L'operetta di Franz Lehár racchiude una insospetattabile forza rappresentativa del nostro tempo, vuoi per la leggerezza che caratterizza la gaia incoscienza con cui le classi agiate si godono la vita, ben sapendo però che il benessere è momentaneo, vuoi perché l'arte è sempre una rappresentazione critica, come dice Thomas Mann, della vita. di Enrico Bernard Teatro Parioli Compagnia Corrado Abbati presenta La vedova allegra di Franz Lehàr con Corrado Abbati, Antonella Degasperi, Fabrizio Macciantelli,Raffaella Montini, Carlo Monopoli, Francesca Dulio musica Franz Lehàr libretto Victor Leon e Leo Stein da un soggetto di Henri Meilhac scene Stefano Maccarini costumi Artemio Cabassi coreografie Giada Bardelli direzione musicale Marco Fiorin Regia e adattamento Corrado Abbati Adrian Leverkühn - il “Faust” di Thomas Mann - che rappresenta la figura rivoluzionaria del compositore Schoenberg padre della dodecafonia, non si accontenta di comporre musica con le note. Il suo punto di partenza è bensì, come per Beethoven, la narrazione “a parole” dell’ispirazione da tradurre in accordi. Questa concezione apre le porte ad una riflessione su quella che si potrebbe definire la “funzione etica” del linguaggio musicale. Nel Discorso su Lessing Thomas Mann intuisce infatti la caratteristica principale del linguaggio umano sul quale si basa ogni concezione estetica dell’arte, che è poi soprattutto un fatto sociale, e nel cui ambito rientra anche la musica: “La distinzione (tra i generi, ndr.) è annullata e cancellata di continuo dallo stesso elemento critico della lingua. Un’arte il cui strumento è la lingua, determinerà sempre una creazione altamente critica, giacché la lingua stessa è critica della vita”. Inizia così il mio saggio su La funzione politica della musica nella letteratura tedesca che si può trovare sul sito www.amnesiavivace.it e che ho voluto citare a introitus di questo articolo concernente La vedova allegra di Franz Lehár su libretto di Victor Léon e Leo Stein da un soggetto di Henri Meilhac, in scena al Parioli per la regia e adattamento di Corrado Abbati. Mi si chiederà: che c'entra la funzione politica della musica con l'operetta che è notoriamente <leggera> e quindi per antomasia apolitica e <disimpegnata>? Il regista Corrado Abbati, nelle note che accompagnano lo spettacolo, mi anticipa in qualche modo nella risposta: "Dopo 150 anni la storia della Vedova Allegra è ancora qui fra di noi ed è ancora oggi uno degli spettacoli più rappresentati al mondo; cosa è dunque successo? Nulla nella partitura di Lehár, molto in chi capisce che si può tranquillamente accettare la dimensione intellettuale della nostalgia che rende più sereni… e chi, di questi tempi, non ne ha bisogno?" Il quesito che giustamente si pone Abbati <chi, di questi tempi, non ne ha bisogno?> non è una frase buttata là, ma il segnale di una <valenza>, o <funzione> che dir si voglia, politica e storica di quest'operetta sfiziosa che ha avuto fin dalla sua origine, nell'Europa della Belle Epoque, poi durante il nazismo, quindi ai nostri giorni, una particolare ragione di esistere e di rimanere <attuale>. La vedova allegra debutta nel 1905 a Vienna e l'anno successivo a Parigi. Sette anni dopo, nella notte tra il 14 e 15 aprile 1912, sulle spensierate note di Lehár affonda il Titanic: una tragedia che sembra anticipare il destino dell'Europa che si sta avviando verso il baratro della prima guerra mondiale e, successivamente, come conseguenza degli esiti del conflitto del 1914-1918, al nazismo. Il compositore austro-ungherese Franz Lehár, nato in Ungheria nel 1870 e morto nel 1948 in Austria a Bad Ischl, città nota come residenza estiva dell'Imperatore Franz Joseph I, nei pressi di Salisburgo (a 97 chilometri dal paese natale di un altro tragicamente noto austriaco, Adolf Hitler), fu insomma - volente o nolente - l'autore della <colonna sonora>, per usare un'espressione figurata, degli avvenimenti storici che accompagnarono l'ascesa, la prima disfatta nella Grande Guerra, e la fine (con la caduta nazista) del sogno dell'impero pangermanico e del "Deutschland über alles". Come risaputo Hitler era appassionato di operetta e amava in particolare la musica e i Lieder di Franz Lehár, al punto che durante l'occupazione tedesca di Parigi, tra deportazioni e persecuzioni, nei teatri si eseguivano le allegre arie e gli "Schlager" (canzonette e melodie popolari e tradizionali tedesche) del compositore austro-ungarico. Il quale del resto si era venuto a trovare, con l'ascesa di Hitler, in una difficile posizione: non solo aveva stretto amicizie e collaborazioni con scrittori di origine ebraica (il libretto de "La vedova allegra" è di due autori jewisch come Victor Léon e Leo Stein) ma, negli anni precedenti l'avvento del nazismo, aveva sposato una donna ebrea convertitasi al cattolicesimo. La moglie di Lehár, per diretto intervento del Führer, fu risparmiata in via eccezionale con l'attribuzione di una macabra onoreficenza: fu nominata "Ehrenarianerin", una sorta di honoris causa dell'arianesimo. Nell'Enciclopedia dello Spettacolo (vol. VI, pag. 1347) si legge una frase che sospende il giudizio su quest'ultima a fase "politica" del compositore: "Nel 1938 la Germania hitleriana si annetteva l'Austria. Per Lehár cominciò un periodo di compromessi politici che ad alcuni è apparso criticabile". Naturalmente i compromessi <criticabili> furono necessari alla sopravvivenza fisica (moglie e stretti collaboratori ebrei). Né gli si può imputare (del tutto) la strumentalizzazione di Hitler delle sue operette, dei suoi "Lieder" e "Schlager" nati intorno al 1925 dalla collaborazione col cantante Richard Tauber. Che colpa ne aveva il compositore, se il Führer amava canticchiare le sue arie? Del resto Lehár, - pur non essendo ovviamente Wagner che subì al pari di Nietzschte una vera appropriazione indebita da parte del nazismo (e rimando al saggio di Luciano Arcella teorico della destra e collaboratore del quotidiano "Linea", L'innocenza di Zarathustra, Mimesis, Milano-Udine, 2009), non fu neppure l'Apicella della situazione, cioé il cantore e menestrello dell'uomo di potere. Franz Lehár - compositore di ottima levatura - non aveva certo bisogno di raggiungere la fama con Hitler, essendosi affermato internazionalmente già da decenni, - anzi avrebbe probabilmente fatto volentieri a meno delle attenzioni e della considerazione del Führer. Il compositore usò la sua influenza presso il dittatore solo per tentare di salvare qualche amico ebreo dalla deportazione, impresa disperata che non gli riuscì, dovendosi accontentare del salvacondotto per la moglie. Ed ebbe il tempo di vedersi crollare addosso il mondo, - quel suo mondo felice e danzante, allegro e frizzante di bollicine di champagne che fu sommerso dai cumuli di cadaveri dei Lager. Risentendo ora le arie de La vedova allegra, operetta che ritenevo storicamente datata e la cui "leggerezza" mi sembrava tutt'al più espressiva di quel mondo del can-can, del Chez Maxim's e Moulin Rouge, nonché di atmosfere viennesi e straussiane da walzer danzanti nei saloni di specchi dorati nella reggia imperiale di Schönbrunn, mi accorgo che invece l'operetta di Franz Lehár è di forte attualità. Attualità che non sfugge, come dicevo all'inizio, a Corrado Abbiati, autore anche di un felice adattamento oltre che dell'ottima regia. Non so quali modifiche Abbiati abbia apportato nel corso del tempo a questa sua Vedova allegra la cui prima edizione risale al 1993 (come leggo nell'archivio storico del Corriere della Sera). Posso comunque dedurre che questa sua "ultima" rilettura si rimodella su temi, argomenti e personaggi ben noti a partire da quella fatidica <discesa in campo>, che risale proprio a quegli anni, del nostro ex-presidente del Consiglio. Infatti, quel Barone dall'accento lumbard e il sorriso smagliante a 24 carati, con tanto di capigliatura somigliante all'orginale, mi fa pensare, e lo dico senza malizia, proprio al <nostro> Cavaliere, quando dice <tanto alla fine pago tutto io> e si circonda di un entourage (d'ambasciata nella fattispecie del plot della Vedova) compiacente e incensante le meravigliose doti maschili del Capo. Il Barone nello spettacolo di Abbati non è una semplice macchietta, non è un pupo da teatrino, ma è un personaggio in carne ed ossa, reale - per quanto da operetta. E allora penso, ascoltando le rinomate arie <donne, donne eterni déi>, oppure <voglio essere un viveur> cantate da questo BaroneCavaliere, - che la rappresentazione a cui stiamo assistendo, e per cui il pubblico "upper class" del Teatro Parioli si sganascia giustamente e meritatamente batte le mani, è l'operetta nazionale. L'operetta che si sta vivendo tutti i giorni, mentre il nostro Titanic o la Costa Concordia affonda e il comandante ("mezza calzetta" lo epiteta il Senatur Bossi) abbandona nave e femmina in plancia per rifarsi una vita ed una verginità professionale o politica che dir si voglia. Questa Vedova allegra è dunque <attuale> perché riesce a farci divertire con una storia che sentiamo molto vicina, in una zona <sensibile> e reale del nostro vissuto quotidiano. I cantanti sono di ottima levatura e sanno recitare come il genere prescrive, ma sono abili anche a piroettare e a ballare, a trasformare la scena in un totalizzante can-can che trascina il pubblico alla partecipazione corale. I costumi richiamano alla mente anch'essi una cerimonia ufficiale moderna, tranne il ballo in maschera dell'inizio del secondo atto ambientato in una Russia che fa tanto corte di uno Zar che sta per essere travolto dalla rivoluzione. Senonché nel regno di <Pontevedro> avviene naturalmente il miracolo del lieto fine e i personaggi potranno vivere <altri cento anni felici e contenti> per giungere, tra guerre e rivoluzioni, catastrofi e naufragi, fino ai nostri giorni.