Dal Caos al Cosmo - Filosofia e Scienze umane

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Filosofia
Dal Caos al Cosmo
di Gianluca Caputo
Il problema dell’Archè mi si è svelato in tutta la sua potenza quando, a pochi giorni di un
esame di maturità di una scuola serale (tre anni in uno) una alunna mi pose la seguente
questione: “perché devo sapere che per Talete l’Archè è l’acqua quando sappiamo che non è
così?”. Riconosco che uno dei problemi della filosofia è forse quello di riuscire a separare il
metodo dal contenuto, giacché del contenuto, per esporre il metodo, non può (per fortuna)
essere eliminato. In questa lezione, da svolgere nelle prime ore del corso di Filosofia del
triennio, si tenta di affrontare il problema della ricerca del Principio come un problema di
metodo.
DAL MITO AL LOGOS
Seguendo la Teogonia di Esiodo, in principio era il Caos, lo spazio aperto, l’abisso, il Tutto non
definibile e di cui, di conseguenza, non si può parlare. Ma se il Caos è già il Tutto (che quindi non
esclude niente), nel Caos si trova già tutta la realtà (che se ne parli o meno). Quella che manca, e di
cui la Filosofia pone come suo obiettivo e oggetto di ricerca, è la Verità, cioè poter affermare
qualcosa di quel Tutto per quello che è. Si rende necessario dunque un ordine, un principio che
permetta del Caos di identificare qualcosa di predicabile, che il soggetto è in grado di riconoscere
(perché il Caos, per definizione, è ingiudicabile).
Nella cosiddetta terza generazione degli Dei, da Chronos (il Tempo), perché ci vuole il “tempo” per
mettere “ordine” al Caos, nasce Zeus. Zeus a seguito della lotta con il padre (che metaforicamente
potremmo leggere come “lotta contro il tempo”) diviene padre dei dèi. Gli dèi si vedono attribuiti
ognuno un proprio ruolo nella legiferazione della natura. Quella natura che è per sua definizione il
regno delle cose che cambiano (che nascono, da cui l’origine della stessa parola “natura”, e quindi
muoiono, sempre nel “tempo”), ma di ciò che cambia, se non se ne conoscono le cause, non è
possibile esprimere alcunché di vero. Da qui il bisogno di un principio (Zeus) che dia ordine tramite
leggi (gli dèi) e queste non devono essere nel tempo, ma nell’eterno, perché, appunto, non siano
soggette al cambiamento.
Ma è possibile comprendere queste leggi? Se viviamo nel tempo come possiamo conoscere leggi
che sono eterne?
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Seguendo un altro mito il problema si era già posto nella teogonia greca: è necessario possedere
quel qualcosa del Tutto che permetta non solo di farne parte ma di comprenderlo come il tutto
stesso, occorreva qualcosa di eterno anche nell’uomo che pretende di vivere sia nel tempo che
nell’eterno. Il mito in questione è quello di Dioniso.
Secondo una versione di questo mito, Dioniso, figlio di Zeus (uno dei tanti), fu divorato dai Titani
(smembrato, bollito, arrostito e mangiato). Zeus, per punizione, folgorò e incenerì i Titani, e, dal
resto delle loro ceneri, nacque il genere umano. Gli uomini sono dunque fatti di cenere (nascono e
muoiono, ovvero si aggregano e decompongono nel tempo) ma hanno anche una sorta di natura
divina perché i Titani, prima di essere inceneriti, hanno divorato Dioniso, e quindi qualcosa di
divino si trova nei loro resti. Dal mito di Dioniso, l’orfismo (e non a caso una buona parte dei filosofi
delle origini sono orfici) trae una serie di riflessioni sulla natura umana: nell’uomo, derivato dal
“vapore” dei Titani, è presente una componente dionisiaca, che ne attesta l’appartenenza agli dèi.
Detto in altro modo, l’orfismo presenta una visione dell’uomo caratterizzata da due componenti: il
corpo titanico e corruttibile e l’anima dionisiaca immortale. Nel corpo alberga, infatti, una sorta di
“scintilla divina”, un’anima immortale e destinata a tornare agli dèi, che vive la vita nel corpo in
modo innaturale, doloroso, lacerante. Al di là degli scopi dei riti purificatori praticati dagli orfici
(liberare l’anima immortale dalla sua prigione, il corpo mortale, riti che in Pitagora e Platone
diventeranno episteme), che non trattiamo adesso, è importante ricordare questa peculiarità insita
nell’uomo di comprendere l’ordine dell’universo e che per comprenderlo deve comprendere (anzi,
partecipare) la propria natura divina e immortale.
Tradotto in termini ancora più semplici: in una natura dove tutto scorre e tutto cambia, esprimere verità
significa conoscere l’ordine che non cambia e per far questo significa conoscere come le cose sono non nel
tempo ma nell’eterno.
VERITÀ VS VERITÀ NECESSARIA
Quali sono gli interrogativi che si propongono inizialmente in un corso di filosofia? Cosa cercano i
filosofi (e su cosa siano i filosofi ci vorrebbe un capitolo a parte)? Di solito, e non a torto,
indichiamo come oggetto di questa ricerca la “Verità”. Facile è, a mio avviso, confondere già
inizialmente il corso di filosofia con un corso di scienza (obiettivo che oltretutto nella storia ha) o,
peggio, con uno di religione. Ciò su cui bisognerebbe, a mio avviso, insistere, inizialmente, è che
l’oggetto della riceca non dovrebbe essere la Verità ma piuttosto le sue condizioni e il suo criterio.
Prima di andare, però, alla ricerca di questo oggetto (che identificheremo presto proprio con
l’Arché) è opportuno parlare, appunto, della Verità.
Iniziamo subito con il dire che la Verità non è un oggetto, ma un valore. L’oggetto di una conoscenza
o di una ricerca che volge a quella è ciò di cui si parla, e la verità è il valore di ciò che si dice
(predica) tramite giudizi di quell’oggetto. In italiano la “verità” viene spesso scambiata per la
“realtà” (ovvero il ciò di cui si parla), o usata addirittura come sinonimo. A questo proposito è
carino l’aneddoto raccontatomi da un mio collega (filosofo) di sua figlia che giocava con la figlia di
un ingegnere il quale ascoltandole notò come la prima, spiegando le regole del gioco che stavano
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svolgendo, usasse spesso iniziare le frasi di spiegazione dicendo “in verità…”, mentre la seconda
preferisse introdurle con “in realtà…”: due sinonimi che cambiano a seconda della prospettiva.
A questo proposito metterei subito in chiaro, come nella futura teoria della doppia linea di Platone,
che si tratta di due “livelli” diversi:
La verità dunque non appartiene al mondo, all’oggetto, ma al soggetto che lo conosce e ne parla. La
verità appartiene al soggetto che il mondo lo conosce e pretende di esso di esprimerlo attraverso
giudizi (asserzioni affermative del tipo “S è P”) il cui valore appunto sarà il vero o il falso. La verità, e
questo va ripetuto molto spesso, appartiene al linguaggio.
Definita la verità adesso non resta che esprimerla e poiché la si esprime parlando del mondo si
cercherà del mondo di dire quello che è. Ma problema che è facile far notare agli studenti è che
esprimere verità sul mondo è tutt’altro che facile e che qualsiasi affermazione può essere
contraddetta o cambiare nel momento stesso in cui la pronunciamo e, anticipando Eraclito, che è
difficile affermare qualcosa di vero in un mondo dove tutto cambia e si trasforma. Ma citando anche
Aristotele possiamo dire che più importante di affermare che qualcosa (che diciamo) sia vero è il
perché, il cosa, lo rende vero. Cioè sono più importanti le cause della verità. In modo che, trovata la
causa, ciò che affermo è vero in virtù di ciò che lo rende tale e che quindi se è vera la causa allora è
necessariamente vera anche la conseguenza, ovvero il giudizio che ho espresso. Il problema
apparentemente è solo rimandato, perché si tratterà adesso di trovare la causa della causa della
verità, ma solo in apparenza appunto, perché abbiamo trovato un criterio: se trovo una causa la cui
verità non può essere negata, tutte le verità che posso dedurre da quella causa saranno non più
soltanto vere (ma soggette al cambiamento) ma necessariamente vere, e quindi innegabili.
Si tratta adesso soltanto di trovare questa causa ultima immodificabile e la cui verità espressa su di
esso non si possa negare.
DAL CAOS AL COSMO
Riassumendo fino adesso possiamo dire che al mondo dunque non interessa quel che io dico di
esso: il problema della verità (cioè dell’esprimere giudizi veri o necessari) è soltanto mio, cioè del
soggetto conoscente, che pretende, sul piano del linguaggio, di trovare qualcosa che “corrisponda”
al piano reale, il quale resta però del tutto indifferente. Riprendendo la Teogonia di Esiodo
potremmo chiamare il reale, il Tutto, Caos. Ovvero il Tutto non ordinato (da nessun soggetto, da
nessun giudizio), il Tutto per quello che è. Chiamerò Cosmo invece il tutto ordinato, laddove l’ordine
sta nel mio modo di conoscere il Tutto stesso.
Così facendo Caos e Cosmo sono due termini con lo stesso significato (hanno entrambi come
denotato il Tutto) ma sensi diversi, ovvero dicono del Tutto due cose diverse che appartengono
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entrambe a come il soggetto vede e conosce il tutto. Parlare di Caos significa guardare il mondo
senza ordine e senza legge, parlare del Cosmo invece parlarne conoscendone la Legge.
IDENTITÀ DEGLI OPPOSTI
Tornando alla ricerca di questa causa ultima immodificabile, un gioco facile da realizzare in classe è
chiedere di provare ad esprimere un qualsiasi giudizio la cui verità sia innegabile. Facilmente si
mostra che ogni giudizio può essere negato da tutto ciò che l’oggetto di cui esso parla non è. Faccio
un esempio molto banale:
“In questa stanza ci sono 20 persone” (presupponendo che la classe sia composta da 19 alunni più
l’insegnante): basta chiedere a un alunno di uscire e il giudizio non è più vero. Per essere certi che
un giudizio sia innegabile è necessario che l’oggetto di cui si parli sia un giudizio che non possa
essere contraddetto da niente, ma l’unico modo perché questo avvenga è che questo oggetto sia il
Tutto, perché il Tutto, per definizione, non lascia fuori niente.
Come riuscire a dire qualcosa del Tutto? Disegniamo il Tutto come un ovale e dividiamolo a metà,
come nel disegno seguente:
Quindi indichiamo una delle due parti con un predicato qualsiasi (ad esempio “essere giallo”):
questa metà indica l’insieme degli enti di cui si possa predicare la proprietà “essere giallo”. L’altra
metà, di conseguenza, sarà predicata dalla proprietà “essere NON giallo”:
G
¬G
Si mostra che la totalità degli enti G e degli enti ¬G rappresentano la totalità di tutti gli enti, e
quindi se riesco ad esprimere un giudizio su un ente che comprenda sia la proprietà G che ¬G
questo ente sarà proprio il Tutto che sto cercando. Non so ancora che cosa sia il Tutto ma ho
intanto determinato una sua proprietà, e cioè quella di essere una Identità degli opposti, ovvero
l’identità di tutti gli opposti possibili pensabili (perché ovviamente G è solo un esempio, lo stesso
procedimento si può fare con qualsiasi concetto o predicato).
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Questa identità non può quindi cambiare perché immune ai predicati che gli si possono attribuire,
poiché essa comprende anche il suo opposto. In poche parole il Tutto è sempre uguale a se stesso e
quindi è immutabile e quindi, cosa più importante, se affermo qualcosa di vero su di esso, questo
qualcosa che affermo è innegabile ed eterno.
Il ragionamento fatto da “coloro che primi filosofarono” (o meglio, coloro che furono identificati da
Aristotele come tra i primi che filosofarono per aver formulato questo tipo di ragionamento) segue
in modo logico: l’identità degli opposti sarà qualcosa che posso predicare sia per un attributo che il
suo contrario, nel nostro esempio, sia come G che come ¬G. Ma cosa hanno in comune G e ¬G?
L’idea per una risposta “logica” la fornisce Anassimando: l’unica proprietà che hanno in comune un
predicato e il suo opposto è che sono entrambi determinazioni del Tutto, quindi la
“determinazione” è la proprietà comune. Ogni determinazione infatti origina non solo se stessa ma
anche il suo opposto. Ma cosa può essere causa di qualsiasi determinazione se non l’indeterminato?
E proprio l’indeterminato sarà dunque la causa di ogni ente e quindi il suo ordine, la sua legge, che
Anassimando esprime così:
« Principio degli esseri è l'infinito... da dove infatti gli esseri hanno
origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano
l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del
tempo » (Anassimandro, in Simplicio, De physica, 24, 13)
Questa è la traduzione classica che si trova in tutti i libri di testo, ma poiché il principio (Archè) di
Anassimandro è definito Ápeiron (senza limiti, confini) preferisco tradurlo “indeterminato”. Perché
“Indeterminato” è coerente a quanto detto prima sulla distinzione tra Realtà e Verità: l’ápeiron di
Anassimando è definito in modo negativo (a- privativa) proprio perché di esso non si può esprimere
positivamente alcunché, giacché se si potesse esprimere sarebbe determinato (ogni predicato
“divide” con il linguaggio il mondo in opposti determinati).
Il frammento però di esso aggiunge anche la sua legge (ciò che si realizza, nel cambiamento, per
necessità) che il tutto ordina: l’indeterminato è origine e fine degli esseri (o enti) e che questo, che avviene
secondo l’ordine del tempo, è necessario (e quindi eterno).
Proviamo a formulare in classe questa domanda: “In un mondo dove tutto cambia, cosa non cambia?”. La
questione lascia di solito spiazzati e dopo qualche tentativo, a meno che qualche intuitivo non
risponda subito, suggeriamo alcune soluzioni: il fatto che “tutto cambia”, e che “il mondo come
Tutto non cambia”, ovvero il mondo nella sua Totalità. Visto che il mondo, come Tutto, non cambia,
ma le sue determinazioni si, cerchiamo allora una legge che determini questo cambiamento e
leggiamo un frammento di Eraclito (ricordiamo che in questa prima analisi dell’Archè che gli
studenti conoscano i nomi dei filosofi trattati non è fondamentale per lo sviluppo del
ragionamento):
Nessuna cosa avviene per caso ma tutto secondo logos e necessità. (da Leucippo,
fr.2)
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Si parla di Logos. Per Eraclito il termine Logos ha notoriamente tre significati e confrontarli adesso
porta dritti verso la soluzione del problema iniziale (rapporto tra realtà e verità): ragione, linguaggio,
legge universale.
Il fatto che per Eraclito si possa forse attribuire (secondo questo frammento) al Logos il significato
di Legge Universale mi fa suggerire di proporre questo come Archè (al posto del Fuoco), che è come
dire che l’Archè, il principio delle cose, è qualcosa di comprensibile alla ragione e di esprimibile
tramite il linguaggio. Se esiste un ordine, dunque (metto il “se” perché dobbiamo successivamente
dimostrare la sua esistenza), è necessario che sia esprimibile tramite il linguaggio e ciò che il
linguaggio dice di quest’ordine è innegabile e necessario, quindi Verità.
Dobbiamo dunque cercare un rapporto tra questo ordine, garantito dall’Archè (non soggetto al
cambiamento) e le determinazioni del mondo (soggette al cambiamento) che sono regolate da
questo.
Leggiamo questo frammento dello stesso Eraclito:
Bisogna però sapere che la guerra è comune, che la giustizia è contesa e che
tutto accade secondo contesa e necessità. (Eraclito, fr. 80)
Anche in questo frammento, come in quello di Anassimandro, si parla di Giustizia.
Con Anassimandro si parla in realtà di Ingiustizia come qualcosa da espiare tornando al principio.
L'ingiustizia è quindi la determinazione di un ente, non tanto per la prevaricazione sul suo opposto,
quanto per la sua nascita che è anche la nascita di un opposto: quindi ogni nascita determina un
conflitto e quindi la fine dell'armonia del tutto. La Giustizia è dunque il rispetto dell’armonia
dell’indeterminato, armonia “rotta” nel tempo dalla determinazioni degli enti, ma garantita
nell’eterno dal ritorno del Tutto al suo principio.
Per Eraclito invece leggiamo che la giustizia è contesa, conflitto. Proprio perché ogni determinazione
è anche la determinazione del suo opposto il conflitto è necessario che esista per garantire
quell'equilibrio del Cosmo che altrimenti sarebbe annullato dalla vittoria di un opposto sull’altro:
aumenta un determinato diminuisce il suo opposto e viceversa. Senza conflitto nessuna armonia,
quindi nessuna giustizia.
Alla fine dunque entrambi posso essere fatti risalire alla stessa definizione di giustizia: la giustizia è
l'ordine cosmico, il rispetto della legge che ne garantisce l’equilibrio; e l'ingiustizia per entrambi è
dovuta ad una conoscenza "sensibile", “parziale” del cosmo che può essere superata dal logos: è il
logos infatti che pensa l'aperoin, quindi i singoli determinati come facenti parte del tutto e è il logos
che pensa l'identità degli opposti (cioè che tutto è uno) comprendendo che nel panta rei ciò che non
scorre è il fatto che tutto è uno.
Ancora: ciò che regola il cosmo è la legge, l'Archè. La giustizia dunque è il rispetto della legge, ma
poiché la legge essendo necessaria non si può non rispettare, la giustizia risulta essere il vedere la
legge, il conoscerla, il giudicare secondo essa la verità necessaria. Contrariamente: guardare con gli
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occhi (i sensi) porta all'ingiustizia perché fa vedere "determinati" in conflitto con i loro contrari.
Solo il logos permette dunque di superare il conflitto e pensare che tutto è uno (ogni ente e il suo
contrario). I sensi sentono il caldo e il freddo, il logos conviene che sono uno. Il caldo da solo è
ingiustizia, il freddo da solo è ingiustizia, il caldo e il freddo (l'uno in contesa con l'altro e quindi in
equilibrio) è giustizia perché il logos li pensa come uno, e dunque in rispetto della legge del cosmo.
DIMOSTRAZIONE ESISTENZA ED UNICITÀ
Fino adesso siamo andati alla ricerca dell’Archè come qualcosa che regola il Cosmo (il Tutto
ordinato) e permette di giudicarlo affermando verità quindi necessarie. Ma esiste questo Archè? La
domanda non è scontata! Proponiamo qui una semplice, o meglio, semplificata possibile
dimostrazione (per assurdo e per casi) dell’esistenza dell’Arché, partendo dalla sua unicità.
La dimostrazione vuole (oltre che abituare lo studente all’idea che le convinzioni devono essere
argomentate) mostrare che questa esistenza verte proprio sul rapporto tra realtà e linguaggio che
ha mosso tutta la nostra lezione.
L’affermazione da dimostrare è “l’Archè è uno”.
Affermiamo per assurdo che sia falsa, ovvero che sia vera la sua negazione: “L’arché non è uno”.
Affermare questo significa affermare due possibili conseguenze:
1. L’Arché è meno di uno (ovvero è zero, cioè non esiste).
2. L’Arché è più di uno (ad es. sono due).
Si mostra che entrambe le affermazioni portano a contraddizione o a conferma dell’ipotesi negata. Il
caso più interessante, per noi adesso, è il primo, ma per completezza li mostriamo entrambi.
1. Affermare che l’Arché non esiste significa affermare che non esiste una legge e quindi un
ordine. L’inesistenza di un ordine significa però Caos e del Caos come è possibile affermare
alcunché? Del Caos non si può parlare, tantomeno cercarne un ordine. Quindi, per
contrapposizione, se posso cercare un ordine, allora non esiste il caos.
Tradotto in termini di rapporto tra realtà e linguaggio: l’esistenza dell’ordine è garantito dal
fatto che ne posso parlare. E un ordine è garantito da una legge, e questa è l’Archè.
2. Dire che esistono due Arché significa affermare tre possibilità
2.1. Da essi deriva lo stesso ordine: allora sono lo stesso Arché (due nomi, sul piano del
linguaggio, per lo stesso significato sul piano della realtà);
2.2. Da essi derivano ordini diversi che sul piano della verità non cadono in contraddizione:
questo è possibile solo se parlano di enti diversi, ovvero porzioni del Tutto non coincidenti.
Ma questo contraddice la definizione di Arché, che parla del Tutto;
2.3. Parlano entrambi del Tutto e danno spiegazioni diverse cadendo in contraddizione: questo
significa che non è possibile dare una spiegazione dell’ordine cosmico e quindi è come non
avere nessun Arché, il che cade in contraddizione con il caso (1).
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CONCLUSIONI
Che cosa abbiamo mostrato in questa lezione?
Nei contenuti che la filosofia non è una scienza (anche se nasce come tale) ma un metodo; nella
forma, a mostrare come utilizzare quel metodo.
Al di là dei contenuti di verità proposti dai vari “eroi” della filosofia (quale sia l’Archè, se sia
possibile conoscerlo, se sia così necessario o utile per dedurre una qualche verità scientifica sul
Cosmo), che essi appartengono alla “sfera del linguaggio”, più che al mondo stesso che esso
pretende di conoscere e ordinare.
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