Editoriale 2 "Musicateneo magazine" cambia veste con una nuova grafica, una nuova linea editoriale e nuovi collaboratori, a parte qualche presenza "storica" della redazione. Altra novità: da otto si passa a dodici, tante sono le pagine che fanno di questo un numero che potremmo definire "pilota"; un punto di partenza, meno autoreferenziale e sicuramente più proiettato sulla realtà musicale (e non solo) esterna alla nostra associazione. Il magazine si apre con un'intervista al percussionista Zohar Fresco, il quale, durante lo scorso mese di dicembre, ha tenuto un interessante seminario su "i tamburi a cornice", organizzato dalla nostra associazione. Si tratta di un artista dallo stile originale che ha assorbito diverse tradizioni culturali suonando, lungo la sua carriera, con musicisti arabi, ebrei e turchi. Si prosegue con un servizio sull'evento Complete Masada, tenutosi a Roma, basato sullo storico progetto Masada dell'artista John Zorn che fonde elementi della tradizione musicale ebraica con il free-jazz. Una “tre giorni” di concerti, svoltasi presso l'Auditorium della città capitolina, che hanno, a dir poco, entusiasmato il cronista autore dell'articolo che vi presentiamo. Troviamo un'intervista ai responsabili di Unis@und, la web-radio sorta quest'anno, in via sperimentale, all'interno del nostro Ateneo, oltre ad un servizio su quello che si presenta come un vero e proprio laboratorio didattico nel quale quanti desiderano inserirsi in un ambito lavorativo radiofonico potranno acquisire competenze ed accumulare le esperienze. E' poi il turno di un'approfondita analisi critica riguardante le musiche e le danze popolari dell'Italia meridionale, dalle origini alla ri-scoperta dei giorni nostri. Il servizio, fra le altre cose, concentra la sua attenzione su quella che è stata definita "come l'espressione culturale ed emblema del sud intero": la tarantella. Proseguendo nella lettura si scoprirà, ad esempio, che pizzica-pizzica, pastorale, tammurriate vesuviane e tarantella del Gargano altro non sono che sotto-gruppi stilistici dello stesso genere, appunto la travolgente tarantella. Tra le rubriche risalta quella "Semiseria su liuteria & contorni", come la definisce scherzosamente il suo autore, uno spazio di tipo tecnico che fornisce utili indicazioni e consigli pratici ai provetti chitarristi. L'altra rubrica, "Rock heaven", il cui oggetto è la recensione dei "Tesori del passato", in questo numero propone una critica non completamente positiva riguardo al gruppo progmetal dei Dream Theater. Il recensore ripercorre la loro carriera mettendo in risalto "un certo inaridimento attuale della vena creativa", ma, al contempo, riconosce al quintetto statunitense di aver prodotto grande musica. In particolare in "Scenes from a memory", il lavoro qui recensito, essi "raggiungono un perfetto equilibrio fra tecnica ed emozioni". La terza rubrica, "Fuori/Fuoco", compone un ritratto del leggendario, e per tanti aspetti controverso, fondatore dei Pink Floyd, il "diamante pazzo" Syd Barrett. Spazio anche al teatro con un'intervista a Maurizio Igor Meta, autore del monologo "Il Rivoluzionario", lavoro per il quale è stato insignito del titolo di miglior attore, nella sezione nuova drammaturgia, della seconda edizione del "Rota in festival". Infine "GenomArt", lo spazio dedicato all'arte digitale contemporanea. Insomma, ce n'è davvero per tutti i gusti! Auguriamo a tutti buona lettura. Rosa Santomauro Zohar Fresco, seminario all’Università Nostra intervista al percussionista israeliano di Mirko Salvati 22 anni, studente di Lettere Classiche presso l'Università degli Studi di Salerno. Appassionato di Letteratura e di Musica, è cantante e chitarrista nella band Shevil, attiva nell'underground con diversi dischi autoprodotti. Conclusasi la tre giorni di seminario e musica voluta dal maestro Paolo Cimmino, direttore del “Percussion Ensemble”, ed organizzata da Musicateneo, l'artista israeliano Zohar Fresco, prima del ritorno a casa, ha scambiato due parole con il sottoscritto per il nostro magazine. Percussionista di fama internazionale, maestro di tamburi a cornice, con all'attivo numerose collaborazioni negli ambiti più alti del jazz contemporaneo, nonché organizzatore del “Peimont Festival” di Gerusalemme, Zohar Fresco è giunto all'Università di Salerno per un incontro didattico di due giorni più un concerto conclusivo, accompagnato dal Musicateneo Percussion Ensemble, tenutosi nel Teatro di Ateneo. Vincendo in extremis i numerosi impegni, ma soprattutto la timidezza e la riservatezza dell'artista, riesco a porgergli alcune domande, che potrete leggere qui di seguito, con le relative risposte, in "libera" traduzione dall'inglese all'italiano. Zohar, come stai? Come ti è sembrata l’esperienza qui a Salerno? Bene, grazie! É stato un piacere per me incontrare Paolo e tutti questi studenti. Sono rimasto piacevolmente sorpreso dall'interesse che ho trovato qui per le percussioni del Medio Oriente. Stai per tornare a casa. Dove vivi attualmente? Vivo in Israele. Quali sono i tuoi progetti musicali attuali e prossimi? In questo periodo sto lavorando al mio disco solista, accompagnato dal mio trio jazz, e presto approderò in India per alcuni concerti! La cosa mi eccita davvero molto. C'è qualcuna, tra le tante collaborazioni musicali che hai avuto (Glen Velez, Zakir Hossian, Ahmet Misirli, Philip Glass, Ross Daly, Arto Tuncboyaciyan, Hariprasad Chaurasia e Noa), che ti ha soddisfatto maggiormente? Davvero non saprei scegliere, mi sono divertito in quasi tutte le collaborazioni allo stesso modo. Lo stile percussivo della musica popolare del sud Italia, come taranta e tammorra, ha in qualche modo influenzato i tuoi lavori? Sì, direi che apparteniamo tutti alla stessa grande famiglia, quella dei tamburi a cornice. È stato un onore per me rappresentare questo strumento in Italia. Il sud Italia poi sembra così pieno di gioia: ogni volta che ascolto la vostra musica popolare mi sento felice. L'incontro tra cultura israeliana e araba ha influenzato la tua crescita spirituale e musicale? Certamente. Dalle mie parti viviamo tutti insieme, persone di etnia diversa. La nostra cultura è molto vicina a quella araba, così come è simile nella musica. Sembra che in Occidente ci si stia abituando ai continui scontri nell'area del Medio Oriente, in particolare tra Israele e la Jihad. Vuoi dirci qualcosa a riguardo? Io cerco solo di essere un musicista. Tutto quello che posso fare è pregare, pregare per una sola cosa: la Pace! Cosa vuoi dirci del “Peimont Festival” di Gerusalemme? É un festival interamente dedicato alle percussioni. "Peimont" significa "che pulsa". Quest'anno ho avuto qualche problema nell'organizzazione, ma sono molto fiducioso, spero di ricominciare l'anno prossimo e di continuare per molto tempo. Domanda di rito. Tornerai qui a Salerno per Paolo e per Musicateneo? Certamente! Sono in continuo contatto con Paolo per organizzare nuovi incontri e portare avanti questi progetti. Ritratto dell’artista Zohar Fresco è nato in Israele nel 1969. Si è appassionato fin da piccolo alla musica, in particolare alle percussioni, facendo sue le ricche e diverse tradizioni culturali che lo circondano. Exmembro dell’ensemble Bustan Abraham, formazione in cui collaborano musicisti arabi ed ebrei, ha suonato anche con l’ensemble Ziryab, che si dedica alla musica classica turca ed araba, sotto la direzione artistica del noto suonatore di oud Taiseer Elias. Con il tempo Zohar Fresco ha sviluppato il proprio inimitabile stile, affermandosi sulla scena internazionale. Ha collaborato con musicisti del calibro di Glen Velez, Zakir Hossian, Ahmet Misirli, Philip Glass, Ross Daly, Arto Tuncboyaciyan, Hariprasad Chaurasia e Noa. Registrazione Tribunale di Salerno n.1138 del 08/04/2003 Direttore responsabile Rosa Santomauro Progetto comunicativo-editoriale Maria Siano Redazione Emmanuel Granatello, Alessandro Inglima, Giuseppe Morrone, Barbara Ruggiero, Mirko Salvati, Antonio Santomauro Grafica Alessandro Inglima Impaginazione Barbara Ruggiero Stampa Arti Grafiche Sud [email protected] Da Zorn a Ribot: demoni e avanguardia 3 The Book of Angels. L’evento Complete Masada a Roma di Alessandro Inglima Laureato in Scienze della Comunicazione, suona basso e synth nei gruppi Kazum, Fakta framedada e Rupert & the Synth Bassolino. Appassionato di sound e video editing lavora come sound designer per il teatro e per i progetti Sound Barrier, Matto e Marinaio e vunderscoreF. PER LE FOTO PROTETTE DA COPYRIGHT DI CUI NON SIAMO RIUSCITI A RINTRACCIARE GLI INTESTATARI SI PREGA DI CONTATTARE LA REDAZIONE Fonti foto: www.sydbarrett.net, www.scandiccicultura.it, www.paolosoriani.com, noasite.net, ww.zoharfresco.com,www.repubblica.it, www.cauboi.it, www.ilcorallo1.com, www.atlantedl.org, www.liverock.it, www.sydbarrett.biz, www.teatrionline.com Complete Masada. Questo il nome col quale è stata presentata nello scorso mese di luglio all'Auditorium di Roma la tre giorni di concerti che ha visto alternarsi sul palco quindici dei migliori (e tra i più eclettici) musicisti al mondo. Tre giorni, tre concerti al giorno. Un evento per John Zorn secondo solo all'intero mese di concerti al Tonic di New York in occasione del suo cinquantesimo compleanno. La differenza sta, inoltre, nel fatto che l'evento romano si è concentrato sul suo storico progetto, Masada, che dai primi anni ‘90 fonde elementi della tradizione musicale ebraica col free-jazz, e in particolare sulla seconda serie di brani composti da Zorn (la prima serie ne conta circa 200), ovvero il "Masada Songbook Two - The Book of Angels", dove i titoli dei brani sono ispirati dalla demonologia ebraica e cristiana. Zorn lo si sentirà suonare solo due volte, mentre dirigerà in altre tre occasioni. L'impressione è quella di aver avuto la fortuna di assistere a qualcosa di veramente speciale ed irripetibile. Nove, dico nove, concerti di eccezionale portata. Un evento jazzistico importantissimo. A Roma. Personalmente sono rimasto folgorato da tre delle nove formazioni. Innanzitutto i Bar Kokhba, sestetto con sezione ritmica (batteria e percussioni) e sezione d'archi (contrabbasso, violoncello e l'impressionante Mark Feldman al violino) spezzate, è il caso di dirlo, dall'inimitabile suono della chitarra di Marc Ribot. John Zorn dirige. L'impatto è stato devastante. Ho visto Ribot sette volte e in sei differenti formazioni, ma la sensazione che hai quando lo ascolti in questo gruppo, quando senti le prime note perfettamente dissonanti crescere d'intensità, e sei in un auditorium dove il suono è perfetto, è indescrivibile. Un fatto fisico, di stomaco. Una formazione geniale, perfettamente amalgamata, freneticamente energica e silenziosamente sensuale al contempo. Il bello del free-jazz: le dinamiche. E poi gli scambi tra violoncello e violino che ti portano immediatamente ad un immaginario etnico e cinematografico che va dal migliore Kusturica a qualcosa di morriconiano stile Clan dei Siciliani. Il violinista, Mark Feldman, lo ritrovo il giorno seguente in duo con la moglie, Silvye C o u r v o i s i e r, pianista. Non pensavo che un violino potesse produrre quei suoni. Ed è anche stato particolare vedere due compagni di vita così affiatati nella musica. Li ho immaginati a casa che provano, tutti e due ad accanirsi sullo strumento... Lei passa buona parte del concerto a pizzicare direttamente le corde dall'apertura del pianoforte a coda, lui le fa un applauso alla fine di ogni brano. Impressionanti e precisissimi. Il concerto che chiude i tre giorni è quello degli Electric Masada. Li ho già visti, sempre a Roma, circa quattro anni fa, ed ho, da allora, affermato che sono la cosa migliore a cui abbia mai assistito dal vivo. Dopo questi tre giorni lo riconfermo. La formazione rispetto a quattro anni fa si è allargata. Si sono aggiunti Joey Baron come seconda batteria (!) e Ikue Mori all'elettronica. E poi i soliti Ribot alla chitarra, Jamie Saft alla tastiera, Cyro Baptista alle percussioni, Kenny Wollesen alla batteria, Trevor Dunn al basso (sì, proprio lui, già bassista dei Mr. Bungle e dei Fantomas). E poi Zorn al sassofono. Ma non solo. Si diverte, infatti, anche a dirigere le improvvisazioni degli altri sette che passano gran parte del concerto ad osservarlo ed a seguire affannosamente le improvvise direttive impartite dal suo dito. Sì, perchè Zorn comunica soprattutto attraverso il suo indice. Già quattro anni fa da questi musicisti ho capito che esiste un modo diverso di concepire e suonare la musica. Al di là della superiorità tecnica e della perfezione sonora. Questa è gente a cui piace suonare, gente che si diverte, che ti coinvolge del tutto e che a fine concerto si ferma anche a scambiare due chiacchiere con te prima di salire tutti insieme sul furgoncino che li porterà in albergo. Certo, tu poi stai là e cerchi con il tuo stentato inglese di dirgli quanto per te siano stati bravi e ti abbiano colpito, come se loro non lo sapessero già. E pensare che su Wikipedia trovo queste deprimenti descrizioni: “Sebbene poco noto al grande pubblico, Zorn è un musicista estremamente attivo, con più di cento album a suo nome e un'attività che spazia tra svariati generi musicali”. e ancora: [Marc Ribot è] “noto per aver suonato la chitarra in alcuni album di Tom Waits e di Vinicio Capossela. È anche compositore e, occasionalmente, cantante”. “Paesaggi Diversi”, il cd della Camerata Strumentale dell’Università di Salerno “Il paesaggio del Campus è diverso quando c’è musica” Un progetto ambizioso e da ri-scoprire nel suo particolare fascino. Traslitterare in componimenti dal gusto classico, non solo opere di Maurice Ravel o Astor Piazzolla la cui compatibilità originale con l'intento è certamente alta, ma soprattutto pezzi della tradizione pop quali "The great gig in the sky", dei Pink Floyd, o "Michelle", elegiaca struttura melodica, risalente all'epopea dei Beatles. E' stato questo l'intento della Camerata Strumentale dell'Università di Salerno, sotto la direzione del maestro, e violista, Danilo Rossi, e mettendo in pratica gli arrangiamenti e le orchestrazioni di Stefano Nanni, compositore, e Giuseppe Mirra, contrabbassista e compositore anch'egli. Il suggestivo titolo del lavoro venutone fuori è "Paesaggi diversi". Puoi trovare il cd/dvd al Campus di Fisciano, alla Cues nell'atrio di Ingegneria ed alla Cusl (ex bar giallo). A Salerno è invece in distrbuzione da Disclan e alla Ricordi Media Store. E ’ a r r i v a t a Passione ed entusiasmo: i segreti di Unis@und La voce di chi lavora dietro le quinte: Eugenio, Gianluca e Sante di Barbara Ruggiero Laureata in Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Salerno, giornalista pubblicista da 5 anni, collabora a “Cronache del mezzogiorno” e a “Datasport”. Animati da un grande entusiasmo per la radio si sono tuffati a capofitto in una nuova avventura. Gianluca, Sante ed Eugenio sono tre ragazzi che incontriamo alla web radio. Diversi nell'accento, nell'aspetto e nel ruolo che ricoprono ad Unis@und, sono uniti da un’unica grande passione: la radio. Gianluca Durante studia Scienze della Comunicazione; Sante Farnararo è assegnista presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere mentre Eugenio Apicella è collaboratore a contratto dell'Università. Sante e Gianluca si occupano del palinsesto e sono le voci della radio, Eugenio invece si occupa dell'area musicale. All'interno della Radio, quella con la R maiuscola, loro ci sono già stati, ci hanno lavorato ed ora sfruttano le esperienze passate mettendole a disposizione di quanti hanno intenzione di fare radio a Fisciano. "La passione per questo mezzo di comunicazione è tanta: per noi è un vero e proprio hobby che ci accomuna e che ci spinge a trascorrere assieme ore anche di sera" - spiega immediatamente Sante. "Trasmettiamo all'interno del Centro Ict dove c'è uno studio di registrazione nuovo di zecca" - aggiunge Gianluca. Cosa rappresenta per voi questo progetto? Eugenio: "E' una sfida in itinere: ogni giorno cresciamo" Gianluca: "Per me rappresenta una bella soddisfazione veder crescere questo progetto e osser- Lo staff della webradio vare persone interessate alla radio che si avvicinano per la prima volta a questo mezzo di comunicazione". Sante: "E' l'incontro di persone appassionate dello stesso mezzo comunicativo. Il progetto è partito in tempi piuttosto rapidi. Pensate che in due mesi abbiamo messo su le trasmissioni…". Siete soddisfatti del prodotto che state proponendo al vostro pubblico? Eugenio: "Stiamo migliorando man mano" Gianluca: "Il limite è che si tratta di una webradio: ci può seguire solo chi ha il computer. Da poco tempo è possibile ascoltarci anche dalla mensa universitaria". Sante: "Diventerà un buon prodotto al più presto". Come definireste questa esperienza? Eugenio: "Siamo andati avanti con ritmi particolarmente sostenuti, specie all'inizio del progetto; ma adesso - dice scherzoso - possiamo dire di essere allenati. Siamo partiti da sotto zero e stiamo andando avanti. Poi è ovvio che nel frattempo acquisiamo anche esperienza e capacità". Gianluca: "Stiamo migliorando pian piano anche dal punto di vista della logistica e delle infrastrutture che sono a nostra disposizione". Sante: "Un'esperienza eccitante. E' sempre bello veder nascere un mezzo di comunicazione. Certo, ci sono momenti in cui la stanchezza prende il sopravvento; ma la passione ha sempre la meglio su tutto il resto". Quanto spazio dedicate all'interno del vostro palinsesto alle band universitarie emergenti? Sante: "Moltissimo: offriamo ad una band ben dodici passaggi al giorno dei loro brani per un'intera settimana; questo vuol dire che una loro canzone può essere ascoltata ogni ora per tutto il giorno". "Inoltre - aggiunge Gianluca - i loro brani entrano nella classifica della settimana". Eugenio: "Diciamo che siamo alla ricerca ossessiva e costante di nuovi gruppi a cui dare spazio nel nostro palinsesto". Che tipo di musica viene proposta a Unis@und? Sante: "C'è di tutto, specie rock, seguito da pop, blues, jazz. Fino ad ora, però, non ci è arrivato ancora nessun brano dance prodotto dai ragazzi, cosa che sarebbe già capitata se fossimo a fine anni '80". Secondo voi c'è qualche band che ha l'opportunità di sfondare? Ci pensa Eugenio a rispondere, anticipando tutti sul tempo: "Secondo me sì. Come dicevo, siamo proprio alla ricerca di qualcuno che sia in grado di sfondare". E le associazioni? Hanno un ruolo nell'organizzazione della radio? "Le associazioni - raccontano - hanno chiesto di partecipare e siamo in attesa delle loro proposte". Da sin.: Sante Farnararo, Rocco Curcio, Massimo De Santo, Gianluca Durante, Eugenio Apicella, Paolo Rocca Il progetto che ha portato alla costituzione della web radio si concluderà a maggio. Che ne sarà di Unis@und? "Sarà il rettore, che è anche l'editore della radio, a decidere se portare avanti il progetto" - spiegano. Come si può far parte della radio? Sante: "Basta collegarsi al nostro sito, compilare il form ed attendere di essere contattati" Eugenio: "Aggiungiamo solo che abbiamo bisogno di tecnici: sono preziosissimi, servono sempre". In che modo gli studenti partecipano alle attività quotidiane della radio? Gianluca: "I ragazzi ci seguono in tutte le attività: dall'organizzazione del palinsesto fino alla realizzazione della trasmissione. Si tratta di persone particolarmente motivate; sono in pochi ad avere esperienze radiofoniche ma riescono a calarsi nella realtà e a regalarci belle soddisfazioni" Quanti ragazzi ci sono attualmente nell'organizzazione? "Una cinquantina - spiegano - inizialmente abbiamo ricevuto circa quattrocento richieste di partecipazione. Gestirle è stato abbastanza complicato. Come accade in questi casi, c'è stata una selezione naturale". Testi raccolti con la collaborazione di Maria Siano l a w e b r a d i o Suoni e voci dell’Università di Salerno 5 Da “Bellavista a Zivago” a “The living Chart”: ecco il palinsesto di Maria Siano p Pubblica amministrazione, terzo settore ed eventi culturali: la comunicazione è il mio pane quotidiano; e il magazine ne è una fetta... Suoni e voci dell'università. Questo il claim che accompagna tra un programma e l'altro gli ascoltatori della web radio dell'Università di Salerno. In onda dal 10 settembre 2007, Unis@und, questo il nome della web radio, ha l'obiettivo di dotare la comunità universitaria di un nuovo mezzo comunicativo aperto e creativo che accompagni nella loro quotidianità studenti, docenti, personale tecnico del Campus. Insieme ad altre 39 università italiane l'Università degli Studi di Salerno è stata selezionata per partecipare al progetto "UnyOnAir". Il progetto ideato da Radio 24 aiuta le realtà universitarie ad avere una propria web radio, l'iniziativa vede la collaborazione con Il Sole 24 Ore, con il network Job 24 e il supporto di aziende come Heineken, Renault e Microsoft. Tante le radio che sono nate in questo ultimo anno, oltre a Salerno ci sono: la Luiss di Roma, Urbino, Torino, Bicocca di Milano ed altre. La radio è un vero e proprio laboratorio didattico dove i partecipanti acquisiscono competenze editoriali, tecniche e manageriali per lavorare nel mondo radiofonico. Unis@und è aperta a: studenti, associazioni, docenti e personale tecnico amministrativo che vogliono provare l'emozione di passare dall'altro capo della radio, tra microfoni e cuffie, musica e parole e che intendono cimentarsi nella programmazione del palinsesto e degli stessi programmi, cosa non da poco. O entrare nel team dei tecnici di regia e di montaggio per chi vuole conoscere con quali strumentazioni tecniche passa la voce dello speaker. Il progetto della web radio è curato dall'ICT guidato dal professore Massimo De Santo e dall'Ufficio stampa di Ateneo diretto dal dottore Francesco Colucci. Tanti i programmi che si rincorrono durante la giornata intervallati dalle note informative. Per essere sempre informati su ciò che succede nel mondo, dal globo al campus di Fisciano, ogni Primo quarto e Ultimo quarto di ora, va in onda l'informazione. Al trentesimo minuto di ogni ora c'è la “PIU”, che letta così sembra lontana parente del CFU, invece è l'acronimo di Pillola Informativa Universitaria, il programma che dà notizie utili agli studenti e aggiorna gli ascoltatori sulle novità del campus. I poeti universitari possono invece spedire i propri versi alla radio, dove in un apposito spazio, “Da Bellavista a Zivago”, saranno letti in onda. Dalle righe di un foglio alla web radio. La poesia non ha confini. Tra un brano e l'altro il programma “Radio Nettuno” propone massime relative alla materia del giorno, disponibili anche nell'archivio. E sì perché Unis@und ha anche un archivio dove si possono riascoltare i propri programmi preferiti. Come ogni radio che si rispetti non poteva mancare la mitica “50s@unds-The Living Chart”, ogni giorno è possibile, infatti, ascoltare dieci brani della play list ufficiale della radio, che il sabato viene trasmessa per intero. Pubblicizzata con uno spot radiofonico, fatto in casa Unis@und; c'è la “Personal Play list -PP”, le dieci canzoni che ognuno vorrebbe ascoltare di fila e che tra le loro parole e note nascondono i momenti più importanti della propria vita. Tutti possono comporre la propria lista di canzoni e spedirla, ovviamente via e-mail. Il resto lo fa la radio. A noi basta solo un click sul pulsante che compare sul monitor: ed ecco la musica! C’erano una volta i pionieri... E ci sono ancora. A Siena L’esperienza di “Facoltà di Frequenza”, prima radio universitaria italiana Nel variegato mosaico delle esperienze culturali sviluppate all'interno dell'ambiente universitario italiano, una di quelle che si può considerare come capostipite ed esperimento meglio riuscito, in quanto collaudato nel tempo, è la stazione radio "Facoltà di Frequenza" (trasmettente via etere sui 99.450 Mhz e via web su www.radio.unisi.it), originatasi e maturata a Siena a partire dal settembre 2000, secondo un progetto ideato dall'Università degli Studi di Siena su impulso, e realizzazione, del dinamico dipartimento di Scienze della Comunicazione. Il punto forte dell'emittente universitaria senese consiste nell'abbinare ad una selezionata proposta di programmi prettamente musicali, quasi tutti concentrati sulla qualità della creazione artistica a scapito della commerciabilità del prodotto-canzone, un'ampia panoramica riguardante problematiche politiche e sociali generali (ancorate alla realtà tramite le indispensabili rubriche d'informazione), senza trascurare una copertura sistematica degli eventi culturali (cine- ma, arte contemporanea, teatro, rassegne, convegni) aventi luogo intorno alla comunità senese, e non (basti pensare alle interviste realizzate alle più svariate realtà musicali, emergenti ed affermate). La ricchezza dei contenuti, e la contaminazione delle tematiche, costituiscono, quindi, il tratto distintivo per il micro-cosmo di “Facoltà di Frequenza”. Altra circostanza dirimente, per non dire fondamentale, è la assoluta gratuità di prestazione, e contrapposta libertà d'espressione (cosa che, in certi contesti comunicativi, è soltanto apparente), che le persone impegnate (oltre 300 finora per un centinaio di programmi, alcuni longevi altri effimeri) nel dar vita ai palinsesti della radio garantiscono con continuità e ricambio. Inutile stare a specificare che si tratta di studenti provenienti da diverse facoltà dell'ateneo senese, in special modo "Lettere e Filosofia". Il metodo è semplice e partecipato: progettare un'idea intrigante, proporla ai responsabili che coordinano la radio a tempo pieno (studenti, magari specializzati, anch'essi), eseguirla avendo fornito un ade- guato supporto tecnico (che può essere anche auto-gestito qualora le capacità lo consentano). Tranne che non si tratti di evidenti cadute di stile, nel senso di deplorevoli smancerie o scimmiottature di spazzature mediatiche, la possibilità di esprimersi è garantita. Non manca la leggerezza, ma velata d'ironia ed intelligenza. Per concludere, vanno segnalati tre primati di cui "Facoltà di Frequenza" può andare fiera: come accennato, è stata la prima, e per tanto tempo unica, radio universitaria nazionale; sull'onda del suo positivo esempio, tanti riconoscimenti ufficiali ed un'ottima audience, è stato ideato un corso di laurea specialistica in "Radiofonia e Linguaggi dello spettacolo e del multimediale", chiaramente attivato a Siena presso il dipartimento di Scienze della Comunicazione: pratica e teoria, quindi; è stato, infine, pubblicato un libro ("Facoltà di Frequenza" di Romeo Perrotta, Carocci editore, 2005) che racconta, dall'interno, delle vicissitudini di questa comunità universitaria particolare, variabile ed interconnessa. Se siete a Siena, passate per i locali del rettorato che ospitano "Facoltà di Frequenza", bussate e vi sarà aperto: forse, potreste avere da dire qualcosa anche voi... Giuseppe Morrone F o Viaggio intorno ai sentieri della tradizione La riscoperta delle musiche e delle danze popolari in Italia di Giuseppe Morrone Laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Siena. Ha pubblicato un romanzo dal titolo “Lo sguardo stuprato” (Aletti Editore, 2007). Collabora con Liberazione e Girodivite.it. Con riferimento bibliografico e sitografico a: "La terra del rimorso", Ernesto De Martino, Ed. Net, 2002 "La tarantella dei pastori", G.M. Gala, Ed. Taranta, 1999 www.ilsuonodelsalento.it, www.taranta.it/pizzica. Un paragone inappropriato Come per ogni definizione che ci apprestiamo a circoscrivere, è bene chiarire, anzitutto, gli equivoci semantici, e significanti, disseminati dal senso comune, dalle semplificazioni dei media, da un modo di procedere non razionalmente informato. E' il caso della cosiddetta musica popolare. Ad affrontare la questione si nota, immediatamente, un caso di omonimia piuttosto bizzarro. Basti pensare alla musica pop. Questa caratterizzazione non è altro che l'abbreviazione di un genere coniato, ed esportato con enorme successo in tutto il mondo, a partire dai paesi anglosassoni verso la fine degli anni '50: la popular music, appunto. Genere che, in tutti i sensi, non c'entra assolutamente nulla con quello che è l'orizzonte, artistico, dimensionale ed antropologico, della musica popolare per come si è sviluppato storicamente e per come ci è stato tramandato. Almeno nel nostro paese… L'Italia sommersa... Scontato questo necessario chiarimento, proviamo a tracciare un essenziale ritratto genealogico di ciò che s'intende per musica popolare in Italia, con un riferimento inevitabile alle varie forme di danza che vi sono, quasi naturalmente, connesse. Immediatamente, c'è da registrare un frazionamento su scala locale: quasi in ogni regione, e non soltanto in quelle del Mezzogiorno (lo testimoniano le tradizioni folkloriche toscane, venete, sarde, laziali, ecc…), troviamo specifici, a volte interconnessi, modelli tradizionali di linguaggi musicali frutto del contributo delle collettività passate, i quali vengono tramandati oralmente di generazione in generazione. Allo stesso modo, gli strumenti (e tra questi, va inserita a pieno titolo la voce) usati per darvi corpo sono costruiti secondo tecniche rimaste praticamente immutate nel corso dei decenni, o perfino dei secoli. Tale schema, di composizione ed espressione, giungeva a concretarsi, non sempre (basti pensare al rituale della danza di corteggiamento simboleggiato dalla pizzica-pizzica), durante un momento riconosciuto come fondamentale per la vita di una data comunità: lo spazio della festa, prevalentemente religiosa. A scanso di equivoci, concentreremo la nostra attenzione sull'Italia meridionale, dapprima in generale, e poi descrivendo due casi particolari. Lo sterminato humus delle tarantelle Prima di procedere, e per evitare confusioni, inquadreremo quella che è stata definita come "l'espressione culturale che può essere assunta quale migliore e più profondo emblema del sud intero": la tarantella. Essa rappresenta un'ampia, e diversificata, famiglia di danze tradizionali distribuite in tutte le regioni dell'Italia meri- dionale (dal Molise alla Sicilia). Soltanto alcune aree però conservano, al giorno d'oggi, una tradizione viva, assidua ed autentica del ballo, e, in ogni caso, modificata rispetto alle forme ed alle movenze originarie. La maggior parte dei repertori consiste in balli di coppia (non necessariamente uomo-donna), ma esistono forme a quattro persone, in cerchio o processionali. Vi sono aree in cui i danzatori fanno uso di castagnole nelle mani. Il termine tarantella è il semplice diminutivo con suffisso in -ella di taranta, lemma che in quasi tutti i dialetti meridionali indica la tarantola. Ma della taranta come danza rituale specifica parleremo meglio in seguito. Nell'ambito delle tarantelle possiamo individuare, invece, diversi sottogruppi stilistici, ciascuno con propria denominazione (pizzica-pizzica, zumpareddu, pastorale, tarascone, viddhanedda, ballarella, zumparella, tammurriate vesuviane, tarantelle lucane e calabresi, tarantella del Gargano), così come vari repertori musicali (in 2/4, 6/8, 4/4, 12/8, ecc…) e strumenti usati per suonarli (canto, tamburo, zampogna, ciaramella, organetto, fisarmonica, chitarra battente, violino, mandolino, flauto, marranzano, tammorra, ecc…). Forniti questi spunti sommari, possiamo passare ad analizzare uno dei molteplici contesti accennati, quello pugliese, salentino in particolare: le realtà della pizzica-pizzica e della già citata taranta, quindi. Questo perché si tratta delle forme che stanno riscuotendo, ormai da qualche tempo a questa parte, un portentoso successo di pubblico, grazie ad un'astuta commercializzazione, i cui risvolti parzialmente negativi affronteremo dopo. Ci è, quindi, sembrato opportuno indagare, senza pretese di esaustività, le loro origini. "Il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di ‘vita insieme’, un impegno ad uscire dall'isolamento nevrotico per partecipare ad un sistema di fedeltà culturali e ad un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso: un ethos che, per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto ‘minore’ nel quadro della vita culturale dell'Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come ‘religione del rimorso’ e come ‘terra del rimorso’ la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione ‘minore’ vide per alcuni secoli il suo giorno." Ernesto De Martino c u s Amore, trance, catarsi: pizzica e taranta in Salento L'espressione più caratteristica della tradizione popolare salentina è rappresentata da un crescendo armonioso ed invasato di tamburelli, onnipresenti ed ossessivi, coniugato ad altri strumenti, quali mandolini, nacchere, violini, chitarre o armoniche. Ad esso è consustanziale una particolare danza di corteggiamento durante la quale i due danzatori si avvicinano, senza toccarsi mai. La scena si svolge con uno scambio di sguardi, più o meno provocatori, una serie di gesti che rivelano da una parte il desiderio dell'uomo di godere delle grazie della donna, e dall'altra quello della donna di essere corteggiata dall'uomo, al quale, però, sfugge se questi prova ad avvicinarsi. Un elemento importante, durante la danza, è il fazzoletto rosso, simbolo della passione, che la donna sventola in segno di elegante provocazione agli occhi dell'uomo, il quale però non può afferrarlo se non con l'esplicito consenso della donna. Ma non sempre è presente questa funzione d'attrazione: infatti, ci si può semplicemente scatenare sull'onda travolgente, e catartica, della musica, anche da soli, seppur mescolati tra la folla, e con l'unica ambizione di cedere all'estasi del ritmo. L'intero complesso d'interazioni appena descritto, sia in un caso che nell'altro, prende il nome di pizzica-pizzica. Strettamente connesso, almeno dal punto di vista musicale, è il fenomeno della taranta, da inserirsi primariamente nel- l'ambito delle credenze popolari, esattamente quella riguardante il tarantismo. Esso era considerato una vera e propria malattia, originata dal morso della tarantola (un velenoso ragno), il quale provocava uno stato di malessere generale (catalessi, palpitazioni, dolori addominali) alla persona che ne era stata vittima. In questo contesto, la musica e la danza erano percepiti come gli elementi fondamentali della terapia da mettere in atto. La scena del rituale si presentava in questa maniera: atmosfera mistica e melodie del tipo di quelle richiamate nel caso della pizzica-pizzica. La tarantata (cioè la persona morsa dalla tarantola), stesa al letto, ascoltando i suonatori cominciava a muovere la testa e le gambe, strisciava sul dorso, non riusciva a mantenere l'equilibrio e, 7 scesa dal giaciglio, si poneva aderente al suolo, immedesimandosi con la posizione del suo carnefice, cioè la tarantola stessa. Successivamente, rialzatasi, batteva i piedi a tempo di musica, come per schiacciare il ragno e compiva svariati giri su se stessa o movimenti acrobatici, finché, stremata dagli sforzi, crollava a terra, priva di sensi. Con le parole riassuntive di Diego Carpitella, etnomusicologo: "Si trattava quindi di un ciclo coreutico (riguardante l'arte della danza, ndr) bipartito, indefinitamente iterato nel corso del rito sino al momento della guarigione: tale ciclo si articola in due fasi conseguenti, la prima al suolo, orizzontale, orientata prevalentemente verso la identificazione mimica con l'animale mitico (cioè la tarantola), e la seconda in piedi, verticale, prevalentemente orientata verso una risoluzione agonistica della possessione". A questo punto, la tarantata, secondo la leggenda graziata per intercessione di San Paolo (il santo celebrato il 29 giugno a Galatina, provincia di Lecce e centro operativo del fondamentale studio etnografico, "La terra del rimorso", compiuto da Ernesto De Martino, lo stesso Carpitella ed altri a proposito del fenomeno), veniva condotta presso la cappella del santo, qui beveva l'acqua sacra dal pozzo adiacente e ripeteva, simbolicamente, un rito di danza. Il processo poteva, allora, considerarsi concluso. (g.m.) L’attuale tendenza commerciale: spunti per una discussione Negli ultimi anni si è assistito, un po' in tutto il territorio nazionale, ad una entusiastica riscoperta del valore della musica e delle danze popolari, specie salentine: sono fioriti come funghi, o forse sono stati soltanto illuminati dalla luce abbagliante della moda di turno, artisti, complessi, festival, manifestazioni, prodotti discografici attinenti ai temi, e ai luoghi, che abbiamo appena affrontato. E la risposta del pubblico a questa dettagliatissima offerta è stata, a dir poco, portentosa. Posto questo come dato di fatto incontrovertibile, la domanda che ci, e vi, vogliamo porre è la seguente: si è trattato, e continua a trattarsi, di un genuino (e positivo in quanto si rischiava l'oblio) afflato verso le tradizioni e le espressioni popolari oppure dell'ennesimo colpo assestato dall'onnivora industria culturale ad un mercato in asfissia ed in cerca di false legittimazioni? Noi non abbiamo la presunzione di potervi fornire una risposta certificata, però vorremmo proporvi una riflessione critica che assume, e pone a confronto, la tesi e l'antitesi ipotizzate. Essa è stata sviluppata dall'associazione culturale di tradizioni popolari, "Taranta". Eccola: "Il vivace ritorno negli ultimi anni del dibattito culturale sul tarantismo pugliese ha innescato un inatteso processo di valorizzazione di alcune espressioni del patrimonio tradi- zionale salentino che rischiavano la definitiva estinzione: in modo particolare la musica e la danza tradizionale sono diventate un segno di riconoscimento e di recuperata identità dei giovani salentini sino a propagarsi in tutta l'Italia e oltre i confini nazionali negli ambienti legati alla world music. La pizzica non è oggi solo un ballo, è un emblema, un forte richiamo, una griffe, una sorta di nuovo mito culturale che crea moda, spettacolo, turismo, mercato editoriale e musicale. Il Salento si configura in Italia come un importante laboratorio antropologico, nel quale si misurano ed interconnettono bisogni identitari (smantellati con troppa fretta dalle generazioni precedenti) e strade diverse dalla globalizzazione culturale in atto (basti pensare al fatto che la stessa pizzica-pizzica è stata considerata da una parte, specie impegnata, delle giovani generazioni come uno degli emblemi ideologici dell'antiglobalizzazione, ndr); un laboratorio nel quale si gioca una scommessa sul ruolo che la tradizione potrà avere nella società post-industriale e multimediale e nei futuri processi di turismo di massa e di sincretismi culturali interetnici." Per quanto riguarda la contrapposizione, spesso frontale quanto stucchevole, fra "puristi" e "modernisti", su quello che prevede il canovaccio classico rispetto alle trasformazioni intervenute, a livello stilistico, terminologico, coreutico ed attoriale, si potrebbe ribattere che i processi di innovazione o di rottura col passato sono sempre esistiti nella storia delle tradizioni popolari. Ma è, infine, opportuno auspicare che le odierne superficialità con cui spesso si affrontano, e si snaturano quasi sino a renderle irriconoscibili, talune delle tradizioni popolari in oggetto, si tramutino in percorsi di studio, teorici e metodologici, di ampio respiro e di forte serietà culturale, con l'ambizione, neppure tanto trascendentale, di scandagliare autenticamente il passato per poterlo, prima preservare, e poi adattare con misura al presente. Tale necessità richiama il ruolo, talora passivo o soltanto accademico, che dovrebbero esercitare antropologi, operatori culturali e musicisti a livello di massa e di comprensione diffusa. E' bene, comunque, non assumere questa ultima considerazione come complessiva, riconoscendo a quelle realtà, o a quei singoli artisti pur presenti (Eugenio Bennato potrebbe rappresentarne un buon paradigma), l'impegno mediante il quale provano, faticosamente perché la frenesia della competizione raramente concede tregue di qualità, a percorrere un orizzonte del genere appena richiamato. (g.m.) ROCK HEAVEN: TREASURES FROM THE PAST Dream Theater. "Metropolis Pt 2: Scenes From A Memory" di Antonio Santomauro Per i miei amici sono come un "piccolo Bignami" della musica Hard & Heavy. Per voi lettori mi auguro di essere solo un discreto recensore, che sia capace di comunicarvi le emozioni che possono suscitare alcuni dei più bei dischi della storia del Rock. I Dream Theater, sulla scena da quasi vent'anni, sono entrati a far parte di quella categoria di gruppi musicali che dividono il pubblico, ed i critici, ad ogni nuovo disco pubblicato. C'è chi li considera la band Prog Metal per eccellenza, affrettandosi ad incensare anche lavori spesso non all'altezza del loro illustre passato e chi lamenta ormai una certa ripetitività ed inaridimento della vena compositiva dei cinque, non a torto, se ci si sofferma sulle ultime prove in studio giudicate insufficienti da appassionati e critica. Saliti alla ribalta, nel 1992, con l'album-capolavoro "Images And Words", e consolidato un crescente successo di pubblico col successivo ed ultra-tecnico "Awake", del 1994, i nostri in realtà avevano già segnato una battuta a vuoto con "Falling Into Infinity", datato 1997. Un lavoro più easy listening, e quindi deludente per quei fans che dai Dream Theater si aspettano un certo sound fatto di composizioni impregnate di tecnicismi e virtuosismi strumentali spinti ai massimi livelli, sui quali può stagliarsi la splendida voce del vocalist James La Brie. Accantonata la parentesi di "Falling", nel 1999, i Dream Theater danno alle stampe quello che viene unanimemente riconosciuto come il secondo masterpiece della loro discografia; quello "Scenes From A Memory" che risollevò brillantemente le quotazioni della band statunitense, aggiudicandosi meritatamente la palma di Prog Metal album dell'anno. Siamo di fronte al disco più completo del "Teatro Del Sogno", forse il migliore sotto tutti i punti di vista, superante splendidamente la prova del tempo. Non basterebbero dieci pagine per descrivere accuratamente questo gioiello musicale, quindi ci limiteremo a metterne in risalto gli aspetti più importanti. Anzitutto, l'originale concept attorno al quale ruota l'album, una storia (ambientata tra presente e passato ed avente tutte le caratteristiche di un vero e proprio giallo) che tratta il tema della reincarnazione, sorretta da partiture strumentali da brivido e da un'intensità tale da far vivere all'ascoltatore in prima persona i fatti narrati dai testi. Per poi passare alla musica, potente, melodica ed emozionante, con continui rimandi musicali e lirici ad "Image And Words", di cui "Scenes" è considerato il seguito già a partire dal titolo. La prima parte dell'album (suddiviso in due atti) prende il via con le dolci note di "Regression", scandite da una chitarra acustica e dalla voce emozionante di La Brie. La strumentale "Overture 1928" vede la band al massimo della forma, con una struttura caratterizzata da molteplici intrecci strumentali tra chitarra e tastiera, continui cambi di tempo ed aperture melodiche di un'altra dimensione. Comporre un brano così non è da tutti e si sente! Non è necessario essere dei critici musicali o appassionati dell'Hard & Heavy e del Progressive per rendersi conto della bellezza, ed allo stesso tempo, dell'orecchiabilità di un simile pezzo da novanta! Grande musica, senza nessuna etichetta. Caratteristica di tutto "Scenes" è il perfetto equilibrio tra la tecnica e le emozioni che fa scorrere liscio l'album per tutti i suoi 77 minuti di durata (come un'unica grande canzone), senza risultare eccessivamente ostico. "Strange Deja Vu" prosegue il viaggio nell'inconscio plessità sonora. "Through Her Eyes", è una dolce ballad che termina il primo atto del disco ed è impreziosita dai vocalizzi della cantante Theresa Thomason. "Home" apre il secondo atto attraverso decise ed affascinanti influenze orientali, dettate dal sitar e dal wah wah di Petrucci. Strofe ossessive, pesantissime e metalliche (con numerosi richiami a "Metropolis Pt 1", brano di "Images And Words") che, come al solito, si aprono in uno splendido ritornello nel quale la voce di La Brie è protagonista. "The Dance Of Eternity", seconda traccia strumentale del lavoro, dopo un attacco martellante passa in rassegna tutte le caratteristiche finora ascoltate: contro-tempi, assoli al fulmicotone, tempi dispari, stacchi tecnicamente impossibili da eseguire (come quello creato, in questo stesso pezzo, da John Myung col suo basso distorto) tanta potenza metal, velocità ed una grande perizia strumentale. Con "One Last Time" e "The Spirit Carries On" ci si avvia al termine di questo entusiasmante viaggio musicale per il mezzo di due pregevoli ballate che richiamano, a livello strumentale e vocale, rispettivamente "Overture 1928" e "Regression", vedendo numerosi interventi d'impronta blues di Petrucci, il quale nel corso della seconda canzone (impreziosita dalla presenza di cori gospel) regala anche un bel solo melodico. Siamo alla conclusione e "Finally Free" in dodici minuti racconterà il finale della storia, e dei suoi personaggi, alternando atmosfere tranquille ad improvvisi colpi di scena. Lavoro consigliato agli amanti della buona musica, indipendentemente dai generi preferiti. Un concentrato di emozioni irripetibili! Buon ascolto. attraverso un'atmosfera oscura che si stempera in un ritornello dolcissimo. "Through My Words" è un breve intermezzo pianistico che introduce "Fatal Tragedy", canzone cupa e misteriosa caratterizzata da una ritmica trita-sassi in mid-tempo del chitarrista John Petrucci, cui segue una seconda parte caratterizzata da un repentino cambio di tempo che velocizza la canzone, e durante il quale lo stesso Petrucci ed il tastierista Jordan Ruddess si esibiscono nei consueti, e funambolici, "duelli" chitarra-tastiera. Altro pezzo da incorniciare. La prestazione di Ruddess in questo album (il primo con i Dream Theater) è davvero notevole, con uno stile tastieristico che adotta soluzioni blues, jazz, classiche, fusion e addirittura ragtime. "Beyond This Life", introdotta da un riff quasi hardcore, continua la corsa dell'album come un fiume in piena tra la doppia cassa del batterista Mike Portnoy, la ritmica pulsante del bassista John Myung, ed assoli velocissimi che precedono un deciso stacco. Ennesimo brano (caratterizzato da un ritornello inquietante ed efficace) che lascia a bocca aperta quanto a com- LA TRAMA DEL CONCEPT Un uomo, Nicholas si reca in uno studio psichiatrico per cercare di liberarsi dagli incubi che lo tormentano durante la notte e gli fanno vedere immagini della vita passata di una ragazza, di nome Victoria, che fu assassinata insieme al suo fidanzato Julian. Visto lo stile di vita di quest'ultimo, caduto in disgrazia e dedito al gioco d'azzardo, Victoria è costretta ad abbandonarlo per rifugiarsi tra le braccia del fratello-gemello Edward, un potente senatore che si innamora di lei. Victoria però sente di amare ancora Julian e così i due decidono di vedersi segretamente. Edward sospetta di Victoria e si reca a casa di Julian dove trova i due innamorati. Spara ai due e lascia una lettera in tasca al fratello che farebbe pensare prima all'omicidio di Victoria e poi al suo suicidio. Dopo circa 40 anni l'anima di Victoria si è reincarnata in Nicholas. Lo psichiatra lo ipnotizza e gli permette di ricordare tutto, tranne che dell'omicidio. Nicholas, alla fine della seduta, durante il tragitto che lo riporta a casa, improvvisamente si ricorda tutto… TRIPS AND TRICKS RUBRICA SEMISERIA DI LIUTERIA & CONTORNI... 9 Settaggi e manutenzione: oltre la meccanica ondulatoria... di Emmanuel Granatello Studente di Ingegneria Elettronica, è un grande appassionato di musica rock, metal e progressive. Polistrumentista, è esperto di liuteria e sound engineering. Chitarristi e curiosi, quante volte vi sarà capitato di cambiare le corde alla vostra "donna", di cercare di tirare fuori il meglio di lei attraverso settaggi, "manovraggi", "aggiustaggi", "truccaggi", per poi scoprire che avete fatto solo danneggi? A me, un sacco di volte, fin quando ho deciso di mettermi l'anima in pace e sono andato dal liutaio a farmi spiegare un po' di cose, spendendo anche qualche soldo (soldi spesi bene, direi). Mi sono fatto una piccola cultura di settaggio e manutenzione dello strumento che ho deciso di condividere con i lettori del magazine, per evitare errori che ho commesso, i quali, sommati, vi porterebbero a comprare una nuova chitarra, perché la vecchia è diventata "'na mazza 'e scopa". In questo numero parleremo dell’operazione più comune nel settaggio, ossia il famigerato cambio delle corde. A molti potrà sembrare un lavoro di banale importanza, ma ricordiamoci che sono le corde a suonare per prime, poi i pick up (i "microfoni" della chitarra elettrica), poi il ponte, e poi il corpo, infine anche il manico gioca un ruolo decisivo. A questo, però, ci arriveremo piano piano nei prossimi numeri. Veniamo al dunque. Prima di iniziare guardiamo il gioiellino e ci chiediamo: che ponte ha la mia chitarra? A questo punto, armiamoci degli attrezzi del mestiere.... Sdraiate la chitarra su un piano per avere la situazione sotto controllo e rialzate il manico appoggiandolo su un piedistallo (o una pila di libri). "Scordiamo" la corda che ci interessa cambiare, oppure, se vogliamo cambiarle tutte, iniziamo dal Mi basso. Tagliamo la corda non appena si trova ad una tensione tale da garantire l'incolumità della nostra faccia, srotoliamola dalla chiavetta (quel "pirulino" che gira quando accordiamo, per chiarirci), e sfiliamola dal ponte… e mo’ come si fa? [1] Togliamo il coperchio del vano. Se spingiamo la corda, posta sopra il ponte, la vedremo comparire magicamente dal foro corrispondente della parte inferiore di questo. [2] Il floyd ha un sistema di bloccaggio a vite, ossia con la corda stretta ad un capo da un morsetto. Quindi, bisogna allentare la vite con il chiavino esagonale da 3 mm e, molto semplicemente, togliere la corda. Al sistema Floyd Rose dobbiamo dedicare un'attenzione particolare poiché è basato sul bilanciamento della tensione corde-molle. Per evitare che il floyd "scenda" quando togliamo le corde (mi raccomando: una alla volta!), basta bloccarlo con uno spessore da inserire sotto le viti dei morsetti. Inoltre, sul capotasto non è difficile notare un bloccacorde: è questa la genialata che ci permette di mantenere l'accordatura anche dopo usi e abusi violenti della leva-vibrato. Questo pezzo va tolto con la chiave esagonale da 3 mm per permettere alle corde vecchie di lasciare il posto alle nuove. [3] E' simile al Fender, con in più la comodità di non usare il cacciavite come un bisturi sulla schiena dalla nostra “amica”, perché le corde non attraversano il corpo, ma sono fissate al ponte (allo stoptail). Ora che la corda vecchia è stata buttata (mi raccomando, non fate come me, che a volte me le ritrovo nel letto….) accingiamoci ad osservare alcuni accorgimenti per allungare la vita dell'hardware. Bisogna, inoltre, assolutamente stringere le boccole delle meccaniche con la chiave da 10 mm e le viti delle chiavette, come in figura. Fatta questa ramanzina, passiamo ad inserire la nuova corda con un procedimento che può essere approssimato all'inverso dell'operazione precedente… e di nuovo abbiamo 3 casi: [1] Passare la corda dal lato senza pallino, in modo che questo la bloccherà una volta passata tutta dal foro corrispondente del ponte. Successivamente bisogna infilarla nel foro della chiavetta corrispondente, mettendola sotto l'abbassacorde. Prima di fissarla, bisogna "dare un po' di corda alla corda" (è brutto dirlo così, ma non saprei spiegarmi altrimenti), facendo in modo da formare un triangolo, la cui base è la chitarra e i due lati uguali sono le due metà della corda, che ha un'altezza di almeno 15 cm (non preoccupatevi, non c'è bisogno di usare la squadretta: è una misura indicativa). Attenzione! Questo procedimento è importantissimo e vale per qualunque tipo di chitarra, poichè avvolgendo più corda attorno alla chiavetta, l'accordatura si mantiene più stabile; non è un arcano: questo fenomeno è basato sulla teoria della meccanica ondulatoria, che in questo momento però non ci interessa…. Avvolgiamo la corda tenendola sempre tesa verso l'alto senza dare strattoni, così quest’ultima si stira piano piano. [2] Dopo aver letto quanto segue - imprecherete su chi vi ha fatto comprare la vostra chitarra da shredder! - si comincia dalla paletta, contrariamente a quanto detto prima… Eh lo so: è complicato ma, diversamente da quello che dice la maggior parte dei chitarristi, io lo trovo molto più ricco di vantaggi che di svantaggi. Dipende, come sempre, dai gusti musicali. Dopo aver passato completamente la corda dal foro della chiavetta dal lato senza pallino, bisogna stirarla sul manico e fare in modo di formare il triangolo come per il caso precedente, con la difficoltà in più che la corda non deve essere fissata al morsetto del ponte, ma essere mantenuta all'altezza del morsetto… Vedrete che vi avanza corda, e quindi, zac!, la tagliate con i tronchesini. Ora è il momento di fissarla e avvolgerla, come detto sopra. [3] Dopo la disavventura Floyd Rose, rilassiamoci un attimo: per questo sistema il discorso è uguale a quello fatto per il Fender, con la differenza che i fori dove si blocca il pallino sono sul ponte, che è fissato al top (Evviva!) E adesso? Accordiamo e suoniamoci una “granta” “Smoke on the water”... Fuori/Fuoco La memoria che scava nell’oblìo 10 a cura di Giuseppe Morrone Syd Barrett. Il Genio Tragico Appunti per una ri-costruzione musicale e d'esperienza Syd Barrett. Un folle visionario, un genio incompreso, un artista maledetto. Quando negli ambienti musicali, o fra i sinceri appassionati, si pronuncia il nome del fondatore dei Pink Floyd i visi si rigano di lacrime, o di cinico disprezzo, e gli occhi si illuminano, o si insospettiscono; le alternative dipendono dai casi, "di coscienza" sarebbe opportuno aggiungere. Dileggiato come sballato cronico od esaltato in quanto agitatore psichedelico, la sua arte, spontanea e viscerale come un quadro dai colori carichi, non è mai sfuggita alla doppiezza dei giudizi. L'incoerenza domina sovrana e le stesse, puerili, pretese di rappresentarlo soltanto come una sorta di relitto evaporato dalle nebbie fumose della Londra fine anni '60, si scontrano con la musica, ed i testi, che ci ha lasciato in consegna. Andiamo a conoscerlo da vicino. Roger Keith Barrett nacque il 6 gennaio 1946, a Cambridge. L'appellativo Syd, mediante il quale diventerà popolare, gli fu attribuito da alcuni compagni di scuola. Dal 1962 al 1965, Barrett, chitarrista elettrico e poi anche cantante, fu promotore, o coinvolto, in una discreta sequela di complessi, tutti progenitori dei Pink Floyd. La prima formazione del leggendario gruppo sorse, in seguito, fra la fine del 1965 e l'inizio del 1966. In questo periodo, e fino al 1967 (anno della pubblicazione del disco d'esordio "The Piper at the gates of dawn"), i Pink Floyd, e Barrett in particolare (ormai assurto a leader indiscusso), dopo gli esordi venati di folk e blues, si misero in luce fra concerti eccentrici, suoni spaziali, abiti sgargianti e sperimentazioni avanzate di droghe allucinogene. In sintesi, crearono la scena psichedelica inglese. E Barrett ne costituiva il faro: magnetico, idealista, sarcastico e completamente fuori dagli schemi. Idolatrato perfino dai Beatles. Ma, come in una favola dal finale amaro, a seguito dell'enorme impressione suscitata da "The Piper", gemma acida e strabiliante creatura partorita dalla genialità squassante di Syd, cominciarono i guai. Gli abusi di Lsd e Mandrax, l'estrema fragilità caratteriale, la voglia di ardire oltre il limite, le sparizioni improvvise, le turbe mentali ed i comportamenti astrusi sempre più evidenti (i quali, a dire il vero, dettero vita ad una fortunata, quanto deplorevole, serie di leggende metropolitane), che ormai contraddistinguevano Barrett, costrinsero il resto dei Pink Floyd a prendere contatto con la cruda realtà. Venne convocato in tutta fretta David Gilmour, buon chitarrista e vecchio amico di Syd, nel tentativo di dar vita ad una sorta di formazione "a 5", con Barrett relegato nel ruolo di autore dei testi stanti la sua incapacità persino di accordare lo strumento ed i lunghissimi silenzi regalati agli astanti (atteggiamenti che compromisero tourneè, interviste televisive o anche semplici discussioni fra amici), forse carichi di osservazioni e domande inevase. L'esperimento durò poco, giusto qualche mese, in quanto Syd, forse indispettito dalla presenza di Gilmour e dai calcoli di bottega compiuti a danno delle sue sventure, prese a provocare il suo sostituto, sempre per il tramite dei suoi sguardi assenti e persistenti. Ormai non ci si preoccupava più di recuperarlo o di andarlo a cercare, era semplicemente sorvolato "in un'altra dimensione". Nel marzo del 1968, come recitarono le cronache dell'epoca, Syd Barrett fu "ufficialmente allontanato" dai Pink Floyd. Il suo celebre epitaffio, posto in chiusura del secondo disco dei Floyd ("A Saucerful of Secrets", 1968), s'intitolava "Jugband Blues" (per la cui registrazione Syd aveva cooptato la banda dell'Esercito della Salvezza, intimandogli di suonare "assolutamente a caso"!) e recitava, quasi per il tramite di un lucidissimo atto di coscienza schizofrenica, in questa maniera: "è tremendamente cortese da parte vostra pensarmi qui. E vi sono molto obbligato per aver chiarito... che non ci sono". Esaurita la fase floydiana, la carriera solistica di Syd Barrett fu ostacolata dai gravi problemi mentali richiamati, ma, è bene chiarire, che proseguì, seppure a singhiozzo, fino ad interrompersi, definitivamente, soltanto nel febbraio del 1972 (quando ebbe luogo, nella natia Cambridge, la sua ultima esibizione "dal vivo", con un complesso chiamato "Stars"). Syd registrò e pubblicò, fra mille difficoltà, due dischi ("The Madcap Laughs" e "Barrett", entrambi nel 1970), metafore reali delle sue enormi qualità artistiche mescolate ai travagli psichici che lo stavano disintegrando. Ritratti fedeli, e sofferti (anche per chi li ascolta), di una perla in de/composizione. Syd rimase a Londra, dove fu oggetto di numerose chiacchiere da parte della stampa, sciacalla come sempre, e di migliaia di cosiddetti "Syd sightings" (avvistamenti), data la sostanziale irreperibilità delle sue tracce. Ormai il mito era in irrefrenabile ascesa, condito dalle minuziose, e spesso fantasiose, descrizioni di episodi che lo avrebbero colto come folle protagonista. L'unico dato certo era che la sua salute continuava a non destare segni di miglioramento. Nel 1975, e questo episodio è confermato da più testimonianze, durante le sessioni di registrazione che i Pink Floyd tennero per "Wish you were here" accadde una circostanza quasi mistica. Mentre la band era intenta a finalizzare i dettagli di "Shine on your crazy diamond", la superba suite giusto a Syd dedicata, di fronte ai musicisti si materializzò un'inquietante sagoma, sovrappreso, sghignazzante e con i capelli cortissimi. Tutti pensarono che fosse un custode. In realtà era un irriconoscibile Barrett, il quale, dopo aver pronunciato qualche strascicata parola, se ne andò mestamente. Sul finire degli anni '70, Syd si ritirò a Cambridge presso la casa abitata dalla madre e dalla sorella, dove continuò a vivere in isolamento, spesso segregandosi in soffitta, passando la maggior parte del tempo a dipingere. Degli ultimi 25 anni, trascorsi sempre a Cambridge, non si sa nulla con certezza, se non aneddoti ingigantiti, foto rubate (e fatte circolare) alla quotidianità di un soggetto in privato, sporadiche uscite in bicicletta, ulteriori tracolli e parziali riprese, perfino un paio di interviste, piuttosto stralunate, concesse ad alcune riviste musicali. E, parallelamente, la crescita esponenziale delle dicerie di contorno, della smania di collocare il Personaggio/Syd nelle fattezze del Pazzo/Drogato, del simboleggiare una trasgressione ideologicamente bollata come negativa. Atteggiamenti stereotipati ed irrispettosi della stessa volontà, espressa pur sempre da una persona in carne ed ossa, di voler, magari, trascorrere un lasso di umana esperienza in penombra, autonomia e tranquillità, nonostante i propri interiori squilibri. A spezzare tale catena di sofferenze, concrete ed astratte, per Syd Barrett, il 7 luglio 2006, è giunta la serena morte, all'età di 60 anni. A noi profani posteri resterà il frutto delle sue percezioni distorte, della sua immaginazione colorata, dei suoi accordi cosmici, del suo sguardo penetrante. Potrà bastarci per imbastire sogni e viaggi futuri. Il sensazionalismo, ed il qualunquismo, lasciamoli a chi se ne occupa di mestiere... Per concludere, vi propongo un'interpretazione arguta, e giustamente complicata, concernente le probabili cause della deriva di Syd. E' stata elaborata da un tizio che assomma in sé molte analogie con Barrett, quindi probabilmente in grado di carpire la sua sensibilità. Si tratta di Julian Cope, cantautore inglese dal cervello fluido e dalla lirica straniante. "Syd Barrett è stato il primo autore a forte impatto psichico della musica pop a competere con John Lennon... Le limitazioni paralizzanti delle dinamiche commerciali, a cui fu costretto prematuramente, causarono a Barrett un'insostenibile sofferenza: è quasi impossibile per un artista, infatti, limitarsi al perseguimento del raggiungibile, ma era proprio questo che pretendevano da lui gli altri componenti dei Pink Floyd. Credo che quando Barrett se ne rese conto, la sua sottile aderenza alla realtà venne meno ed egli cadde nel vuoto. E' stata come una Morte Artistica ed una tragedia dalle proporzioni leggendarie." Ex-cursus Navigando ad arte... 11 L’incomprensibile teatro delle immagini sociali “Il Rivoluzionario”, monologo di Maurizio Igor Meta Maurizio Igor Meta si è formato studiando con numerosi professionisti del teatro e del cinema, perfezionandosi all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" di Roma. La Compagnia "Teatro Novecento", di cui è socio fondatore unitamente a Cinzia Sità, si occupa di teatro, danza e cinema e nasce dalla necessità di raccontare persone, vite, fatti, suoni, parole, immagini, gesti, sorrisi, amarezze e silenzi del nostro tempo. L'intervista che ci ha concesso concerne una discussione a proposito della sua ultima creazione teatrale, "Il Rivoluzionario", regia di Cinzia Sità, di cui è autore ed interprete. Il monologo è stato oggetto di una tourneè che ha toccato, nel corso del 2007, varie zone d'Italia. La forma del monologo, nel teatro, esprime una volontà d'indagare riflessivamente le tematiche che si vanno a trattare. Era questa la tua intenzione quando la hai scelta oppure credi che le sofferenze, le criticità si possano amalgamare anche in una sceneggiatura corale, mantenendo la stessa profondità d'approccio? Si è trattato di una scelta istintiva, necessaria e obbligata. In questo momento del mio percorso artistico non potrei esprimermi in maniera diversa, ma credo che una drammaturgia con più interpreti possa trattare le contraddizioni sociali e i drammi interiori alla stessa stregua del monologo. Per quanto riguarda me, ripeto, è stata una scelta istintiva perché nata spontaneamente, non decisa a priori, per l'urgenza che io avevo di affrontare certi temi. Necessaria perché ad un certo punto del mio percorso artistico ho sentito l'esigenza di mettermi alla prova. Obbligata perché ad un certo punto della mia vita ho capito che non avrei potuto fare altro se non l'attore. Ma se aspetti che ti chiamino puoi attendere anche tutta la vita, almeno per me è stato così, e così ho dovuto trovare la strada per fare ciò che ho sempre voluto, ed è stato difficilissimo. Le quattro figure da te individuate, per tramite della riflessione permanente di uno scrittore, nella ripartizione del monologo "Il Rivoluzionario" (un commerciante avido di ricchezza, un giovane idealista e senzatetto, un pugile prima famoso e poi dimenticato, un tifoso fanatico e violento) potrebbero corrispondere ad altrettanti ambiti di contraddizione sociale (l'invadente mercato, le difficoltà pratiche e quasi lo schernimento nel tenere un comportamento eticamente corretto, i valori dell'ambizione e dell'agonismo e/o la conseguente caducità di questi, la violenza ingiustificata come valvola di sfogo) intimamente connessi alle crisi di civiltà, cultura e politica attuali. Almeno, questa è la interpretazione che ne ho dato. Raccontaci, per sommi capi, la struttura dell'evento. I personaggi sono cinque e il monologo è unico. Lo scrittore, che fa da collante, non fa altro che osservare e rappresentare la realtà sociale, affidandosi anche agli altri personaggi. Inizia seduto su di una panchina abbracciato alla sua valigia chiusa con una cordicella, dove è custodito tutto ciò che è la sua essenza, tutto ciò che pensa. Aprendola ci regala i suoi pensieri più intimi, per bocca degli altri personaggi: un venditore che è disposto a smerciare improbabili oggetti pur di diventare "normale", cioè ricco; un senzatetto che riflette sul significato di felicità che per lui è un caffè, un panino con la salsiccia, qualcosa da leggere e un posto dove dormire; un pugile sognatore che raggiunge il successo arrivando a disputare l'incontro per il titolo mondiale, ma che poi, finito sul lastrico, continua a sognare; un tifoso teppista che fa della violenza uno stile di vita che non rinnega nemmeno di fronte al verificarsi di un evento drammatico. Infine, prima dell'epilogo, lo scrittore provvede a richiudere la valigia. Come appena rammentato, sullo sfondo, e nella narrazione in apertura e chiusura di scena, compare, la figura di uno scrittore sovversivo, severo osservatore della realtà che gli scorre accanto, il quale per tenere fede alla sua irreprensibilità, e per non farsi fagocitare dal sistema, giunge a smettere di scrivere. E' davvero l'astrazione assoluta dalla realtà, anche tramite gesti apparentemente illogici e disperanti, quello che ci consente di osservare con lucidità lo squallore circostante? Per rispondere a questo bisogna, esattamente, focalizzare il momento in cui lo scrittore riprende coscienza di sé e decide di smettere di scrivere perché dice: "se sapessero quello che penso sarei già appeso al muro". In questo senso, lo scrittore assolutamente non si astrae dalla realtà, ma è un uomo arrabbiato che rifiuta un sistema al quale, suo malgrado, non può sottrarsi. E il cappello che, alla fine, rimane appeso al muro sta ad indicare proprio questo. In principio d'intervista ci confessavi che il viatico per esprimersi liberamente, e secondo le proprie capacità e interessi, continua ad essere irto di ostacoli. Credo che questo vada assunto, purtroppo, come fenomeno generale, considerata la precarietà d'occupazione, e d'esistenza, che contraddistingue questa fase storico/politica. Sarebbe utile, e forse catartico, poter ascoltare un granello della tua esperienza rispetto alla preparazione, anche autoriale, ed alla messa in scena de "Il Rivoluzionario". Provare a scrivere, capire di poterlo fare e poi raccontare quello che hai scritto, mettere su lo spettacolo e pensare praticamente a tutto, dall'aspetto artistico (scene, costumi, etc.) a quello gestionale (produzione, promozione, distribuzione, etc.), e poi restare in scena da solo per quasi un'ora, sono tutte prove che ho dovuto affrontare contemporaneamente, e avevo e ancora ho, anche se in maniera diversa, timore di non farcela, ma allo stesso tempo la grandissima forza di sapere di non poter fare altro, e, cioè, raccontare a chi ha voglia di ascoltare, e ascoltare i silenzi e i sorrisi di chi ha voglia di starmi di fronte…o di lato…o magari seduto sul palco come piace a me, vicino a me, come è successo a Padova. E' tutto merito tuo o hai da elargire qualche riconoscimento particolare? Voglio ringraziare la regista Cinzia Sità, che mi ha seguito passo dopo passo in questo difficile percorso ed è stata autrice di un disegno drammatico semplice ed efficace, Michele Demaria, che col suo disegno luci ha dato un altissimo contributo di qualità a questo spettacolo, Alfonsina Malanga che è il nostro temerario addetto stampa, Antonio Sirica autore della locandina e delle foto di scena, e tutti quelli che credono ne "Il Rivoluzionario" richiedendone la rappresentazione. Giuseppe Morrone La premiazione al “Rota in Festival” Maurizio Igor Meta è stato insignito del titolo di miglior attore nella sezione “nuova drammaturgia” del “Rota in Festival”. La rassegna si è svolta a Mercato San Severino tra i mesi di ottobre e novembre 2007 ed è stata organizzata dalla Compagnia Stabile Città di Mercato San Severino. Sei gli spettacoli che hanno animato la manifestazione. La serata di premiazione ha avuto luogo presso il Centro Sociale “Biagi” il 25 novembre scorso. In precedenza, "Il Rivoluzionario" è stato selezionato nella rosa dei nove spettacoli più originali tra i centoventi lavori teatrali pervenuti alle selezioni del Festival "Parlami di me... In viaggio attraverso le diversità", tenutosi a Padova durante il mese di dicembre 2006. GenomART 12 Arte Digitale Contemporanea www.genomart.org | www.genomart.eu Marco Coraggio (direttore responsabile) [email protected] Carlo Quadrino (responsabile comunicazione) [email protected] GenomART è membro del comitato promotore di: SCIENCE & ART ENTANGLEMENT Comunità virtuale internazionale di ricerca tra SCIENZA ed ARTE per una Miglior Qualità della Vita OPEN NETWORK FOR SCIENCE AND ART www.exibart.com/blog/blog.asp?idutente=42470 powered by Media/Art/Cologne - www.mediaartcologne.org in the framework of [NewMediaArtProjectNetwork]||:cologne www.nmartproject.net directed and curated by Wilfried Agricola de Cologne Il video People! prodotto da GenomART, è stato selezionato per partecipare a “Cinemateque 2007”, rassegna dedicata alle opere di videoarte fruibili con tecnologia QuickTime dal titolo Cinema C - Slowtime 2007 - Quicktime as an artistic medium. L'evento è inserito nel contesto più ampio del NewMediaFest2007 www.newmediafest.org, primo festival internazionale dedicato all'arte & new media, svolto in cooperazione con 3rd Digital Art Festival Rosario/Argentina, november 2007. Il video è visionabile e scaricabile su www.genomart.org Sei pronto a partecipare alle iniziative di Musicateneo? Studi o lavori all’Università? Vuoi entrare a far parte di uno dei nostri gruppi musicali? O vuoi cimentarti con un corso di danza? Scegli l’area adatta a te: Coro Pop rno Percussion Ensemble ale 3441 S ria di 96 se tudi 089 Corso di Improvvisazione jazzistica s a i S l.: o M egl - Te / : i c d ) n Musicateneo Funky System zio eo rsità (SA a e m en o t Camerata Strumentale for icat Univ cian n a.i i s s s i i i u r t M no - F a.i .un gio Orchestra Jazz ag ione iscia elillo unis sica m u F M r @ az Pe soci s di on neo ww.m Tango Argentino d u e w As mp nte icat Danze popolari Ca Po mus ia : V ail em