Libero, 13 gennaio 2003 Renata Salvarani Islam, la rivoluzione cammina sui tacchi a spillo Recensione a “Culture in bilico. Antropologia del Medio Oriente” di Ugo Fabietti "Io contro mio fratello. Io e mio fratello, insieme, contro mio cugino. Io, mio fratello e mio cugino, uniti, contro tutti". Questo proverbio arabo, da una parte, mette in evidenza la capacità delle società mediorientali di compattarsi di fronte ad un nemico esterno; dall'altra, ne denuncia la profonda instabilità strutturale. Un mondo di relazioni costruito su rapporti bilaterali fra singoli, stipulati di volta in volta, dopo interminabili contrattazioni o liti estenuanti, non può che generare precarietà, diffidenza, incertezza. Crea infinite situazioni che possono premiare più la rapidità di adattamento e l'abilità nel variare le alleanze che la fedeltà o la linearità di comportamenti. Tanto che tutti gli ambiti della vita comune finiscono per ispirarsi a un "ethos dell'insicurezza", una sorta di legge di sopravvivenza che costringe le persone a far fronte a continui cambiamenti, a continui possibili rischi, a non fidarsi mai fino in fondo, a non palesare le proprie idee, a nascondere la propria vita personale, le proprie ricchezze, le proprie donne. Gli individui e i gruppi devono essere sempre pronti a far fronte a contesti mutevoli, anche sul piano politico: un alleato di oggi può benissimo diventare il nemico di domani, e viceversa. Così sostiene Ugo Fabietti nel suo "Culture in bilico. Antropologia del Medio Oriente" (Bruno Mondadori), una lucida e appassionante lettura dei meccanismi che regolano i comportamenti collettivi in un'area vastissima ed estremamente complessa. Va dalla Mauritania al Sudan, al Golfo Persico, al Belucistan. Presenta al suo interno infinite variazioni locali, ma è accomunata dall'uso di un'unica lingua e dal riferimento religioso all'Islam, ed è percepita da noi come un insieme, che trova il suo prolungamento nelle comunità immigrate in Europa e negli Stati Uniti. La sconcertante complessità dei rapporti interpersonali in quel mondo viene indagata dal punto di vista antropologico, ma, se si va oltre, traendo fino in fondo le conseguenze dell'analisi, i riflessi sul piano politico e su quello, più ampio, dei rapporti con l'Occidente sono pesanti. A sgretolarsi per prima è l'idea che le società mediorientali possano "democratizzarsi", seguendo, in qualche modo, il modello di derivazione illuminista dei nostri sistemi di rappresentatività. Le loro stesse strutture interne renderebbe estremamente problematica, se non impossibile, la realizzazione di forme democratiche, concepite secondo l'idea del contratto fra individui che godono degli stessi diritti e che decidono seguendo la volontà di maggioranze determinate sul principio "una testa un voto". Se gli unici rapporti di alleanza sono possibili all'interno della famiglia e, anche in questo caso sono difficili, soggetti a dissidi, spaccature, contenziosità, se non è possibile instaurare rapporti di collaborazione duraturi e palesi fra singoli, chi mai avrà il coraggio di fondare movimenti o partiti politici che cerchino di modificare lo status quo o di cambiare i meccanismi di controllo e gestione della ricchezza? In altre parole, ogni rivoluzione democratica, per realizzarsi e per essere tale, ha bisogno di una base minima di stabilità sociale, di fiducia reciproca fra i gruppi o i ceti che si sentono penalizzati e che rivendicano diritti o vantaggi. Deve creare intorno a sè un consenso generalizzato, ma prima di arrivare a questo obiettivo, deve palesarsi, deve essere propagandata, veicolata, fatta capire, e, infine, contrapposta al sistema che si vuole modificare. Ma chi, se non un folle, si esporrebbe sapendo di non avere alle spalle un sostegno affidabile, sia pur minimo? Chi attirerebbe su di sè e sulla sua famiglia rappresaglie e vendette sapendo di non avere possibilità di tutela e di solidarietà? Il mondo mediorientale sembra destinato a un caotico immobilismo, nel quale l'incertezza è aggravata dalla globalizzazione, avvertita come minaccia per le identità culturali, come tentativo neocolonialista dell'Occidente di devastare le strutture portanti delle società per poi impossessarsi di risorse e territori. Fabietti non arriva ad esplicitare queste conclusioni, ma riesce a descrivere efficacemente l'intrico di meccanismi e di contrapposizioni di forze che regolano le relazioni all'interno delle famiglie, dei clan e delle cosiddette "società tribali". Ne emerge un magma in continuo movimento, nel quale nemmeno la parentela è data e stabilita una volta per tutte. Delle genealogie viene fatto un uso eminentemente politico. Per esempio, i beduini d'Arabia che rivendicano lo status di nobili vantano una posizione particolare nella genealogia delle comunità del deserto e, per attestarla, ricorrono a un sapere non scritto che spiega i rapporti di discendenza delle generazioni. Non sono gli unici, nonostante la cultura araba sia prevalentemente scritturale: questo meccanismo corrisponde alla necessità di manipolare la struttura genealogica della società in funzione di determinate scelte politiche e di alleanze, che vengono attuate in base a circostanze contingenti e non prevedibili a medio termine. Una delle pochissime certezze - forse l'unica - nell'insicurezza quotidiana di una società fortemente patrilineare, in cui il diritto sulla prole spetta all'uomo, appare il matrimonio endogamico, combinato e stipulato fra le famiglie all'interno dello stesso gruppo parentale, fra cugini, figli di fratelli dello stesso sesso. Inizialmente in uso fra i nomadi della penisola arabica si è diffuso in tutto il Medio Oriente con l'espansione islamica e viene mantenuto anche nelle comunità insediate in Europa. E' un tentativo di "trattenere" le donne, la prole e i beni nello stesso gruppo di discendenza. A pagare il prezzo più alto della stabilità sociale - sempre relativa - sono proprio loro, considerate "vasi" degli eredi e "vasi" dell'onore dell'uomo e del nucleo parentale. Prive del diritto di scegliersi con chi vivere, punite nei peggiori dei modi se decidono di esercitare libertà da individui, finiscono per subire il doppio controllo di mariti e fratelli (o padri) e possono al massimo aspirare ad una condizione in cui le due autorità incrociate si contrastano e litigano, aprendo così qualche spiraglio di autonomia. Non è un caso che l'Islam, nella versione elaborata dal Medio Oriente attaccato dalla globalizzazione e pressato dal confronto con la vita e la cultura dell'Occidente, si accanisca su di loro: concedere alle donne gli stessi diritti degli uomini scardinerebbe l'intero sistema. La religione viene usata come ultimo baluardo della tradizione, come estrema difesa, violenta e irrazionale, di società più che mai "in bilico". Grazie a quest'ultima immagine Fabietti riesce ad evitare le trappole dei preconcetti (compreso quello dell'arabo infingardo e traditore di tanta letteratura europea), e a concatenare le sue deduzioni con grande rispetto. Ma fa bene intuire che la complessità del mondo allargato in cui ci troviamo a vivere è tale da imporre il disincanto: la manfrina buonista del "siamo tutti uguali" ha fatto il suo tempo e può essere pericolosamente fuorviante.