Le architetture di
Enrico Girbafranti
Edoardo Edallo
Nella tradizione italiana delle Belle Arti, fino agli Anni Sessanta
del Novecento il disegno è il linguaggio comune a tutte le discipline, il
mezzo di comunicazione espressiva e tecnica, al di là delle successive
specializzazioni e strumentazioni. Non è quindi strano che uno
scultore, chiamato a progettare un sepolcro, si occupi anche degli
aspetti architettonici e non solo di quelli strettamente scultorei, perché
fin da tempi antichi esiste un comune filo conduttore: il disegno,
appunto. Con una differenza “tecnica”: la scultura richiede un’idea
disegnata, che poi verrà tradotta in modello, mentre l’architettura ha
bisogno, oltre all’immagine iniziale, anche di disegni esecutivi.
Ogni arte è arte della memoria, perché tocca le fibre più profonde
dell’anima e quelle più antiche di ogni cultura. In particolare lo è la
scultura, che fissa le figure del passato, oltre il tempo, definendone
la forma, che è poi volume, nelle tre dimensioni, anche attraverso
l’uso di materiali durevoli. In tal modo, la memoria si precisa come
“monumento” (ammonimento) e “documento” (insegnamento).
Per l’architettura, la mente gioca su un registro un po’ diverso,
costruendo uno spazio dove la figura si possa inserire, una sorta di
cassa di risonanza, solenne, della memoria.
Il monumento, in quanto richiamo della memoria, richiede
il silenzio, che è proprio di uno spazio incommensurabile per
l’uomo: il cielo, che da entità naturale, diventa culturale, il paradiso.
L’architettura è il tentativo di ricostruire, in piccolo, quello spazio,
la cui natura è il “sacro”. Non può essere uno spazio quotidiano,
non può essere immerso nel suo tumulto, bensì ne richiede una
sospensione, ne ritaglia un momento a parte, è “altro” rispetto al
quotidiano: è la celebrazione di una “festa”. La scultura vive anche
senza l’architettura, ma qualche scultore ama inserire le sue figure in uno spazio specifico,
che le accolga e che, già nell’opera, mostri il rapporto, come nel bozzetto
eseguito da Girbafranti nel 1922, “Hicmortui vivunt” del Monumento ai Caduti di Monza,
esposto a Villa Reale ed elogiato dalla giuria, oltre che per il rilievo scultoreo, anche
per il buon criterio architettonico con il quale è stato costruito.
Lo scultore Girbafranti, fino agli ultimi anni di vita, lavora
producendo opere scultoree, monumenti ai Caduti o tombe di
famiglia, dove la scultura è inserita in un contesto, che difficilmente
lascia la figura isolata. Egli infatti coltiva, in molte opere, un rapporto
fra figura e spazio costruito, che è già architettonico, fino ad arrivare
a vere e proprie cappelle funerarie, chiuse, che sono architetture
effettive, dove la scultura è pressoché assente.
Si dirà che un monumento richiede superfici adatte a incidere i
nomi di coloro che si vuole ricordare; superfici che si affiancano alla
scultura vera e propria e vanno a costiture una forma architettonica.
Ciò avviene nei Monumenti ai Caduti, dove servono anche
superfici per riportare le iscrizioni, accanto all’immagine umana,
simbolica, che esprime il compianto eroico. Come nel monumento
di Girbafranti ai Caduti di Castelleone del 1924, dove la scultura
è inserita in un contesto di tipo architettonico e le superfici del
monumento riportano le iscrizioni. L’immagine umana esprime il
compianto eroico sia attraverso elementi simbolici, sia attraverso
una “forma” geometricamente articolata, occasione in cui la forma
non può obbedire solo all’ispirazione creativa, ma deve fare i conti
con altre esigenze, da risolvere nel risultato complessivo. Ancor più
nell’architettura funeraria, dove al nome della famiglia o a quelli dei
singoli presenti si aggiungono esigenze funzionali di spazi adatti
ai loculi e dove la figura umana introduce linee morbide, sempre
con contenuti simbolici, entro un’articolazione di volumi semplici.
In particolare è la scultura che, esplorando le diverse possibilità
espressive, anche inusuali, della figura umana, arriva a cogliere la
tensione dell’“oltre”, anche in termini di simbologia cristiana, mentre
le esigenze funzionali, pur limitate, consegnano all’architettura una
suggestione di “ordine”: sia l’una che l’altra, scultura e architettura,
seguono la legge formale insita nella loro natura. L’aspetto formale
interpreta inoltre le dimensioni culturali del tempo, il compianto
sacrale imposto dal tema, sia esso civico o familiare.
Le propensioni culturali che privilegiano alcune modalità in
auge al tempo, con i richiami alla simbologia funebre di derivazione
classica e soprattutto cristiana, in forma stilizzata, addirittura
evocando i contrafforti delle chiese medievali. Un esempio è
la cappella Paracchi-Volpini nel Cimitero Maggiore di Crema,
l’impianto si rifà a chiese medioevali, con evidenti contrafforti; in
questo lavoro Girbafranti introduce il simbolo cristiano della croce, con i due simboli classici dell’urna.
Nella realizzazione dell’opera, privata o pubblica, il gusto del committente è spesso più “arretrato”
dell’artista, che deve necessariamente tenerne conto, specie in un
contesto di architettura funeraria, dove le “rivoluzioni” sarebbero
poco apprezzate, perché non capite.
La dimensione “figurativa” della scultura, col suo impatto emotivo
immediato, entra in risonanza con uno spazio costruito intorno ad
essa, che è architettonico e avvolge la scultura. Il liguaggio scultoreo
di Girbafranti è legato al momento simbolista-realista a cavallo del
secolo, anche in relazione all’occasione dell’opera, ma nei suoi lavori
emerge anche un costante richiamo all’espressività del corpo umano,
specie femminile, e uno scultore ormai pienamente cosciente delle
ricerche del primo Novecento, anche senza spingerle ad esiti di
rottura. Ma i modelli formali dell’architettura non sempre coincidono
con quelli della scultura dello stesso periodo, mai culturalmente
univoco, per cui le varie arti (e i singoli artisti) possono privilegiare
aspetti diversi. La lezione novecentesca si ritrova soprattutto negli
aspetti architettonici dei monumenti funebri, dove emerge un rigore
che richiama il Costruttivismo, con la semplificazione geometrica
delle forme, mentre la giustapposizione dei volumi cubici, che a
volte accenna all’incastro, si risolve quasi sempre nella stesura serena
delle superfici, con grande rigore geometrico e minimi elementi
decorativi. Questo assoluto rigore geometrico, senza alcun elemento
decorativo, tranne il cambio di colore del marmo della soglia, lo
si vede nella cappella esguita da Girbafranti per la famiglia Crotti
nel Cimitero Maggiore di Crema con il nome posto in posizione
decentrata e antimonumentale, apparentemente casuale.
In contrasto, Girbafranti esegue presso lo stesso cimitero la
cappella Bellini, un’architettura rigorosa e spoglia delle superfici,
accentuata dalle rientranze sugli spigoli, dove l’unico richiamo
simbolico è l’architrave con la croce.
Se questo rigore vale per i monumenti, nelle cappelle funerarie, che
sono edifici chiusi, ci si muove in ambito totalmente architettonico,
con decisi vincoli funzionali, dati dai loculi sovrapposti, che
lasciano ristretti margini di libertà compositiva, anche in relazione
alle normative edilizio-cimiteriali. Qui, data la minore possibilità
di articolazione dei volumi, i richiami simbolici si fanno,
inevitabilmente più frequenti, specie assumendoli dall’inesauribile
tradizione classica, più che religiosa, che rimane sempre la più adatta
a conferire qualità aulica all’intervento. Come possiamo notare nella
cappella Crivelli-Bissacani, sempre presente nel Maggiore, dove i
loculi sono posti sul fondo di un impianto definito classicamente
dalle colonne, con l’unico richiamo religioso della croce posizionato
al vertice del tetto a spioventi.
Questo esempio riporta all’idea del “monumentale”, ben presente
dell’Ottocento, specie in funzione della memoria patria e della
conseguente costruzione, in Italia, dell’identità nazionale, mentre
il Novecento “evoluto” delle avanguardie la rifiuta, e la abbandona
alla retorica delle ideologie dei regimi totalitari, ritenendo che sia
possibile una “forma” autonoma, libera dai contenuti, guidata
solamente da rapporti geometrici, a partire dalla “sezione aurea”.
Questo limite concettuale, perché al di là delle buone intenzioni,
degli ottimi risultati anche sul piano formale, nega che la forma
faccia comunque parte di una cultura e di una storia, e si finisce per
svuotare di senso la memoria, singola e collettiva.
Con queste opere, anche la città nel suo insieme partecipa al
carattere di “luogo della memoria”, e al delicato intreccio tra storia
e memoria con segni scultorei che documentano una stratificazione
avvenuta nel tempo. Ma è soprattutto nel luogo del cimitero
dove la memoria si percepisce come ideale chiave di accesso alla
comprensione della vita, un documento della nostra storia, delle
persone e delle famiglie; dove si concentrano i momenti in cui la
comunità celebra la propria autocoscienza
.