DESCRIZIONE STORICO-CULTURALE INTRODUZIONE La polarizzazione urbana, che dal secondo dopoguerra ha modificato profondamente il volto delle Marche, non è riuscita, con pari rapidità e almeno in questa parte della regione, ad alterare l'intimo delle relazioni città e campagna che per anni hanno continuato a connotarsi come rapporto diretto con la natura e con la conduzione e salvaguardia degli interessi rustici. In questo periodo di profonde trasformazioni la campagna ha conservato e, per certi versi, accentuato il ruolo di marginalità territoriale nei confronti della città sempre più interessata ad una diversa valorizzazione rurale, sicché la villa, elemento emergente del paesaggio, è divenuta il simbolo più evidente di ambivalenze antiche e recenti, testimone muto eppure eloquente del mutare dei tempi, dell'evoluzione, delle innovazioni tecnologiche, produttive e insediative. Costruzione di spicco, attorniata da alberi talora secolari, favorita dal sito eminente e dalla ottimale esposizione, sembra non trovare più una sua collocazione armonica e vitale in quello spazio, già animato dalla presenza e dalle funzioni peculiari esercitate dalla famiglia che, per periodi più o meno prolungati, qui trascorreva parte dell'anno. La grande residenza di campagna nasce infatti come proiezione fuori delle mura cittadine del palazzo signorile, di cui amplia gli spazi e i contesti. Se, ad esempio, nell'edificio urbano compaiono il giardino e le stalle per il ricovero dei cavalli, nella villa essi assumono la fisionomia di parco e scuderia; se il palazzo possiede una stanza adibita a cappella e la sala di rappresentanza, in campagna le stesse diventano rispettivamente la chiesa e il salone dei balli. Questa analogia e questo parallelismo si riscontrano anche nell'uso dei materiali, quali il bugnato per sottolineare gli elementi architettonici o il marmo per evidenziare gli elementi decorativi. Muta l'impianto geometrico dell'edificio: quello cittadino, stretto entro la cinta muraria, si sviluppa in altezza, mentre quello di campagna, per gli spazi offerti dal terreno, si estende in ampiezza ad ospitare ambienti differenziati, idonei alla manipolazione e conservazione dei prodotti dell'agricoltura. La villa è dunque l'equivalente di una residenza urbana adagiata nell'isolamento e nella quiete della campagna al centro di estesi possedimenti, dove però si risiede nella buona stagione, cioè durante i principali lavori, per controllare la produzione ma anche, almeno in molti casi, per guidare e coordinare le attività produttive. Attraverso lo scorrere inesorabile del tempo è giunta a noi come proprietà tramandata di padre in figlio o passata in dote alla figlia, rimanendo, nella maggior parte dei casi, abitata per generazioni dalle stesse famiglie, che ne hanno conservato l'aspetto esteriore. Internamente gli edifici in questione sono stati adattati alle nuove esigenze del vivere moderno, quindi dotati di servizi e di impianti di riscaldamento. Essi mantengono ancora la cappella e la scuderia, ma questi "annessi" non vengono più utilizzati e talora sono adibiti a rimessa e a magazzino, oppure abbattuti. Già punto di riferimento del contado e microcosmo funzionale legato all'economia agricola, la villa ha perso così la sua capacità polarizzatrice di funzioni e animatrice di attività rurali. Ancora oggi la proprietà terriera può risultare abbastanza estesa e possesso di nobili famiglie o di agiati borghesi che preferiscono affidare ad altri la gestione del loro patrimonio e dedicarsi ad attività professionali. Gli attuali imprenditori agricoli, pur risiedendo in villa, preferiscono allontanare da questa le attività rurali e indirizzare verso centri di raccolta i prodotti dei campi. Se in passato il luogo dove risiedeva il padrone era centro di impulso e di organizzazione, al presente è solo uno scomodo immobile, di difficile manutenzione e di alti costi di gestione. Oggi le dimore signorili di campagna restano la testimonianza di un antico e glorioso passato che continua a vivere in loro anche attraverso le modifiche e le variazioni apportate in epoche successive come conseguenza di nuovi criteri architettonici, di nuovi tempi e di nuove funzioni. Perdutosi il ruolo economico e quello di residenza estiva, l'unico modo per conservare la villa è la sua valorizzazione in nuovi contesti sociali e produttivi. Ma il numero troppo elevato delle stesse non consente un ricorso a tale soluzione, riproponendo in tutta la sua urgenza e gravità il problema del riutilizzo, rispettoso ed intelligente, di tali costruzioni. Un rimedio universale non esiste, né può esistere, per quanto si faccia appello ad Enti pubblici o a facoltosi privati. 1 B.C.F, Fondo Carducci: progetto di G. B. Carducci per la "riforma ed ampliazione" della facciata di villa Paccaroni, conservata presso la Biblioteca Comunale di Fermo. La tavola, tenuemente acquerellata con un gioco di luci ed ombre esalta il prospetto frontale mai realizzato. 2 CAPITOLO I CENNI AMBIENTALI - IL TERRITORIO La regione a sud del Conero che comprende i Comuni di Civitanova Marche, Monte Urano, Montegranaro, Porto Sant'Elpidio, Sant'Elpidio a Mare, Porto San Giorgio e Fermo, include due province: quella di Macerata, entro la quale è ascritta Civitanova Marche, e quella di Ascoli Piceno, dove si concentrano tutti gli altri Comuni. L'area è delimitata a nord dal torrente Asola, a sud dall'Ete Vivo, ad est dall'Adriatico, ad ovest dai crinali del San Vicino e dei Sibillini. Il territorio presenta una morfologia molto varia e movimentata, essenzialmente collinare che dalla montagna interna digrada verso l'ampia fascia collinare fino alla striscia costiera. La fascia appenninica comprende la modesta catena del San Vicino e il poderoso gruppo dei Sibillini, posti tra il fiume Chienti e Forca Canapine, sono di formazione mesozoico - calcarea ed hanno profili molto incisi e marcati, raggiungendo quote abbastanza elevate. Spicca su tutti il monte Vettore che con i suoi 2487 metri rappresenta la massima altitudine dell'intera regione ed offre un saggio dei paesaggi alpestri. Dai Monti Sibillini e dalla catena del San Vicino inizia la successione delle formazioni collinari, cioè la fascia sub-appenninica che di solito non supera i 400/500 metri di altitudine. Digradando verso il mare la collina litoranea si annuncia con forme sempre più molli e arrotondate e talora lacerate da calanchi che mostrano affioramenti di argille con ghiaie e sabbie soggetti a frane che, nel caso di Montegranaro, «cagionarono il crollo di muri anche di ben costruite chiese». Sant'Elpidio a Mare e Fermo si affacciano sul mare. Entrambe, come Monte Urano, sono poste tra le valli dell'Ete e del Tenna, su promontori dai quali si domina un ampio tratto dell'Adriatico. L'intero comprensorio è formato da morfologie collinari che si susseguono morbide e ondulate. La fascia costiera è per lo più pianeggiante e strettamente connessa con la bassa collina, alla sua formazione hanno contribuito i materiali trasportati dai fiumi e depositati lungo l'Adriatico. Porto Sant'Elpidio è delimitato dal fiume Chienti (a nord) e dal Tenna (a sud) e il suo territorio è interessato da colline con numerosi torrenti e fossi. Porto San Giorgio è posta tra lo sbocco del fiume Tenna (6 km a nord) e l'Ete Vivo (2 km a sud). Si sviluppò a seguito di una bonifica per "colmata" iniziata alla fine del XVIII secolo dai Conti Salvadori-Paleotti, nella zona compresa tra la foce del Tenna e quella del fosso di San Biagio. La maggior parte del suo territorio è distinto da dolci ondulazioni e la massima altitudine è raggiunta dal monte dei Caccioni o Cacciù, che comunque non supera i 166 metri s.m. Le valli principali del territorio in questione sono quelle del Chienti, del Tenna e dell'Ete. Ripide e incavate nel calcare nella parte montana, «solcano con percorsi tortuosi e profondi la piega esterna dei Sibillini», ma tra le colline seguono un andamento lineare e parallelo, che dà all'insieme morfologico la caratteristica forma a pettine. Il Tenna si origina dal monte Vettore, nella catena dei Sibillini, con un bacino idrografico di 484 kmq e una lunghezza di 62 km, riceve acqua da numerosi fossi e torrenti, ma gli unici degni di essere ricordati sono il Tennacola e il Salino, così chiamato per l'elevata percentuale di cloruro di sodio. Il corso dell'Ete Vivo, che a sud funge da confine del territorio fermano e di quello sangiorgese, si snoda tra diverse colline, in un'area litologicamente omogenea. Sotto il profilo climatico il fermano è influenzato da molteplici fattori. Innanzi tutto occorre ricordare che il territorio si trova a sud del Conero, quindi riceve i venti caldi ed umidi di sud - est come lo scirocco e di sud - ovest come il garbino; bisogna anche tener presente l'alto grado di marittimità e il fatto che l'Adriatico esercita un'apprezzabile influenza mitigatrice sul clima, che va progressivamente e rapidamente attenuandosi verso l'interno. Le temperature annue sono dunque differenti in rapporto all'altimetria: si hanno in media 14°C lungo la fascia costiera, 6°C nella più arretrata fascia appenninica e circa 12°C nell'area medio - collinare. Anche le precipitazioni dipendono dalla variazione altimetrica e aumentano procedendo dalla costa verso l'interno, passando da una media annuale di 700 mm lungo la fascia litoranea a più di 1.700 mm sulla catena dei monti Sibillini. 3 CAPITOLO II CENNI STORICO - SOCIALI Il fermano e la valle del Chienti sono territori carichi di storia, che popolazioni orgogliose e infaticabili hanno abitato e lavorato, adattandoli di volta in volta alle loro esigenze, favoriti dal clima mite e dall'abbondanza di acque, non meno che dalle scelte politiche ed economiche. Pertanto quest'area, pur se "periferica" rispetto ai grandi circuiti politici, economici e culturali quali Roma, Ferrara, Bologna o Milano, è distinta da un passato vivace e da una partecipazione, al pari delle sedi maggiori, agli eventi culturali e di costume del paese: la villa ne è un esempio paradigmatico. Con l'aggettivo fermano, fino alla prima metà del XII secolo, si intende un vasto territorio che va dall'Aso al Potenza, dall'Adriatico fin quasi all'Appennino, sul quale sono disseminati numerosi paesi, alcuni autonomi, ma solidali con Fermo, altri direttamente dipendenti da esso chiamati "Castelli", suddivisi in Maggiori, Mediocri e Minori a seconda della grandezza e dell'importanza economica che rivestono. Sparse, un po' dovunque sul territorio si incontrano testimonianze della presenza dell'uomo fin dall'età del ferro. Successivamente si stanziano i Piceni coabitando tranquillamente con le popolazioni preesistenti fino all'alleanza con Roma alla quale soccombettero nel 269 a.C. La dominazione romana impone a Fermo gli obblighi commerciali con Roma e di fatto la isola economicamente e anche culturalmente dal contesto peninsulare. Dall'età imperiale fino al Regno dei Carolingi il fermano vive le medesime vicende ed esperienze storiche degli altri luoghi dell'Impero romano e cioè l'affermazione del Cristianesimo, l'invasione dei Longobardi, dei Goti e di altre popolazioni germaniche, l'invasione araba e il monachesimo. Particolarmente interessante è la presenza nella zona dei monaci ''farfensi'' venuti dalla Sabina per sfuggire alle invasioni saracene in quanto influenzarono, fin oltre la prima metà del Mille, la vita politica ed economica del paese. Durante il periodo dei Comuni e delle Signorie, il fermano è conteso da entrambe le autorità laica e religiosa; Fermo è un libero Comune governato da Priori con a capo un Podestà: nei periodi in cui il potere imperiale è più forte i Priori sono controllati e il Podestà viene imposto dai messi imperiali; nei periodi di prevalenza papale il Vescovo fa pesare tutta la sua influenza sul governo comunale. I Comuni limitrofi sono spesso in lotta con Fermo che per mantenere inalterato il suo prestigio politico ed economico interviene col suo esercito per reprimere o aumentare le tasse al fine di prostrarli economicamente come nel caso della distruzione, avvenuta nel 1292, del porto civitanovese che ha lo scopo di mettere a tacere una città commercialmente concorrente, favorendo gli scali presso il proprio porto, l'attuale Porto San Giorgio. Il Quattrocento ha, come protagonisti, personaggi dal nome altisonante quali gli Sforza e i Malatesta. La lunga dominazione papale incomincia a rivelare gli aspetti più negativi sul finire del XVI secolo quando, a differenza degli Stati d'oltralpe dove la borghesia viene creando imprese manifatturiere e va alla ricerca di materie prime nel mondo, si presenta ancora organizzata in feudi chiusi in se stessi e gelosi delle proprie ricchezze. Le Marche in particolare, tagliate fuori dalle grandi competizioni politiche di quegli anni, diventano sempre più una zona periferica e marginale con un'economia prevalentemente agricola. Il Seicento è un secolo piuttosto tranquillo per tutto il fermano; la chiesa è retta da arcivescovi dediti più alla cura delle anime che non agli impegni politici e questo favorisce l'allentarsi della tensione politica nel governo della città. Nel Settecento i castelli soggetti a Fermo sono una cinquantina e la ricchezza terriera si concentra nelle mani della nobiltà e del clero. Ma ormai anche nella Marca si fanno sentire gli echi della rivoluzione francese e soprattutto si fa sentire una nuova forza politica, la borghesia, che grazie ad essa aveva acquistato potere. Il Settecento è caratterizzato da una crisi sociale che investe un po' tutte le nazioni europee e con la creazione degli Stati democratici, la nobiltà declina di fronte alla borghesia, cioè al ceto degli arricchiti, che consolida la sua posizione e va a rivestire tutte le più importanti cariche pubbliche, imponendosi sia nel settore politico sia in quello economico. Nel 1798, con l'instaurazione della Repubblica romana, Fermo diventa il capoluogo del dipartimento del Tronto. La Municipalità fermana si adegua alle direttive imposte dal nuovo governo; mutano le cariche politiche, ma l'economia e il malcontento dei ceti popolari restano sempre gli stessi. In quegli anni le proprietà ecclesiastiche vengono confiscate e messe in vendita a prezzi vantaggiosi ed è ancora una volta la borghesia ad usufruirne. Sono inoltre aboliti i dazi interni e si adotta un'unica moneta, grazie alla quale i commerci possono ampliarsi e l'attività culturale sembra ridestarsi. Nonostante questi benefici, il regime napoleonico è impopolare perché esso sembra difendere troppo 4 la media e grossa proprietà a discapito dei contadini, molti dei quali, per necessità alimentari o per contrapposizione politica, si danno al brigantaggio. Siamo agli inizi del XIX secolo e, per il governo francese, è la crisi. L'Austria, la Russia, la Prussia e l'Inghilterra dichiarano guerra alla Francia. Nel 1816 Fermo città conta, secondo i dati del primo censimento della Restaurazione, 15.392 abitanti. Gli antichi castelli si trasformano in vere e proprie piccole città per il continuo inurbamento e per il crescente ruolo di animazione sul territorio circostante. Il porto di Fermo supera i 3.000 abitanti. Negli anni 1820-1830 Fermo, benché afflitta da problemi di sviluppo sociale ed economico, continua a costituire il centro commerciale più importante di tutto il territorio, questo decennio e il successivo sono segnati comunque da epidemie, carestie, povertà cui si aggiungono l'instabilità di governo, le lotte tra opposte fazioni, il malcontento popolare e inevitabilmente la repressione politica. L'unità d'Italia (1861) non riesce a risolvere i problemi del fermano, ma ne aggiunge di nuovi anche con l'appesantirsi del prelievo fiscale che finisce con lo scaricarsi sui ceti più deboli e sulle campagne. Qui l'appoderamento è sempre più fitto, mentre il numero di braccianti è in continua crescita, come conseguenza del generale sviluppo demografico e della difficoltà di occupazione. Sempre più numerose si fanno le case di fango, spesso riunite a formare nuovi borghi di miseria. Quanto alle colture tradizionali, già nella prima metà del XIX secolo, lungo il Tenna, l'Ete, l'Aso e il Tesino, si diffonde la risicoltura nelle piane acquitrinose non ancora in grado di accogliere colture asciutte. Di quegli anni è la bonifica della cimosa costiera tra Tenna ed Aso, una fascia lunga e stretta, di una quindicina di chilometri e larga solo 300-400 metri, dove vengono coltivati canapa, riso e cotone, poi foraggi, quali l'erba medica e la sulla e, infine, i cereali in rotazione quadriennale, mentre sul restante territorio la rotazione è per lo più biennale e per nulla efficace se non dannosa per il suolo quando il grano si alterna al mais. La soppressione degli enti e corpi religiosi decisa dal nuovo Stato ha l'effetto di concentrare nelle mani di poche famiglie la frazionata proprietà terriera preesistente: da un lato si opera così una ricomposizione agraria ma dall'altro si intensifica lo sfruttamento delle campagne e l'espulsione di braccia, molte delle quali cercano scampo nella grande emigrazione transoceanica tra fine Ottocento e primi tre lustri del Novecento. Ormai da tempo gli antichi borghi marinari, come il porto di Sant'Elpidio, di Civitanova e di Fermo sono popolosi e indipendenti economicamente; essi non sono più gemmazioni, lungo la costa, di paesi posti in collina, ma veri e propri centri urbani, spesso rivali con quelli di origine. Il porto di Civitanova è il primo ad avanzare richieste di autonomia agli inizi dell'Ottocento. Seguono poi il porto di Fermo che l'ottiene nel 1878 col nome di Porto San Giorgio e infine il porto di Sant'Elpidio che si costituisce Comune solo nel 1953. Al contrario Torre di Palme col piccolo nucleo di Marina Palmense, sua gemmazione, nel 1877 rinuncia alla propria autonomia per sottostare a Fermo. 5 CAPITOLO III CENNI SOCIO- ECONOMICI Il paesaggio fermano e civìtanovese si presenta, nella sua varietà, fortemente vivificato e organizzato dalla presenza dell'uomo, che nel corso del tempo l'ha plasmato e modellato, adeguandolo alle proprie necessità. In esso la villa si afferma quale centro di organizzazione agraria, oasi di pace quotidiana e polo di incontri e di vita mondana per ricchi possidenti. Anche le vie di comunicazione, che permettono di congiungere agilmente i centri urbani montani, collinari e costieri, i casolari rurali e le ville costituiscono una fitta trama che attraversa tutta l'area studiata per confluire oggi lungo il litorale nell'A14 Adriatica e nella Statale 16 che, insieme alla linea ferroviaria Ancona-Pescara, scorrono parallele alla linea di costa e formano l'asse viario principale dell'intera regione. Su tale rete si incardinano i due porti di Civitanova Marche e di Porto San Giorgio. Nei secoli XVIII e XIX l'attuale Porto San Giorgio, ex porto di Fermo, è una piazza mercantile molto florida, grazie anche alle fiere che annualmente si svolgono nel capoluogo fermano e nei paesi limitrofi. Mentre nelle altre regioni d'Italia le fiere avevano orinai perso d'importanza, nelle Marche del Sei~Settecento esse continuano a costituire il perno su cui ruota il commercio fino a tutto l'Ottocento'. A Civitanova Marche e a Porto San Giorgio è oggi molto sviluppato il turismo balneare, che fa affidamento su lunghe e ampie spiagge e su numerose e moderne strutture logistiche. Il fenomeno, originatosi alla fine dell'Ottocento, favorisce nuovi insediamenti e anche la diffusione di dimore estive, costruite dirimpetto al mare e quasi tutte ispirate al Liberty. In tutto il fermano e nella valle del Chienti, accanto ai grandi stabilimenti industriali delle periferie urbane, dove si producono le calzature, si trovano sovente orti ben ordinati e curati; oppure al villino di foggia e di struttura cittadina, in cemento armato, l'ombra è offerta dall'albero da frutto e dall'olivo. A parte "l'idillico" quadretto, questi villini sembrano combinare due aspetti fondamentali della casa rurale e della villa d'altri tempi e cioè la funzione organizzativa con quella di rappresentanza. Le Marche sono "terra di contadini" e ne risulta un rapporto città campagna più complesso e, per certi versi, più interattivo, sicché, viaggiando da una località all'altra, si incontrano numerose case coloniche, ristrutturate o disabitate, ma con lo spazio circostante sempre ben organizzato e comunque sempre senza i tristi segni dell'abbandono e del degrado irreversibile. La maglia poderale si presenta molto frazionata e se osserviamo la proprietà terriera adiacente alle ville suburbane, vediamo che la media di ciascuna è di circa 6 ha. Tale frammentazione ha motivazioni storiche ben precise. La maggior parte dei patrimoni foridiari deriva infatti dallo smembramento di proprietà ecclesiastiche, passate all'aristocrazia cittadina e ai borghesi arricchiti, entrambi favoriti nel processo di appoderamento, grazie anche alle caratteristiche orografiche del territorio, collinare e suddiviso da innumerevoli fossi, torrenti e fiumi, per cui gli appezzamenti vengono spesso delimitati da confini naturalI. Una seconda causa di disgregamento dei fondi va riscontrata nelle numerose suddivisioni tra gli eredi. Il processo economico che ha avuto l'incidenza più notevole sulla diffusione delle ville è stato l'introduzione della mezzadria, cioè un tipo di conduzione agraria affermatosi nel '400, che, al primo comparire, rivoluzionò e incrementò il sistema economico, ma che, perdurando fino al '900, ha portato spesso alla stasi e al ristagno dell'organizzazione agricola, mettendo in crisi il rapporto proprietario-colono. Dal punto di vista economico i vantaggi che la mezzadria presenta sono numerosi: prima di tutto permette una maggiore valorizzazione dei suoli, con lo sfruttamento di ogni centimetro di terra e la bonifica di vaste aree e poi sfrutta integralmente la forza-lavoro agricola, risolvendo in parte il problema occupazionale. Inoltre rende più agevole controllare i confini della proprietà, curare di più la produzione, adottare tecniche d'aratura e d'irrigazione sperimentali. Tutto il fervore legato a questa "rinascita agricola" ridà un sensibile impulso agli studi agronomici e a sperimentazioni agrarie di avanguardia. Nella Marca meridionale tuttavia studi e riforme agricole sono lenti a giungere, per la povertà culturale e talora per il disinteressamento dei proprietari terrieri che si accontentano di produrre grano, perché ben accetto su tutti i mercati e quindi monetariamente sicuro. Nel fermano abbiamo notizie di bonifiche e sperimentazioni agricole con un secolo di ritardo rispetto al pesarese o altre regioni del nord Italia. Le Marche, prima della mezzadria, si presentavano incolte e selvatiche: il bosco era ovunque esteso, i centri urbani erano distanti tra loro e comunque di difficile accesso, la costa quasi tutta impaludata e melmosa. L'intera zona posta tra il fiume Tenna e il fosso di San Biagio, nel territorio di Fermo, fino alla metà del XIX secolo è un'ampia landa palustre, la cui bonifica si deve all'opera e all'ingegno di Luigi Salvadori, 6 personaggio singolare almeno quanto il Bacher, perché in un periodo in cui i nobili si disinteressano di questioni agricole, egli non esita a realizzare il suo progetto di «valorizzazione agricola della marina che risaliva alla fine del Seicento, mediante la messa a coltura dei recessi o relitti di mare». Questi eredita dal padre, gravemente indebitato, l'unica proprietà rimastagli consistente in 13 km di spiaggia. Luigi decide di tentare la bonifica benché già in passato un suo avo avesse tentato senza successo l'impresa, trasportandovi la terra con cesti e carretti. Egli, invece, ricorre al moderno metodo delle colmate e raggiunge lo scopo. D'altra parte queste terre, prima del diboscamento e dell'affermazione mezzadrile sono a tutti gli effetti perdute e inappetibili, utili solo per frenare le incursioni dei pirati che battono le coste e per il pascolo. Tra le robuste mura delle città ed il bosco trovano spazio le uniche aree coltivate. Dopo il '600, con il progressivo aumento demografico, si richiedono nuovi spazi di terra da coltivare; aumenta così l'agricoltura e diminuisce l'allevamento brado a favore di quello stallino. La crisi agricola del dopoguerra, l'avanzamento dell'industria e la crescita del settore terziario, che ha imprevedibilmente assorbito un gran numero di persone, pongono in crisi la villa, che perde la sua funzione economica di centro agricolo. Ridotti i poderi, per lo più acquistati dagli ex mezzadri o venduti dal proprietario stesso per mantenere un certo tenore di vita o talvolta ceduti per scommessa, la villa non è più indice e segno di prestigio, ma diventa un immobile costoso e difficile da gestire. Per questo motivo numerosi proprietari vendono i propri palazzi o le ville alle Amministrazioni pubbliche, oppure le trasformano in alberghi o in sedi agrituristiche. La crescita delle città e lo sviluppo di tutte le infrastrutture di cui esse abbisognano soffocano la villa che, spesso rimane inglobata nel tessuto edilizio, ma "sciolta" rispetto al paesaggio urbano. 7 CAPITOLO IV PROPRIETARI E COLONI: GLI ESTREMI DELLA SCALA SOCIALE I proprietari delle ville sono tutti grandi possidenti terrieri e nella proprietà, assunta come status symbol sociale, risiede il potere. Nei secoli XVIII e XIX la classe dirigente è costituita dalla nobiltà, che occupa le cariche più elevate dei governi cittadini, arrogandosi il diritto di gestire l'amministrazione della cosa pubblica. Il ceto nobile è tale proprio perché dispone di larghissime «porzioni del reddito rustico» che tiene sotto controllo, dimorando, in certi periodi dell'anno, nelle ville fatte costruire sulla proprietà, dalle quali dirige l'intera produzione. Esistono famiglie considerate "nobili- che non possiedono alcun titolo (sono i cosiddetti "signorotti"), ma che fanno uso di contrassegni esterni quali stemmi in pietra (tuttora visibili in qualche villa) e sepolcreti gentilizi (nei locali cimiteri). Essi hanno un'estesa proprietà terriera e di conseguenza una rendita che consente loro un tenore di vita del tipo nobiliare. Per accrescere il patrimonio e mantenere inalterata la loro posizione e il prestigio sociale, le "famiglie possidenti" nobili e arricchite stringono alleanze o s'imparentano tra loro attraverso matrimoni; tale abitudine non è considerata disdicevole, anzi appare indispensabile per favorire la concentrazione della proprietà fondiaria nelle mani di pochi proprietari. Inoltre il patrimonio è, per queste famiglie, indivisibile in forza dell'antico istituto del maggiorasco. Il primogenito maschio o il parente maschio più prossimo divengono i successori legittimi, mentre gli altri figli ricevono quasi sempre una dote, perdendo ogni diritto sulla proprietà. I nobili costituiscono la classe dirigente e sono preposti all'esercizio delle funzioni amministrative con le cariche più elevate; nobiltà e potere sono sentiti come equivalenti ed inoltre il ceto nobile è l'unico depositario della cultura. Ma intorno alla prima metà del XIX secolo, anche gli appartenenti al ceto borghese possono accedere al governo delle città, grazie al regime napoleonico che viene incontro alle nuove esigenze dei tempi (come potevano i detentori del potere economico non pretendere anche il potere politico?), abolendo il privilegio della ereditarietà nelle cariche pubbliche. Abitualmente, d'inverno i nobili vivono all'interno delle mura cittadine, occupando splendidi palazzi forniti di numerosi vani ad uso di rappresentanza, dove sono soliti ricevere i loro pari per parlare di politica, di caccia e delle rispettive proprietà agricole. La vita cittadina si svolge secondo ritmi ripetitivi e stereotipati. Le uniche occasioni di divertimento sono il teatro, la festa del patrono, le processioni in occasione delle festività religiose e il gioco delle carte; per il resto si attende con ansia l'arrivo della bella stagione, durante la quale la famiglia si trasferisce nella dimora di campagna per la villeggiatura. Qui i ritmi e gli usi non sono dissimili da quelli della città, ma già la possibilità stessa di stare all'aperto e l'opportunità di dedicarsi ad attività diverse rispetto a quelle invernali determinano e creano un clima vivace e festoso. Gran parte della giornata si trascorre senz'altro all'aria aperta. La vita del nobile, tutto sommato, scorre piuttosto monotona, chiusa com'è entro privilegi di classe che gli conferiscono più poteri rispetto a una gran massa di persone (coloni, artigiani, commercianti), ma che lo rinserrano in una casta dove è permesso solo il rapporto tra pari. Lo scambio e il confronto con gli altri, diversi per classe, per abitudini e per mentalità, è escluso. Nonostante la rivoluzione francese, la caduta dei privilegi padronali tarda a venire. Solo negli anni '50, di fatto, la distinzione di ceto incomincia ad attenuarsi e ad incrinarsi. I contadini rappresentano nelle campagne la maggioranza della popolazione; abitano sparpagliati nei poderi padronali in case basse (generalmente il rustico e il primo piano) a pianta rettangolare, fatte di mattoni e con finestre piccole e strette. La scala e il forno sono per lo più esterni. Il contadino è legato al proprietario da un preciso contratto di lavoro (mezzadria, oppure "lavoreccio e bonificamento"), che include servizi di vario genere. I "padroni" possono ad esempio "disporre" dei coloni in qualsiasi momento e per qualsiasi lavoro, intervento o restauro, necessiti alla propria abitazione; così le donne contadine si prestano spesso per le pulizie della villa e gli uomini per la cura dei giardini, del viale e della strada. Il colono è apprezzato se umile, sottomesso e infaticabile. Coltiva prodotti di cui nessuno può fare a meno. Solo lui sa rendere produttiva la terra. Egli è il depositario di conoscenze e dì abilità tramandate di generazione in generazione, che gli permettono di trarre i frutti attesi dal proprio lavoro. L' intera società vive sulle sue fatiche. Quella contadina è una famiglia di tipo patriarcale, nella quale i figli, anche dopo sposati, continuano a convivere con i genitori. Tutti riconoscono l'autorità dei capo-famiglia, cioè del "vergaro", che non è sempre necessariamente il più anziano, ma il più capace a organizzare il lavoro dei campi e ad assegnare a ciascun membro della comunità contadina le mansioni da svolgere. E il vergaro che "tratta" col fattore per qualunque sua esigenza o dovere e per la divisione finale del prodotto. 8 Nonostante il duro lavoro svolto nei campi i contadini trovano il tempo anche per altre attività. Le donne, durante l'inverno, «filano, tessono, tingono le stoffe fatte col lino da loro coltivato e con la lana delle pecore da loro allevate, e fanno i loro vestiti. Gli uomini fanno canestri di vimini, cappelli di paglia» e i più abili si costruiscono col legno dispense e panche per la casa, ma anche zoccoli e altri utensili semplici ed ingegnosi utili al buon funzionamento e andamento dell'azienda. Anche se occupati e oberati da numerose, vincolanti e indilazionabili attività, essi trovano il tempo, di tanto in tanto, per divertirsi. D'inverno, ad esempio, si riuniscono a casa di qualcuno, a turno, per ballare al suono dell'organetto; d'estate, i più vicini al centro abitato s'incontrano nelle piazze, dove si organizzano feste con la banda musicale. Le feste di paese sono comunque un richiamo irresistibile per tutti i coloni, anche per quelli che abitano nei luoghi più remoti e sperduti. Ma a parte queste circostanze essi si recano nel borgo murato solamente di rado, di domenica mattina per la Messa e durante la settimana per far visita al padrone o all'artigiano. Non amano soffermarsi tra i "cittadini" che, specialmente se giovani, si fanno beffe di loro, del portamento e dei miseri abiti indossati. 9 CAPITOLO V LA CASA SIGNORILE DI CAMPAGNA: COMODO DEL PROPRIETARIO E UTILITÀ DEL FONDO La villa è una costruzione di spicco presente nel territorio rurale e suburbano. Edificata in origine fuori delle mura cittadine, cioè negli ampi spazi agricoli, talora ha mantenuto la sua posizione isolata, ma altre volte è stata attorniata da edifici, in conseguenza del crescente urbanesimo. La recinzione spesso in muratura e il parco riescono ancora a garantire un po' di "privacy", a far giungere attutiti i rumori cittadini e a mantenere quell'atmosfera tranquilla e pacata tipica dei tempi passati, in forte contrasto con i ritmi frenetici odierni. Le grandi residenze, che hanno conservato inalterata l'originaria posizione di predominio sul territorio, sono ancora numerose; si incontrano nelle campagne o nelle aree divenute ormai periferie cittadine, circondate da terra coltivata, anche se la proprietà si è notevolmente ridotta rispetto agli ettari originari. La maggior parte degli edifici padronali ha mantenuto la sua utilizzazione originaria e cioè di residenza prevalentemente estiva e feriale, che resta custodita per il resto dell'anno "dall'uomo di fiducia" e cioè dal contadino, generalmente abitante nella casa colonica ubicata nei pressi, che si occupa del giardino e dei lavori di manutenzione. Mentre in passato la villa di campagna costituiva lo status symbol di nobili e ricchi possidenti, oggigiorno essa è divenuta una costruzione non sempre funzionale, soprattutto per gli alti costi di gestione. Se fino a ieri era compito e dovere del mezzadro occuparsi dei lavori di manutenzione, fornendo gratuitamente le sue prestazioni d'opera, oggi, mutati i rapporti sociali ed economici che lo legano al possidente, quest'uomo deve essere regolarmente stipendiato. Numerosi proprietari hanno scelto di aprire al pubblico, dietro adeguato compenso, gli ambienti e il parco delle proprie abitazioni per banchetti nuziali o per cene di clubs privati, anche per poter sostenere così le spese di gestione che l'edificio puntualmente richiede. Altri invece hanno preferito disfarsi delle antiche ville e investire in altre opere o iniziative il denaro ricavato dalla vendita dell'immobile. Il termine "villa" si tramanda dall'antichità romana, quando esso designava una dimora rurale o un gruppo di caseggiati rustici, tutti appartenenti ad un unico proprietario, dove avveniva la programmazione dell'intera attività agricola e la lavorazione dei relativi prodotti. Nel Medioevo esso indica, con sempre maggiore frequenza, un piccolo centro rurale comprendente diverse aziende agricole, sorte talora attorno all'edificio signorile fino a formare un piccolo villaggio. La villa è in genere una residenza di campagna che ha il duplice ruolo di costituire il centro del coordinamento delle attività agricole e di rappresentare il benessere economico e lo "status" sociale della famiglia che la possiede; quindi la grandezza, il volume della struttura e l'abbondanza dei motivi ornamentali sono proporzionali alle ricchezze del proprietario. Fino a tutto il '700, le ville svolgono un ruolo centrale nell'economia agricola. Secondo Carlo Bacher bisogna tener conto della «comodità del podere con la vita dei coloni», ma soprattutto del fatto che il proprietario possa dominare le proprie strutture con un solo colpo d'occhio. Nella nostra area è raro trovare edifici così ben organizzati come egli propone. La casa del colono, la rimessa degli attrezzi e le stalle per gli animali sono sempre esterni alla recinzione della villa; di fianco ad essa troviamo soltanto la cappella, la scuderia e la serra. La villa è dunque, di per se stessa, un microcosmo funzionale, un punto di riferimento per i coloni e ben rappresenta i rapporti sociali intercorrenti tra la classe contadina e quella padronale. L'obbligo delle prestazioni gratuite cui è tenuto il contadino innalza nella scala sociale il "padrone" che viene a trovarsi in una posizione nella quale gli sembra lecito far pesare sul sottoposto tutto il suo potere economico e la sua superiorità culturale. La distanza sociale che correva tra il signore e il colono era ben visibile, resa tangibile dalla posizione stessa dell'edificio padronale, generalmente isolato ed elevato su un poggio o in cima a un colle o al centro di una vasta pianura. La scuderia è sempre presente nelle costruzioni più lussuose e ospita i cavalli per le carrozze e per il passeggio. Agli inizi del '900, con l'avvento del motore a scoppio e quindi dell'automobile, essa viene adibita a rimessa, oppure in qualche caso, quando ha due piani, è trasformata in abitazione o del custode o degli eredi o, più raramente, in abitazione del proprietario qualora la villa sia adattata ad hotel o a ristorante. La serra è un elemento particolarmente ricercato e, rispetto alla scuderia, già la troviamo presente in misura minore. La sua struttura è generalmente formata da un corpo molto allungato, costruito in mattoni con copertura di coppi; riceve luce solo su un lato attraverso vetrate. 10 L' area attorno alla residenza è di norma adibita a parco e a giardino. Il parco, in genere, si trova tutt'intorno all'edificio, pur estendendosi maggiormente su di un lato. Le piante che più frequentemente lo compongono sono l'abete, il pino e la palma, l'olivo. I giardini consistono spesso in un ampio prato con piante ornamentali di varie specie (viole del pensiero, petunie, begonie, oleandri), distribuite secondo diverse figure geometriche come cerchi, rombi o rettangoli, talvolta delimitati tra loro da piccole siepi. Spesso, ad ornarli, contribuiscono fontane o vasche con pesci e ninfee. Soprattutto nella stagione estiva si richiedono enormi quantitativi idrici e pertanto la maggioranza delle ville è dotata di cisterne per la raccolta delle acque piovane o di pozzi che raggiungano la falda freatica; altre hanno la fortuna di essere costruite in prossimità di fonti naturali e, con un semplice sistema di tubature, possono utilizzare l'acqua che ne sgorga. Un elemento che è segno distintivo della villa è la cappella; in alcuni casi le cappelle sono interne, in -stanze appositamente adattate. Anche la cantina per la conservazione dei cibi e dei vini è un elemento tipico delle dimore padronali. Generalmente le ville vengono abitate per la villeggiatura estiva, da maggio ai primi d'ottobre, in modo che la presenza del proprietario coincida col periodo dei principali lavori agricoli. Non tutti i "padroni" sono-esperti di agricoltura, ma il trovarsi "in loco" durante i raccolti e le semine induce i lavoranti e il fattore a svolgere e a esercitare con maggiore scrupolo le proprie mansioni o responsabilità. Le ville fermane e marchigiane in genere, per le esigenze e l'uso che ne fanno i proprietari, sono differenti dalle grandi dimore monumentali del resto d'Italia. Nelle ville locali ogni elemento ornamentale riveste una funzione estetica ed acquista significato solo nell'ambito dell'arredo esteriore dell'edificio e nello spazio. La scelta di un certo tipo di portale è dettata innanzi tutto dalle mode, poi dalla disponibilità economica del proprietario ed infine dall'abilità dei costruttori. La maggior parte delle ville fermane è stata costruita da maestranze locali, grazie alla guida e all'estro di semplici capomastri che, in base alle sommarie indicazioni fornite dal committente circa l'aspetto, il numero delle stanze e i materiali desiderati, riusciva con abilità e fantasia a costruire belle dimore con o senza l'ausilio dell'architetto. Per il committente non è importante chi progetta la villa; egli non richiede ingegnosità strutturali (infatti la tipologia di fondo delle dimore è scontata e ricorrente: pianta quadrata, tetto a padiglione e scalinata d'ingresso) bensì funzionalità (per il controllo e l'organizzazione agricola) e una certa grandezza, che dimostri agli occhi di tutti e a prima vista la sua posizione sociale. Molto importante è, invece, il luogo sul quale edificare la villa; esso viene scelto con gran cura, per poter dominare dall'alto tutti i possedimenti. In conclusione, la villa mantiene ancora uno splendido rapporto col paesaggio, col quale riesce spesso a creare particolari effetti scenografici, che meriterebbero di essere riscoperti e valorizzati nel quadro di nuove funzioni territoriali. 11 VILLA DELLE ROSE-SEDE DELL'ISTITUTO SUORE CANOSSIANE La villa, che deriva il suo nome dai numerosi roseti che un tempo l'adornavano, viene costruita dal conte Alfredo Salvadori, figlio di Luigi junior, il responsabile della bonifica di un tratto di spiaggia compreso tra il Tenna e il fosso di San Biagio. Grazie alla legge sulla « demaniazione dei beni delle mani-morte» cui sottostavano anche i relitti marini ottenuti in enfiteusi dai Salvadori e sui quali ne godevano i diritti fin dal 1805, il Capitolo di Fermo nel 1868 mise in vendita alcuni beni e Alfredo «comprò un podere che si estende presso la sponda destra del fiume» Ete, a sud di villa Marina. Su questo terreno esisteva già un canale colmatore (uno dei 26 utilizzati dal padre Luigi per la bonifica) e Alfredo «per ottenere un effetto completo e durevole» di distribuzione delle torbide, per rendere produttivo e edificabile il terreno stesso, pensò di costruire una «sbarra a traverso il fiume onde inalvearlo per un tratto a monte di essa, per ottenere che le acque, perduta la loro velocità, si alzassero, tanto da defluire in copia d'ambo i lati e scorrendo per i canali sufficientemente inclinati, portare fino alle sabbiose lande tutte le torbide di che sono carichi». Nel 1874, ottenuta l'autorizzazione ad intervenire sul fiume, è Alfredo stesso ad intraprendere i lavori; l'anno prima aveva infatti terminato gli studi di ingegneria al Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano. Dopo aver superato non poche difficoltà, l'opera di sbarramento dell'Ete viene conclusa nello spazio di tre mesi. Le numerose torbide di un così grande immissario colmarono in pochissimo tempo il terreno di Alfredo, tanto che nel 1913 poté iniziare i lavori di costruzione della villa, conclusi poi nel 1921. In origine isolata, dagli anni '40 la villa viene circondata a nord e a sud da numerosi villini mentre la sua bella pineta, che un tempo giungeva fino alla spiaggia, è stata parzialmente abbattuta per costruire un tratto della strada che percorre tutto il lungomare sangiorgese. La Villa delle Rose, per materiali e strutture si distingue da tutte le altre costruzioni signorili di Porto San Giorgio: il suo stile Liberty è reso originale dalle decorazioni interne ed esterne realizzate in ceramica su progetto di Egidio Coppola che purtroppo morì nel 1928 prima di vederli realizzati. L'edificio si compone di un sotterraneo, di un piano terra e di un primo piano adibito a residenza padronale, nonché 12 di una soffitta dalle caratteristiche finestre ad oblò, dove alloggiava la servitù. Nonostante la villa abbia cambiato numerosi proprietari, essa non ha subito modifiche Rispetto al progetto iniziale, infatti tutte le stanze mantengono ancora oggi la disposizione e l'ampiezza originarie. Esternamente gli elementi che spiccano su tutti gli altri sono la torretta col belvedere e il colore rossiccio del rivestimento. Le finestre sono ad arco e sembrano richiamare analoghe costruzioni inglesi; le bifore e le quadrifore sembrano rifarsi invece al neo-gotico veneziano. Il fronte est della villa ha guarnizioni in maiolica colorata che ben risaltano sul rosso del mattone. Splendidi i lampioni posti ai lati dell'ingresso con triplice apertura, cui corrispondono le tre finestre sul balcone aggettante. Anche la facciata del lato sud è decorata da ceramiche con disegni di frutti che riportano al centro la data di ultimazione della villa in cifre romane. Al primo piano le camere hanno i pavimenti rivestiti di piastrelle di graniglia che formano disegni geometrici bicolori o multicolori, come fossero tappeti. Altri elementi dell'epoca sono l'ampia vasca posta di fronte all'ingresso principale e la casa detta "della servitù" dove dormivano gli addetti alla manutenzione dell'edificio. Alfredo, alla sua morte, lascia la villa al figlio Mario che, a sua volta, non avendo prole, la destina ai nipoti Galletti di Cadilhac. Durante la seconda guerra mondiale, come è destino di altre ville, essa viene occupata dalle truppe tedesche che la lasciano in pessime condizioni. 13 Nel 1947, visto l'abbandono in cui versava, il vescovo Pierini ne chiese e ottenne l'acquisto per utilizzarla come convento e ricovero per orfani. Vi si stabiliscono così le suore Canossiane che, da allora ad oggi, hanno lavorato incessantemente, riparando i danni apportati dai soldati tedeschi, innalzando la recinzione e trasformando la casa del giardiniere in scuola elementare, poiché era troppo danneggiata per poter essere ristrutturata nella foggia originale. All'interno della recinzione, a nord rispetto alla villa, le suore hanno costruito (per accresciute esigenze di spazio dovute al successo delle attività scolastiche da loro gestite) un nuovo e moderno edificio collegato con un camminamento vetrato alla porta originale. Si dice che Alfredo Salvadori salisse tutti i giorni in cima alla torretta e inforcato il binocolo controllasse i coloni che si occupavano della sua proprietà. L'aspetto attuale della torretta si deve ai lavori di ristrutturazione eseguiti qualche anno fa, quando è stata aggiunta la copertura a padiglione. In origine terminava con un terrazzino-osservatorio simile a quello delle ville Murri e Maggiori di Porto Sant'Elpidio. TRATTO DA "VILLE E RESIDENZE GENTILIZIE NEL TERRITORIO FERMANO" di Peris Persi e Annalinda Pasquali -Centro Beni Culturali Marchigiani - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO -Sezione di Geografia. 14