19556 Prologo Mi ha sempre creato enorme sorpresa e soddisfazione scoprire che tutti i grandi artisti d’ogni tempo nelle proprie opere riservano grande spazio all’ironia satirica e all’umorismo poetico. Giotto nel suo grande affresco nella Cappella degli Scrovegni di Padova offre nella scena del Giudizio Universale, in particolare nelle sequenze dell’Inferno, atteggiamenti buffi perfino in situazioni tragiche come quella dei dannati aggrediti da demoni assatanati: glutei al vento, falli malmenati, peccatrici con poppe scodinzolanti e così via. Lo stesso discorso vale per Bosch, sempre negli inferni, con animali paradossali e impossibili, incrociati con oggetti assurdi… uova sfornate da uomini e dalle quali escono uccelli, sederi che si affacciano alle finestre, pesci con ali da pipistrello e grosse trote da trasporto che come barche se ne vanno nel cielo spinte da vele maestose. Questo bisogno di uscire dal normale e dalla convenzione per immergersi nel fantastico è una scelta che però viene prodotta soltanto da pittori e scrittori, nonché da poeti, di talento eccezionale. 1 Dante è un vero e proprio campione dell’impossibile, del sovraumano. Chi ha mai immaginato e messo in scena grappoli di amanti ignudi che abbracciati appassionatamente se ne vanno per l’aria sospinti da un vento amoroso, come stormi di volatili travolti dalla passione, se non il sommo poeta? Per non parlare della traversata del fiume degli Inferi, con Caronte sulla sua barca, stracolma di dannati: “Batte col remo chiunque s’adagia…” Ma lo stesso discorso lo possiamo riservare per Leonardo che in diecine di suoi disegni e pitture racconta con feroce sarcasmo la bieca violenza degli uomini, come nell’Adorazione dei Magi agli Uffizi di Firenze. In primo piano vediamo la Madonna con il suo bambino appena nato, con appresso i tre re magi che si inginocchiano. Sul fondo, in contrapposizione all’inchinarsi dei tre re, vediamo guerrieri a cavallo con lance e spade caricare uomini e donne, cadaveri gettati dalla scalinata e gente che fugge atterrita, il tutto mentre è appena nato il Figlio di Dio, che come sappiamo è venuto apposta per portare la pace in terra… Cominciamo bene! In un altro bozzetto scorgiamo un angelo che soffiando dentro una lunga tromba spernacchia nell’orecchio di un cherubino stordendolo. In un codice, sempre Leonardo mostra una bellissima donna ignuda che abbraccia e bacia il suo amante, ma frammezzo i suoi 2 glutei spunta un pungiglione ritorto pronto a scattare come la coda di uno scorpione. A sua volta l’innamorato completamente nudo ha già sollevato il braccio per trafiggere con un pugnale l’innamorata. Ma Leonardo ha inventato anche il disegno di satira politica. Qui vediamo infatti i personaggi del potere del suo tempo seduti a una tavola imbandita presentati con feroce sarcasmo: la Francia che adula la Spagna invitandola a guardarsi allo specchio. La doppiezza della Spagna viene rappresentata da una donna con due teste. I vari duchi italiani rappresentati come piccoli cani famelici al servizio di ogni potere si danno un gran daffare per azzannare gli avanzi; un’aquila che allude all’altro regno, l’Austria, che si getta a capofitto sulle prede; e il demonio che se la ride beato. Badate bene, il demonio è la caricatura del Papa di allora. Per favore, niente censura, è di Leonardo. Potremmo continuare per ore a elencare dipinti e disegni grotteschi, da Michelangelo a Caravaggio. Lui invece Michelangelo è stato censurato, non qua che offre glutei al vento, ma più sopra dove i censori hanno appunto a Michelangelo stesso di infilare ai suoi personaggi delle braghe perché non si godessero queste natiche troppo evidenti. Qui ancora c’è la denuncia dell’uso troppo facile della croce a scopi non propriamente religiosi. Il risultato è che la croce frana addosso a coloro che cercavano di giovarsene, schiacciandoli in un 3 tonfo generale. Per non parlare di Dürer e Brueghel, dove un pescatore per veder il mondo in modo corretto lo osserva affacciato fra le proprie natiche. (ruotea il foglio) Eh già, si vede meglio. Ma forse la palma del gioco satirico dovremmo consegnarla a Mantegna, che è capace in ogni situazione, anche la più drammatica, di catapultare dentro le sue opere donne, uomini, cavalli, bimbi che rovesciano la logica dentro un mondo di follia perché lo sghignazzo dentro il dramma è un contrappunto essenziale e determinante in ogni opera d’autentico valore come qui ci insegna anche Michelangelo. Ma a proposito di Mantegna, attraverso la sua ironia, cercheremo di presentarvi un personaggio davvero sconosciuto, carico di sarcasmo, perché ognuno possa finalmente scoprire che, come diceva Voltaire, la punta più alta dell’intelligenza umana sta proprio nel gioco umoristico della vita. Bene, andiamo a incominciare… Qual è l’immagine fisica che abbiamo di Andrea Mantegna? Di lui conosciamo più di un autoritratto, a cominciare da questo, che lo vede ancora giovane nella Presentazione al tempio, proprio alle spalle del sacerdote. Ma il primo autoritratto che di lui ci viene in mente risale a più di quindici anni prima. Il suo viso presente nella cappella Ovetari a Padova è una maschera grottesca. Ancora 4 grottesco e tragico insieme è l’altro autoritratto, sempre nella cappella Ovetari nel giudizio di San Giacomo, dove lo troviamo corrucciato, triste e invecchiato, per una ragione che vedremo appresso. Un altro autoritratto lo troviamo nella Camera degli Sposi a Mantova dove si presenta in forma di maschera silvestre in mezzo a pennacchi di rami e fiori. Ma il ritratto più conosciuto è il busto in bronzo che appare sulla sua tomba: ci mostra un Mantegna possente, aggressivo, un personaggio con il quale non è certo consigliabile aprire una disputa. Infatti di Andrea Mantegna si dice tout-court che fosse irascibile, attaccabrighe, prepotente… insomma un Caravaggio ante litteram. Aggressivo e duro anche nel dipingere. Di lui si diceva “Egli è uso scolpir pittando”. Per alcune opere di un certo periodo questo scolpire dipingendo fu un elemento palese del suo linguaggio, quasi una ricerca di monumentalità delle figure e del paesaggio. Non per niente all’inizio della sua carriera Andrea si scelse come maestro uno scultore, esattamente Donatello toscano, che in quel tempo si trovava a Padova per realizzare il monumento equestre a Gattamelata ed altre sculture. 5 Questo era il tempo in cui i maestro toscani arrivavano numerosissimi nel Veneto, incontrandosi con altri grandi artisti veneziani, ai quali Mantegna guardava con attenzione. Qui vediamo Piero della Francesca, Filippo Lippi, Leon Battista Alberti, Andrea del Castagno, e qui Tiziano con la sua Venere e qui Giorgione con la sua Tempesta. Ma come era diventato pittore Mantegna? Cominciamo col dire che era nato nel 1430 0 31 in un paese vicino a Padova che si chiamava l’Isola, Isola di Carturo, in riva, anzi completamente avvolta dal Brenta che si allargava intorno a questo piccolo paese, abbracciandolo. C’è un’antica ballata che si canta ancora oggi nelle lagune di peschiera che così si esprime: (cantando) “Tèra e acqua, acqua e ziélo, drénta e fòra su ‘ste lagune. Spigne la pèrtega pe’ navigare e no’ cascar de soto de soto al batèl. Voga ligér come fuèsse in del cielo, sbusa le nivole pe’ navigare”. Questo è il fondale che ritorna spesso nella memoria del pittore di Isola di Carturo. Uno può pensare che con tutta questa acqua intorno il padre di Andrea fosse come minimo un pescatore… No, era falegname! Egli per primo si rese conto delle straordinarie doti pittoriche del piccolo Andrea e venne a sapere che a Padova esisteva una scuola 6 per apprendisti di talento, diretta da un maestro di nome Francesco Squarcione. Così accompagnò il ragazzino a Padova presentandolo al maestro. Gli allievi potevano entrare in questa scuola, ben s’intende, pagando una retta. Se erano poveri, come nel caso di Andrea, dovevano guadagnarsi il diritto di partecipare alle lezioni con altri servizi: tener pulita la bottega, preparare colori, tavole ed eseguire copie di disegni e di sculture in gran numero. Lo Squarcione si vantava di aver allevato nella sua scuola d’arte ben 137 piccoli pittori di talento, ma nell’ambiente era ritenuto un mediocre esecutore. A testimonianza di ciò, val la pena di citare il commento di un suo allievo che diceva: “Ei se sforsa a disegnar fughe in prospettiva, ma non ce ha vantaggio per lo che non l’è capace”. Come in ogni bottega del Quattrocento, anche in quella dello Squarcione, oltre ad apprendere le numerose tecniche del dipingere (pittura a tempera, disegno, incisione, pittura a olio, affresco), si imparava l’anatomia, lo studio del nudo, l’architettura, l’ornato, la scultura. La bottega di Padova era una specie di museo dove erano a disposizione degli allievi statue antiche, greche e romane, bassorilievi, un gran numero di disegni originali e copie di artisti noti. Per di più i giovani apprendisti studiavano la prospettiva e la meccanica. 7 Nella scuola dello Squarcione, compagni di Mantegna erano Cosmè Tura, diventato il maggiore fra i pittori di Ferrara, poi Marco Zoppo, e forse per breve tempo persino il Foppa. Dobbiamo però segnalare che il “maestro” sfruttava in modo indegno i suoi giovani allievi. Li aveva in gran parte accolti come figli, ma al solo scopo di trarre comodo vantaggio. Li costringeva a realizzare copie di sculture e perfino tagliare e cucire abiti sontuosi… tutto a suo profitto! tant’è che Andrea, giunto all’età di diciassette anni, denunciò questo suo padre putativo, lo Squarcione (un nome che è tutto un programma!) per sfruttamento. Il tribunale di Venezia, sotto la cui giurisdizione Padova era stata da poco accolta, liberò il ragazzo condannando questa specie di mangiafuoco a un risarcimento di duecento ducati. Da qui si evince che nella Repubblica di Venezia, già nel Quattrocento, la giustizia funzionava rapida e immediata. Niente a che vedere con l’inefficienza cronica dei tribunali dei nostri giorni. Nello stesso anno, 1448, il giovane Mantegna poteva finalmente realizzare un’opera tutta sua e firmarla. Aveva diciassette anni. E a dimostrazione di quanto il suo valore fosse considerato, nello stesso anno venne designato come perito per la valutazione di un’opera di Pietro da Milano. In questa occasione si ritrovò come parte avversa nel giudizio proprio lo Squarcione. La disputa fu vinta dal giovane Mantegna, con grande soddisfazione. 8 Ed eccoci arrivati alla sua prima grande commissione: l’affresco nella cappella Ovetari a Padova. L’opera verrà eseguita con l’aiuto di Nicolò Pizzolo, un pittore più grande di lui di dieci anni, allievo di Donatello. L’affresco venne eseguito in breve tempo ed ebbe grande successo. Purtroppo è stato fortemente danneggiato da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale. In conseguenza di quell’attacco aereo, oggi dell’intero affresco rimane leggibile meno della metà. Per fortuna ci sono pervenute alcune antiche copie di buona fattura e soprattutto fotografie in bianco e nero, scattate qualche mese prima del disastro, che ci testimoniano come dovesse apparire l’affresco integro, che oggi è in corso di restauro metodi d’avanguardia. Osservando quelle immagini siamo presi dallo stupore. È incredibile che un ragazzo di quell’età, seppure assistito da un altro pittore di buona esperienza, fosse già in grado di creare un capolavoro di simile livello. I personaggi sono visti di scorcio, dal basso verso l’alto, il che produce un effetto drammatico straordinario, e alcune volte dall’alto verso il basso. Mai sullo stesso piano di chi guarda. La prospettiva segue i dettami scientifici di Piero della Francesca e di Leon Battista Alberti, divenuto amico fraterno del giovane 9 padovano. Qui vediamo appunto il ritratto dell’Alberti eseguito dal Mantegna che si trova a Mantova nella camera picta. Di lì a qualche tempo, esattamente il 23 maggio 1449, odio le date ma qui bisogna proprio dirle…, il giovane maestro risulta chiamato a eseguire un lavoro a Ferrara, dove è da immaginare incontrerà l’amico e compagno di bottega Cosmè Tura con il quale da ragazzino ha diviso la mortificazione dello sfruttamento imposto loro dallo Squarcione. Andrea, con la scuola dei Ferraresi, continuerà per gran parte della sua vita a mantenere rapporto, anche di lavoro. È il caso della collaborazione con Lorenzo Costa, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, cioè gli autori delle straordinarie pitture nel Palazzo Schifanoia a Ferrara. Per inciso il significato di Schifanoia, non è provar schifo della noia, ma schivare la noia alla ricerca di una vita giocosa e carica di sollazzo non del solo corpo, ma soprattutto del pensiero e dello spirito. Qui naturalmente stiamo evitando la censura. Nel settembre dello stesso 1449, sempre all’età di diciotto anni, il suo compagno di lavoro Pizzolo chiama Andrea in giudizio chiedendo di sciogliere società. Il Pizzolo non sopporta più la tendenza al protagonismo di Andrea in particolare quella sua già evidente volontà di uscire da ogni schema e disciplina, sia per 10 quanto riguarda la composizione scenica sia per la concezione cromatica dell’opera. L’anno dopo muore, ahimé ammazzato, Giovanni d’Alemagna, un giovane pittore amico di Andrea al quale era stata era stata affidata la realizzazione dell’altra parte degli affreschi sempre nella cappella Ovetari. I committenti si rivolgono ad Andrea Mantegna offrendogli la possibilità di completare il ciclo degli affreschi. Mantegna accetta, però con protervia impone di redigere un nuovo contratto a lui più vantaggioso. Quindi si presenta con un nuovo progetto e soprattutto con altri cartoni da lui disegnati. I responsabili della cappella gli fanno notare: “Scusami ma il progetto dell’affresco è già stato preparato da Giovanni d’Alemagna e così i cartoni.” “La decisione riguardo l’affresco – risponde Mantegna – da questo momento tocca a me, sono io che dipingo. Se lo volete come da progetto iniziale richiamate il morto”. Grazie a questa secca risposta abbiamo immediatamente il quadro della personalità piuttosto decisa e allo stesso tempo spietata di Andrea Mantegna ragazzo. A testimoniare questa sua durezza di carattere ricordiamo il commento di un suo contemporaneo, che così dichiarava: “Come homo che fusse incarcerato o engiustamente tegnuto in cattività, 11 esto giovine padovan se vene infastidìo svalza come catapulta che lanzi p[i]etre”. Ma come dicono gli uomini di scienza che studiano il formarsi del carattere dei fanciulli, tutto dipende da dove essi nascono, dove vivono e crescono nella prima infanzia. Ora, che cosa ci si poteva aspettare da un ragazzino costretto a sopravvivere in quella condizione di schiavitù, sfruttato per anni e costretto a subire castighi e vessazioni? Un fanciullo che da sé solo riesce a riguadagnare la propria libertà è chiaro che difenderà sempre i propri diritti con una grinta giusta e sacrosanta. È straordinario come l’infanzia della gran parte degli artisti del Rinascimento sembri spuntare da uno stesso ramo e ognuna si sovrapponga all’altra quasi in una impossibile copia di stampa. Piero della Francesca non ebbe padre che lo riconoscesse, tanto è vero che portava il nome della madre, Francesca appunto. (forse a soggetto) Lo stesso capitò a Beolco, detto Ruzzante, il quale era figlio di un dottore diventato il rettore massimo dell’Università di Padova, che aveva fatto l’amore con una servetta di casa e poi si era guardato bene dal riconoscerlo figlio legittimo, ma solo naturale. La vita di Leonardo è una fotocopia di quella di Piero e simile è l’infanzia di Raffaello, rimasto orfano di padre e di madre a pochi anni di età, privo di una famiglia, allevato prima da uno zio e poi dal suo maestro che divenne un autentico padre, il Perugino. 12 Così è per Mantegna, carcerato in una scuola nella giovinezza con una terribile, costante nostalgia di una tenerezza di cui non ha mai goduto, la tenerezza della madre che egli riversa immancabilmente in ogni Madonna con bimbo che dipinge. Ed è proprio il caso di questa Madonna dove si rappresenta l’insostituibile tenerezza della madre. Come recita un detto del Rinascimento, se volete allevare dei geni sceglieteli fra gli orfani e gli abbandonati. Abbiamo già accennato come in quel tempo Padova fosse stata incorporata nel dominio della Serenissima. Venezia era il centro più importante, dell’economia e delle arti, di tutto il nord Italia. Era logico quindi che ogni giovane del mestiere vi facesse visita ad ogni occasione. A Venezia Andrea ventiduenne incontra una prestigiosa famiglia di maestri, i Bellini: il padre Jacopo e i due figli, Giovanni, detto il Giambellino, e Gentile. Qui nella Presentazione al Tempio dipinto da Mantegna vediamo il padre ritratto nelle vesti di San Giuseppe e l’autoritratto giovanissimo di Andrea, laggiù (indica) e qui vediamo l’ingrandimento. All’opposto nella stessa posizione c’è una giovane, la figlia di Bellini, Nicolosia, una fanciulla di straordinaria bellezza. Mantegna se ne innamora e la chiede in sposa. 13 Tutta la bottega dei Bellini è affascinata dal giovane padovano e soprattutto dalla sua personalità e dal suo nuovo linguaggio pittorico, tant’è ne vengono fortemente influenzati. Nello stesso anno del matrimonio con Nicolosia muore il Pizzolo, suo ex socio nella cappella Ovetari, e ancora a Mantegna vengono affidate le parti che avrebbe dovuto dipingere il deceduto. Sembra la sequenza di una tragedia greca di Euripide dove tutti gli antagonisti dell’eroe vengono tolti di mezzo dalla solita terribile Atena, che parteggia per il protagonista. Ritornando alla cappella degli Ovetari, questo che vi mostro è lo stato in cui si trovavano gli affreschi dopo il bombardamento. Ora, in attesa del nuovo restauro mi sono permesso di iniziare un restauro indicativo. Ecco la scena in cui il despota, lassù alla finestra, ordina agli arcieri di trafiggere san Cristoforo, che qui non si vede perché è stato distrutto dai bombardamenti. Eccolo qua (mostra immagine) Il gigante Cristoforo è chiamato così, Cristoforo, proprio perché sulle sue spalle ha trasportato il piccolo Gesù al dilà del fiume. Infatti Cristofòros in greco significa portatore di Cristo. San Cristoforo è legato alla colonna nel momento in cui stanno scoccando le frecce. Ecco però che si realizza un prodigio: le 14 frecce si rifiutano di colpire san Cristoforo. Giunte in prossimità del suo corpo eseguono un repentino dietro front e schizzano a rovescio in tutte le direzioni. Uno di quei dardi impazziti va a conficcarsi proprio nell’occhio del tiranno affacciato alla finestra. Nell’affresco è raccontato esattamente il momento in cui gli arcieri si guardano intorno stupiti, storditi per tanto capovolgimento fuor d’ogni logica. Qualcuno di loro volge lo sguardo in alto verso il palazzo e resta sconvolto per la grottesca disgrazia capitata al loro padrone. C’è una donna che s’affaccia attonita alla finestra, c’è un personaggio che urla inorridito guardando in alto e se pur di scorcio riconosciamo essere questo un ritratto dello Squarcione. Dei ragazzi si sporgono stupiti dal balcone. Alla fine san Cristoforo viene ucciso e trascinato nella piazza tirato per i piedi. Ciò nonostante gran parte del pubblico se ne sta lontana dal gigante ucciso… non si sa mai! La gamba e il piede del gigante vengono sollevati ed esibiliti come un trofeo. Un guerriero, forse il capo dell’operazione militare, che indossa un’armatura di ferro, dialoga con il proprio figlioletto che evidentemente gli chiede “Chi è quello?!” E il padre gli risponde: “E’ un gigante, cattivo naturalemnte. E come vedi noi, i cattivi, anche se son giganti, li ammazziamo sempre”. 15 Concludiamo con la scena in cui viene condannato a morte San Giacomo. Abbiamo già visto l’immagine di Mantegna affranto nell’angolo. Poi vediamo un bambino che in basso vicino al giudice che si è truccato da guerriero, ha raccolto uno scudo e s’è calzato un elmo in capo. Lassù – e non potevano mancare ci sono bambini – che si lanciano dai cornicioni e si appendono ai festoni di frutta come piccoli Tarzan. Nella scena successiva si racconta del santo portato al martirio. Siamo in un campo alle porte della città. C’è il boia che sta menando fendenti terribili sul collo del santo. In un testo della ricercatrice Erika Tietze-Conrat, abbiamo scoperto che questo carnefice ha un volto ben riconoscibile: il suo viso è il ritratto di Marsilio de’ Pazzi, forse considerato allora dalla tradizione popolare un emerito criminale. Ma tutto il dipinto è pretestualmente inteso a colpire personaggi del potere ben conosciuti e invisi alla popolazione. Infatti il cavaliere che sta entrando in campo da destra altri non sarebbe che messer Bonramino e così di seguito gli altri partecipanti alla scena hanno tutti un nome – abbiamo visto perfino Squarcione – I malnati ci sono proprio tutti… Ma si insiste dicendo “Ma no… figurati se il Mantegna…… E’ lui stesso con la sua immagine nell’affresco che ce lo dice: Ma figurati se io metto la mia faccia in mezzo ai criminali. È uno scherzo!” 16 Alt! Ma costoro non dicono che lo sguardo, l’atteggiamento del Mantegna è del tutto particolare, disperato, si sente colpevole a sua volta dell’omicidio che si sta per consumare. Eh dico: in una società dove, davanti a ogni infamia, tutti scantonano biascicando “Io non c’entro, non c’ero e se c’ero dormivo”, questa presa di responsabilità di Mantegna ci fa davvero ragionare. Avevamo accennato poco fa alla tenerezza della madre… è il caso di riprendere il discorso osservando questo dipinto che sta a Bergamo. Qui per la prima volta il Bimbo non è rappresentato nel suo aspetto di divino fanciullo simile a un putto greco, sveglio e benedicente. È un neonato, dall’espressione quasi ubriaca di latte e di sonno, la bocca addirittura spalancata in un lieve, leggero russare soddisfatto, come stesse ancora nel ventre della madre. È rappresentato mentre si addormenta proiettando anche un ruttino. Egli dorme con gli occhi aperti, le pupille che si nascondono a metà della palpebra. Lo stesso atteggiamento è anche in quest’altra Madonna con Bambino dormiente. È chiaro che quello stato d’animo non nasce in Mantegna per caso: sono immagini che ha osservato, vissuto giorno dopo giorno nel comportamento dei propri numerosi figlie anche dei propri nipoti. 17 Esistono anche disegni preparatori di Maternità. Ve ne proponiamo uno di straordinaria suggestione. In evidenza è la sola testa del Bambino disegnata con una attenzione e precisione di segno degna di Leonardo. Il Bambino anche in questo caso dorme ad occhi aperti e bocca semichiusa. In un secondo tempo ci si rende conto che dietro il viso del piccolo Gesù spunta appena indicata l’immagine della Madonna. Di lei si leggono solo i segni delle pupille, delle narici e un lieve filo che indica le labbra. Il disegno non dà la sensazione d’esser stato abbandonato durante l’esecuzione. L’averlo interrotto a quel punto – puoi giurarci – è stata una decisione cosciente e definitiva di Mantegna. Aggiungere altri segni, ombre o colore non avrebbe mai sortito quella irripetibile magia. L’orazione nell’orto Nel 1455, a ventiquattro anni, Mantegna dipinge l’Orazione nell’orto. In primo piano tre apostoli dormono sdraiati su una roccia. Un albero secco, dove solo un ramo butta un pugno di foglie, sale torcendosi dalla terra e produce vieppiù un senso di angoscia che già incombe su tutto il dipinto. Sulla cima di un ramo un avvoltoio sta aggrappato puntando lo sguardo verso Gesù. I tre apostoli 18 stanno sdraiati come affranti in un sonno da incubo. Sembrano plasmati come la roccia che fa loro da giaciglio. Poco più in alto, inginocchiato su una larga pietra, Gesù prega. La sua tristezza è insopportabile, disperata. La stessa che ci comunica il getto delle rupi che s’innalzano al cielo, contrappuntate dalle torri e dalle mura di una città da incubo. Ed è Gerusalemme! Sul fondo, lontano, una truppa di soldati e sacerdoti sta salendo verso il teatro della cattura. Quegli uomini sono condotti da Giuda. In opposizione nell’angolo in alto appaiono degli angeli, mandati dal padre in soccorso di Gesù. Ma l’avvoltoio sul suo ramo se ne sta sicuro di vincere la scommessa. Tutto è silenzio. L’unico suono che possiamo immaginarci sono le parole di Cristo rivolte a suo padre. L’uomo Gesù ha paura. Nella Pala di San Zeno a Verona Mantegna ci offre una dimostrazione da autentico maestro della capacità di organizzare lo spazio. Vogliamo sottolineare subito che qui l’impianto geometrico è il maggior motore di questa drammatizzazione, specie se ci soffermiamo sulla scena della Crocifissione. La croce dove è issato Gesù sta esattamente nel centro del dipinto dividendolo in due parti uguali: sul lato sinistro sotto la croce del primo ladrone sta il gruppo delle donne che sorreggono Maria. Questo ci fa venire in mente un pezzo recitato da Franca tratto da 19 una passione lombarda in cui San Giovanni urla verso le Marie perché allontanino la Madonna a quel luogo e soprattutto che la reggano evitando che crolli al suolo così da produrre maggior dolore a Cristo. Sull’altro lato quattro soldati si giocano a dadi la veste rossa di Gesù. Un pazzo sta convincendo il soldato perché gli permetta di giocare a sua volta. Lui è pronto a perdere i quattrini che tiene in una mano. Sono le monete che ha ritrovato sotto l’albero di Giuda impiccato. Il soldato acconsente. Il pazzo va sotto la croce e parla a Cristo, lo prega di farlo vincere, non è mai successo di vincere una partita a dadi (…) DARIO RECITA IL MATTO SOTTO LA CROCE E’ matto non ascoltatelo!” Ma il fatto drammatico dell’impianto è determinato un’altra volta dalla geometria. Eccovela: sono cerchi e diagonali che compongono il movimento dinamico dell’opera. Studiatevelo! Qui Mantegna anticipa di una buona decina d’anni l’invenzione di Antonello da Messina. Entrambi allungano enormemente i pali delle tre croci issando Cristo e i due suoi compagni di patibolo in alto così che le tre figure inchiodate si trovino a galleggiare sole nel cielo, solcato da bave di nuvole. 20 Mantegna e i Gonzaga Nel 1456, all’età di venticinque anni, Mantegna viene invitato come pittore di corte dal marchese Ludovico III di Mantova. Accetta ma non vi si reca subito. Prende tempo, soprattutto per trattare con maggior vantaggio il proprio contratto. Tant’è che due anni dopo riesce a stabilire un nuovo accordo: il Gonzaga si impegna a elargirgli uno stipendio di 15 ducati annui, cui aggiungere alloggio, una bella casa, grano per sei persone, viaggio e trasloco di mobili, bauli di casa e di bottega, e inoltre tutto il materiale per dipingere. Il marchese metterà anche a disposizione uno studio vasto dove preparare cartoni e ritratti. Mantegna prometteva: “Sto arrivando… sono quasi lì, prima però debbo liberarmi di certi impegni presi qui a Padova. Tengo una casa da vendere, una tela da terminare… Abbiate pazienza, mio signore, sarò da voi al più presto. Son qua… eccomi, giungo… No, rimando…”. “E no basta! Non si decide mai quel tanghero! Io faccio una spedizione e lo faccio rapire!” Qui è il caso di domandarci: ma perché tanta passione da parte del Gonzaga per quel pittore, che oltretutto si permette a ogni piè sospinto di mancargli di rispetto? È semplice. In quel tempo, alla nascita dell’Umanesimo e del Rinascimento, per un signore che volesse darsi una reputazione di 21 uomo illuminato ed esser considerato almeno magnificente, era assolutamente d’obbligo poter ricevere ospiti illustri in luoghi adeguati, cioè palazzi progettati da architetti di fama, offrire una straordinaria cucina, approntare in piazze incantevoli spettacoli degni di una corte regale, con compagnie di attori che sapessero recitare tanto i classici greci e latini che la farsa dei mariazzi. E soprattutto sculture monumentali, giardini da favola e pitture da far gridare alla meraviglia. Insomma per questa operazione era determinante riuscire ad accaparrarsi artisti di genio. Per comprendere cosa portasse i signori del Rinascimento a questa ansia, non ci resta che paragonare quel clima con l’attuale fanatismo per i grandi campioni di calcio. Così come oggi un uomo di potere sborsa miliardi per acquistare un attaccante brasiliano che dia prestigio alla sua squadra e a se stesso, similmente nel QuattroCinquecento conti, marchesi e duchi per non parlare dei pontefici letteralmente si svenavano pur di acquistare i servizi di valenti artisti che decorassero le stanze dei loro palazzi e le chiese delle loro città. In quel tempo noi italiani, grazie alla munificenza dei nostri padroni, eravamo i maestri del bel vivere. All’estero, da Carlo VIII a Ferdinando di Spagna, si diceva “Il faut regarder bien à la leçon des italiens”. 22 Attenti, non si creda che questi nostri signori fossero tutti magnanimi e comprensivi verso gli uomini d’arte e scienza. La cronaca del Rinascimento è stracolma di atti di ferocia e disprezzo verso artisti d’alto valore, perfino Leonardo dovette subire forti umiliazioni, così come teatranti di fama, capocomici e grandi autori ai quali i signori non versavano i compensi pattuiti e gli artisti quando si lamentavano venivano scacciati a calci nel sedere o addirittura imprigionati. Intanto Mantegna continua a rimandare la sua partenza verso Mantova. Ha da terminare il dipinto della Presentazione al tempio con l’episodio della circoncisione. Il sacerdote si avvicina al bambino tenendo una lama affilata fra le dita. Gesù si spaventa e ha una reazione del tutto inattesa. Il bambino si divincola e cerca disperatamente protezione fra le braccia della madre, quasi arrampicandosi sul suo corpo. Ma il sacerdote non demorde, ha già afferrato fra le dita il piccolo sesso del bambino. Ma il piccolo Gesù scalcia e grida. Guardatelo, ha la bocca spalancata. Nella parte sinistra del dipinto un ragazzino nei panni d’assistente solleva verso il sacerdote un piatto d’argento con una benda arrotolata. Il suo atteggiamento è solenne, tutto compreso nel rito. Sul lato opposto della scena ci sono due donne, una anziana – la madre di Maria – e un’altra più giovane che tiene in gesto di 23 protezione una mano sul capo del bambino che le sta accanto. Il bambino, che preoccupato si succhia un dito, si intuisce abbia da poco subito lo stesso intervento. La memoria troppo recente della circoncisione lo turba non poco. Infatti volge il viso dall’altra parte per non vedere. Attraverso queste semplici annotazioni Mantegna riesce a comunicare uno stato d’animo di intensa commozione che contrasta con l’autorità solenne del tempio, teatro del rito. Nel 1460 Mantegna decide finalmente di accogliere l’invito di Ludovico Gonzaga e si reca, armi e bagagli, famiglia compresa e bimbi in quantità, a Mantova. Ma prima di presentare la nuova condizione di pittore di corte vediamo un po’ chi erano questi Gonzaga. Come dice un antico adagio pavano: “Il buon massaro è quello che riuscendo ad arricchire il padrone arricchisce anche se stesso”. Questo proverbio ben s’addice alle origini dei Gonzaga. La famiglia dei marchesi di Mantova è una stirpe di nobiltà relativamente recente. Nemmeno un secolo prima della nascita del ducato di Mantova, i Corradi di Gonzaga, così si chiamavano, erano ancora contadini che lavoravano e gestivano le terre di un potente monastero benedettino, lascito di Matilde di Canossa. Erano lavoratori che servivano con lealtà e soprattutto erano capaci 24 di procurare vantaggio ai monaci. Per questo furono premiati ricevendo dai monaci terre incolte e da “purificare”. I Gonzaga riuscirono a bonificarle e a trarne vantaggio. Insomma, divennero a loro volta possessores, con tanto di case in città, a Mantova. E anche a Mantova ebbero fortuna e s’arricchirono vieppiù. Quindi il loro cognome, che proviene da un termine dispregiativo della piana lombarda, gonzo – stupido, imbranato, babbeo – da cui Gonzaga, si dimostra ingiusto e completamente errato. In quel momento a gestire Mantova era la famiglia dei Bonacolsi, grandi mercatari arraffatori, che avevano da poco, attraverso un colpo di mano, ottenuto il potere della città. I Gonzaga divennero loro antagonisti sostenuti da una forte fazione di cittadini. In pieno mese d’agosto del 1328 i Gonzaga e i loro sostenitori organizzarono un nuovo golpe con tanto di scontro armato. I Bonacolsi furono imprigionati e in parte eliminati; altri si salvarono a fatica. Quindi i Gonzaga divennero i nuovi padroni della città. Ma a protezione dell’arraffo occorreva un’investitura. Nel 1433 a Ludovico, giovane erede dei Gonzaga, fu proposto un affare: il matrimonio con Barbara di Brandeburgo, nipote dell’imperatore germanico, più il titolo di marchese. Il tutto in blocco per la modica cifra di 12.000 fiorini d’oro. Prendere o lasciare. 25 I Gonzaga presero. Nel 1462-1464 Mantegna dipinge L’ascensione di Gesù al cielo. Non dobbiamo dimenticare che Mantegna era anche scultore di alto valore. Come abbiamo spesso dichiarato i suoi disegni, anche quando erano preparatori per dipinti, fanno pensare ad abbozzi per bassorilievi o, addirittura, per altorilievi in pietra. È il caso di questo disegno preparatorio al dipinto dell’Ascensione che ha per titolo Otto apostoli assistono alla salita in cielo di Cristo. Le figure dei santi sono poste su piani diversi, a scalare in una grande stesura panneggiata, sotto la quale si indovinano i corpi. Da quel panneggio a un certo punto vediamo spuntare le teste dei santi. Nel disegno Gesù Cristo che sale in cielo non c’è, ma noi indoviniamo dalla tensione e dal movimento dei corpi o meglio del loro panneggio uno slancio che li porta quasi a salire. I ritmi e la grafia delle vesti si possono tradurre solo in musica danzata. Si sente quasi il bisogno che il racconto sia accompagnato da figure che accennano a un lento ballo mistico. La Madonna con il Bambino dormiente 26 Questa Madonna con bambino, di cui abbiamo già visto l’immagine, potremmo benissimo chiamarla lo struggente desiderio della tenerezza. Lo spunto magico è sempre quello della geometria. Le due figure sono iscritte dentro una sequenza di ovali e di cerchi che convergono intorno al viso del bimbo. Le mani della madre raccolgono contro il proprio petto viso e corpo del bambino. Il piccolo Gesù dorme sereno, protetto com’è dentro il manto della Madonna e raccolto dalle sue mani che lo tengono come dentro un nido sicuro. Una ninna nanna antica cantata nella bassa Toscana così dice: (canta) “E dormi dormi che io ti tengo. Non ti crucciar, non tener spavento: è solo il vento che gira intorno a te. Io ti tengo stretto in ogni momento. Dentro a sto bozzolo non c’è timore. Dentro a sto nido c’è tutto il mio amore. Tutto il mio amore, il mio amore per te”. La Camera degli Sposi La Camera degli Sposi, nel castello di San Giorgio a Mantova, è l’unico grande affresco dipinto da Mantegna che sia giunto a noi completamente integro. Il primo punto da segnalare è quello della luce. Mantegna si preoccupò che l’illuminazione naturale si fondesse con quella 27 pittorica degli affreschi. Per questo fece murare le vecchie finestre e aprirne due nuove che proiettassero la luce di taglio sulle pareti dipinte. I personaggi della rappresentazione erano tutti viventi nel tempo in cui venivano portati in scena. C’è tutta la famiglia riunita, in più i parenti acquisiti venuti apposta dall’estero, dalla Germania e dalla Danimarca, c’è perfino un re e un imperatore. La presentazione dei personaggi si apre con un potente cavallo da torneo condotto da un palafreniere che calza un elegante costume. Un altro giovane, abbigliato allo stesso modo, trattiene alla catena due cani mastini. È risaputo che i Gonzaga erano appassionati allevatori di cavalli e cani di gran razza. Nella seconda arcata è invasa da bambini alati, tre dei quali alla base reggono una tavola incorniciata. Altri ragazzini svolazzanti intorno alla tavola aiutano a sostenerla. E per finire sul lato destro altri due piccoli angeli stanno seduti, quasi affranti, annoiati. I visi e i corpi dei fanciulli sono illuminati tutti dal basso e questa è un’invenzione molto suggestiva, anche se del tutto arbitraria, giacché come può una luce naturale essere proiettata dal basso? Possiamo pensare che i bambini siano affacciati a un lago che riflette dal di sotto la luce. ed è probabile giacché Mantova a quel tempo galleggiava su un grande lago. 28 La scena che segue vede sempre in proscenio tutti i figli maschi del marchese, dai più piccoli ai maggiori, presentati da lui in persona. Eccolo sul lato sinistro con addosso un costume che lo indica subito come uomo d’armi. Infatti dal suo fianco pende una spada. Di fianco a lui c’è un vescovo. È suo figlio maggiore. In una famiglia nobile del tempo il vescovo era di regola. Se poi diventava Papa meglio ancora! L’incontro si svolge all’aperto, davanti a monumenti classici della città di Roma, assemblati in modo arbitrario, paradossale: insomma la città eterna trasferita in Padania. Sull’altra parete riappare l’intera famiglia, comprese le signore. La tecnica impiegata per questa scena non è a fresco, bensì una pittura a olio su muro a secco, ed è straordinario come questo impasto abbia prodotto una stesura cromatica tanto resistente al tempo. Quel che non riuscì a Leonardo con il Cenacolo qui ebbe gran successo. Ma andiamo per ordine. Sappiamo che la ragione del disastro dell’Ultima Cena era determinata dal fatto che la parete sulla quale era dipinta affondava in una falda acquifera. Il muro pompava perciò continuamente acqua che di fatto impregnò e ammuffì il dipinto di Leonardo. 29 Qui invece, con tutto che le mura del castello sono immerse in una vera e propria roggia l’architetto che progettò il castello interpose fra la base della costruzione e le mura sovrastanti una continua lastratura di pietra che isolava completamente le pareti, impedendo il fenomeno del risucchio d’acqua. Tutto lì. Stavamo descrivendo il secondo dipinto. Davanti al pilastro di sinistra un segretario ossequioso si protende verso il marchese che se ne sta seduto in proscenio. Sotto la poltrona del signore sta accoccolato un cane il cui muso è la copia sputata della faccia della marchesa tedesca seduta poco più in là. Perfino le due bende dell’acconciatura che scendono ai lati del viso della donna riproducono esattamente la forma delle due orecchie del cane. È vero che spesso i cani e i loro padroni finiscono per assomigliarsi, ma qui la similitudine è perlomeno provocata… Tornando al segretario che si curva ossequioso a parlare all’orecchio di Ludovico, notiamo che c’è qualcosa che non quadra fra le due figure: l’altezza del servitore è stata ridotta al minimo. Se il marchese si levasse per incanto all’impiedi sovrasterebbe il suo fido collaboratore di almeno un metro. Si può pensare che il Mantegna avesse ridotto la statura del segretario per rispetto alla 30 statura morale del marchese. Ma forse c’è un’altra ragione più credibile: il segretario era davvero piccolo di statura ed era stato scelto proprio perché potesse più comodamente parlargli all’orecchio senza doversi inchinare! Ma bisogna ricordare che nella corte dei Gongaza i personaggi fuori misura e addirittura deformi erano numerosi. Non è una maldicenza ricordare che la stirpe dei marchesi di Mantova era affetta da rachitismo, che produceva qualche gobbo in più. Per contorno soffrivano anche di malaria, causata dal vivere in palude. In compenso potevano nutrirsi di rane in abbondanza, cibo molto raffinato. Qui le conosciute deformità di alcuni figli sono corrette e mascherate da Mantegna. Non si sa se per sua scelta o per il dovere di non dispiacere al principe. Ma palese è la tenerezza che mostra nel descrivere l’immagine di questi bambini. A questo proposito è commovente il profilo di Paola, la figlia più piccola del principe, che mostra alla madre tedesca una mela, chiedendole il permesso di mangiarsela. La bambina ha gli occhi cerchiati, lo sguardo sofferente. Non ci si può trattenere dal provare tenerezza… Per contrasto, alle spalle della madre, appare una splendida ragazza. È Barbarina Gonzaga, abbigliata con eleganza. Alle sue spalle c’è una vecchia e tutto intorno ai due visi scorre una doppia 31 fila di cerchi architettonici come una collana di marmo. Quei cerchi esaltano il volto della fanciulla. Provate a cancellare il filare di cerchi e il viso della ragazza perderà all’istante la sua magia. Sembrerà fermarsi anche il suo respiro. Ai piedi di Barbarina scopriamo una piccola donna. Ma non è un trucco dello scorcio, è proprio una nana… che ci guarda quasi con insistenza. È la classica nana di corte. La composizione dei principi e dei cortigiani anticipa di più di un secolo l’ensemble della famiglia reale di Spagna di Velázquez. È straordinario che proprio in mezzo a questo lazzaretto dei miracoli, il capostipite sia riuscito a farsi assumere dal duca di Milano come condottiero dell’armata lombarda. Un condottiero gobbo… Ma si sa i gobbi portano fortuna! Passiamo dentro la seconda arcata. La scena sulla destra è attraversata da una scala sulla quale si ammucchiano giovani cortigiani che si spingono l’un l’altro nel tentativo di raggiungere il gruppo dei principi e guadagnarsi uno spazio di prestigio. Ma due notabili li bloccano risoluti. Sembra di essere a una seduta del nostro Senato! Quell’assembramento crea scompiglio rompendo la calma quasi solenne in cui sembra immersa la corte. Due altolocati volgono il viso verso la scalinata, distratti da quel gruppo di intrusi. Anche la 32 bella Barbarina volge il viso a sbirciare i giovani colpevoli del trambusto. Insomma i personaggi che senza quel piccolo incidente avrebbero rischiato di ritrovarsi esposti in vetrina, inerti e in posa, ora godono di una salutare agitazione. Poi torneranno immancabilmente nella solita, insopportabile noia… Purtroppo non siamo ancora a Ferrara, dove lo “schifar noia” è un’arte unica di quella corte: là si danza, si fa festa, si montano carri allegorici, si fan correre asini e giudei nudi, ci si accoppia come conigli sotto la protezione di Venere e delle tre Grazie nude e ogni nobile tiene amanti appassionate… Intanto lassù nel centro della volta s’è sfondata la cupola ed è apparso un cielo limpido e luminoso. È la geniale trovata di Mantegna, copiata dagli antichi di Roma. Infatti anche nella grande cupola del Pantheon a Roma, lassù un grande disco di luce si apre nel vuoto. Questo della cupola è il gran finale, capolavoro della magia scenografica e dello scorcio. Non bisogna dimenticare che Mantegna fu il vero inventore dello scorcio nella pittura. Da quel cerchio di cielo s’affacciano guardando di sotto curiosi e divertiti gruppi di bimbi alati. I putti si prendono gioco dei simboli del potere: mostrano a chi li guarda le loro chiappette con sfrontata e candida esibizione. Uno di loro accenna addirittura a far pipì. 33 Con loro s’affacciano figure che sembrano commentare la scena che si svolge nella stanza. Ragazze, anche di colore, e perfino un pavone, che pare il più stupito per quello che sta vedendo nel mondo di sotto. Trattando di questo capolavoro più di un noto ricercatore ha espresso un giudizio deciso su Mantegna, dichiarando che qui il pittore si sarebbe assuefatto al ruolo di artista di corte. Addirittura è stato definito pittore di regime. Ma dove sarebbe l’adulazione del piaggione rituale? Come non leggere l’ironia e la satira in diecine di immagini? Piuttosto a sto punto ci prende un altro dubbio. Come potevano il duca di Mantova e la sua corte non cogliere doppio significato della rappresentazione di Mantegna: la similitudine del cane con la marchesa, il rimpicciolimento del segretario, l’atteggiamento ossequioso e servile dei cortigiani, la Roma impossibile nella laguna… Ma come diceva Machiavelli che in quegli anni stava già pensando al Principe: “La vanagloria dei potenti li rende ciechi. Il loro palato e l’udito non assaporano né odori sgradevoli né suoni stonati. Non avvertono nemmeno lo spernacchiare delle trombe contro i loro orecchi, ubriachi come sono di possanza”. In uno scritto di qualche anno fa Rodolfo Signorini, illustrando la Camera picta, assicurava che l’ispirazione per questo capolavoro è venuta a Mantegna da un’opera di Luciano di Samosata, il grande 34 satirico greco. Egli illustrava una sala adorna di pitture. “Osservate – diceva – come il colore dei panneggi che ornano i gesti delle figliole danzanti, la pantomima disegnata e il paesaggio sostengono e abbelliscono ogni nostro discorso, anche il più banale. Così come un buono strumento ben suonato fa apparire melodioso anche l’oratore più stonato.” Ma poi ecco che all’istante Luciano ribalta e contraddice questa sua convinzione: “Ma quale idiozia vado dicendo? In verità la bellezza del color dipinto e dei corpi che si muovono sulle pareti distruggono e confondono il pensiero e lo avviliscono. Il pensiero ha bisogno di silenzio e di vuoto intorno a sé. Ogni controcanto alla parola diventa gracchiare di rane in uno stagno.” L’aver incontrato il pensiero di Luciano di Samosata e i suoi paradossi satirici è stato determinante per Mantegna, e il suo modo di raccontare, specie quando dovrà, fra non molto, affrontare i Trionfi di Cesare. I disegni Mantegna, pochi lo sanno, fu un autentico maestro del disegno. Sono diverse centinaia le incisioni, le punte secche e i bozzetti preparatori eseguiti di sua mano o a lui attribuiti e giunti fino a noi. Purtroppo altre centinaia di studi sono andati perduti. Ci sono pervenute, per fortuna, numerosissime copie eseguite dai suoi 35 allievi e da importanti maestri, anche stranieri. A proposito di maestri, questa volta italiani, dobbiamo ricordare che disegni per secoli attribuiti a Raffaello e a Andrea del Castagno si è recentemente scoperto essere opere di Mantegna. Per quanto concerne le punte secche e i bozzetti di piccola e media dimensione Mantegna era un esecutore che si esprimeva in grande. Quante volte, osservando le riproduzioni dei suoi disegni stampate su libri d’arte, rimaniamo sorpresi nel constatare che si tratta di opere che nell’originale misurano pochi centimetri. Giureresti di trovarti di fronte a un disegno come minimo di un metro e mezzo di altezza. L’inganno nasce proprio dalla particolare espressione grafica del Mantenga. A questo punto mi son detto: “Proviamo ad ingrandire uno di questi disegni, come se fosse un cartone”. E così ho trasposto un normale disegno su un grande foglio, di dimensione quindici volte maggiori, come si fa in scenografia quando si sviluppano i progetti dei fondali. Il risultato è stato davvero stupefacente. Potrete sincerarvene di persona visitando la mostra dei settanta cartoni esposti qui a Mantova, nel tempio di Leon Battista Alberti. La discesa di Gesù agli Inferi Il disegno è di gran lunga più drammatico rispetto al dipinto. Qui vediamo Gesù Cristo di schiena che ha appena sfondato la porta 36 dell’Inferno. L’inferno è cancellato, non c’è più. Cancellato è quindi non solo il peccato originale, ma ogni colpa, il concetto primo del castigo sul quale si fonda l’idea di un certo Cristianesimo. “Liberi tutti!”. Dicevamo che Gesù ci mostra solo le sue spalle, non si vede il suo viso, la carica espressiva e drammatica è prodotta dal movimento del panneggio e dall’atteggiamento di tutto il suo corpo. Nel disegno in totale vediamo Adamo ed Eva insieme ad altri dannati che escono dal fondo sotterraneo, storditi, increduli per quello che sta succedendo. Cristo cammina sul portone appena abbattuto. La storia qui illustrata proviene dai Vangeli apocrifi e la troviamo prodotta in pitture e sculture addirittura del nono e decimo secolo. Più tardi intervenne la censura che cancellò la liberazione dal peccato. E cambiò il titolo da discesa agli Inferi in discesa al Limbo, che è molto più gentile. TRIONFI Mantegna ha cinquantacinque anni quando nel 1486 su invito di Francesco Gonzaga inizia a dipingere le grandi tele dei Trionfi di Giulio Cesare. Quest’opera per secoli appresso fu considerata insieme all’Ultima Cena di Leonardo e al giudizio universale della Sistina il più importante dipinto del Rinascimento. 37 Il marchese di Mantova, da poco ingaggiato come condottiero dalla Repubblica di Venezia, voleva con quella serie di nove grandi dipinti (tre metri per tre) esaltare l’impresa dell’imperatore romano e nello stesso tempo glorificare se stesso. I dipinti divennero subito famosi. Principi e intellettuali illustri arrivavano appositamente a Mantova per visitarli. Le opere furono concepite in gruppi di tre. Dopo tre anni il primo ciclo di tre si interrompe: Mantegna abbandona Mantova per recarsi a Roma. Si trova evidentemente in polemica con il suo committente che tardava a pagarlo. Rimane a Roma per più di due anni, intento ad affrescare la cappella privata del papa, della quale non conosciamo nulla dal momento che nel Settecento verrà abbattuta l’intera costruzione per lasciar posto a un altro progetto. Questo ci dice della brutalità e dell’indifferenza con cui venivano trattate opere di enorme valore da parte dei principi, sia del regno di Dio che di quello degli uomini. Tornato a Mantova, viene sollecitato a riprendere a riprendere la serie dei Trionfi. Ma il pittore ha già trovato ingaggi presso altri committenti per altre opere. Rimanda. Promette che a tempo debito concluderà la sua opera. Approfittiamo di questa pausa per descrivere e commentare le prime tre tele dei Trionfi. 38 Cominciamo con Cesare sul carro. Notiamo che la scena è pervasa da una calma solenne. L’imperatore sul carro del trionfo se ne sta seduto come in attesa che il corteo si muova. Ha l’aria stanca, annoiata e il suo atteggiamento non ha niente di trionfale. Sta lì, come un attore che suo malgrado è costretto a recitare la parte. Dietro a lui un giovane alato, evidentemente l’allegoria della Fortuna, sta per incoronare il vincitore che indossa la clamide d’oro. Il giovane si arresta volgendo il capo verso il retro, come se qualcuno l’avesse chiamato con un ordine: “Fra poco si parte!” Nella stessa direzione guarda anche un altro ragazzo che scopriamo ritto presso il cavallo. Indossa una corta tunica che gli lascia nude per intero le gambe. Porta una vistosa collana. A sottolineare lo stallo della parata, ecco che fra le gambe del giovane portatore di stendardo appaiono tre bambini tutti ignudi che brandiscono fronde, forse d’alloro. Uno dei tre putti spunta fra le stanghe del carro e la zampa del cavallo. Nelle descrizioni di Plinio e Flavio Biondo riguardo i trionfi non appaiono mai i ragazzini. Questa quindi è l’immancabile invenzione di Mantegna. Un altro elemento scenico completamente inventato è l’arco di trionfo che fa da fondale al carro di Cesare. Infatti a Roma non esiste un monumento del genere, adornato sul fregio da una folla 39 statuaria, dove appaiono Dioscuri e personaggi di eroi disposti come in una enorme bancarella d’antiquariato. In prossimità del ginocchio di Cesare una grande face è già accesa. Questo vuol dire che sta per fare scuro. Infatti sulla sinistra si intravede il cielo, solcato all’orizzonte da una luce dorata. In alto le nubi sono scure, come se si preannunciasse un temporale. È già la tempesta di Giorgione? Nella volta dell’arco spunta una enorme mano d’oro spalancata: è un’immagine allegorica del potere ma anche metafisica, come ne troveremo in gran numero in tutti gli altri dipinti del Trionfo. La sfilata dei senatori Questo è il progetto della tela supplementare che il pittore pensava di collocare immediatamente dopo la prima, quella di Cesare annoiato sul carro. La tela in questione, detta dei “senatori”, di cui possediamo solo un disegno preparatorio e alcune incisioni, non fu mai eseguita. Il disegno è realizzato con eleganza ed espresso con una grafica eccezionale che preannuncia il “segno” di Raffaello. Osservando i personaggi che compongono la teoria degli altolocati, ci rendiamo subito conto che Mantegna li veste con abiti riccamente drappeggiati che alludono sia al costume romano che a quello rinascimentale. Anche in questa scena Mantegna non può 40 fare a meno di inserire un ragazzino che si trova quasi schiacciato fra le natiche di un ministro obeso e il ventre del giovane assistente. È inutile chiederci che cosa ci stia facendo lì quel bimbo che a sua volta indossa vesti di foggia romana lunghe fino ai piedi: si tratta di una delle classiche annotazioni ironiche che abbiamo visto puntualmente affiorano nei dipinti del Mantegna. Non s’è mai visto un bambino senatore. Si ricorda un cavallo senatore… ma un bambino mai! Lassù nel palazzo si aprono due finestre alle quali si affacciano dei ragazzini: hanno l’aria di essere imprigionati o perlomeno esclusi dal rito. In coda al gruppo ci sono dei soldati che calzano pettorali di bronzo scolpito, simili a quelli disegnati da Piero della Francesca negli affreschi di Arezzo. Notiamo che il primo soldato al posto della lancia ha impugnato un lungo ramo con fronde d’ulivo, cioè un palese segno di pace. Ma, se con la destra regge l’ulivo, l’altra mano stringe l’impugnatura di una lunga spada. Ancora, tutto intorno si rizzano lance e alabarde fitte come getti di un canneto. Ed ecco di nuovo la satira! Si va alla guerra ma per portar la pace… Vi dice qualcosa questo motto?! È un moto imbecille ma di grande attualità… Per inciso c’è chi arrischia che questo dipinto sia stato in verità eseguito, ma poi tolto dalla sequenza per ordine del committente, 41 Francesco Gonzaga in persona, giacché quei senatori, come racconta Tacito nella sua cronaca, erano in gran parte avversari dello stesso Cesare e lo trucidarono con un eccessivo numero di pugnalate: trentadue! che spreconi… Insomma, quel capitolo non era proprio di felice augurio. Terza tela, dedicata ai musici e portinsegna. Il gruppo degli orchestrali è composto da un suonatore di cetra che apre la sfilata. Subito appresso vediamo un flautista moro che suona e danza sollevando a ritmo le gambe. Ci ricorda uno dei tre Re Magi, Baldassarre. Come nel Vangelo apocrifo dedicato al primo miracolo di Gesù Bambino – io l’ho recitato per centinaia di volte – il Re Magio nero è l’unico dei tre che seduto sul suo cammello canta felice creando fastidio e ira negli altri due che urlano “Bastaaaa!!!!” e lui imperterrito riprende: “Oh che bel che bel che bel che l’è andare sul camel… (canta a soggetto)” Come abbiamo già accennato, Mantegna dopo le prime tre tele dei Trionfi si arrestò e, se pur sollecitato, non si decideva a concludere il lavoro. Sappiamo che nel 1488 Mantegna si reca a Roma dove rimane per più di due anni, intento ad affrescare la cappella privata del Papa, di cui non conosciamo quasi nulla dal momento che nel Settecento 42 verrà abbattuta l’intera costruzione per lasciar posto a un altro progetto. Questo ci dice della brutalità e dell’indifferenza con cui venivano trattate opere di enorme valore da parte dei principi, sia del regno di Dio che degli uomini. Ritornato definitivamente a Mantova (siamo nel 1490), noi pensiamo che abbia deciso di sospendere per qualche tempo il progetto dei Trionfi, anche per protestare contro il mancato pagamento dello stipendio da parte del duca. Quindi è costretto a ritrovare altri committenti: cosa che non gli è difficile, viste le innumerevoli richieste. Ma improvvisamente dopo qualche anno riprende a dipingere una dietro l’altra le sette tele mancanti, ma con linguaggio e intenti completamente trasformati. Che cosa lo ha indotto a questa straordinaria decisione? Un evento tragico che ha sconvolto l’intiera penisola e coinvolto molti paesi d’Europa: la battaglia di Fornovo, che ha visto lo scontro di due potenti eserciti ai piedi dell’Appennino toscoemiliano, non lontano da Parma, e che Mantegna ha vissuto da spettatore di prima fila, coinvolto, dolente e sdegnato. Ma seguiamo la cronaca dei fatti. Per ogni guerra c’è sempre un movente e un interesse, per non dire rapina, in terre e denaro. Anche il nostro conflitto è mosso da 43 questo pretesto. Carlo VIII, giovane re di Francia, scende in Italia per raggiungere Napoli. Ha scoperto che gli Angiò da cui discende furono i reggenti di quelle terre e se le vuole riprendere. La passeggiata, come lui l’aveva chiamata, è piuttosto facile. Raggiunge Genova, prosegue per Firenze che in quel tempo ha cacciato i Medici si è data un orientamento repubblicano. Da ogni città il re pretende versamenti onerosi di tangenti. A Firenze va in scena lo scontro tra Carlo VIII e Pier Capponi, rappresentante del popolo. Lo ricorderete tutti: il re che minaccia “Noi suoneremo le nostre trombe” e Pier Capponi che risponde: “ E noi suoneremo le nostre campane”. Lo scontro musicale finisce con un accordo. I fiorentini otterranno la libertà a fior di fiorini. A migliaia. Carlo VIII raggiunge Napoli, si fa incoronare re. Ma i napoletani, dopo una prima accoglienza carica di simpatia, accortisi che i Francesi badano a far bottino spogliando magazzini e palazzi – manco fossero Turchi! – si trasformano in ospiti ostili. Urlano “Vatténne ladrone”. Si mette male… Per di più Carlo viene a scoprire che Venezia, la Spagna, l’Austria, il Papa e Ludovico il Moro si sono uniti in una coalizione con lo scopo di costringerlo a sloggiare e tornarsene da dove è venuto. È la solita pantomima all’antica italiana: prima tutti gli staterelli in coro, con in testa il Papa, lo applaudivano, mo’ lo spernacchiano. Carlo e il suo potente esercito decidono di far fagotto. Il 20 maggio 1495 lascia 44 Napoli e risale la penisola. Con sé porta i regali ottenuti durante la discesa e soprattutto i “trofei” di cui s’è impossessato in loco. Quindi raggiunge l’Appennino tosco-emiliano e discende verso Fornovo dove trova ad attenderlo l’esercito “degli italiani” affiancato dagli austriaci e dagli spagnoli. La possente armata è agli ordini di un condottiero a noi familiare: il duca di Mantova Francesco Gonzaga. Il re di Francia ha lasciato metà dell’esercito a Pisa. Grave errore! Ora si ritrova dimezzato, di forza ma non di coraggio. Infatti scende la valle attaccando. È un massacro da entrambe le parti: più di tremila morti. I cronisti del tempo di volta in volta esaltano la vittoria dei Francesi o il trionfo della Lega italiana, comandata da Francesco Gonzaga che nella battaglia si è ben distinto, coadiuvato dallo zio Ridolfo, che però c’ha lasciato le penne. Nella fuga i francesi hanno abbandonato il loro straripante bottino sul campo. La lotta per impossessarsene è l’unico momento epico di tutta quella guerra. Tornato a Parigi il re molto nervoso attraversa un corridoio con impeto regale e va a sbattere la fronte contro lo stipite traverso di una porta. Muore sul colpo! E dire che i suoi soldati lo chiamavano “l’ariete”! 45 A sua volta Francesco Gonzaga, ritenuto dagli italiani il vincitore, va via di testa. Si lascia travolgere dai festeggiamenti e dalle numerose offerte d’ingaggio come conductor maximus alla testa di armate veneziane o papaline a scelta. Finalmente oltre la gloria comincia a circolare anche il denaro! Mantegna riceve un grosso anticipo per il suo lavoro, il che lo induce a ritornare alle tele del Trionfo. Quello scontro con morti e saccheggi lo ha caricato di forza e indignazione. Affronta la prima nuova tela, la quarta della serie. Sceglie un argomento altamente provocatorio. Quello è il tempo in cui Isabella ha raccolto intorno a sé una grande compagnia di attori, la prima di valore professionale della storia del teatro. Questa è la scena dove appaiono prigionieri e comici. Notiamo subito che questo dipinto esprime qualcosa di molto singolare. Essendo questa processione organizzata per glorificare Cesare o, per trasposizione allegorica, le gesta guerresche del marchese Gonzaga, condottiero di eserciti, ci aspettiamo a proposito del titolo “I prigionieri” di veder sfilare incatenati guerrieri sconfitti e catturati in battaglia. Ma non è così. I prigionieri, che a loro volta sono in attesa che il corteo si muova, sono cittadini, uomini e donne, con i loro pargoli anch’essi in catene. Uno di loro, personaggio stimabile, tiene in 46 capo una specie di zucchetto o papalina, classica del costume ebraico. È inutile ricordare che nei secoli dell’Umanesimo in ogni città italiana gli ebrei erano costretti nel ghetto e spesso brutalizzati dai vari tribunali religiosi, spogliati dei loro beni e della loro dignità. Per inciso va ricordato che Isabella d’Este, sposa di Francesco Gonzaga, aveva imposto che gli ebrei vestissero di giallo e verde, colori della loro mortificazione. Infatti questi sono i colori dominanti negli abiti dei prigionieri. Le femmine costrette in catene sono quattro e alcune di loro sfoggiano acconciature esotiche. Nel bel mezzo del gruppo, in primo piano, c’è un bambino. Il piccolo “prigione” regge un fiore. È posto quasi di schiena, ma la sua faccia è girata verso di noi che lo guardiamo e i suoi occhi ci scrutano proprio come osservassero il pubblico che lo sta a guardare. Chi può dimenticare la foto del bambino ebreo polacco catturato dai nazisti? È vero… il tempo spesso si ferma. Sopra il gruppo nel palazzo si apre una lunga finestra chiusa da sbarre. Fra le grate si intravedono un’altra volta visi di ragazzini. Anche loro prigionieri. È l’ossessiva memoria del piccolo Mantegna che ritorna alla propria infanzia da coatto. 47 Nel centro del dipinto su un’asta in bella vista vediamo issato il cartello che ci avverte: S.P.Q.R., il senato e il popolo di Roma. Chi ci vede un’allusione satirica non è un maligno. Visitando la mostra, uno degli amici che mi accompagnavano si è stupito e mi chiesto: “Ma come potevano i principi non cogliere i doppi significati della rappresentazione di Mantegna?”. Come diceva Machiavelli che in quegli anni stava già pensando al Principe: “La vanagloria dei potenti li rende ciechi. Il loro palato e l’udito non assaporano né odori sgradevoli né suoni stonati. Non avvertono nemmeno lo spernacchiare delle trombe contro i loro orecchi, ubriachi come sono di possanza”. L’altra metà del gruppo che segue è composta da commedianti e clown. Uno di essi, un giullare con il classico costume di maschera da commedia dell’arte a larghe strisce, guarda a sua volta verso di noi, che siamo il suo pubblico, con gesti buffoneschi. Davanti a lui, piegato su se stesso, c’è un uomo-scimmia, che sembra alludere all’homo selvaticus, classica maschera della Padania di quel tempo. In posa elegante c’è un giovane, in abbigliamento da valletto, che regge una lunga asta sulla quale è issato un elmo che presenta sulla cima un uccello mitico con la faccia da donna. Poco più sotto spunta il volto di un attore barbuto, che calza a sua volta un elmo con grande pennacchio. Si tratta sicuramente di un 48 personaggio di rappresentazione teatrale epica, forse il protagonista di una tragedia. In basso scorgiamo un cagnolino, affiancato da un bimbo trattenuto da una vecchia, forse la nonna. Il bambino tenta di sollevare le braccia verso la madre nel gesto di montarle in grembo e afferrarle i seni. La giovane madre con l’altro braccio tiene stretto al petto un altro bimbo da allattare e mostra due seni turgidi e nudi. Dietro a lei si notano tre giovani donne con strane capigliature di foggia orientale, proprie della commedia. Tutto il fondo è solcato da rami di ulivo, che ricamano il cielo ancora attraversato da nubi che minacciano tempesta. Abbiamo detto di Isabella e della sua passione per il teatro. Una passione che diede i suoi frutti… Infatti Mantova continuò a sfornare autori e compagnie di comici. Fra questi Tristano Martinelli e Teofilo Folengo. Martinelli fu il primo a calzare l’abito del più famoso personaggio teatrale di tutti i tempi… stiamo parlando di Arlecchino. Folengo fu l’inventore del linguaggio maccheronico, un grammelot composto da latino e dialetto, che influenzò addirittura Rabelais. (esegue accenno a grammelot) e che suonava più Uptis fauces nàmite mi a ti, ti a mi… cavérna suscrìtto fémine bèle gràse lunghe pìcole… E va’ a cagà! 49 È la prima volta che nel Quattrocento un pittore presenta un’intiera famiglia di comici, preannunciando il Ruzzante e la sua compagnia che nella vicina Padova di lì a poco daranno inizio al più grande teatro italiano di tutti i tempi. Una compagnia dove le donne, come qui le si presenta, sono salite in palcoscenico a sostituire i femminielli o mariuoli del teatro medievale. Inoltre, in questo straordinario dipinto, viene ricordato il rito introdotto dalle prostitute del porto di Venezia che, all’arrivo delle navi, mostravano ai marinai le proprie zinne nude, a testimoniare che non si trattava di travestiti ma di autentiche femmine. “Prego: provare per credere!” Quinta tela: i portatori di bottino e di trofei In questo dipinto ci rendiamo conto immediatamente che, rispetto ai primi Trionfi, ogni enfasi retorica, pur leggera, è completamente sparita. Più che a una marcia trionfale assistiamo piuttosto a una fuga di briganti che hanno appena saccheggiato ville e palazzi e si stanno in tutta fretta allontanando dalla città per darsi ai campi. Il loro aspetto e gli abiti che indossano non hanno niente di marziale. Non si tratta di soldati di un esercito di professione e nemmeno di ventura. Fan parte di bande arraffanti che seguono i combattenti alla sola ricerca di bottino, pronti dopo ogni strage a spogliar 50 morti. Infatti fra di loro uno solo porta una spada, fuori ordinanza, certamente rubata. I primi malnati, pur caricati di refurtiva come facchini, cercano di tenere un’andatura sostenuta, ma alle loro spalle due compari stanno crollando sotto il peso di corazze, elmi e spade infilzati sulle pertiche. Uno strano mobile simile a uno sgabello, carico di vasi d’oro e di bronzo di gusto fiorentino, è retto dai primi quattro ladroni. Da quella specie di portantina pendono collane con diademi di grande valore e in cima al cumulo della refurtiva un vaso di certo gremito di monete d’oro. L’allusione allegorica ai saccheggi di Carlo VIII è del tutto evidente. Notiamo che tutte le corazze issate sulle pertiche sono mozzate di netto all’altezza delle reni. Questo particolare ci assicura che Mantegna le ha volutamente copiate da quelle in uso nelle rappresentazioni teatrali, giacché l’espediente di dividere il pettorale dal ventrale permetteva una maggior rapidità nella vestizione degli attori. Questo particolare è molto importante, poiché ribadisce l’intento da parte del Mantegna non tanto di rifarsi scrupolosamente alla realtà obiettiva e storica, ma piuttosto di rappresentarla. Come in 51 uno spettacolo teatrale, dove i personaggi recitano parti che alludono criticamente alla cronaca dei fatti. Per finire facciamo caso alle bandiere che sono issate ma arrotolate all’asta per evitare che sbattano per il vento. Un vento che pare proprio di sentire fischiare fra le armi e gli uomini e scuote l’un contro l’altro vasellame e armamentari, provocando un frastuono da mercato di pentole e padelle, nelle fiere di paese. A sto punto, come si usa dire nell’ambiente del cinema: Avanti con gli elefanti! (a soggetto Dario recita del capo organizzazione che chiede di girare piccola scena) Infatti qui, nella sesta tela, un folto gruppo di quei pachidermi invade la scena. Rimaniamo subito sorpresi per la precisione con cui sono rappresentati: il movimento delle possenti zampe, le proboscidi, la testa, le grandi orecchie… tutto è descritto con un realismo non comune. Ma dove li ha visti Mantegna sti elefanti? Non è il solo ad averli disegnati in quel tempo: suo cognato, il Giambellino, e Raffaello ne hanno disegnati alcuni con precisione vedendoli nei giardini, l’uno del doge, l’altro del Papa. Ma l’idea di far sfilare quegli enormi animali non è una trovata visionaria del pittore. Gli è stata suggerita da Svetonio che nella sua cronaca racconta di come Cesare trionfante ascendendo al Campidoglio fosse affiancato da due teorie di elefanti. Ma noi ormai sappiamo come Mantegna decidesse per proprio conto di 52 servirsi delle testimonianze antiche e soprattutto come le utilizzasse spesso, esaltando o buttando in satira le fonti. Andrea Mantegna impostava i suoi dipinti, usufruendo di più di un livello di rappresentazione. Nel nostro caso in superficie poneva il rituale dei trionfi, ma fra le righe faceva trapelare situazioni e argomenti in forte contrappunto. In quest’ultima tela che stiamo osservando gli elefanti irrompono potenti, come in una battaglia. Ci viene subito in mente la vittoria di Pirro e ci assale il forte dubbio che attraverso quella memoria storica si voglia ironizzare sul risultato dello scontro di Fornovo, dove entrambi i contendenti si proclamarono vincitori, per rendersi conto alla fine che, come dice Shakespeare, molti eroi in quella battaglia hanno guadagnato solo il fazzoletto di terra nel quale sarebbero stati sepolti. Molte volte nel suo sarcasmo Mantegna gioca con la metamorfosi, usando degli animali per irridere gli uomini. Infatti qui a precedere la mastodontica sfilata troviamo un toro, addobbato per il sacrificio, con le corna pitturate d’oro e in capo una specie di cappello da vescovo. Un lazzo buffonesco? Di sicuro! Basta osservare la camminata imponente dell’animale, da cavallo in parata. Quasi che, compreso nel suo ruolo sacrificale, il toro esaltato voglia comunicare al pubblico: “Fra poco mi 53 sgozzeranno, ma sarò arrostito sulla brace per la gloria di Cesare, mica per farne bistecche e cosciotti!” A concludere con uno sghignazzo verso l’imponente trionfo, Mantegna sistema nell’angolo destro del dipinto una pecora che viene montata da un ariete. Si allude al fatto che i trionfi passano, resta solo la vita, fatta di semplici rituali. Sollazzo triviale ma anche un prepotente ritorno al naturale, lo snaturale di Ruzzante. Settima tavola: Portatori del bottino, con tori sacrificali e trombettieri Qui Mantegna esegue un trompe d’oeil davvero singolare. Il cielo è solcato diagonalmente da numerose trombe, ma noi scorgiamo solo un solo trombettiere dalle gote rigonfie per lo sforzo di soffiare. E tutte le altre trombe chi le suona? Suonano da sé sole? Forse appena di là del limite del quadro sta nascosta la banda al completo. Con Mantegna l’assurdo è sempre dietro l’angolo. Lassù, in capo alla collina, ci sono delle costruzioni, addirittura un Colosseo abbandonato, invaso dalle gramigne. Più sotto un’altra costruzione imponente sta crollando, proprio nel momento in cui si celebra il Trionfo. Questa sì che è metafisica! Eppure sono in pochi i ricercatori che si rendono conto di questa follia. Così come evitano di sottolineare la figura che sta proprio 54 nel centro del dipinto e che descrive un portatore di bottino che si è letteralmente abbrancato un grande vaso finemente scolpito e lo stringe a sé con un abbraccio appassionato, quasi si trattasse della sua donna o di una splendida femmina rapita nel saccheggio. Il gaudente vasaio presenta un viso quasi caricaturale: un grosso naso e un mento che sorpassa il naso stesso. Si tratta evidentemente di un personaggio ben conosciuto che qui viene posto alla berlina per certa sua evidente bramosia di vasellame quanto di glutei e fianchi di femmine. Ottavo: i carri trionfali Ecco finalmente un cavaliere: in proscenio appare un giovane uomo a cavallo che regge l’asta di una bandiera di seta rossa che il vento spinge a disegnare strani ghirigori nel cielo. Un cielo sempre più buio. Stavolta la tempesta sta proprio per scatenarsi. Il cavaliere impettito discute animatamente con un fante, armato di lancia e spada. Anche il fante discute, cerca di trattenere il cavaliere che imperterrito come il suo destriero è deciso a proseguire. Seguono uno appresso all’altro, issati su pali, cartelli con scritte inneggianti al condottiero e alla vittoria. Anche qui, nessuno li regge, vengono avanti da soli… per moto proprio. Sotto i cartelli avanza il bottino, anzi è fermo, statico come le molte statue di cui è composto. 55 In mezzo a tanti volti scultorei fa capolino una coppia di facchini: in due soli reggono una quantità di teste scolpite, insegne, busti ed elmi, pezzi d’armatura in gran quantità. Qui Mantegna sembra voler alludere a un numero stupefacente da circo equestre. Lassù in alto, ecco la base circolare di una cupola che s’affaccia nel vuoto, come un pulpito a getto. Non scorgiamo manco un pilastro che la regga: una cupola rotante sta prendendo il volo? Addosso alla città sembrano crollare frammenti di strutture sconnesse: grossi pali, pilastri, trabeazioni divelte. La responsabile dello sfondamento è una prepotente testa d’ariete che ha sfondato la città e sembra puntare dritta verso una lampada, dalla quale escono fiamme alzate dal vento. Nero è il cielo. Forse le raffiche di vento affogheranno il fuoco e, come dice il Belli: “Se spegneranno li lumi e bona notte! Bona notte alle guerre, bona notte a li saccheggi, a li pernacchi de trombe, al batter di tamburo. Zitti, silenzio, anche pe’ te, silenzio pe’ tutti. Sta pe’ arrivà er giudizio de’ Dio. Véne? Arriva el Signore? No’ véne? Cristo! Ce hanno bugggeràto n’altra volta!” Calma, noi non siamo ancora al giudizio, ma siamo sotto finale. No, non sto parlando dell’effetto serra e degli uragani. Sto parlando delle due ultime tavole dei Trionfi. I portatori di trofei 56 Guardate: è già una catastrofe. Dal cielo stanno franando scudi, corazze, elmi, trofei d’ogni genere, vasellame prezioso. Per un attimo sembra che tutta questa mercanzia ammassata stia lassù sostenuta da aste. Ma è solo un’impressione, anzi un’illusione visiva. C’è il trucco. Sotto quell’imminente e fracassosa cascata vediamo giovani di bel portamento che indugiano in posa e atteggiamento assente. Tutti presi come sono ad apparire, non si curano di ciò che si preannuncia. È il rito che conta, il sembrare, non l’essere. Lassù nel cielo è apparso un volto fatto di nuvole. È un volto attonito, ammutolito per ciò che sta accadendo, stupefatto per l’ottusa indifferenza degli uomini, presi solo dal loro vacuo gigioneggiare. È un’allegoria chiara, lampante, di grande attualità. E siamo finalmente all’ultima scena: trombettieri e portatori di insegne. Tutto il dipinto è solcato in verticale da aste che reggono cerchi incatenati, drappi e tele dipinte con immagini di città, mura, torri, baluardi ed eserciti all’attacco e sopra combattenti che rigettano gli aggressori. È la prima volta che Mantegna ci offre l’immagine di una enorme battaglia. Sembra proprio che gli attori dell’ultimo dipinto siano ben consci di recitare il gran finale, tant’è che stanno dandoci dentro con foga 57 inaudita. I suonatori di trombe soffiano fino ad esplodere, i reggitori di insegne spingono in alto i loro simboli con slancio; c’è anche un protagonista di colore, tanto per fare esotico, che posa in bella figura. Un guerriero visto di schiena si appoggia all’asta e si arresta e riprendere fiato. Fra i buchi del gran bailamme si scorgono brandelli di cielo… dell’ultima luce. Questa serie di splendide tele è chiamata da qualche studioso l’opera invisibile, poiché da quando agli inizi del Seicento fu acquistata da Carlo I non è mai uscita dall’Inghilterra. Quindi solo coloro che si sono recati a Londra nel palazzo di Enrico VIII, Hampton Court, hanno avuto la possibilità di ammirarli. Perciò noi abbiamo organizzato un’operazione veramente folle. Pur di vederle ritornare da noi, abbiamo riprodotto con tecnologia molto avanzata quelle dieci tavole, le abbiamo restaurate e oggi le presentiamo qui a Mantova nel tempio di San Sebastiano. Abbiamo detto restaurate e aggiungiamo: non solo abbiamo rifatto volti, corpi e cieli danneggiati, ma anche i piedi. Avete capito bene: piedi! Poiché quando gli inviati di Carlo I vennero qui nei primi del 1600, denaro contante alla mano, ad acquistare l’intiero ciclo, in un primo momento il duca di Mantova, anche lui Carlo I, 58 Gonzaga, tergiversò. Quindi rifiutò il contratto, poi ci ripensò e chiese un grosso anticipo: “Pagate e portatevi via in fretta questa quadreria. In fretta, prima che ci ripensi!”. Preoccupati che davvero il duca ci ripensasse, gli inviati inglesi si diedero da fare per staccare rapidamente i dipinti dai rispettivi telai. Purtroppo i bordi col tempo si erano incollati alle aste, non restava che tagliarli. Servendosi di lame a rasoio, segarono letteralmente la tela, proprio in basso e in alto, mozzando anche i piedi dei personaggi. Noi abbiamo ridato vita e piedi ai dipinti! A questo punto pretendiamo che tutti vi alziate in piedi e cantiate insieme a me l’Inno di Mameli. Abbiamo restituito all’Italia quello che la perfida Albione ci aveva portato via, proprio come dei briganti! (accenna attacco musicale dell’Inno di Mameli). L’avete imparata, con tutte le partite cui avete assistito! Ma il particolare che viene subito in evidenza osservando queste riproduzioni è la scoperta che finalmente tutti i personaggi che appaiono in primo piano a figura intiera sono muniti di piedi. Al contrario nei nove dipinti originali assistiamo a una vera e propria decapitazione d’arti, o meglio una “depedicazione”… Che cosa è successo? La terribile amputazione podalica deve essere stata messa in atto esattamente all’arrivo dei dipinti in Inghilterra. Le tele, onde facilitare il trasporto come succedeva 59 quasi sempre, erano state tolte dalle tavole su cui erano stese, quindi arrotolate su se stesse. Giunte a Londra, si sono approntati supporti e rozzamente i fondi delle tele sono stati inchiodati sui bordi dei telai. I responsabili non si curarono più di tanto del fatto che così i piedi dei personaggi si sarebbero trovati rivoltati sotto la cornice. Col tempo naturalmente quelle strisce di pittura intrappolate si sono definitivamente perdute. Nell’eseguire le copie dei Trionfi di Andrea Mantegna, noi, grazie all’apporto degli allievi dell’Accademia di Brera, ci siamo preoccupati di ricostruire la tela ripristinando le parti mancanti; finalmente i protagonisti dell’allegoria epico-satirica di Mantegna riavranno i loro piedi! Abbiamo letto e studiato decine di saggi e testi sull’opera in questione e ci siamo stupiti del fatto che nessuno degli autori e ricercatori da noi incontrati si sia accorto di queste evidenti mutilazioni del dipinto. Ma non c’è da farsi gran che meraviglia, giacché ormai ci siamo da tempo assuefatti alla distrazione paradossale con cui specie i grandi studiosi trattano particolari determinanti alla lettura e alla comprensione delle opere che stanno esaminando. Le tele finali dei Trionfi sono state eseguite nel 1505, anzi pare che Mantegna le stesse ultimando ancora l’anno successivo, poco prima di morire. 60 Quindi ha impiegato complessivamente venti anni per realizzare questo straordinario capolavoro pittorico. Ma a questo punto, prima di concludere, dobbiamo fare un passo indietro di almeno dieci anni, cioè dal 1506 al 1496. Come abbiamo già detto, negli anni 1492-1495 Mantegna si trova a Roma intento a dipingere gli affreschi per la cappella del pontefice Innocenzo VIII, con il quale i rapporti si erano deteriorati a causa del contratto a strozzo che il pittore aveva dovuto subire. A Mantova intanto moriva Federico Gonzaga, “il più amabile gobbo che si vedesse mai”, succeduto a Ludovico, il primo grande mecenate di Mantegna. Il giovane e sfortunato principe era amato dalla intiera popolazione di Mantova per il suo gusto pratico del lavoro industriale e per la sua correttezza e abilità nel trattare gli scambi commerciali. A lui successe Francesco, detto L’allegro, di bello e sano aspetto, appassionato amante di feste e tornei, intenzionato a far fortuna come condottiero d’eserciti. Costui aveva conosciuto, l’anno prima, la rampolla più preziosa degli Estensi, figlia di Ercole d’Este duca di Ferrara e di Eleonora d’Aragona, Isabella, che in quei giorni compiva 15 anni. Una ragazzina di intelligenza e cultura straordinaria, allevata allo studio da illustri maestri. Forse la donna rinascimentale di maggior talento e sapienza. 61 Conosceva greco e latino, si interessava d’arte e scienza ed era di bello e vivace aspetto. I due ragazzi s’innamorarono con la benedizione dei rispettivi augusti genitori. Quando Andrea Mantegna tornò da Roma trovò a Mantova il nuovo marchese Francesco l’Allegro che s’era appena sposato con Isabella. La giovane signora fece molto effetto sul pittore e soprattutto egli fu sorpreso dal festoso benvenuto che la ragazza gli dedicò. Il pittore unico della corte dei Gonzaga temeva però che quell’accoglienza eccessivamente festante nascondesse il progetto di declassare il suo prestigio nella corte stessa, chiamando a Mantova altri architetti e pittori quali suo cognato il Giambellino, i Ferraresi e qualche toscano di gran talento. Intanto Isabella d’Este posa per lui. Pare che la duchessa non avesse per niente apprezzato quel ritratto oggi sparito. Non ci meraviglierebbe scoprire che la duchessa stessa avesse nascosto o addirittura distrutto la tela. Ma, a parte l’episodio del ritratto, Isabella provava enorme ammirazione per il pittore dei Gonzaga. E questa considerazione era ricambiata da Mantegna che ascoltava e seguiva i suoi progetti, le sue idee veramente affascinanti sulla filosofia, la pittura e il teatro. 62 Isabella aveva letteralmente affascinato la corte di Mantova dove vivevano uomini illustri di gran gusto e sapienza. Tra i più famosi eruditi che sempre l’accompagnavano ricordiamo Raffaele da Volterra e Lorenzo Valla, studioso quest’ultimo di lingue antiche del Medio Oriente e grecista di fama. Il linguista scopre che il famoso “lascito” di Costantino del iv secolo d.C. redatto in lingua greca, con il quale l’imperatore avrebbe concesso alla Chiesa beni, territori e diritto all’usufrutto di possedimenti pubblici, era da ritenersi un falso smaccato e per di più inventato in tempi recenti. Una truffa spudorata, con la quale vescovi, cardinali e papi da secoli si godevano vantaggi e interessi, nonché titoli esorbitanti! Ma come è arrivato Lorenzo Valla a scoprire l’inghippo? Semplice: analizzando da vero scienziato del lessico greco ogni riga e parola del documento. Così scopre che in quella donazione imperiale sono impiegate espressioni greche anacronistiche, sconosciute al tempo di Costantino, nonché svarioni sintattici e lessicali che ne denunciano palesemente la falsità. Esplose uno scandalo che gettò la Chiesa tutta in gran crisi. Sacerdoti e dottori nelle loro cattedrali e monasteri, “una spelonca di ladri” e falsari. L’autore della scoperta, come di consueto, fu letteralmente aggredito dai sapienti della Chiesa cattolica apostolica romana, con la solita accusa di infame eretico. Il comportamento di Isabella fu 63 esemplare: accolse e difese lo studioso proteggendolo con gran decisione, dimostrando di essere una persona di indiscutibile lealtà e senso di giustizia. Il progetto di studi nel quale Isabella si impegnava in modo a dir poco maniacale era la numerologia. L’analisi dei numeri e dei valori sacri e cabalistici fu una disciplina alla quale si dedicarono molti intellettuali del tempo che univano a questa ricerca lo studio dell’astronomia e dell’astrologia. Oltretutto la duchessa era appassionata di teatro: aveva allestito in uno dei suoi saloni un palcoscenico sul quale si esibivano gli attori maschi accompagnati addirittura da donne vere, che sostituivano i normali travestiti. E questo quasi mezzo secolo prima che nascesse la commedia dell’arte. Era lei che dirigeva questa sua compagnia. Oltre che sovvenzionarla, si curava anche dei testi e dell’allestimento, sceglieva musici e danzatori, maschi e femmine. Il Cantelmo, altro erudito della corte dei Gonzaga, ci racconta di uno spettacolo allestito in Mantova da Isabella su una piattaforma scenica molto vasta. Il fondale era composto dalle tele dei Trionfi di Cesare, mentre le ali del proscenio erano costituite da altri dipinti, sempre di Mantegna, che illustravano i Trionfi del Petrarca, oggi perduti. Insomma, non il solito teatrino di corte per pochi intimi, ma una messa in scena davvero maestosa! 64 Abbiamo già capito che Isabella era una donna di grande temperamento, e alta moralità, ma per niente facile nei rapporti con i pittori e gli architetti. Contrattò con il Giambellino un dipinto di tema mitologico per addirittura cinque anni (dal 1501 al 1506). Purtroppo quel suo dirigismo esasperato si rivelò disastroso: appoggiata dalla sua corte di esegeti Isabella voleva imporre oltre al tema della storia anche l’andamento e la collocazione dei personaggi. Alla fine il Giambellino salutò il cognato e se ne tornò a Venezia, portandosi via i bozzetti che andarono immancabilmente perduti. Anche con Lorenzo Costa la mecenate ebbe rapporti critici. Alla fine giunsero a un accordo. Il dipinto per lo studiolo eseguito dal ferrarese è oggi al Louvre. Con Mantegna il gioco della committenza era ancora più difficile anche perché a conclusione di ogni diverbio il padovano accettava le indicazioni di base della “padrona”, ma appresso inseriva varianti sul tema che capovolgevano in gran parte il contesto etico dell’opera. La prima opera importante commissionata a Mantegna da Isabella per il suo studiolo nel 1497, ma molto probabilmente eseguita qualche anno dopo fu Il Parnaso. 65 Partendo a leggere il dipinto da sinistra verso destra incontriamo subito Vulcano, che fa cenni di minaccia verso un ragazzino. Si tratta di Amore che lo sbeffeggia indicando vicino a lui Venere, moglie del dio fabbro-fonditore, che se la spassa con Marte, dio della guerra. Tanto per non aver dubbi, alle spalle di Venere è già pronto un letto a due piazze... La figura di questo nudo ci ricorda subito Tiziano e Giorgione. È il caso di sottolineare che questa Venere rappresenta una delle più belle immagini di donna ignuda di tutto il Quattrocento italiano. Tornando al marito di Venere, Vulcano sta urlando furente verso il ragazzino come se gli promettesse, se riuscirà di acchiapparlo, uno spennamento totale, a cominciare dalle sue ali: “Ti ridurrò come un pollo e ti cuocerò dentro il mio forno, bastardo! Così la pianterai di sculettare intorno e far danni!”. In primo piano, sempre sulla sinistra, vediamo Apollo che suona la cetra con gesto ispirato. Nove Muse danzano seguendo il ritmo del suo canto con un’eleganza straordinaria, caricate di una sensualità del tutto nuova in Mantegna. Subito ci vengono in mente Botticelli e Andrea del Castagno. Esattamente nel centro, la sesta musa pare ci offra il ritratto di Isabella. La sua postura suggerisce una danza pavana in cui il ventre piuttosto gonfio viene spinto in fuori e le natiche a retro fanno altrettanto. Di questa pittura conosciamo il cartone preparatorio. 66 Raccontano i testi greci che al canto delle Muse la terra fremesse per il piacere e come in un forsennato orgasmo sbottassero getti di lava dai vulcani e il terreno, montagne comprese, venisse scosso da sconquassi tellurici di notevole vigore. Nella scena in alto a sinistra vediamo infatti una montagna franare in basso. All’unisono Pegaso, il mitico cavallo alato, batte gli zoccoli sul pavimento della scena e tutto si calma, ritorna la quiete punteggiata da sospiri come in un gigantesco coito interruptus. Qualche attento ricercatore ha voluto leggere nell’urlo canoro della musa Isabella un lamento disperato per i continui tradimenti di Francesco che nell’opera verrebbe rappresentato nei panni del dio della guerra. Venere che gli sta accanto non sarebbe altro che una splendida amante del duca, la favorita, una prostituta per la quale il guerriero avrebbe letteralmente perduto la testa. Tornando a Pegaso, osservate l’espressione dell’ippovolante: l’insieme fra un cavallo e un buffonesco asino, con occhi quasi umani e l’aria da impunito che si fa beffa della sceneggiata a base di tradimenti, tresche e gestualità con canti ricolmi di una carica erotica davvero spinta. È inutile sottolineare che alcuni passi di questo racconto sembrano ispirati alle satire grottesche di Luciano di Samosata. Arrivati qui 67 Lo stesso discorso si può fare per quest’altra tela, dove la paradossale ironia del satirico greco emerge ancora più smaccata e pungente. L’intento di Isabella era quello di produrre un discorso morale esaltante la castità e in contrappunto una feroce fustigazione dei torbidi vizi della società. Ma come abbiamo premesso fra la frusta moraleggiatrice di Isabella e la messa in atto della storia bisognava far sempre i conti con l’indomabile ironia di Mantegna. Nella scena tutta arcate di fogliami intrecciati, Minerva irrompe armata di tutto punto in mezzo a un raduno di personaggi sbracati in atteggiamenti quasi osceni: un fauno ubriaco sollevato di peso e portato fuor di scena dai suoi compagni di bagordi, mostriciattoli che indugiano seccati, una donna con un viso leonino che tiene fra le braccia un bimbo. Dall’acqua in proscenio spunta un centauro e sulla sua schiena sta in equilibrio una fanciulla nuda. Un drappo trasparente le nasconde a malapena il pube. I due sono personaggi mitici cantati nelle Metamorfosi di Ovidio. Si tratta del centauro Nesso, amico e maestro di Ercole e di Deianira, la giovane moglie dell’eroe figlio di Giove. Ercole, impegnato nelle sue sette fatiche, ha affidato la sua sposa al fedele centauro e se ne è andato. I due con grandi sensi di colpa si innamorano. Sembra di assistere a una festosa commedia di sesso e follia, ma purtroppo tutto finisce in tragedia. 68 Sempre immerse nell’acqua fuggono due figure di cui una ha le braccia tronche e più in alto una donna dai piedi caprini si salva trascinando un bimbo a sua volta con zoccoli da satiro e tenendo con un braccio uno stuolo di neonati. Fugge anche uno stormo d’angeli con le ali da libellula. La dea li incalza armata di lancia e scudo. Lassù nel cielo, dentro a una nube fatta a ghirlanda, un gruppo di divinità assiste indifferente e sembra commentare: “Siamo alle solite! Quella bacchettona di Minerva sta scacciando i gaudenti. È il giorno del repulisti morale. Guai dare il potere alle vergini frustrate”. Dietro, alle spalle della dea della castità e del buon costume, appare la figura di Dafne. Apollo ha tentato assatanato di sedurla. Rincorrendo per la foresta quella splendida ninfa, figlia del fiume e dei boschi, il divino infoiato le è quasi addosso, sta per consumare il suo stupro quotidiano. Dafne grida “Padre aiuto!”. Il padre rapidissimo trasforma la figlia in una splendida pianta. Apollo non fa in tempo a frenare il suo impeto e va ad inzuccarsi con un grande schianto contro l’albero dalle fattezze di donna. Satirici e sarcastici del tempo mitico assicurano che Apollo non riuscì a frenare la propulsione erotica del proprio fallo. Il fallo fallò, infilzandosi nel tronco della femmina lignea. L’urlo di 69 Apollo risuonò per le valli, le gole e gli anfratti creando un’eco infinita seguita da vento e tempesta. L’immagine della fanciulla scolpita nel legno è struggente e disperata. Dafne urla ancora, le braccia spalancate ormai tradotte in rami e fronde. I suoi seni davvero turgidi mostrano capezzoli dai quali sono spuntati getti di rami fioriti. Altri getti di tenere foglie stanno nascendo a ornare il corpo della vergine salvata. Sì, salvata dalla violenza di un dio, ma prigioniera in eterno dentro un’armatura di alloro. Un lungo nastro avvolge il corpo ligneo della figlia dei fiumi e dei boschi. Il suo grido non è più di paura per l’amplesso scansato. È di attonita disperazione per quella metamorfosi inaccettabile. Per chiudere, come un sipario sta calando sulla sinistra dall’alto una rupe che il sole sta arrossando nel tramonto. Più di uno studioso si dice convinto che queste due tele, soprattutto il Parnaso, siano state dipinte nei primi del 1500, cioè negli ultimi anni in cui la duchessa Isabella si trovò a soffrire di una situazione tragica. Scoprì che suo marito il condottiero, frequentando prostitute al seguito degli eserciti, si era ammalato di un morbo comunemente detto mal francese o spagnolo. 70 Sembra di vivere la situazione di una commedia tardo elisabettiana, il Trionfo del cavaliere dal pestello fiammeggiante, che racconta appunto di una situazione tragicomica del genere. Fatto sta che Isabella, lei donna tutta propensa a coltivare castità e lotta contro la turpitudine, si ritrova un appestato sifilitico nel talamo nuziale. I due da quel momento vivono forzatamente separati, comunicano scrivendosi lettere. Inoltre Ferdinando, il figlio che fra poco prenderà il comando del ducato, s’è innamorato di una fanciulla deliziosa, moglie di un caro amico della madre, nobile per giunta, che si chiama come lei. Ne nasce una tragedia. Isabella ordina al figlio di cessare la tresca. Il figlio risponde che preferisce lasciare il regno piuttosto che la ragazza. Quasi a vista per il dolore Isabella comincia ad ingrassare. Dopo nemmeno un mese le è impossibile montare le scale che la portano alle sue stanze. Ci prova, rotola dal secondo piano al pian terreno: per fortuna si è fatta così tonda e fornita di amortizzatori che non lamenta nemmeno un bozzo ma è costretta a traslocare dal castello turrito al piano terreno del vecchio palazzo Gonzaga, dove vivrà fino alla fine dei suoi giorni senza gradini e senza scalinate. I ritratti 71 A proposito dei ritratti eseguiti da Mantegna, fin dal suo distacco dallo Squarcione egli godette di grandi elogi da parte dei committenti. Un umanista ungherese, Giano Pannonio, gli dedicò un’ode per l’abilità e la possanza che il pittore aveva saputo esprimere nel ritrarlo insieme all’amico Galeotto da Narni. Mantegna nella sua lunga carriera dipinse, disegnò, scolpì e perfino modellò in cotto e in metalli preziosi un gran numero di ritratti. Fra tanti volti ne abbiamo scelti cinque di una potenza notevole. Il segno è pulito e deciso, essenziale. La positura e l’espressione di ogni personaggio denunciano subito il carattere del modello. Nella faccia barbuta del duca Francesco II scorgiamo immediatamente l’atteggiamento del famoso condottiero che vuol porre chiaro a chi lo osserva un’immagine di forza e determinazione. Ne sortisce una figura d’uomo pago di sè, piuttosto pomposo. Per seconda figura abbiamo scelto il ritratto di un uomo dall’aspetto nobile che molti ricercatori pensano sia opera del cognato di Mantegna, il Giambellino. Spesso i due maestri copiavano uno dall’altro scambiandosi idee e pure i soggetti. Ad ogni modo anche qui ci troviamo davanti a un ritratto disegnato con gran maestria. Non ci sono effetti d’ombre proprie e proiettate o sguardi a collo torto per comunicare un movimento risoluto, alla 72 Michelangelo. E nemmeno qui Mantegna si vale del suo botto sempre vincente: lo scorcio. Il volto è visto di quarto, in atteggiamento del tutto naturale. Nessuno si è messo in posa, eppure quelle teste esprimono alti valori e un gran senso di profonda dignità. La terza immagine che vi proponiamo è uno stupendo ritratto, pulito, dal segno ancora deciso e senza ripensamenti. Lo sguardo del modello è intenso e limpido come di chi è abituato a guardare orizzonti aperti. Potrebbe essere il ritratto di un uomo di mare. Vento salato e sole sulla faccia, sbruffi di mareggiata e schiaffi di sale sul viso l’hanno segnato. I capelli sono ancora folti e arricciati. La testa poggia su un collo ritto e possente. Più lo osservo e più mi convinco: l’uomo potrebbe essere stato un capitano di mare. Caboto per esempio o lo stesso scopritore delle Americhe. A seguire vediamo il Ritratto di uomo con berretto nero. È un anziano signore dall’aria stanca, assente, senza vigore, con gli occhi appesantiti da grandi borse. Il disegno è meno perentorio del precedente, ma straordinariamente intenso, quasi il tratto volesse seguire il malinconico atteggiamento del vecchio. Potremmo definirlo un mercante di buona cultura. Mi fa pensare a uno dei due personaggi della Venesiana, commedia dei primi anni del Cinquecento, dove due uomini d’affari, entrambi ormai in là con l’età, si dicono incapaci 73 d’accettare che le rispettive figlie si congiungano durante il carnevale con due giovani gaglioffi, uno studente e un sottoufficiale. Alla fine, pur di evitare che la più preziosa proprietà di famiglia, appunto la verginità delle due figliole, venga goduta gratis da gente indegna, oltretutto senza produrre vantaggio alcuno, decidono di sostituirsi ai due intrusi, travestendosi con i loro costumi, e di scambiarsi le figlie per godersele di persona. È quasi un incesto, ma importante è che la “robba” resti nella casa. Per finire abbiamo scelto forse il più bel ritratto fra i cinque proposti. È chiamato genericamente Ritratto d’uomo, ma del personaggio possediamo anche un dipinto che molto gli assomiglia e che è indicato come Ritratto di senatore veneziano firmato da Francesco Bonsignori, coetaneo o quasi di Mantegna. Se confrontiamo le due opere notiamo subito una gran differenza di forza e stile, a tutto vantaggio del disegno. Il dipinto è opera di un dignitoso pittore che riproduce il viso del modello con buon mestiere. L’esecutore del disegno, con tutta probabilità Mantegna, è un artista a dir poco eccelso. Si nota subito che questo secondo maestro concepisce il ritratto nella sua totalità, non per particolari. Ma quando giunge ad analizzare occhi, orecchie, naso va in profondo. Nello stesso tempo sottolinea con leggerezza ogni passaggio. Si ha l’impressione che la figura disegnata respiri, 74 l’altra, il ritratto su tela, sembra un’immagine incollata su un fondo nero. I monocromi Sulla monografia edita da Rizzoli e dedicata ad Andrea Mantegna ho trovato una curiosa notizia che riguarda un cartone del pittore padovano. Il disegno è dedicato a Giuditta e Oloferne (Washington, National Gallery) e nel catalogo del proprietario, nientemeno che Carlo I d’Inghilterra, veniva attribuito a Raffaello. Solo molto più tardi, nel Novecento, Berenson e altri scoprirono che si trattava di un’opera di Mantegna. A mia volta devo ammettere che osservando un disegno dedicato a tre divinità del mondo ellenico, Marte in bella posa fra Venere e Diana, ho pensato subito si trattasse di un bozzetto del maestro di Urbino. L’agilità con cui è eseguito quel tratto a penna è davvero sconvolgente. Le immagini, quella maschile e le due femminili, si ergono uscendo dal bruno di fondo grazie alla proiezione della luce che segna i volumi. Marte è seduto nel centro e si appoggia con un braccio a una gamba ripiegata mentre l’altra si allunga in avanti in contrappunto al braccio sollevato. È il dio della guerra che 75 trasmette il ritmo del movimento alle altre due figure, Venere e Diana, come in una sequenza musicale che si trasforma in danza. Se pensiamo che queste straordinarie immagini grafiche sono state concepite verso il finire del Quattrocento, cioè quando Raffaello era appena venuto al mondo, ci vien facile riconoscere che Mantegna è stato veramente uno dei precursori più alti del Rinascimento. Un altro disegno, datato 1491, sempre su fondo scuro, illuminato di taglio, che ci fa pensare ai grandi pittori del Cinquecento pieno, è quello che vede Giuditta ritratta quasi di schiena (Firenze, Uffizi) che aiutata dalla sua vecchia nutrice affonda la testa mozza di Oloferne in un sacco. Non s’è mai vista nessuna donna riuscire con tanta grazia a staccar teste e infilarle in una sporta con atteggiamento di normale menage femminile, come si trovasse in un mercato di frutta e verdure, compiaciuta dal buon acquisto di un’anguria o un melone maturo. È proprio il caso di commentare: “Per una donna così delicata si può pur perder la testa!”. Le fatiche di Ercole Fra i disegni più famosi di Mantegna, spesso riprodotti dai suoi allievi e stampati in gran numero, ci sono Le fatiche di Ercole, 76 episodio che ripropone un antico parallelismo in uso nel mondo cristiano per indicare allegoricamente la potenza di Cristo. In particolare lo smascellare le fauci del leone allude al gesto del Salvatore che sceso all’Inferno spalanca la bocca della discarica infuocata, liberando le anime condannate per il peccato originale. Ancora quest’immagine allude alla Fortezza, una delle virtù cardinali, rappresentata in tutto il Medioevo. Nel mondo greco Ercole è il semidio della vita attiva in opposizione a quella contemplativa. Qui fra l’altro si allude ad Ercole I d’Este, padre di Isabella, duca di Ferrara, volitivo e concreto. Spesso la scelta di rappresentare scene mitologiche era un escamotage per poter raffigurare uomini e donne finalmente liberi da indumenti e censure puritane. La stessa scena della lotta con il leone Nemeo venne affrontata anche da altri artisti del Rinascimento, Donatello, Pollaiolo, Michelangelo e Giulio Romano. Ercole lotta con il gigante Anteo, figlio di Nettuno e della terra. Come riesce a posare i piedi al suolo la forza di Anteo si moltiplica a dismisura, perciò Ercole si preoccupa di sollevarlo di peso, tenendolo lontano dal suolo e avvolgendolo con entrambe le mani fino a soffocarlo. Ma sempre è necessario cercare in ogni opera di Mantegna il contrappunto satirico che qui rasenta la voluta 77 scurrilità. In tutte le rappresentazioni di questo tema il gigante sollevato da Ercole è tratto a sè dal forzuto semidio con l’intento di umiliarlo sopra ogni misura. Sembra proprio intenzionato a sodomizzare il suo rivale per cancellarne ogni dignità e segno virile. Il fallo del figlio di Giove è messo sempre in bell’evidenza nei pressi delle natiche del contendente. Naturalmente in fase di palese riposo. Scurrili sì ma c’è sempre un limite. È questione di stile, un po’ di decenza perdio! La flagellazione La flagellazione del maestro padovano ci riporta subito a quella di Piero della Francesca. Anche in questo disegno preparatorio per un dipinto, sulla destra vediamo una coppia di soldati che discutono fra di loro. Sul fondo un porticato senza tettoia, un elemento da scena teatrale. Ai lati di Cristo legato alla colonna, due energumeni lo battono con ferocia. Ma mentre in Piero della Francesca i personaggi in primo piano sembrano disinteressarsi completamente del supplizio e discutono di problemi del tutto personali, nel suo bozzetto preparatorio Mantegna ci rappresenta i due militari partecipi della drammaticità. Salvo per il personaggio che sta seduto contro la cornice di sinistra, dall’espressione assente, tutti 78 gli altri agiscono frenetici dentro una prospettiva a punto di fuga centrale piuttosto esasperato. Il declivio scosceso e la copertura del porticato fortemente rastremato concorrono a imporre l’attenzione sulla figura di Cristo, collocandola in grande evidenza. In questo caso è la macchina scenica a determinare la situazione tragica. Ma anche cancellando per intiero le linee di fuga e di piano, eliminando i battitori e gli sbirri, un pittore della forza di Mantegna, servendosi di pochi segni, è in grado di produrre un’opera d’arte davvero eccelsa. Ce lo dimostra l’abbozzo del Cristo alla colonna, rappresentato in due posizioni, quasi conseguenti. Anche nel caso di questo disegno alcuni studiosi discutono se sia opera di Mantegna o di Giovanni Bellini. Ma evidentemente fra i due era nata ormai una simbiosi espressiva straordinaria. Se si pensa poi che al tempo in cui furono eseguiti questo e altri numerosi schizzi entrambi i pittori avevano circa trent’anni, c’è davvero di che fare gran meraviglia! Il Cristo risorto Leonardo da Vinci diceva in uno dei suoi appunti: “Spesso bisogna impiegare il minimo per ottenere il massimo. Il minimo dei gesti a cominciare dall’impianto geometrico ridotto all’essenziale. Non 79 abusare degli effetti d’ombra in modo che la luce abbracci tutta la scena”. È proprio il caso di questa Resurrezione di Cristo. Il Salvatore è appena risorto e sta in piedi appoggiato all’asta che issa una striminzita bandiera. Con l’altra mano accenna una benedizione. È ancora stordito dalla luce. Tiene la testa reclina. Le due figure che lo accompagnano sono personaggi anacronistici: due santi che nulla hanno in comune con la resurrezione, ma che sostengono ed equilibrano il sorgere di Cristo dalla sua tomba. Il disegno è fra i più essenziali che sia dato di vedere: è proprio quella povertà di segni e di gesti che lo rende magico. La deposizione nella tomba vista di scorcio Prima di Mantegna nessun pittore aveva pensato a una simile positura. Cristo calato nella fossa è visto dal basso e di piedi. Due seguaci lo reggono, Cristo è avvolto nel telo, entrambi i discepoli tirano a sè il lenzuolo per rallentarne la discesa. La Madonna sta nel centro tutta protesa verso il figlio. Non è solo un’originale inquadratura, ma quel taglio di sguincio produce una potente suggestione. 80 Quello di cui parliamo è solo uno schizzo. Della Deposizione finale possediamo disegni diversi, e copie di suoi discepoli, tutte rappresentazioni molto potenti, ma nessuna si avvicina alla drammaticità di quel semplice schizzo. I disegni e le incisioni che ci sono pervenuti sono carichi di effetti: rocce che s’aprono nel centro del dipinto scoprendo una caverna, alberi contorti, nubi che solcano minacciose il cielo, la Madonna svenuta vicino al sepolcro sorretta da altre donne... tutto suggestivo, di grande teatralità. Ma la sintesi essenziale del primo schizzo dimostra la verità del consiglio di Leonardo: “Spesso bisogna impiegare il minimo per ottenere il massimo”. La Pietà con Cristo trattenuto dalla Madonna e due discepoli Il corpo di Cristo è visto di fronte seduto, inerte sul soglio del sepolcro. Il segno corre veloce, descrivendo i gesti essenziali. Sono accennate teste, mani e braccia ma non per intiero, i particolari sono quasi volutamente tralasciati eppure il clima tragico risulta altissimo. 81 Sempre restando nella serie dei disegni “ex tempore” – abbozzi estemporanei – presentiamo due lavori che si ritrovano sullo stesso foglio. L’uno è uno studio di Cristo morto in varie posizioni, di cui quello centrale rappresenta Gesù visto di scorcio. L’altra immagine descrive la Madonna, o la Maddalena, in ginocchio, forse protesa verso il corpo di Gesù, vista tanto di fronte che di schiena. Entrambe esprimono la magia di una incredibile rapidità del segno. Il pittore, per riuscire a raggiungere una grazia tanto limpida, deve aver acquisito nell’esercizio grafico una memoria visiva del corpo umano e dei suoi gesti veramente straordinaria. Il grande suonatore di liuto o di violino nel produrre un concerto non si avvale di partitura e non ha nemmeno bisogno di osservare e controllare i propri movimenti. Spesso i grandi maestri chiudono addirittura gli occhi, ogni gesto è pura espressione del pensiero. Essi suonano per immagini. Lo stesso accade per pittori a livello di Mantegna, Raffaello e Leonardo: di sicuro potevano disegnare a occhi chiusi, anzi bendati e nessuno si sarebbe accorto del prodigio. La Madonna col Bambino (Madonna della Vittoria) 82 Della Madonna col Bambino del Louvre esistono un dipinto e un’incisione a punta secca con carta preparata su fondo azzurro scuro poi lumeggiata. Questo è il disegno preparatorio del quadro ed è di una bellezza sconvolgente. Il bambino sta all’impiedi in equilibrio e appoggia i piedi su una gamba della Vergine. La Madonna lo trattiene ritto quasi per misurarne la forza. Ancora una volta la figura disegnata fa pensare a Raffaello e a Leonardo. La posa quasi prassitelica con cui si atteggia Gesù contrasta fortemente con l’espressione malinconica del suo viso. È la stessa situazione che ritroviamo nel Battistero degli Ariani di Ravenna, dove il Figlio di Dio è rappresentato giovane, all’impiedi, completamente nudo con le gambe immerse nell’acqua mentre riceve il battesimo da Giovanni. Identica è la sua malinconia. L’introduzione del culto di Cibele a Roma Questo è forse uno degli ultimi dipinti di Mantegna. Infatti viene collocato come esecuzione da molti studiosi tra il 1504 e il 1505, circa un anno prima della sua morte. Il committente dell’opera è indicato con il nome di Francesco Cornaro, probabilmente della stessa famiglia di Alvise che nella 83 parte iniziale del xvi secolo fu lo scopritore del Ruzzante e suo mecenate. Sembra quasi il progetto per un grande bassorilievo, dove si racconta l’arrivo a Roma di un busto di donna. Si tratta di un’immagine di Cibele, dea della Terra. Portatori sorreggono con fatica il baldacchino sul quale vediamo l’effigie della dea, che pare scivolare sull’acqua come una barca. In ginocchio davanti a lei c’è una donna e dietro un giovane dall’aria possente, seguito dalla sua corte. Si tratta di Cornelio Scipione, al quale un oracolo ha ordinato di rintracciare il busto a Pergamo e portarlo nell’Urbe: “Solo così riuscirai a battere l’armata cartaginese”. La giovane inginocchiata è Claudia Quinta, indicata dalla pubblica opinione come una vanesia peccatrice. Ma a questo punto è il caso di offrirvi il racconto di Ovidio (Fasti, libro iv) al quale Mantegna si è ispirato. “La nave che porta la statua aveva toccato la foce [Ostia] dove il Tevere si disperde nell’alto mare e scorre in uno spazio più libero: tutti i cavalieri e i seri senatori mischiati insieme alla plebe le vanno incontro alla foce del fiume toscano. Procedono accanto le madri, le figlie e le nuore, e le vergini che tutelano i sacri fuochi. Gli uomini affaticano le attive braccia con il tiro alla fune: la nave avanza a stento nella corrente contraria. La terra era secca da tempo, l’erba era bruciata dalla sete: la nave resiste incagliata nel 84 guado fangoso. Ognuno partecipa allo sforzo, e si affatica quanto può, e aiuta le mani forti con le grida: la nave sta ferma in mezzo all’acqua come se fosse un’isola. Sbalorditi di fronte al fenomeno gli uomini si fermano e si impauriscono. Claudia Quinta discendeva dalla stirpe dell’antico Clauso (e il suo aspetto non era da meno in quanto a nobiltà), virtuosa essa passava per non esserlo: voci ingiuste, accuse infondate, avevano attaccato la sua reputazione, il suo abbigliamento, l’eleganza delle sue acconciature le avevano fatto torto e, secondo i vecchi severi, la sua lingua era troppo pronta. Consapevole della propria rettitudine se la rise delle menzogne che si dicevano in giro, e tuttavia noi altri siamo gente facile a credere nel male. Come quella si avanza dal gruppo delle caste matrone, e raccoglie con le mani l’acqua pura del fiume, e per tre volte si bagna il capo, tre volte alza le mani al cielo (tutti quelli che guardano pensano che sia impazzita), e inginocchiata fissa il volto nell’immagine della dea, e sciolti i capelli dice queste parole: “Alma e feconda Madre degli Dei, accogli la preghiera di questa tua supplice in una condizione sicura. Si nega che io sia casta: se tu mi condanni, affermerò che l’ho meritato; pagherò con la morte la colpa, per giudizio divino; se invece la colpa è assente, tu darai con un gesto la prova della mia purezza, e casta, tu seguirai mani caste!”. Ciò detto, ella senza grande sforzo tira la corda; dirò una 85 cosa che fa stupire, eppure attestata anche in teatro: la dea si avvia, segue la donna che la guida e, seguendola, la giustifica. Un clamore che esprime la gioia sale fino agli astri”. Il disegno colorato rappresenta con rigore l’episodio: tutti i presenti sono stupiti e commossi, ma Mantegna non poteva chiudere senza un contrappunto. Infatti al termine della processione pone un giullare che batte sul tamburo e soffia sul flauto a giocondo commento. Cristo “in scurto” (Cristo morto) Scurto significa “di scorcio”, o meglio, visto di scorcio. Questa figura di Cristo morto steso sulla pietra funebre è uno dei capolavori giustamente più conosciuti della pittura di Mantegna. Insieme alla scenografia e alla cosiddetta “fuga architettonica delle scene” lo studio dello scorcio fu il maggior impegno dell’excelso pintor paduano. Questa tecnica viene chiamata anche legger di sguincio. Ma spesso i dipinti realizzati applicando questa scienza vengono letti solo per l’artificio che producono, la meraviglia dell’illusione, il trompe-d’oeil. Mantegna ha eseguito decine di dipinti con figure in scorcio di fattura perfetta, a cominciare dai tre apostoli sdraiati sul piano roccioso, addormentati mentre Gesù prega nell’orto del Getsemani, fino al satiro ubriaco portato in 86 braccio dai suoi compagni di sbronza, gli studi per la Deposizione, l’uomo giacente su una lastra di pietra, la Madonna sdraiata ai piedi della tomba. Ma nel concepire il progetto del Cristo morto, Mantegna come tutti i grandi pittori del suo tempo, vedi Leonardo, Michelangelo, Giorgione, non applica con rigore geometrico le regole dello scorcio. In questo dipinto si percepiscono varianti del tutto arbitrarie ma di grande effetto. Se osservate con molta attenzione il dipinto a scorcio, vi renderete conto che i piedi del Cristo non sono a giusta misura, ma più piccoli di quanto lo sguincio imporrebbe. Al contrario, la testa appare più grande di quanto sarebbe logico. È un errore? Personalmente per mezzo del computer ho rimontato il dipinto inserendo le giuste misure dettate dalle regole prospettico-convenzionali. Ebbene, all’istante la figura diventa normale ma la drammaticità dell’immagine, l’angoscia che comunica quella sequenza paradossale degli arti fuori regola svanisce. In poche parole, in quel Cristo ucciso l’errore diventa il catalizzatore essenziale e insostituibile del dramma visuale. La vecchiaia di Mantegna 87 Gli ultimi anni della vita di Mantegna non furono quelli di una vecchiaia felice. La splendida moglie Nicolosia, sorella del Giambellino, era morta da molti anni. Per quella sua compagna portava un amore tenero e insostituibile. La ricordava spesso. Quella scomparsa lasciò nel pittore un vuoto incolmabile. Mantegna a Mantova s’era fatto costruire una bellissima casa – che esiste ancora ed è stata da poco restaurata – con molte stanze, un quadriportico interno e intorno un ampio giardino. Il progetto l’aveva disegnato di suo pugno. Sul lato sud aveva acquistato un podere, uno spazio che gli permettesse una larga visuale e nulla che proiettasse ombre sulle finestre dello studio. È lì, in quella stanza, che aveva dipinto le opere più importanti, come il “Cristo di scurcio” che si tenne per sè in quella stessa “camara” fino alla sua morte insieme al grande disegno con il busto di Cibele che sbarca a Roma. Per tutto il palazzo erano sparsi reperti archeologici di grande valore raccolti in anni e anni. Fra questi il preziosissimo busto romano di Fausta che Mantegna in grave difficoltà finanziaria fu costretto a vendere alla duchessa Isabella proprio qualche anno prima di andarsene. Infatti in quel tempo il pittore se la stava passando proprio male, anche fisicamente. 88 Ma come poteva esser giunto a tanta difficoltà finanziaria? Fra l’altro Andrea continuava a produrre opere di grande valore, specie per il Gonzaga che però evidentemente era, come si dice ancora a Mantova, di braccio corto riguardo i propri debiti. Fatto sta che da tempo Mantegna non vedeva un quattrino. Ne fa testimonianza una lettera di Isabella recapitata d’urgenza al duca suo marito che testualmente così gli comunicava: “Voglio sollecitare una attenzione particolare per il nostro Andrea pittore che si truova in malo stato, campando in ristrettezza. Sarebbe d’uopo che voi gli andassi in aiuto con qualche elargizione, poiché se non lo facessi c’è pericolo che più non lo trovassi vivo e la dipintura (allude alle ultime tele dei Trionfi), che per vostro vanto et piacere bene sarebbe fuesse a compimento, puotria restare encompiuta con vostro forte disdoro e danno”. Insomma, non per correttezza e senso umano bisognerebbe correre in aiuto al malpagato Mantegna, ma solo per interesse! Un’opera incompiuta vale molto meno sul mercato di una terminata. Infatti un secolo appresso (1627) Carlo I Gonzaga-Nevers, trovandosi completamente rovinato dallo sperperare denari e terre a volontà, costretto a vendere l’intiera sequenza delle tele glorificanti Cesare e il suo trionfo a Carlo I d’Inghilterra, chiese una cifra a dir poco mastodontica e la ottenne quasi per intiero. Nel portarsi via il “bottino” il suddito inglese incaricato al trasporto, 89 preoccupato che il Gonzaga ci potesse ripensare e buttasse all’aria il contratto, pur di fare in fretta staccò di netto le pitture dai telai, tagliando lunghe strisce dei dipinti specie nella parte bassa, così che d’ogni sequenza segò i piedi ai personaggi, ai cavalli e perfino agli elefanti. C’è di che essere certi: il pittore nella sua tomba alla vista di quello scempio avrà eseguito senz’altro un vero e proprio salto mortale con tanto di bestemmia apocalittica. A proposito di tomba, Mantegna sborsò parecchi scudi d’oro per comprarsi lo spazio in cattedrale dove allestire un sepolcro per sè e per la sua famiglia: addirittura una cappella, privilegio che si potevano permettere solo mercanti facoltosi e nobili in ottime condizioni finanziarie. Quel volersi collocare fra i maggiori della città non era certo dettato dall’ansia di glorificare la memoria di sè, quanto piuttosto di dare a figli e nipoti una discendenza degna: una tomba pomposa è meglio di un sontuoso palazzo. Mantegna non era stato molto fortunato con i suoi eredi. Tanto per cominciare fra figlie e figli in pochi anni ne perse più della metà. Inoltre soprattutto i due maschi non facevano che creargli dispiaceri. Il maggiore in particolare, Ludovico, era rissoso, pieno di sè, pettegolo e maldicente, specie con i cortigiani dei Gonzaga. La misura straripò quando tentò di infangare la credibilità del marchese stesso, del quale era cameriere, insinuando che se la 90 facesse con una setta di eretici. Francesco Gonzaga lo cacciò su due piedi. Il padre Andrea si umiliò, buttandosi in ginocchio ai piedi di Isabella e piangendo disperato. La marchesa si commosse e intercedette presso il marito perché perdonasse lo scellerato. Non ci fu niente da fare, nonostante Isabella avesse messo in campo tutta la sua autorità e passione: “Attento Francesco, Andrea è in mala salute. Un colpo così lo può uccidere”, insistette. “Vada in malora lui e tutta la sua famiglia”, fu più o meno la risposta del marito. Mantegna, pur al limite delle forze, continuava a dipingere. Nel suo studio si susseguivano visitatori illustri. Era l’unico suo conforto. In quel tempo aveva iniziato a preparare i cartoni per gli affreschi della sua tomba. Con sè aveva un figlio, discreto pittore, e alcuni allievi fra i quali molto probabilmente un giovane di nome Antonio Allegri, detto il Correggio. C’è di che chiedersi: era buon maestro Mantegna? Potrebbe qui rispondere di sua voce Leonardo: “Non necessita tener concione agli allievi e agli aiuti che ti sono appresso. Basta mostrar loro il tuo mestiere, le cose che ti vengono facili e l’altre dove ti scopri affaticato e in difficoltà. Chi di loro ha occhio curioso e doti acconce impara, l’altri restano allocchi come pria”. 91 Abbiamo già visto che fin da quando, ancora ragazzino, Mantegna viveva nella bottega dello Squarcione, i suoi maestri e la sua ossessione furono gli antichi. Li copiava, li riproduceva anche in cotto e in pietra, ma si salvò dal divenirne schiavo proprio facendo diventare quei bassorilievi e i dipinti oggetti della quotidianità. In poche parole, non li ritenne sacri, non ne rispettò i moduli nè tanto meno gli “ordini”. Se ne serviva ma con distacco, facendone il pretesto per un gioco. È lo stesso atteggiamento che avevano gli autori e i comici del nuovo teatro italiano del Rinascimento, il Calmo, Machiavelli, il Bibbiena, Della Porta e primo fra tutti Angelo Beolco, detto il Ruzzante. Costoro si servivano dei classici, da Aristofane a Plauto e Terenzio, ma ne trasportavano le varie situazioni ai giorni nostri, li rivestivano di una straordinaria attualità. Il linguaggio usato era il volgare della strada; del tempo reale erano anche i costumi, gli oggetti e gli eventi storici, nonché i personaggi con il ruolo di protagonisti, maschi e femmine. I signori e le signore coinvolte ne erano lusingati ma il più delle volte indispettiti, se non addirittura indignati. Non era di certo piacevole scoprirsi ritratti nel ruolo di truffatore o ruffiano, e per quanto riguarda le signore vedersi trasformate in femmine di ambigua moralità. In ogni commedia, dell’Aretino o di Giordano Bruno, così come nelle tele di Mantegna, Leonardo e Michelangelo, si alludeva a un 92 nuovo modo di pensare, di leggere il creato, a cominciare dalla sistemazione degli astri nella volta celeste. Si rasentava spesso l’eresia, si mettevano alla berlina principi e papi, inquisitori e imbonitori da strapazzo, sia della politica che della fede. Arricchirsi di scienza e conoscenza era allora un dovere e una necessità. Non si poteva rimanere indietro nella cavalcata frenetica del sapere, occorreva scoprire, sperimentare, produrre. Il presente era già passato. Perfino il futuro in ogni attimo stava già passando. Per ragioni difficili da stabilire, in quel cerchio che raccoglie Padova e Venezia, Verona e Mantova con Ferrara si era creato una specie di crogiolo dell’Umanesimo. Redigere il numero e le qualità dei maestri che vi dimorarono o vi transitarono è un’operazione impossibile. Nell’Università di Ferrara vennero a studiare scienziati del livello di Keplero, si fermò in cerca di rifugio, in quanto perseguitato, Rabelais, che di certo visitò anche Mantova. Mantegna, da ragazzino analfabeta qual era al suo esordio a Padova, come una spugna assorbì tutto il sapere possibile che gli galleggiava intorno, come stesse dentro un acquario: a bocca spalancata e occhi stupiti ingoiava immagini, espressioni, dottrine, follie con una avidità da eterno affamato. Pur così incostante e neghittoso non si lasciava sfuggire chiunque gli potesse comunicare qualsiasi nuovo concetto o sapere. 93 Il suo grande maestro, che con Donatello gli squarciò il mondo dello spazio iscritto nella geometria strutturale, fu senz’altro Leon Battista Alberti, architetto, letterato e filosofo. Fu lui a leggergli per primo le Metamorfosi di Ovidio e i dialoghi di Luciano di Samosata, dai quali abbiamo visto Mantegna trasse grande ispirazione. E soprattutto il doppio segno della dialettica, cioè la coscienza che nulla è definitivo e assoluto. Ogni regola ha il suo contrario, sotto il tragico sta sempre nascosto il grottesco: è la violenza del dubbio che lo fa emergere. Perciò vedrete spesso nei dipinti di Mantegna, di fianco alla malinconia o nel piano più profondo del dolore, spuntare una coppia di conigli che si rincorrono e appresso un piccolo cane sperduto, laggiù tagliatori di pietra che battono con la mazza sulla roccia, un impiccato appeso a un pergolato, due innamorati che si baciano tra le fronde, nel cielo una nuvola trasformata in un volto, una donna affacciata alla finestra, un ragazzino appoggiato al muro, un corvo in equilibrio su un lungo palo, un pavone che si sporge dall’oculo della volta e bimbi che spuntano da ogni dove. Attenti, non sono appunti decorativi: sono il mondo. 94