L’amore e l’amicizia sono possibili, di Piersandro Vanzan S.J., in Studium, 2, 2009, pp.299-302 In questo suggestivo diario, col trentennale racconto di una vita passata tra famiglia, impegni sociali, scuola e università (LUCIANO CORRADINI, A noi è andata bene. Famiglia, scuola, università, società in un diario trentennale, Troina (En), Città Aperta, 2008, pp.435), abbiamo la bella testimonianza di un personaggio che fa il bilancio di questo periodo e, voltandosi indietro, può sinceramente dire: «A noi è andata bene». Comprendendo in quel noi tutti gli affetti della sua esistenza. Come scrive nella Presentazione mons. Monari, vescovo di Brescia e vicepresidente della Cei, l’A. è passato «attraverso strade così intrecciate senza perdersi, attraverso passaggi così impervi senza essere costretto ad abbandonare l’impresa». Perché «c’è una dimensione verticale dell’esistenza che sostiene, risana, integra il cammino orizzontale a volte sbarrato dai pregiudizi o dalle delusioni» (p. 8). È la manzoniana Provvidenza, ben visibile in queste pagine, che l’A. — già ordinario di pedagogia generale in varie Università e sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel Governo Dini — scandisce in quattro parti, dedicate ai suoi quattro grandi amori: la famiglia, la scuola, l’università e la società. L’intento di ripercorrere e verificare questa ipotesi, formulata sui banchi dell’Università Cattolica, insieme alla moglie Bona: con la fede e l’impegno è possibile «”sortirne insieme”, verso l’alto» (p. 14). E infatti, benché in tempi e modi più complicati di quelli immaginati, con figli e nipoti, dopo cinque traslochi e una serie di cambiamenti professionali e sociali, «nella nostra famiglia ci siamo confermati nella convinzione che la nostra non era una convivenza di comodo, ma un’alleanza incondizionata, fondata su un comune progetto di vita, per il quale ciascuno di noi era già individualmente preparato». Di qui l’idea di Corradini: testimoniare come si possano affrontare le gioie, i dolori, gli imprevisti di una normale esistenza e raggiungere certe mète, con un diario personale, non contemporaneo alla vita attuale di chi narra e di chi legge, ma comunque capace di essere «espressione di una vita in diretta», quale la si è «fissata sulla carta in quel determinato momento, sulla base di un impegno di sincerità con sé stessi» (p. 15). Tutto inizia a Saronno (Mi), il 1° settembre 1961, quando — solo con la figlia Laura, di tre mesi — l’A. comincia a mettere per iscritto i suoi pensieri: «Cara Lauretta, la mamma è uscita e io sono solo in casa con te. Ti ho detto tante belle cosette e tu non hai capito nulla: per questo mi è venuto il desiderio di scrivere qualcosa per fissare sulla carta alcuni momenti di dolcezza meravigliosa che trascorro contemplandoti mentre tu succhi il ditino» (p. 23). Da quel momento, quasi ogni giorno un pensiero sulla vita familiare, le aspirazioni professionali, la nascita della seconda figlia Sara, la gioia di vederle entrambe, «già grandicelle», a Natale 1964, davanti alla culla del bambino Gesù. Commosso scrive: «Il Signore ci ha visitato, è con noi, ci mostra sensibilmente l’abbondanza della sua misericordia *…+ Signore, i miei occhi hanno visto la tua salvezza *…+. Sei nello sguardo delle mie bimbe, nella dolce amicizia della mia sposa, nella calda antica saggezza della mia mamma, nell’attenzione dei miei scolari, che sentono nella parola dei poeti e nelle linee misteriose del cammino umano il fascino della tua voce nascosta» (p. 38). Alla fine dell’anno seguente, dopo aver vinto la cattedra di filosofia: «Siamo diventati veramente una famiglia, siamo in quattro dal momento che le testoline delle bimbe funzionano. Così siamo cresciuti e le speranze della mia adolescenza, turgida, inquieta e povera si sono fatte realtà. Quello che sognavo è qui, tra queste mura, in questa città, sotto questo cielo» (p. 39). Il 3 dicembre 1966 nasce il figlio Attilio e Corradini, già professore di storia e filosofia al liceo di Carpi, viene eletto presidente dell’Uciim (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi) reggiana, caricandosi d’impegni anche nel campo dell’associazionismo cattolico. Il 28 settembre 1967 riporta questa riflessione: «Le cose che possiamo fare nella vita non sono molte, ma a noi tocca fare quelle che il nostro tempo esige da noi, senza le quali le generazioni che ci seguono sarebbero più povere, non potendo compiere l’opera loro» (p. 57). Di qui l’impegno per testimoniare Dio tanto nella professione, cercando di rinnovare la scuola, quanto nella comunità ecclesiale, anzitutto nella famiglia e per mezzo dell’associazionismo. Impegni ardui, ma sostenuti da queste grazie:«A cena un’ora di intensità eccezionale. Parliamo tutti e cinque, con qualche fatica per smistare le comunicazioni, dato che la linea tende al sovraccarico. Ho avuto momenti di gioia intensa nel constatare quanto i bimbi crescano, quanta ricchezza sappiano esprimere» (p. 133). E poi dalle gioie, ma anche tensioni, con i ragazzi della Gioventù Studentesca e poi con le burrascose vicende che sfociano nella bella esperienza dell’Unione Studenti Medi. Con la moglie Bona, sempre pronta ad appoggiarlo ma anche a rimproverarlo, per cui scrive: «Ma non capisce che se ho avuto il coraggio, la pazienza e poi la gioia di incontrarmi con quei ragazzi lo devo a lei che è stata l’asse portante della mia vita, perché mi ha dato con il suo amore semplice e indefettibile, la sicurezza e la prova sperimentale che l’amore e l’amicizia sono possibili sulla terra?» (p. 140). Il diario prosegue con spaccati di vita privata — i figli a scuola, gli screzi e le continue riappacificazioni, le vicende amorose di Laura, Sara e Attilio —; la crescita professionale: cattedra di pedagogia all’Università Statale di Milano — una mèta: «che mi pare troppo bella e troppo grande perché l’ho desiderata tanto» (p. 240) —; il nuovo trasloco, la presenza costante di Bona che, «come una stufetta continua a diffondere calore intorno a sé non solo in casa ma anche a scuola, e in parrocchia» (p. 238); l’uscita di vari libri sulla pedagogia; le riflessioni per il 20° anniversario di matrimonio. Felice dichiara: «Tutto è realizzato, al di là di ogni speranza. Certo si è faticato, non c’è stato tempo per sedersi: il bisogno di vivere, di realizzare, di dare senso alle cose, di allacciare relazioni, di conquistare livelli di sapere, di potere, di avere, di amore, di santità, tutto questo non ci ha lasciato spazio per la ricreazione. Abbiamo voglia che suoni la campanella» (p. 266), lasciando nel lettore un senso di intimità con queste vite sconosciute, eppure tanto vicine per il senso di familiarità che hanno impresso nella sua mente. Si arriva così all’ultima parte, quella fatta di matrimoni, di nipoti, di distacchi e di reincontri, di malattie superate, di convegni, di nuovi incarichi all’Università di Roma e al Ministero, con progetti innovativi per la scuola. E così questo bilancio trentennale, che per l’A. è la realizzazione di un bel sogno terreno, diventa per chi legge una fonte di riflessione sul senso della vita, dell’amore e della famiglia, dell’impegno nella Chiesa (Uciim) e nella società (Pubblica Istruzione). Nell’Introduzione leggiamo: «Spero che, oltre la gioia che si prova nello scambiarsi confidenze tra amici, questi dati di cronaca “interna” e queste riflessioni “buttate giù” per aiutare la memoria a “tornarci su”, consentano, anche dialetticamente, una comprensione più approfondita di alcune dinamiche della famiglia, un istituto insieme “naturale” e “storico”, *…+ indispensabile anche per la sopravvivenza, come diceva Manzoni, della nostra riverita specie» (p. 18). E noi, giunti all’ultima riga, siamo persuasi che anche questa mèta sia raggiunta.