ronchi, op. cit., pp. 35-52). 2 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura metastabile del suo divenire5 . Tornando all’arte del ritratto, commenteremo pertanto che il suo segreto consiste nel catturare insieme il soggetto e il suo travaglio, l’ora presente (Kronos) e il suo puro divenire (Aiôn)6 . Quando il viso raffigurato riesce a trattenere questa simultaneità, il suo aspetto, riproducendo ciò che pubblicamente identifica un individuo, subisce una scossa, è attraversato da una vena di straniamento che finisce per rallentare l’immediatezza del riconoscimento (“sarò io?”). Da qui forse deriva la potente fascinazione che il ritratto non cessa di esercitare sul suo soggetto vivente, in carne e ossa: nel ritardo del riconoscimento possono infatti succedere molte cose, accadere degli incontri, addirittura ci si può perdere. Ma l’ambigua attrazione, che il ritratto emana, può impossessarsi di chiunque: ogni volta che un’occhiata sia pure distratta si posa sul quadro, si verifica infatti una sovrapposizione di sguardi che fulmineamente si traduce in occasione di incontro tra il fruitore di passaggio e l’artista; se si dovesse specificare la natura di tale incontro non sarebbe fuori luogo descriverlo in termini di agguato. Una volta catturatane l’attenzione, l’ignaro osservatore si troverebbe suo malgrado costretto a quello strabismo che guarda alla figura e al contempo forza la vista oltre la sua naturale portata. In modo del tutto irriflesso, in lui agirebbe, replicandosi, la funzione anomala del ritrattista che prima di lui ha marcato la soglia e, con essa, l’impercettibile transito che rapporta il soggetto alla sua popolazione senza età7 . In altre parole, senza aver chiesto nulla, l’osservatore guadagnerebbe d’un colpo il punto di vista dell’artista, ovvero si troverebbe catapultato in quel punto critico dal quale il ritrattista spicca il suo sguardo. Occorre infatti specificare che l’artista, per disegnare il passaggio di cui si sta parlando, deve collocarsi proprio lì, ovvero in corrispondenza di quel bilico che ora calamita il distratto passante, il quale non può sottrarsi a tale richiamo allo stesso modo in cui, nonostante la vertigine, spesso accade di non poter fare a meno di sporgersi sul ciglio di un baratro anche a rischio di cadere. Può darsi che il modo in cui l’artista tiene il bilico sia ciò che si intende quando si allude allo stile: nulla a che vedere dunque con una maniera studiata finalizzata ad atteggiare un fare, 5 «La signifiance della traccia concerne infatti l’aver avuto luogo di qualcosa nel mondo» (ibid., p. 66; cfr. inoltre pp. 65-71). 6 Kronos è il tempo delle mescolanze, è «l’estensione temporale che accompagna l’atto, che esprime e misura l’azione dell’agente, la passione del paziente», è il tempo che riassorbe il passato e il futuro, proiettandoli in avanti e indietro come se fossero estensioni dell’“ora” presente. Aiôn è «l’istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro», nei due sensi contemporaneamente, è il tempo della simultaneità del divenire, del suo andare in entrambi i sensi, è il luogo degli eventi incorporei, dei verbi all’infinito (G. Deleuze, Logica del senso, tr. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1997, rispettivamente p. 12 e p. 147; cfr. in particolare pp. 145-150). Cfr. F. Zourabichvili, Deleuze. Una filosofia dell’evento, tr. it. di F. Agostini, Ombre Corte, Verona 1998, pp. 91-94; F. Agostini, Deleuze: evento e immanenza, Mimesis, Milano 2003, pp.17-31. 7 «L’anomalo si trova sempre alla frontiera, sul margine di una banda o di una molteplicità; ne fa sì parte, ma la fa anche passare in un’altra molteplicità, la fa divenire, traccia una linea intermedia» (G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, tr. it. di G. Comolli e R. Kirkmayr, Ombre Corte, Verona 1998, p. 48). Cfr. anche G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 1996-1997, vol. II, pp. 156-164. 3 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura quanto piuttosto una sorta di vaghezza capace di tenere insieme uno squilibrio8 . Cosa accade quando un artista si autoritrae? Difficile a dirsi, difficile finanche pensarci. Eppure la domanda è lecita; e ora che l’interrogativo è stato posto, pare quasi che non aspettasse altro che di essere formulato: l’inclinazione del discorso tirava da quella parte, è lì che tendeva, a costo anche di strappi e forzature. Possiamo azzardare un cenno di risposta, affermando che nell’autoritratto sono chiamati a coabitare sulla tela l’uomo e l’artista, la figura individuale che l’artista è e il creatore di immagini attraverso cui quella stessa figura passa; e se l’uomo e l’artista incarnano la stessa figura, l’esecutore dell’autoritratto dovrà allora dimostrarsi capace di un doppio esorcismo tale da evocare nell’uomo e nell’artista gli sfocati fantasmi dei rispettivi divenire. Tentando un altro approccio, si potrebbe dire che nell’autoritratto si fa due volte il mezzogiorno, ovvero che accade due volte quel punto straordinario in cui l’ombra combacia con la presenza; e se la penetrazione di questo incontro ha dell’esplorazione amorosa, deve essere per quello stesso disperante recupero di una distanza raggiunta là dove si fa. Il senso dell’autoritratto è quello di un viaggio sul posto che non procede da sé a sé, ma da sé alla linea di disfacimento del sé e viceversa, dove a governare l’oscillazione è lo stile e l’immagine differita che questo movimento rilascia è quella dell’artista; immagine, quest’ultima, che a sua volta si scompone e si ricompone seguendo le ponderate flessioni del suo proprio polso stilistico. L’esercizio è certamente estenuante e allucinatorio; e non si banalizza se si dice che il mezzogiorno non è solo l’ora in cui si dà il benvenuto ai miraggi, ma è anche un’ora buona per i disastri. La fatica di tenersi insieme può rivelarsi tutt’a un tratto insostenibile; e nel tracollo può capitare che si perda qualche pezzo di sé per strada. Questo per dire che l’autoritratto comporta dei rischi e che l’unica regola pare essere la prudenza. Riconoscere in Deleuze un abile ritrattista può offrire uno spunto interessante per inquadrare il suo singolare approccio alla storia della filosofia. A partire da qui, potrebbe infatti risultare più agevole definire il modo in cui Deleuze “si lavora” programmaticamente gli autori di cui si è interessato nel corso della sua vita di pensatore9 ; la qual cosa, di riflesso, aiuterebbe a comprendere meglio il senso di tali incontri che Deleuze in un celebre passo di una lettera rivolta a un critico severo ha voluto descrivere nei termini di un’inculata10 . Sopraggiungere in punta di piedi alle spalle di un autore e costringerlo a partorire un figlio mostruoso, ma tale che nessuno possa dubitare della sua paternità, è dunque la strategia che Deleuze suggerisce al fine di rendere propriamente fecondo qualsivoglia confronto con la tradizione filosofica. A torto si liquiderebbe questa metafora come una provocazione irriverente e fine a se stessa; al contrario, occorre prestarvi orecchio e corrispondere al suo senso, magari dislocandosi altrove, in un altro contesto, in 8 Sulla nozione di stile cfr. G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., pp. 9-10. Che la storia della filosofia debba essere avvicinata all’arte del ritratto è suggerito da Deleuze in un’intervista rilasciata a R. Bellour e a F. Ewald (cfr. G. Deleuze, “Segni ed eventi. Intervista di R. Bellour e F. Ewald”, in S. Vaccaro (a cura di), Il secolo deleuziano, Mimesis, Milano 1997, pp. 23-41). 10 Cfr. G. Deleuze, Pourparler, tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 14. 9 4 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura un’altra metafora. Per questo avvertiamo l’urgenza di tornare al nostro spunto e di proseguire suggerendo che Deleuze si sia fatto capace di incontrare le firme della storia della filosofia, di cui si è voluto occupare, allo stesso modo in cui il ritrattista, a ogni suo lavoro, incontra il volto di chi ritrae. Ma in cosa consiste il volto di un autore? Non è difficile intuire che ad animare il volto di un filosofo sia in definitiva la sua opera; questo perché essa rappresenta ciò che l’autore destina, rivolge a un pubblico; quindi, nessuno stupore se è per suo tramite che un autore viene abitualmente identificato. Sia che si fissi frontalmente l’intero corpus di un autore, sia che se ne prediliga una parte, in ogni caso la possibilità di fendere ciò che si volge allo sguardo in direzione di ciò che in questo volgersi si sottrae è comunque garantita. Non è significativo il fatto che la figura di pensiero scelta sia la risultante di tutte le sue fasi o la forma specifica di un periodo: l’esercizio del ritrattista non cambia e dal pensiero figurato affonderà al punto di bilico in cui la forma viene meno e resta il suo puro figurarsi. Come l’artista sottopone il suo soggetto a un movimento di spersonalizzazione che sfuma il viso nella frontiera del suo divenire tale, Deleuze, ogni volta che si dedica a un autore, lo sottopone a una torsione che restituisce i concetti alla comune linea di orizzonte che li sottende; e lo fa mostrando attraverso di essi la traccia di quel passaggio che relaziona il pensiero al suo farsi, alla sua genitalità. Se questa soglia, che prima abbiamo vista abitata dal soggetto del ritratto, è il non-luogo in cui ogni presente si differenzia dal precedente e dal successivo e, in ragione di questo incessante differenziarsi, il tempo di una vita acquisisce il proprio senso di continuità, allora non è errato aggiungere che accedendo a questo stesso varco, fosse anche attraverso una sola pagina, il pensiero di un filosofo può farsi co-presente a tutte le sue figure. Per dirla con Deleuze, si tratta di individuare in ogni filosofo il suo specifico divenire, che è quella potenza che anonimamente lavora dietro il suo nome. Parlando di Foucault, Deleuze commenta: «posso parlare di Foucault, raccontare che mi ha detto questo o quello, descrivere come lo vedo. Tutto ciò non significa niente fino a quando io non sarò stato capace di incontrarmi [. . . ] con quell’insieme che viene a costituire una combinazione unica il cui nome sarebbe proprio Foucault»11 . Occorre dunque saper vedere in Foucault, nei suoi gesti, per come ci sono stati raccontati, più di quanto non vi sia depositato, leggere nelle sue opere più di quanto non vi sia esplicitato, perché questo “di più” è il solo orizzonte in cui Foucault può essere incontrato. Più in generale, l’insegnamento di Deleuze invita a guardare ogni pagina di un autore in controluce come per intravedere il foglio bianco che le taglia trasversalmente tutte; le sue indicazioni suggeriscono di leggere negli intervalli tra un concetto e l’altro come per carpire l’inframmezzo bianco che trattiene insieme le righe d’inchiostro nero; e da qui, da questa comune riva di circostanze, Deleuze sollecita a tenere il ritmo che con le sue andate e i suoi ritorni ha distribuito il pensiero per tutto il raggio di una vita, depositandolo nelle sue forme calcificate: potrebbero essere conchiglie, perché non è escluso che il pensiero abbia le sue maree e le sue 11 G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 17. 5 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura lune. Questo parrebbe essere il protocollo d’azione sperimentato da Deleuze, al quale spetta di diritto lo stesso ruolo anomalo attribuito poco fa al ritrattista. Il suo lavoro consisterebbe dunque nello scorporare l’opera di un autore per lasciare emergere attraverso le figure concettuali che gli sono appartenute il travaglio del suo specifico divenire. E per fare ciò Deleuze non può esimersi dallo sprofondare lo sguardo nel punto anesatto12 attraverso il quale il pensiero transita per nascere nelle forme che lo definiscono. Ponendosi sulla linea di costa che contorna un autore, Deleuze si fa capace di un’intimità con esso che non può scadere in una qualche forma deteriore di commistione per la stessa ragione per cui un bordo, uno qualsiasi, non corre alcun rischio di confondersi con ciò che delimita, fintantoché si mantiene nella sua funzione. In questa sottile intimità, in tutto simile a una nicchia, Deleuze si raccoglie per lavorare al suo ritratto, il quale una volta ultimato mal si concilierà con i quadri rigidi che popolano le pagine dei manuali di storia della filosofia, se è vero che ciò che interessa a Deleuze non è la riproduzione nitida di un autore, dei suoi concetti, quanto piuttosto la difficile immagine “mossa” del suo pensiero in divenire, la quale richiede, come si è visto, tutt’altro genere di perizia13 . Per il momento vogliamo soltanto accennare al fatto che se è lecito riconoscere un divenire-Foucault, un divenire-Bergson, un divenire-Spinoza, e così via per tutti gli autori del firmamento filosofico, lungo questi specifici divenire ne scorre uno di più ampia portata che per così dire li svolge tutti. Come Deleuze ama spesso insinuare, attraverso i numerosi tomi che compongono la storia della filosofia spira un vento insistente, che circola a velocità differenti, ora lento, ora fulmineo, ma che è costantemente presente a tutti i suoi momenti: «esiste un divenire-filosofia che non ha nulla a che vedere con la storia della filosofia, e che passa piuttosto attraverso coloro che la storia della filosofia non giunge a classificare»14 . Che è un modo come un altro per alludere al fatto che rispetto alla storia della filosofia, ai movimenti che in essa comunemente si riconoscono, si dà un’istanza acronica, non storicizzabile, che già da sempre ne ha intenzionato le direzioni. Ma questa prospettiva, verso la quale quanto si è detto finora spinge per confluire naturalmente, è nostro proposito lasciarla momentaneamente sospesa. Seppur brevemente, del Deleuze ritrattista si è detto; ora è il momento di indagare se Deleuze ci abbia lasciato tra i suoi numerosi lavori qualcosa che abbia valore di autoritratto. L’ultima opera, che Deleuze scrive in collaborazione con Guattari, si presta a offrire delle osservazioni utili alla nostra ricerca15 . Il titolo del 12 «L’anesattezza non è affatto una approssimazione, al contrario è il passaggio esatto di quel che si fa» (G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., vol. I, p. 42). 13 «Deleuze ricerca nei suoi “autori” l’evento filosofico, non l’individualità rigida del pensatore che costruisce un ordine, un sistema, ma la singolarità accidentale, casuale, dell’evento che si dà nelle pieghe della scrittura filosofica, lo stile, l’andatura, il movimento del concetto. L’evento accade, non si consolida mai» (G. Polizzi, “La filosofia, un ‘gesto’. Deleuze e la ‘tradizione’ filosofica”, in S. Vaccaro (a cura di), Il secolo deleuziano, cit., pp. 228-229). 14 G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 8. 15 Il riferimento va a G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, tr. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996. 6 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura saggio, con il suo interrogativo che campeggia in testa, rivela da sé l’eccezionalità del testo che si vuole avvicinare. Che cos’è la filosofia non è infatti una domanda che qui si intenda lanciare ad uso retorico con la promessa di ricondurla presto a sé con un lazzo di risposte pronte alla mano. Sin dalle prime righe si avverte chiaramente che è come se questa domanda si fosse scavata un tempo, un’ora precisa nella vita di questa coppia di pensatori; semplicemente quel momento tutto a un tratto è precipitato, e con esso il suo carico. C’è un battito di esitazione, prima che una voce proveniente dal mezzo del binomio Deleuze-Guattari cominci a corrispondere alla domanda. I toni sobri sono quelli di chi sa che non si può possedere questa domanda più di quanto non se ne sia già posseduti. Al fine di rintracciare, dove possibile, indicazioni utili al nostro percorso, non possiamo fare a meno di tratteggiare a grandi linee le direttive di questo saggio; pertanto domandiamo con Deleuze e Guattari: che cos’è la filosofia? «La filosofia è l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti»16 . Nessun cielo, dunque, a sorreggere i concetti come fossero corpi celesti: i concetti devono essere creati, sgrossati e intagliati con la stessa competenza artigianale che riscontriamo nel falegname quando lavora il legno. Ma se «creare concetti sempre nuovi è l’oggetto della filosofia»17 , non resta che deviare la prima domanda verso una seconda: che cos’è il concetto? Diremo sinteticamente che il concetto è anzi tutto una molteplicità; «non esistono concetti semplici. Ogni concetto ha delle componenti e si definisce a partire da esse: il concetto ha dunque una cifra»18 . È la cifra delle sue componenti che definisce il contorno del concetto come un bordo frastagliato, irregolare che lo distingue dal caos mentale in cui si troverebbe altrimenti assorbito; ogni concetto è dunque simile a una lingua di terraferma esposta agli umori prepotenti di un oceano minaccioso, costantemente in agguato. Si dirà del concetto che «è un tutto, perché totalizza le sue componenti, ma è un tutto frammentario»19 in quanto gli elementi che lo innervano permangono eterogenei l’uno rispetto all’altro, senza stemperarsi in una nuova e comune mescolanza. Se si volesse cogliere il concetto sul nascere, bisognerebbe guardare là dove le forze, che fluiscono sulla scia di un problema e della rispettiva soluzione, si addensano in un nodo tematico dal contorno sempre più deciso20 . Risalendo invece lungo i nessi che alcune componenti del concetto hanno mantenuto con altri concetti, emersi in seguito a problemi differenti rispetto a quello che ha chiamato in essere il concetto in questione, se ne ricaverebbe la storia: questo perché, una volta accesasi l’urgenza che innesca la creazione, «ogni concetto opera un nuovo montaggio, assume nuovi contorni, deve essere riattivato o ritagliato»21 . In altre parole, la genesi di un concetto è scandita dalle interazioni con gli altri flussi concettuali che si vanno addensando 16 Ibid., p. X. Ibid., p. XIII. 18 Ibid., p. 5. 19 Ibid. 20 «Ogni concetto rinvia a un problema, a problemi senza i quali non avrebbe senso e che non possono essere estrapolati o compresi se non nel corso della loro soluzione» (ibid., p. 6). 21 Ibid., p. 8. 17 7 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura all’interno del medesimo piano d’appartenenza22 ; quanto ai tempi di incubazione, sarebbe superfluo immaginare dei limiti, considerato che la gestazione di un concetto si protrae per tutta la vita dell’idea come suo irrinunciabile orizzonte di rinascita e di rinnovamento. Infine, non è da escludersi che, fissando lo sguardo sulle componenti di un concetto, si possano scorgere i germi di altri potenziali concetti, destinati a formarsi altrove, evocati da altre domande23 . Potremmo riassumere questi brevi cenni, sottolineando che ciò che davvero importa del concetto è la capacità di «rendere le componenti al suo interno inseparabili; distinte, eterogenee e tuttavia inscindibili: questo è lo statuto delle componenti, ciò che definisce la consistenza del concetto, la sua endo-consistenza»24 ; e continuare sostenendo che a questa coesione interna corrisponde un’eso-consistenza che relaziona il concetto e la sua creazione a quella di altri concetti, favorendo in tal modo la costruzione di ponti tesi come tra un’isola e l’altra di un arcipelago la cui mappa non la finisce mai col divenire. Descritto altrimenti, «ogni concetto può essere considerato come il punto di coincidenza, di condensazione o di accumulazione delle proprie componenti»25 : se per un verso ogni componente del concetto stringe nuove alleanze con un numero sempre crescente di elementi intensivi e fa fibra, per l’altro, il concetto, sospeso in un perenne stato di sorvolo, non smette mai di attraversare la trama che lo costituisce, quasi fosse costantemente chiamato a farne il punto. «Il concetto è al tempo stesso assoluto e relativo: relativo rispetto alle proprie componenti, agli altri concetti, al piano sul quale si delimita, ai problemi che è chiamato a risolvere»26 , ovvero rispetto al processo di creazione che lo pone in essere senza mai definirlo una volta per tutte; «assoluto rispetto alla condensazione che opera, al luogo che occupa sul piano, alle condizioni che assegna al problema»27 , ovvero rispetto alla sua auto-posizione. Il costruttivismo, così come lo va delineando Deleuze, sposa efficacemente il relativo e l’assoluto e fa del concetto un sistema auto-referenziale. Di nuovo, che cos’è la filosofia? «La filosofia è un costruttivismo e il costruttivismo ha due aspetti complementari che differiscono per natura: creare dei concetti e tracciare un piano»28 , vale a dire un piano su cui i concetti possano cum-sistere. Come funziona il piano di consistenza? Il piano di immanenza dei concetti opera come una tavola chimica irreversibilmente aperta ai suoi elementi come anche ai relativi passaggi, ai reciproci scambi che la esplodono squassandola con imprevedibili dinamismi29 ; si comporta come un piano illimitato e fluido capace di 22 «Ma un concetto ha pure un divenire che riguarda questa volta il suo rapporto con concetti situati sullo stesso piano» (ibid., p. 8). 23 «Ogni concetto è composto da elementi che possono essere a loro volta presi come concetti» (ibid., p. 9). 24 Ibid., p. 9-10. 25 Ibid., p. 10. 26 Ibid., p. 12. 27 Ibid. 28 Ibid., p. 25. 29 «Il piano assicura il raccordo dei concetti con delle connessioni in perenne aumento e i concetti assicurano il popolamento del piano su una curvatura sempre rinnovata, sempre variabile» (ibid., 8 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura sostenere il passo elastico del concetto30 ; funziona come un taglio, che predispone un orizzonte di terra all’incedere del concetto e alla progressiva territorializzazione che traccia attorno a sé31 . Bisogna dunque intendere il piano di consistenza nei termini di un piano propriamente concettuale? Non esattamente; il piano di immanenza non coincide con quel piano concettuale-filosofico su cui le forme del pensiero fanno bella mostra di sé, eppure, paradossalmente, si sbaglierebbe a cercarlo altrove. Il senso di quanto stiamo precisando può essere rischiarato da una puntualizzazione che Deleuze sviluppa proprio allo scopo di introdurre la differenza che si tentava poc’anzi di circoscrivere: «ma in realtà gli elementi del piano sono dei “tratti diagrammatici” mentre i concetti sono dei “tratti intensivi”. I primi sono dei movimenti dell’infinito, mentre i secondi sono le ordinate intensive di questi movimenti, dei tagli originali o delle posizioni originali»32 . Ciò significa che occorre distinguere la composizione intensiva, che determina il concetto sulla superficie del piano prettamente filosofico, dalla traccia intuitiva, che lo anticipa sul piano di immanenza; la qual cosa ci porta dritti a sostenere la coesistenza, la simultaneità del piano filosofico e dell’orizzonte pre-filosofico che sempre lo incalza e lo precede senza mancare poi di succedergli e di rilanciarlo in avanti. «Prefilosofico non significa qualcosa che preesiste, ma qualcosa che non esiste al di fuori della filosofia, benché questa lo presupponga»33 . Dal momento che la filosofia si occupa di concetti e ha inizio con la creazione di questi stessi, ne risulta che il piano di consistenza, in quanto presupposto, debba essere la potenza pre-filosofica, la comprensione non concettuale cui ciascun concetto rimanda. «Il piano di immanenza è come un taglio del caos, e agisce come un setaccio. [. . . ] Operando un taglio del caos il piano di immanenza fa appello a una creazione di concetti»34 . Lungo la linea di taglio del piano di consistenza, la filosofia e l’universo indifferenziato del non-filosofico si fronteggiano35 : è un faccia a faccia estremo, dello stesso genere che altrove potrebbe vedere l’uno dinnanzi all’altro il tempo vitale di Kronos e l’imperturbata catatonia della morte36 . Perché la situazione non precipiti, urge una qualche mediazione; e così, allo stesso modo in cui Aiôn garantisce a Kronos di sopravvivere a ogni sua breve durata presente, ecco intervenire a tutela della filosofia e del suo lavoro un piano non concettuale, capace di tagliare, filtrare, “imbrigliare” in qualche modo il caos e il suo inafferrap. 26). 30 La velocità infinita con cui si muove il concetto necessita di «un ambito che sia in sé infinitamente in movimento, il piano, il vuoto, l’orizzonte» (ibid., p. 26). 31 «I concetti lastricano, occupano o popolano il piano, pezzo per pezzo, mentre il piano è a sua volta l’ambito indivisibile in cui i concetti si distribuiscono senza romperne l’integrità [. . . ]. I concetti sono le regioni del piano» (ibid., p. 26). 32 Ibid., p. 30. 33 Ibid., p. 31. «La filosofia definita come creazione di concetti implica un presupposto che se ne distingue e che tuttavia ne è inseparabile» (ibid.). 34 Ibid., p. 33. 35 «La filosofia lotta con il caos in quanto abisso indifferenziato o oceano della dissimiglianza» (ibid., p. 218). 36 Cfr. R. Ronchi, op. cit., pp. 9-81. 9 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura bile movimento37 . Se il piano di immanenza taglia la massa indomabile del caos, rendendone in qualche modo “leggibili” i movimenti attraverso rapidi tratti diagrammatici, come avviene quest’opera di intercettazione destinata poi a tradursi in concetto? La domanda sarebbe stata formulata più correttamente se invece di questionare sul come avesse domandato chi: chi è adibito alla creazione dei concetti? I personaggi concettuali; essi, in qualità di istanze preposte a tale funzione, «operano i movimenti che descrivono il piano di immanenza dell’autore e intervengono nella creazione stessa dei suoi concetti»38 ; con una mano pongono in essere il piano di consistenza, con l’altra ne selezionano alcuni tratti per farne concetti39 . Dei personaggi concettuali è possibile dire che sono figure di mezzo, crepuscolari, che vivono tra il piano di taglio e quello propriamente filosofico, come tra la carta e il foglio. Né personificazioni astratte né simboli, i personaggi concettuali incarnano peculiari attitudini di pensiero; della filosofia sono i soggetti atipici. Commenta Deleuze che «il destino del filosofo è quello di diventare il proprio o i propri personaggi concettuali»40 ; e forse occorre tutta una vita per incontrare questa bizzarra tribù senza nome nella quale il pensiero si riconosce per ciò che è, per ciò che è stato, meglio che altrove. Tracciare piani, inventare personaggi, creare concetti: questa in definitiva la «trinità filosofica»41 che detta il costruttivismo; a regolare queste tre istanze: il gusto. Gusto che è innanzi tutto «gusto del concetto indeterminato»42 là dove trova applicazione nella libera attività creatrice che sovrintende al concetto e ne seleziona le componenti intensive; e che trasla, secondariamente, in quel gusto squisitamente filosofico per il «concetto ben fatto»43 che raffina i palati dei competenti. Accantonando le questioni di gusto, torniamo un istante al piano di immanenza; in riferimento al balzo imprevedibile che tende il pensiero sul suo velo di consistenza, Deleuze scrive: «ciò che il pensiero rivendica di diritto, ciò che seleziona, è il movimento infinito o il movimento dell’infinito, che costituisce l’immagine del pensiero»44 . Il pensiero immagina, avverte se stesso come movimento infinito (movimento all’infinito); movimento che a dispetto di qualsivoglia direzione intrapresa, di qualsivoglia dimensione raggiunta, è già sempre ritorno a sé, essendo al 37 «Il problema della filosofia è di acquisire una consistenza, senza perdere l’infinito in cui il pensiero è immerso (il caos da questo punto di vista ha un’esistenza tanto mentale quanto fisica)» (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 33). 38 Ibid., p. 53. 39 «Il personaggio concettuale e il piano di immanenza stanno in un rapporto di presupposizione reciproca. Ora il personaggio sembra precedere il piano, e ora seguirlo. [. . . ] Da una parte affonda nel caos, ne trae delle determinazioni che saranno i tratti diagrammatici di un piano di immanenza: come se sottraesse al caso-caos una manciata di dadi per lanciarli su un tavolo. D’altra parte, a ogni dado che ricade esso fa corrispondere i tratti intensivi di un concetto che viene a occupare una delle regioni del tavolo, come se questo si fendesse secondo cifre» (ibid., p. 65-66). 40 Ibid., p. 53. 41 Ibid., p. 67. 42 Ibid. 43 Ibid., p. 68. 44 Ibid., p. 27. 10 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura contempo piega e slancio45 . Questo movimento, che non esce mai da se stesso e che emana l’immagine del pensiero che lo governa quasi si trattasse di un effetto collaterale, offre lo spunto che si cercava: balenano subitanee familiarità con quella danza dello stile che tra impasti di linee e colori, a una velocità differente, rilascia all’artista l’immagine che attendeva per specchiarsi. Acquisce evidenza il fatto che qualunque tentativo di autoritrarsi da parte di Deleuze deve essere necessariamente partito da qui, da questo movimento che, pur figurandosi nei concetti, non cessa di sommuoverli nell’intimo, dal di fuori, da qualunque direzione, poiché non c’è luogo che un movimento non sappia occupare. Se è vero che in questo movimento il pensiero declina nelle sue forme concettuali, non è azzardato riconoscere nell’alzata della sua onda quella soglia metastabile del divenire di cui abbiamo trattato inizialmente. Il che ci porta a sostenere che l’esercizio dell’autoritratto, se mai praticato da Deleuze, deve essersi indirizzato non tanto verso le figure ideali di cui è stato capace quanto piuttosto verso le risacche e gli allungamenti che hanno avvicinato il pensiero alla riva del concetto senza mai allontanarlo dal largo. Affondare il pensiero verso il che delle proprie figure di concetto, per rinvenire lo stile che le ha pazientemente lavorate, può apparire semplice come accostare l’orecchio alla conchiglia e porsi all’ascolto della melodia del mare; se non fosse che il semplice è sempre, irrimedialmente, il più difficile a farsi. Rovesciare il pensiero in direzione della sua propria matrice equivale infatti a forzare il pensiero contro natura, dal momento che esso di norma è spontaneamente incline al concetto; in altri termini, significa obbligarlo brutalmente al cortocircuito. Va da sé che, se l’intento fosse quello di costringere il pensiero a ciò che lo ripugna, non si potrebbe affatto lesinare sulla violenza46 . A questo punto varrebbe la pena domandare se si sia mai dato nell’opera di Deleuze un esercizio di pensiero tanto potente da abortire il concetto preferendogli l’orizzonte pre-filosofico soggiacente, e tanto feroce da aderirvi quanto basta per prolungare indefinitamente quel punto di incidenza che trattiene insieme l’idea e la sua alea virtuale, il piano filosofico e la sua ombra. Si tratta di valutare se Deleuze abbia mai saputo fissare il suo proprio divenire, ovvero se si sia dimostrato capace in qualche occasione di liberare lo stile da quell’esercizio irriflesso che solo in un secondo momento, con la sua specifica produzione di concetti, dà da riflettere (naturalmente questa eventuale conquista non avrebbe nulla a che vedere con la sciocca presunzione di poter in qualche modo governare lo stile a piacere). Certo, un esercizio di tal genere, se fosse, non passerebbe inosservato. Inoltre ipotizziamo cautamente che il testo, che dovesse accogliere un simile lavoro, non potrebbe che risultare inclassificabile rispetto ai canoni di valutazione tradizionali. Sorprendentemente questo modesto indizio è sufficiente a catapultarci veloci in vista della soluzione, che ora è qui a portata di mano: tutto converge in direzione di Millepiani, saggio anomalo per eccellenza. Pertanto è 45 «Il movimento infinito è definito da un’andata e ritorno, perché esso non va verso una destinazione senza fare ritorno su se stesso, essendo l’ago anche il polo» (ibid., p. 28). 46 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. it. di G. Guglielmi, Cortina, Milano 1997, pp. 169217. 11 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura lecito presumere che Millepiani altro non sia che il pensiero deleuziano preso nel suo difficile autoritrarsi. Guardando al testo, si dirà che nessuna scrittura tra le pagine di Millepiani si conclude in concetto47 ; ogni attenzione è riposta nell’evitare simili “calcificazioni mentali”, a cominciare dalla struttura del saggio, che è vacante, non esiste. Il testo in questione infatti si compone di piani che il lettore può scegliere di leggere nell’ordine che preferisce, fatta eccezione per la conclusione che buon senso e autori vogliono che sia lasciata per ultima48 . Millepiani non ha capo né coda, né tantomeno sul dorso una qualche parvenza di colonna vertebrale. Difficile pensare qualcosa di più lontano dal libro classicamente inteso, da quella sua implicita vocazione all’organizzazione sempre pronta ad articolare la materia distribuendola in parti ragionate in nome della beneamata coerenza discorsiva. Il libro in quanto organismo, si sa, è un agente dell’ordine e parrebbe che il miglior modo di sfuggirgli sia quello di non fornire alla sua invadente struttura appigli di sorta: e dove potrebbe trovarne in Millepiani, considerato che è un testo orfano di padre e di madre, di soggetto e di oggetto, per nulla assimilabile a un insieme sia che lo si concepisca come unità possibile, sia che lo si immagini come unità perduta, sia che lo si sventoli come unità promessa? Millepiani è un corpo senza organi, un puro piano di immanenza, e per ciò stesso ogni suo piano può essere letto in un ordine improvvisato e messo in relazione con qualsivoglia altro: le frange sotterranee, che reticolano il libro lungo tutta la sua estensione, consentono infatti balzi di ogni misura. Se Millepiani funziona come una perfetta macchina a-significante è perché ogni suo ingranaggio diserta la funzione abitualmente assegnatagli dalla scrittura. Gli autori abdicano al proprio trono: sono due, sono parecchi, sono molta gente; ora dichiarano di aver perduto il proprio nome, ora di usarlo alla stregua di uno pseudonimo. «Non siamo più noi stessi»49 scrivono, e con questo si dileguano lasciando il testo privo di quell’orientamento verticale che di regola rapporta il concetto al suo autore, il significato al suo garante. «Rendere impercettibile non tanto noi stessi, ma ciò che ci fa agire, sentire o pensare»50 , dicono lo slogan della funzione anomala e poi più nulla. La scrittura, dal canto suo, per evitare il vaglio della ragione e il suo immediato filar concetti, si inventa una nuova strada e, invece di scorrere sotto gli occhi attenti della mente, si imbuca nel loro mezzo, scrollandosi di dosso eventuali residui di senso. Di questa scrittura si dirà che «non si può vedere senza toccarla con la mente, senza che la mente divenga un dito, sia pure attraverso l’occhio»51 ; ne consegue che, distolto l’occhio dalla consueta funzione 47 Per quanto concerne la potenza antilogica di Millepiani si rinvia a G.B. Vaccaro, Deleuze e il pensiero del molteplice, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 125-163 e a C. Di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, Franco Angeli, Milano 1995, pp. 244-251. 48 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., vol. I, p. 13. 49 Ibid., p. 14. 50 Ibid. 51 Ibid., vol. IV, p. 121. 12 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura visiva, diviene necessaria una lettura differente, “prensiva”52 . E qui entra in gioco il lettore che, affatto invogliato ad assumere un qualsivoglia ruolo significante, ritorna infante e, come estasiato, prende a seguire istintivamente con il dito le linee di quei tratti che non sa più interpretare. Del resto, un lettore analfabeta è esattamente ciò che Millepiani e le presenze, che lo attraversano, cercano per accendere ogni genere di affetti e di divenire. È una scrittura diabolica questa che «chiama un lettore che non sa più o non sa ancora leggere: vecchi, bambini dell’asilo, che farneticano sul loro libro aperto»53 . Sottraendosi a una seppur generica funzione comunicativa, Millepiani non impartisce nessuna lezione, né tantomeno sviluppa o trasmette qualche contenuto: la dimensione in cui il testo, i suoi piani, gli autori e il lettore stesso circolano è quella del viaggio54 . A questo proposito occorre precisare che «quel che distingue i viaggi non è la qualità oggettiva dei luoghi né la quantità misurabile del movimento – né qualcosa che sarebbe soltanto nella mente – ma il modo di spazializzazione, la maniera d’essere nello spazio, la maniera d’appartenere allo spazio»55 . E se è vero che è una falsa concezione quella che attribuisce al viaggio un inizio e una fine56 , allora va colto appieno il bluff di quelle conclusioni che gli autori, prima di voltarsi altrove, raccomandano di leggere per ultime. Ma se il senso di Millepiani non è quello linguistico, quale senso gli rimane? Dobbiamo forse supporre che quello di Millepiani sia un divagare senza senso? E che dire di quel divenire che avrebbe dovuto restituire il pensiero deleuziano al suo orizzonte pre-filosofico di senso, l’unico dal quale potesse mai progredire un qualche tentativo di autoritratto? Come si ricorderà era proprio questa linea fuori fuoco a dover trasfigurare il volto nella sua costante intemporale senza fare null’altro che esercitarsi nel proprio stile, pena l’efficacia artistica dell’autoritratto e lo scadimento dello stesso a un lavoro da mestieranti di mera riproduzione. In breve, come si mette la faccenda del senso? Millepiani suggerisce che «scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare, perfino delle contrade a venire»57 . Dunque, il verso del senso che Millepiani esplora non è quello linguistico-concettuale quanto piuttosto quello topografico. In un saggio di estetica, Serres, autore con il quale il Deleuze della maturità riconoscerà alcune affinità58 , commenta sinteticamente: «il senso ha, come minimo, due sensi: quello predicativo e quello spaziale»59 , e riconosce a quest’ultimo una sorta di priorità sul 52 «Prensivo è una parola migliore di tattile, poiché non oppone due organi di senso, ma lascia supporre che l’occhio stesso possa avere una funzione che non sia visiva» (G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., vol. IV, p. 119). 53 J.-F. Lyotard, Letture d’infanzia, tr. it. di F. Sossi, Anabasi, Milano 1993, p. 6. 54 La prospettiva del viaggio è quella che Tiziana Villani riconosce come dominante per tutto il corso della riflessione deleuziana; essa stessa, a sua volta, se ne serve per rivisitare i volti e i luoghi descritti dal filosofo francese nel suo Deleuze. Un filosofo dalla parte del fuoco, Costa & Nolan, Milano 1998, proponendo un originale “viaggio nel viaggio”. 55 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., vol. IV, p. 104. 56 «Partire nel mezzo, per il mezzo, entrare e uscire, non cominciare né finire» (ibid., vol. I, p. 49). 57 Ibid. 58 Cfr., per esempio, G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 195. 59 M. Serres, Carpaccio. Studi, tr. it. di A.-M. Sauzeau Boetti, Hopefulmonster Editore, 13 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura primo quando sostiene lapidariamente che «il senso del senso è il senso topico»60 . Se pertanto al senso occorre riconoscere un versante prettamente topico, si provi a valutare quanta verità ha da sempre accompagnato l’immagine che da Platone in avanti si attribuisce al lavorio che la definizione di un concetto comporta con i suoi tagli e ritagli, con le sue inclusioni e le sue esclusioni, tutte operazioni, queste, finalizzate alla circoscrizione affatto metaforica di una regione del senso. Ciò che andiamo dicendo aiuta a comprendere per quale ragione in Millepiani pensare non è più «un filo teso tra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell’uno intorno all’altro»61 quanto piuttosto un movimento che si realizza tra il territorio e la terra. Millepiani andrebbe pertanto utilizzato alla stregua di un fascicolo di mappe, perché ciò che il pensiero vi disegna non è nient’altro che una variegata geografia delle relazioni. Al buon navigatore, rimasto orfano di stella polare e consimili feticci, non resta che tenere il segno sulla carta fissandolo bene con il dito e valutare in forza dei propri gradienti affettivi la cifra degli spostamenti compiuti. Ora, a un pensiero che si fa cartografia, quale genere di divenire potrà mai corrispondere? Forse un divenire-linea capace di tener testa alla velocità del pensiero che, secondo la celebre formula di Epicuro, si muove alla stessa velocità dell’atomo62 . Una velocità, quella comune all’atomo e al pensiero, che Deleuze definisce non a caso assoluta; essa infatti si riferisce al movimento che si fa fra due punti, «nel mezzo dei due, e che traccia una linea di fuga»63 . Nulla a che vedere con il movimento che banalmente relaziona due punti, procedendo dal primo verso il secondo a un passo più o meno spedito, il movimento in questione «avviene piuttosto tra due livelli come in una differenza di potenziale. È una differenza di intensità che produce un fenomeno, che lo lascia fuggire o lo espelle, lo invia nello spazio»64 . Questo movimento è ben noto al ritrattista; lo stile infatti possiede la sua stessa natura, altrimenti non si spiegherebbe come gli sarebbe concesso di circolare nel frattempo che scandisce la successione delle durate presenti attraverso le quali il volto da ritrarre passa senza posa e senza apparente turbamento, né si spiegherebbe in quale modo gli riuscirebbe di coniugare nel disegno il viso ritratto con il suo divenire senza età: lo stile, come l’atomo e come il pensiero, declina nelle sue forme a velocità assoluta65 . Da ciò consegue che opere d’arte, figure sensibili e figure di pensiero frequentano la medesima origine; né verità prima né verità ultima, l’origine in questione non va intesa come un fondamento fisso che va scoperto al fondo di ogni genere di “dato”, ma piuttosto come un movimento semovente. Valutando complessivamente quanto si è detto a proposito di Millepiani, pare dunque che Deleuze sia riuscito a trattenersi miracolosamente sul ciglio del proFirenze 1990, p. 71. 60 Ibid., p. 122. 61 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 77. 62 Epicuro, Epistola ad Erodoto, 61-62. 63 G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 36. 64 Ibid., p. 36. 65 «I grandi filosofi sono anche dei grandi stilisti. Lo stile in filosofia è il movimento del concetto» (G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 187). 14 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura prio pensiero senza nulla concedere alle esigenze del concetto; e che quindi sia sensato riconoscere in questa sperimentazione un esercizio del tutto simile a quello dell’autoritratto dal quale siamo partiti. Ciò significa inoltre che lo stile, ovvero il movimento del pensiero, è stato liberato con successo dal binario scontato di una pratica irriflessa; anche se il senso di questa presunta appropriazione è tutto da indagare visto che non poteva che avvenire a prezzo del proprio nome66 . Il progetto rivoluzionario di un pensiero senza immagine tanto propagandato nelle pagine di Differenza e ripetizione trova in Millepiani la sua realizzazione compiuta; allora troppo lento, il pensiero deleuziano aveva da guadagnare in accelerazione per sollevarsi alla velocità dell’atomo e, perché gli riuscisse di trovare la spinta necessaria, aveva ancora da lavorare a un accesso che potesse introdurlo nell’intimità del suo stesso farsi. Ma che ne è dell’immagine che il pensiero, preso nelle sue circolazioni, dovrebbe rilasciare? Non diversamente dall’atomo, che a cavallo delle sue declinazioni emana immagini sotto forma di simulacri, al pensiero spetta infatti la produzione di un’immagine; un’immagine che «esso [ovvero il pensiero] si dà di cosa significhi pensare, usare il pensiero, orientarsi nel pensiero»67 . Essenziale al compimento dell’autoritratto, l’immagine del pensiero è ciò che dovrebbe avvicinare il filosofo al suo personaggio concettuale (o ai suoi personaggi concettuali) vincolandoli vicendevolmente e stringendoli nella più intima delle prossimità; la sua funzione è analoga a quella rivestita dall’immagine prodotta dallo stile che, sovrapponendosi al volto ritratto, completa l’uomo con l’artista. Ammesso dunque che Millepiani emetta un’immagine, sarebbe erroneo supporla somigliante alla matrice che l’ha posta in essere. Le stesse emanazioni spettrali, che gli atomi rilasciano vorticando ognuno secondo la propria inclinazione, in nulla somigliano al movimento che le ha generate; discorso invariato per l’immagine dell’artista, anch’essa affatto simile allo stile che la produce. Il criterio della somiglianza, che altrove si dimostra efficace nel ricondurre la causa all’effetto e viceversa, in questa circostanza risulta del tutto inapplicabile. Se è inutile tentare di rinvenire una qualche parvenza di somiglianza tra questo genere di movimenti (siano essi atomici, stilistici o noetici) e i corrispettivi effetti68 , lo è ancora di più nel caso di quegli effetti “minori”, collaterali, quali l’immagine del pensiero, l’immagine dell’artista, i simulacri, i quali proprio perché immediatamente vicini ai movimenti che descrivono, in nessun caso accetterebbero mediazioni di sorta per rapportarsi alla propria origine. Se pertanto dal moto stilistico che travaglia Millepiani si distacca un qualche effetto, si cercherà bene se si abbandonerà quella predisposizione d’animo che altrimenti solleciterebbe a rintracciare qualcosa che avesse un aspetto simile al movimento genitore. Escluso che si dia un vincolo di somiglianza che possa approntare 66 «Il nome del filosofo è il semplice pseudonimo dei suoi personaggi» (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 53). 67 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 27. 68 Occorre rinnovare la distinzione introdotta inizialmente e tornare a sottolineare che ciò in cui il pensiero propriamente si effettua è il concetto, così come il movimento atomico nel dato sensibile e lo stile nell’opera d’arte. 15 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura una metodologia, foss’anche debole, ma comunque capace di indirizzare scientemente l’indagine, non resta altro che pensare che questo sia uno di quei casi in cui occorre lasciarsi guidare da quel non so che, da quell’indefinibile aria di famiglia che talvolta svela in un modo tanto obliquo quanto potente anche le più imbarazzanti parentele, rivelando al contempo tresche inconfessabili quando non addirittura oscene. Così facendo, approdiamo alla convinzione che Che cos’è la filosofia? sia l’unica risposta candidata a soddisfare la nostra domanda: di un decennio posteriore a Millepiani nella cronologia delle collaborazioni di Deleuze e di Guattari, Che cos’è la filosofia? è l’immagine differita e cogente che il pensiero deleuziano rilascia circolando lungo la mutevole scala dei suoi mille+n piani. La struttura coerente nella quale il saggio si articola con quel suo tono ironicamente pedagogico e che a prima vista appare un incomprensibile regresso rispetto alle conquiste raggiunte con Millepiani, alla luce di questa prospettiva, d’improvviso, brilla di una necessità che prima solo si intuiva. Tracciare piani, inventare personaggi, creare concetti: nel momento in cui Che cos’è la filosofia? descrive in questi termini il lavoro della filosofia, il suo fare, è impossibile non precipitarsi a pensare che Deleuze in definitiva non abbia mai fatto altro che questo. L’inconciliabilità che di primo acchito paralizzava ogni tentativo di comprensione teso a rischiarare il passaggio da Millepiani a Che cos’è la filosofia? si scioglie riconoscendo l’inevitabile consequenzialità che li relaziona, essendo l’uno il movimento e l’altro il suo riflesso. Ciononostante, resta assolutamente intaccato quel senso di estraneità che, frapponendosi tra Millepiani e Che cos’è la filosofia? come tra il lampo e il tuono, ne rivendica l’irriducibile eterogeneità: differente la natura, differente il potenziale, differente l’intensità, è anche lungo lo scarto di questa differenza che il pensiero deleuziano non cessa di circolare a velocità assoluta. L’autoritratto si completa, dunque, con l’accostamento di questi due testi. Che il suo esercizio si replichi in questa manovra di accostamento indica che non c’è modo di vederlo realizzato una volta per tutte, ma che ogni approccio al pensiero deleuziano, cauto o audace che sia, si trasforma automaticamente in un’esecuzione vera e propria che lo vivifica e lo rinnova secondo la ricchezza specifica di ogni incontro. E questo può significare solo una cosa: che l’autoritratto è riuscito ad arte. Del movimento che si fa sul piano d’immanenza deleuziano si è trattato, e così anche dell’immagine che questo stesso movimento rilascia; ora, mettendo da parte il leitmotiv dell’autoritratto che ci ha accompagnati fin qui, resta da valutare quale sia la direzione intrapresa dal pensiero deleuziano, quale ne sia l’orientamento. Se infatti il pensiero deleuziano, non diversamente da ogni altro, va inteso in termini di movimento, dove punta la traiettoria che disegna? Senza troppi preamboli, la domanda ora formulata affretta un ritorno alla prospettiva geografica, che avevamo introdotta a proposito di Millepiani là dove si evidenziava la difficile operazione di riduzione del senso linguisticamente inteso al suo doppio topografico; prospettiva che ora, non potendo limitarsi alla singola mappatura di Millepiani, è necessario che sia ampliata e considerata nella sua portata massima. Questo perché per stimare in quale senso proceda il pensiero deleuziano, è opportuno innanzi tutto individuare secondo quale direttrice si muova il vettore-Deleuze rispetto agli scor16 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura rimenti che quella potenza anonima, altrove chiamata divenire-filosofia, anticipa sulla sua immensa carta per conto di ogni singolo moto di pensiero. Il divenire-filosofia, si commentava nelle pagine iniziali, è l’istanza che intenziona ogni movimento noetico attribuendogli una direzione e destinandolo per ciò stesso a una specifica regione del senso. Se fosse dato approdare al suo orizzonte, sarebbe possibile inaugurare l’era della geofilosofia: le singole geografie tracciate dai differenti movimenti di pensiero si sovrapporrebbero le une alle altre, dando vita a complessi instabili non dissimili da quelli che abitualmente decifrano i geologi; il tempo cronologico cederebbe il trono a un tempo di natura differente, stratigrafico, capace di rendere conto dei lenti slittamenti come dei violenti smottamenti che non cesserebbero di lavorare la complicata composizione di questi strati posti l’uno sull’altro, l’uno accanto all’altro, l’uno nell’altro, come in un inedito accostamento di mondi69 . Inutile commentare che manca a tutti gli effetti la possibilità di guadagnare questo orizzonte globale “a fior di divenire”; perciò, fermo restando il contesto al quale si riferisce, occorre accontentarsi di rinvenire all’interno di ciascun pensiero allusioni, accenni, tracce di ogni tipo indicative dell’orientamento impressogli dall’istanza che l’ha direzionato. Quello che bisogna ricercare è ciò che nelle inchieste poliziesche si intende comunemente per movente. Come è noto, la sua importanza in questo genere di investigazioni deriva dal fatto che, una volta individuato, esso rende chiaramente leggibile il piano d’azione che si è successivamente concluso con l’atto criminale. Risalire al movente significa infatti rintracciare l’input che ha scatenato la pianificazione di ogni singola iniziativa tramando un unico disegno, dalla cui efficacia dipende in seguito l’esito finale del progetto ordito. La risoluzione di un caso è pertanto vincolata all’individuazione del movente dell’azione criminale, il quale in nulla differisce dalla motivazione tout court che ne ha ispirato il progetto; ma se ci si domandasse quando il movente ha iniziato a lavorare al suo illegale ordito, si resterebbe interdetti, dal momento che la questione sollevata esulerebbe dall’evidenza dei fatti. La gelosia, che per esempio può motivare un delitto passionale, quando comincia? Tornando alle “inchieste filosofiche”, occorre pertanto puntualizzare che se l’individuazione della motivazione, che agisce all’interno di ogni moto di pensiero, è di incontestabile rilevanza al fine di una comprensione generale del pensiero in oggetto, è bene non banalizzare il movente riducendolo a una sterile spiegazione delle ragioni che lo hanno posto in essere. Occorre infatti leggere in ogni specifico movente il motore affatto immobile della filosofia70 ; ogni volta diversamente camuffato, esso eccede 69 «Il tempo filosofico è quindi un grandioso tempo di coesistenza, che non esclude il prima e il dopo ma li sovrappone in un ordine stratigrafico. È un divenire infinito della filosofia, che interseca ma non si confonde con la sua storia. [. . . ] La filosofia è divenire, non storia; è coesistenza di piani, non successione di sistemi» (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 48). Riguardo al rapporto tra divenire e storia, commenta Fadini: «il divenire è una sorta di “ambiente”, o, meglio, un complesso di eventi che si articola su un piano di immanenza. In questo senso ha un maggiore significato, per la comprensione dell’evento, il rinvio alla geografia piuttosto che alla storia» (U. Fadini, Deleuze plurale. Per un pensiero nomade, Pendragon, Bologna 1998, p. 30). 70 In casi simili, “fisso” è il termine che Deleuze di regola sostituisce a “immobile”. «Fisso non vuole dire immobile, indica lo stato assoluto del movimento non meno della stasi, in rapporto al 17 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura per natura il piano nel quale tuttavia non manca di svolgersi garantendo piuttosto che esso abbia un senso ovvero un orientamento. Forte del suo sguardo retrospettivo, la storia della filosofia, quando classifica correnti di pensiero e movimenti di rottura, non fa altro che sistematizzare le risultanti più evidenti dei movimenti molecolari che il divenire-filosofia libera incessantemente a ogni livello pressando in modo scostante e imprevedibile. In un passo di Differenza e ripetizione Deleuze definisce l’opera filosofica come una «specie particolarissima di romanzo poliziesco»71 ; e lo potrebbe sembrare davvero se in essa si desse effettivamente la possibilità di rintracciare il movente occulto che rivelerebbe, una volta individuato, la trama, l’orientamento soggiacente. Fedele a questa suggestione, Deleuze si avvicina all’opera platonica avendo come obiettivo quello di “stanare” l’implicita motivazione che la sottende; dal momento che tale esemplificazione potrebbe essere di qualche utilità in vista del quesito posto in merito al movente deleuziano, schematizziamo l’approccio di Deleuze alla filosofia platonica nei termini che seguono. Come è noto, Platone inaugura la tradizione filosofica introducendo una distinzione tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile e stabilendo tra questi due mondi un rapporto simile a quello che intercorre tra il modello e la sua copia. Platone intende per modello ciò che permane nella medesima condizione, non essendo soggetto ad alcun mutamento, e per ciò stesso può essere colto soltanto mediante il «puro ragionamento della mente»72 ; per copia ciò che, al contrario, è in perpetua variazione rispetto a se stessa come rispetto a ogni altra cosa e nella propria costitutiva mutevolezza si offre al vaglio dei sensi. All’uomo, creatura composta di carne, di ossa e di anima, immersa nel mondo empirico e ciononostante incline naturalmente all’idea, al vero, spetta la dura risalita dal mondo sensibile al mondo delle idee sul filo delle somiglianze che vincolano reciprocamente questi due mondi. Affinché il compito assegnato all’uomo risulti plausibile, Platone introduce la celebre teoria della reminiscenza (secondo cui «il nostro apprendere non è che un ricordare»73 ) e con essa il mito, allo scopo di supportarla: il racconto mitico, narrando dell’anima, del suo essere congenere al mondo ideale, del carcere che impedisce il suo volo, del suo carro alato e dei suoi due destrieri, così diversi nel carattere, avvalora di fatto la tesi secondo cui l’anima, prima di cadere nuovamente prigioniera del corpo, ha potuto elevarsi all’Iperuranio e contemplarne le idee; quelle stesse che nel corso del processo conoscitivo riaffiorano attraverso il ricordo nelle rispettive copie sensibili, complice il nesso di somiglianza che le lega al modello cui sono improntate. Se con l’ausilio della teoria della reminiscenza e del mito il percorso gnoseologico, che Platone orienta dalla sponda sensibile a quella intelligibile del reale, trova una sua giustificazione, con l’introduzione della dialettica questo stesso procedimento acquisisce un metodo. La dialettica, difatti, è ciò che rende possibile la quale tutte le variazioni di velocità relativa diventano esse stesse percettibili» (G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 98). 71 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 3. 72 Platone, Fedone, 79 a. 73 Ibid., 72 e. 18 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura conoscenza del mondo ideale. Essa, con i suoi due momenti, quello noto come unificazione sinottica e quello conosciuto come analisi diairetica, ritma la levitazione dell’anima, il suo batter d’ali tutto teso alla riconquista del mondo ideale. Il primo momento, ovvero quello sinottico, consiste nel raccogliere in un’unica idea ciò che si trova disperso in molteplici modi con una sorta di colpo d’occhio, con un “sorvolo” (nel Fedro questo procedimento si concretizza nel discorso relativo a ciò che è Eros); il secondo, quello diairetico, si fonda sulla divisione, che deve essere svolta in base alle articolazioni proprie delle Idee, senza causare stacchi o rotture (sempre nel Fedro, si incontra questo procedimento quando Socrate e Fedro, il suo interlocutore, affrontano l’Idea di mania, per cui si pone una prima, iniziale, biforcazione del discorso, che origina una destra e una sinistra, che sviluppate, ognuna per conto suo, fino in fondo, portano come conclusione un amore “sinistro”, da biasimare, e un amore “destro”, divino). Ciò che si ottiene alla fine del procedimento è la definizione dell’idea, la qual cosa costituisce un netto guadagno in termini di sapere e rappresenta al contempo un nuovo passo conquistato lungo la verticale destinata a ricongiungere l’anima alla realtà sovrasensibile dalla quale proviene. È dunque questa la motivazione che ha mosso l’intero complesso filosofico platonico, ovvero la necessità di fondare un’autentica possibilità di conoscenza, pena il continuo vagare dell’anima nel mondo delle imperfette riproduzioni del vero? Deleuze ritiene che il movente della filosofia di Platone sia da cercare altrove, e che la possibilità di fondare l’episteme sia solo un effetto conseguente all’intervento di quell’agente primario che ancora non si è definito. Analizzando attentamente alcuni passi dei dialoghi platonici, in particolare del Sofista, Deleuze sottolinea che oltre alla distinzione tra idee e copie, Platone ne impone una seconda, quella tra icone e fantasmi. In entrambi i casi si ha a che fare con immagini, che, nel rispetto di quanto già detto, intrattengono con il modello un rapporto di imitazione, per cui la copia risulta somigliante all’idea cui si ispira. Nel caso delle icone, si tratta di un’imitazione interiore, spirituale; nel caso dei simulacri, si tratta invece di un’imitazione solo esteriore, e ingannevole proprio perché solo superficiale. Questa seconda distinzione è più vicina della prima all’autentica motivazione del pensiero platonico, la quale mira ad escludere, tagliar fuori, una volta per tutte, la dimensione vaga dei simulacri, dei riflessi, dalla realtà propriamente intesa: da una parte, il cerchio ideale del platonismo che ordina il cosmo disponendo attorno all’idea la sua rosa di copie somiglianti in vario grado alla perfezione del modello riprodotto; dall’altra, i simulacri e il caos indomabile su cui affaccia la loro ingannevole pelle. Da qui al movente della filosofia platonica il passo è breve: la sua natura morale è ben evidente nella chiara esplicitazione che viene riportata nel Timeo là dove l’intervento creatore del Demiurgo sulla massa caotica originaria è giustificato in virtù del fatto che l’ordine è giudicato migliore del disordine. Attraverso la narrazione di Timeo, Platone dichiara che dare vita a un mondo ordinato (questo è il significato letterale di cosmo) e per ciò stesso conoscibile è cosa buona e giusta74 . Siglando questa sentenza, Plato74 Platone, Timeo, 29 d – 30 b. 19 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura ne legittima qualsiasi manovra finalizzata all’imposizione dell’ordine su una realtà mondana che, dal canto suo, sfugge alle leggi che ostinatamente cercano di cucirglielo addosso. Il senso del platonismo, secondo la lettura deleuziana, è proprio quello che si è appena detto; che l’attuale contemporaneità sia tuttora dominata dall’orientamento impresso dalla spinta platonica dovrebbe aiutare a comprendere la potenza di ciò ha agito dietro la filosofia di Platone, indirizzandola verso il cielo del concetto. Quando Deleuze annuncia il proprio programma filosofico descrivendolo nei termini di un rovesciamento del platonismo, egli svela ed enuncia il proprio movente. Se infatti si dovesse liquidare la questione del rovesciamento considerandola un’innocua dinamica figurata, si commetterebbe un’imperdonabile leggerezza perché si ometterebbe l’unico indizio esplicito dell’orientamento che affatto metaforicamente il divenire-filosofia, protetto dal suo anonimato, ha impresso al pensiero deleuziano, declinandone l’inizio. Lo sguardo che tentiamo di gettare sul pensiero deleuziano, quando ci rivolgiamo alla rivoluzione del platonismo che esso proclama, non ha nulla a che vedere con la prospettiva di un confronto puntuale e serrato tra l’immagine del pensiero promulgata da Platone e quella diffusa da Deleuze, che potrebbe al limite consentire una stima dell’esito di questa manovra di ribaltamento. Un confronto di questo genere si limiterebbe infatti a opporre la buona volontà del pensatore platonico, lanciato alla ricerca della verità, all’origine violenta, alla passione del pensiero sostenuta da Deleuze; il sistema chiuso del riconoscimento, che nella gnoseologia platonica regola ciascuna acquisizione del sapere, all’occasionalità dell’incontro che secondo la lezione deleuziana si definisce sempre in funzione di un Fuori; il risultato epistemologico, cui mira il processo conoscitivo platonico, al movimento dell’apprendimento, che Deleuze gli sostituisce come obiettivo; e così via. Occorre piuttosto focalizzare l’attenzione su quel lavoro di ritaglio che Deleuze pratica su elementi cardine del platonismo, quali l’idea, la dialettica, il simulacro; questo perché, una volta svuotati dei rispettivi contenuti platonici, Deleuze provvede a investirli di un nuovo senso, di un senso “altro”, che egli recupera all’interno dell’opera platonica sotto le presunte spoglie di un senso secondo, alternativo al primo, realizzando una vera e propria manovra di ri-orientamento, tale a tutti gli effetti75 . La rivoluzione filosofica deleuziana non ha altro senso che quello acquisito nel corso di questo minuzioso lavoro di “ri-direzionamento”. Pertanto sottolineamo che il gesto appena descritto è uno dei frangenti attraverso cui si offre la possibilità di leggere la vocazione che governa un pensiero e, per suo tramite, l’istanza perennemente diveniente che lo intenziona orientandone il movimento; occasioni di altro genere non si danno. Trascurare questi brevi scorci significherebbe allora privare il senso del suo doppio geografico e rinunciare alla possibilità di coltivare una prossimità inedita con il senso, avvici75 «Platone non è oltrepassabile e non è di alcun interesse ricominciare quello che lui ha fatto per sempre. Abbiamo solo un’alternativa: o la storia della filosofia oppure degli innesti su Platone per problemi che non sono più platonici» (G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 198). Cfr. A. Delcò, Filosofia della differenza. La critica del pensiero rappresentativo in Deleuze, Pedrazzini, Locarno 1988, pp. 18-33. 20 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura nandolo là dove ambiguamente si origina. Per chi dovesse dimostrarsi insensibile a queste occasioni, che senso avrebbe descrivere il movimento del platonismo come un movimento di tipo ascensionale e sostenere che quello deleuziano procede all’opposto? È prevedibile che questo dire suonerebbe facilmente come un parlar da pazzi. E senza dubbio altrettanto insensato potrebbe sembrare anche il definire la dialettica platonica come la bussola che orienta l’anima pia verso l’Iperuranio, puntando su di esso come se fosse il nord. Certo, non molto più assennato sarebbe certamente giudicato il domandarsi quale sia il senso del rovesciamento dell’idealismo platonico, dove punti mai; soprattutto se la risposta dovesse essere: verso sud76 . 76 «Diciamo “sud” senza però attribuirvi una particolare importanza. [. . . ] Ognuno possiede il suo sud, situato non importa dove, vale a dire la sua linea di pendenza o di fuga» (G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 139). 21