La nascita della sociologia dell`organizzazione

La nascita della sociologia dell’organizzazione
alla Olivetti: le Scienze dell’Organizzazione
in Italia e il loro futuro
di Federico Butera*
Executive summary
L’articolo descrive la nascita della Sociologia dell’Organizzazione e delle
Scienze Organizzative in Italia avvenuta al Centro di Ricerche sociologiche e Studi
sull’Organizzazione (SRSSO) alla Olivetti di Ivrea. Fondato da Alessandro Pizzorno, venne lanciato da Luciano Gallino nel momento di massima espansione
dell’azienda con opere seminali che hanno spiegato le ragioni di quella crescita e
hanno fondato quelle discipline in Italia. Dopo le sue dimissioni, il Centro venne
diretto da Federico Butera durante il tumultuoso passaggio dalla meccanica all’elettronica. L’articolo analizza i contributi scientifici fondativi del lavoro di Gallino basati sulla teoria dei sistemi e sulla cibernetica e le proposte dei nuovi modelli
dell’azienda processiva e dell’impresa responsabile. Vengono esplorate le ragioni
soggettive e oggettive per cui Gallino nella seconda metà degli anni Settanta si allontana da quelle aree scientifiche. L’articolo descrive il ruolo che il SRSSO ebbe
nella analisi delle trasformazioni produttive e nella realizzazione delle isole di produzione, operando sulla organizzazione reale e utilizzando il metodo altamente partecipativo della ricerca intervento. Alcune caratteristiche della sociologia dell’organizzazione sviluppata in quegli anni sono: il rigore e le categorie dell’analisi della
sociologia dell’organizzazione; il suo essere “at the crossroad” di diverse discipline;
l’organizzazione come sistema in transazione biunivoca con l’ambiente; l’autonomia
della “biologia” dell’organizzazione non riducibile all’economia e alla tecnologia;
la progettazione organizzativa come fenomeno sociale complesso; il ruolo dell’organizzazione nel contribuire a risolvere grandi problemi della società: questi elementi di quella eredità di quella fase fondativa potranno e dovranno essere ancora
impiegate e valorizzate da giovani ricercatori, professionisti, operatori impegnati
nello sviluppo di una Italy by design.
Studi organizzativi n. 2, 2016
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Parole chiave: azienda processiva, impresa integrale, impresa responsabile, isole di
produzione, Olivetti, organizzazione reale, ricerca intervento.
Abstract
The article describes the birth of the Organization of Sociology and Organizational Sciences in Italy at the Center for Research and Sociological Studies on the
Organization (SRSSO) at Olivetti in Ivrea. It was founded by Alessandro Pizzorno,
was launched by Luciano Gallino in the moment of maximum expansion of the company with the seminal works that explained the reasons for this growth and have
established those disciplines in Italy. After his resignation, the Centre was directed
by Federico Butera during the tumultuous transition from mechanics to electronics.
The article analyzes the scientific contributions of the seminal work of Gallino based
on systems theory and cybernetics, and the proposals of the new models of the
“azienda processiva” and of responsible enterprise. It explores the subjective and
objective reasons why Gallino in the second half of the ‘70s moves away from those
scientific areas. The article describes the role that the SRSSO had in the analysis of
production changes and implementation of assembly islands, operating upon the real
organization using the high-participatory methods of action research. Characters of
the organizational sociology at Olivetti were: the analytical rigor and the use of categories of general sociology; his being “at the crossroad” of various disciplines; the
organization as a two-way system in continous transaction with the environment; the
“biology” of the organization does not reducible to the economy and technology; the
organizational design as a complex social process; the organization’s role in helping
to solve major societal problems: these are some elements of the legacy of the founding stage of sciences of organiztion that can and should still be used and vitalized in
the next future by young researchers, professionals in developing an Italy by design.
Keywords: organization; corporate social responsibility; production islands; Olivetti;
real organization; action research.
1. Eredità e prospettive del pensiero organizzativo di Luciano
Gallino
Dedicare un numero di Studi Organizzativi a Luciano Gallino, a cui contribuiscono studiosi di diverse discipline, non è solo un atto di omaggio dovuto al grande studioso recentemente scomparso che ha fondato negli anni
Sessanta la Sociologia dell’Organizzazione e ha contribuito in modo determinate allo sviluppo delle Scienze dell’Organizzazione in Italia, fra le tante
cose che ha fatto. Non vogliamo qui solo promuovere una ricostruzione dei
contenuti e del contesto in cui operò, cosa che finora non è mai stata fatta
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sistematicamente prima di questo numero di Studi Organizzativi che vede il
contributo di insigni studiosi. Ci ripromettiamo anche che da questo lavoro
emergano spunti per i giovani ricercatori e operatori impegnati oggi nell’affrontare le sfide scientifiche e pratiche sul futuro delle organizzazioni e della
società.
È in corso oggi una rivoluzione nelle teorie e nelle pratiche organizzative,
dopo l’apice e il declino del taylor-fordismo in cui ha operato Gallino e
l’esperienza della sociologia dell’Olivetti, ma mancano paradigmi e metodi
per gestire la prossima fase di progetti organizzativi, societari e territoriali.
I contributi seminali in campo organizzativo di Gallino si situano nei ruggenti anni Sessanta e Settanta nel contesto dello sviluppo straordinario della
Olivetti in cui egli lavora e che studia a fondo. In Olivetti sviluppa le sue ricerche, i suoi libri, il suo Dizionario e attua la ristrutturazione e gestione del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi della Organizzazione (SRSSO) della
Olivetti fondata come Ufficio Studi Relazioni Sociali da Alessandro Pizzorno.
Dopo la sua uscita dalla Olivetti nel 1969, la storia continua su due binari: da
una parte il suo lavoro universitario da cui escono alcuni lavori importanti
come Indagini di Sociologia Economica nel 1972 e il Dizionario di Sociologia
nel 1978 (oltre ad una breve esperienza di studio e consulenza nelle aziende a
partecipazione statale con l’Arpes); dall’altra la intensificazione della traiettoria del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi della Organizzazione
(SRSSO) affidata a Federico Butera che affronta lo studio e la gestione del
cambiamento del passaggio della Olivetti dalla meccanica alla elettronica e la
nascita delle isole di produzione, una traiettoria che si avvale pienamente
dell’eredità scientifica di Gallino ma che ne modifica profondamente l’impianto concettuale, il ruolo e le metodologie, scendendo sul terreno della battaglia per il superamento del taylor-fordismo nella Italia ribollente del 1968.
Questo il passato. Quali sono per il futuro le lezioni sullo studio e la concezione dell’organizzazione e sui metodi di analisi e progettazione? Le teorizzazioni socio tecniche e sistemiche di Gallino si rivelano ancora di grande
attualità. Le sue proposte sull’azienda processiva e sull’impresa responsabile
sono ancora oggi stimolanti e controverse. Il suo modo di rapportarsi con la
gestione e la progettazione è il punto su cui la sua creatura (il SRSSO) e
Butera prendono una strada assai diversa dalla sua e che ricostruiamo in questo articolo.
Di tutto questo trattano le pagine che seguono, in cui insieme ai riferimenti testuali sono riportate cose viste e vissute direttamente. Ho trovato
utile raccontare le due o tre cose che so di Gallino ma anche di come ho
gestito la sua eredità, fra conferme e avvio di percorsi diversi.
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Questa analisi non può fare a meno di rispondere ad alcuni interrogativi
trattati anche nei contributi in questo volume di Pichierri, Cerruti, Luciano,
Bonazzi e altri. Perché dopo il 1975, Gallino smette di occuparsi di organizzazione? Perché allo straordinario impianto concettuale e analitico da lui sviluppato, non ha fatto seguito lo sviluppo di una disciplina e di una area professionale forte? Perché le prescrizioni di Gallino sull’impresa processiva,
sull’impresa responsabile, sui ruoli aperti, sulla qualità della vita di lavoro
hanno avuto un accoglimento modesto o nullo nel mondo degli operatori
economici e politici? Perché malgrado quasi tutti i cultori di scienze sociali
hanno adoperato i suoi libri e il suo straordinario dizionario non ha creato
una sua scuola? Perché al tradizionale rigore algido e al riserbo personale di
Gallino è seguito negli ultimi tempi una fragorosa condotta da militante?
A questi interrogativi vi sono certamente risposte legate alla storia e alla
personalità di Luciano Gallino. La decisione innanzitutto di allontanarsi
dallo studio delle organizzazioni, uno dei tanti campi che facevano parte del
suo monumentale Dizionario, fatto tutto da lui come si vantava. La sua freddezza relazionale, la sua ostentata fiducia che la sua prodigiosa erudizione
fosse da sola sufficiente a indurre negli altri comprensione e azioni, la sua
difficoltà a costituire e guidare gruppi sociali, la sua scarsa generosità come
maestro e molto altro hanno creato un abisso tra le cose che lui descriveva
con straordinaria lucidità analitica e rigore interpretativo da una parte e il
mondo delle organizzazioni reali dall’altra su cui nella sua vita non aveva
ottenuto un significativo impatto operativo e comunicativo. Una sorta di rinuncia ad agire contro cui egli sembra cercare di sfuggire solo nell’ultima
fase della sua vita, man mano che le sue proposizioni apocalittiche trovavano
gli applausi di una parte della estrema sinistra.
Ai redattori e ai lettori di Studi Organizzativi però, più che interrogarsi
sulla personalità di Luciano Gallino, interessa fare un punto sulla sua eredità
scientifica e metodologica e sui fattori strutturali che non hanno consentito a
tale eredità di rendere più forti gli studi e la prassi dell’organizzazione. E le
domande a questo riguardo allora sono: perché a partire dagli anni Sessanta
l’organizzazione è stata considerata da gran parte della comunità scientifica
una derivata seconda dell’economia, del diritto, della politica, della psicologia imprenditoriale?
Quale può essere il ruolo della gestione e progettazione organizzativa di
fronte alle grandi questioni della società italiana? Perché i policy makers, gli
imprenditori, i commis d’etat hanno considerato l’organizzazione solo una “intendenza che seguirà”? La progettazione e gestione delle organizzazioni è stata
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vista come una attività ancillare alle politiche pubbliche, al genio imprenditoriale, alle scelte strategiche, alla gestione manageriale quotidiana, alla conformità alle norme. Una grande scienza dell’organizzazione che potesse cambiare
questo pregiudizio Gallino non l’ha creata né è sorta dopo di lui.
2. La sociologia dell’organizzazione
La sociologia dell’organizzazione può essere definita come quella disciplina
che studia la nascita, lo sviluppo e la morte, la struttura e il funzionamento delle
organizzazioni, ossia di quelle invenzioni sociali orientate e/o idonee a raggiungere fini multipli (economici, tecnici e sociali) e costituite da processi, tecnologie, sistemi di coordinamento e controllo, attività lavorative, basati su sistemi di
divisione del lavoro, strutture e ruoli organizzativi, sistemi di regolazione sociale, strutture e processi socio-culturali. La sociologia dell’organizzazione studia il suo oggetto in relazione a due dimensioni chiave: la persona che opera
nell’organizzazione e il sistema sociale, sia quello generato nell’organizzazione
sia quello entro il quale le organizzazioni sono immerse (Butera, 2010b).
La sociologia dell’organizzazione nei Paesi occidentali nasce insieme alla
sociologia generale. L’investigazione sulla natura delle organizzazioni appare fin dall’inizio una parte fondamentale della investigazione sulla natura
della società. Senza voler risalire a Spencer e Marx come sarebbe possibile
e forse doveroso, è noto che lo studio della divisione del lavoro inizia con
Durkheim il quale pone la questione della cooperazione e del conflitto; che
l’investigazione sul coordinamento e controllo e sulla autorità professionale
nasce con Max Weber che affronta la questione burocratica; che Parsons
nella sua visione funzionalistica della società formula una proposta teorica
sulle funzioni delle e nelle organizzazioni; che la scuola di Francoforte indirizza gran parte della propria analisi critica sulle organizzazioni capitalistiche; e molto altro. Basta scorrere l’indice analitico di un manuale di storia
della sociologia per trovare un gran numero di importanti citazioni che riguardano le organizzazioni.
Nel mondo anglosassone oltre a Parsons, grandi sociologi generali come
Merton, Blau, Scott, Selznick, March, Etzioni e molti altri sono stati anche
grandi “organization theorists”. Ma il processo di differenziazione della disciplina inizia veramente solo intorno agli anni Sessanta negli Stati Uniti intorno a figure di primissimo piano come Gouldner, Thompson, Perrow che
si occupano della organizzazione reale, nel Regno Unito con Woodward in
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Francia e con Touraine che si occupano del rapporto fra tecnologia e organizzazione. Testi come l’Handbook of organizations di March del 1965 o il
reading Sociology of organizations di Grusky e Miller del 1981 contengono
alcuni dei principali contributi di quella “primavera” della disciplina e che
da oltre cinquanta anni di distanza sono ancora oggi oggetto di fruttuosa consultazione.
Il prestigio della sociologia dell’organizzazione è molto forte in Francia.
Uno per tutti, Crozier sviluppa con successo, su un grande tema “societario”
come quello della burocrazia statale, il suo lavoro entro la grande tradizione
della sociologia generale di Weber. Crozier ha influenzato visibilmente gli
orientamenti delle politiche organizzative e formative della Pubblica Amministrazione francese.
In Germania, sociologia dell’organizzazione e sociologia del lavoro ebbero straordinario successo sia sui temi teorici (come quelli della fine della
divisione del lavoro di Kern e Schumann) sia sui temi progettuali intorno al
programma tripartito di umanizzazione del lavoro.
In Italia la sociologia stessa in gran parte nasce intorno a contesti economici “ad alta intensità di prassi” (come l’azienda, la comunità, le relazioni
industriali) con Ferrarotti e Pizzorno. Gallino va in profondità nella analisi e
nella teorizzazione su una specifica organizzazione, l’azienda industriale e
fonda la sociologia dell’organizzazione italiana.
Gallino conduce la sua analisi e la sua teorizzazione attraversando i confini della sociologia e addentrandosi in particolare nei campi economici e
tecnologici.
La sociologia dell’organizzazione in Italia e all’estero ha relazione co, ma
è cosa diversa dalle, management science che sono «la scienza della Direzione Aziendale che comporta l’applicazione di tecniche analitiche avanzate
per la soluzione dei problemi e del processo decisionale nei luoghi di lavoro.
Studiosi e professionisti in questo campo devono affrontare problemi specifici da risolvere e applicano metodi analitici avanzati per elaborare una soluzione. Essi possono affidarsi pesantemente su strumenti di software per eseguire alcune di queste attività».
La sociologia dell’organizzazione ha due specificità: a) è parte e contribuisce alle teorie della società, ossia alla sociologia generale; b) oltre a studiare la società che è dentro l’organizzazione nei processi di nascita, funzionamento interno, morte delle organizzazioni essa ha anche la missione di
studiare come i grandi fenomeni della società vengono internalizzati nell’organizzazione o esternalizzati dalle organizzazioni.
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Tuttavia nelle fondamentali opere dell’inizio, Gallino mette in maggiore
evidenza il rigore dei suoi lavori candidandoli a diventare una scienza esatta
piuttosto che evidenziare la rilevanza sociale ed economica che ne erano alla
radice e il dialogo con le nascenti scienze del management, forse per non
confondersi con la consulenza da una parte e con le narrative politiche ed
ideologiche che allora prevalevano.
3. La rilevanza del fenomeno organizzativo nella società italiana
Oggi a metà del 2016 alcune delle emergenze nazionali (difficoltà e fallimenti delle imprese nella crisi economica, disoccupazione, mismatch fra offerta e domanda di lavoro, semplificazione e riduzione dei costi della burocrazia, corruzione, lentezza della giustizia, costi e qualità della sanità, degrado dei beni ambientali, mancata difesa e valorizzazione dei beni culturali,
inadeguatezza delle scuole e delle università, difesa sociale, e molte altre)
trovano la loro causa originaria nelle inadeguatezze delle organizzazioni che
avrebbero la responsabilità di affrontare tali emergenze e nella loro scarsa
capacità di cambiamento e innovazione. Tuttavia, politiche pubbliche per potenziare l’organizzazione delle Pubbliche Amministrazioni, delle piccole e
medie imprese, del terzo settore, delle associazioni non sembra, davvero, tra
le priorità dei governi centrali e regionali e della classe dirigente del Paese.
In una fase di grave crisi del sistema Paese come l’attuale, è importante
rafforzare le organizzazioni, far sì che producano di più e meglio con meno,
che siano orientate ai risultati e non alle relazioni e agli interessi. Questo può
migliorare non solo il funzionamento e le prestazioni delle aziende e le pubbliche amministrazioni ma può anche influire sulle forme di governo e sui
sistemi di regolazione degli interessi. Non è una cosa nuova: attraverso investimenti per migliorare le organizzazioni pubbliche e private gli Stati Uniti
d’America sono usciti dalla crisi del ’29, così l’Italia e il Giappone sono
usciti dal dopoguerra.
Questa è la sfida per le scienze organizzative oggi.
Gallino nel 1960 era partito non da uno stato di crisi del Paese ma da un
suo momento magico e dal caso dell’organizzazione di maggior successo in
quel momento in Italia, la Olivetti di Adriano Olivetti. Il lavoro di Gallino
parte dal tentativo di scoprire i segreti e le leggi di quel successo, non solo
per assicurare a quella azienda la permanenza e l’ulteriore sviluppo nel
tempo ma per offrire con una nuova scienza dell’organizzazione strumenti di
analisi e di progettazione per altre organizzazioni pubbliche e private. Le
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scoperte sui fattori di sviluppo dell’impresa avrebbero potuto essere preziose
per i policy maker, gli imprenditori, i sindacalisti dell’Italia degli anni Sessanta. Ma questa aspirazione non ha seguito. Il libro di Gallino del 1960 di
cui parleremo diffusamente era fuori commercio e Indagini di sociologia
economica del 1972 sono rigorosi ma scritti in un linguaggio difficile che
tiene lontani tutti, tranne quelli disponibili a studiare le sue opere come allievi. Qui un esempio del contrasto fra il grande scienziato e il mediocre comunicatore, animatore culturale, maestro, contrasto che lo accompagnerà
fino alla sua “rivoluzione militante” dell’ultimo periodo della sua vita.
4. Luciano Gallino fondatore della Sociologia dell’Organizzazione e delle Scienze dell’Organizzazione
Gallino fonda in Italia la scienza dell’organizzazione. Probabilmente
l’oggetto della sua ricerca empirica (l’organizzazione formale della Olivetti
degli anni Sessanta) ha influito sulla sua teorizzazione. Egli studia prevalentemente l’organizzazione formale come uno specifico sistema sociale e si
dedica meno alla organizzazione reale. Se avesse continuato ad occuparsi di
organizzazione negli anni seguenti probabilmente le sue teorie e i suoi metodi si sarebbero modificate. Ma Gallino ha poi “cambiato mestiere” lasciando presto orfana la sociologia dell’organizzazione che aveva fondato.
Adriana Luciano, nel suo articolo in questo numero di Studi Organizzativi, chiama il suo percorso “una scalata in solitaria” e ha ragione. In aggiunta
a una sua attitudine personale, va messo in evidenza che la cultura dominante
cospirava per lasciarlo solo. Infatti la rilevanza della questione organizzativa
e le modalità di diffusione della cultura organizzativa e delle sue migliori
pratiche, in Italia non avevano a quel tempo uno spazio adeguato nella cultura politica e nei mezzi di comunicazione, a differenza di quanto era avvenuto in Germania, in USA e in Giappone, in cui la cultura e le metodologie
dell’organizzazione erano capillari e hanno assicurato a quei Paesi un forte
differenziale di produttività e di ordine sociale nella ripresa postbellica.
Alcuni cenni di questa storia, come l’ho conosciuta io.
Come Gallino sia stato reclutato da Adriano Olivetti resta una leggenda.
La più suggestiva è che Gallino, che non era laureato, avrebbe lavorato in
una pompa di benzina a cui Adriano Olivetti si sarebbe fermato e vedendo
un giovane che leggeva opere molto impegnative lo avrebbe invitato per un
colloquio. Non so se questo è vero: è certo che Adriano lo selezionò personalmente, lo apprezzò e lo assunse come risulta dalla prova grafologica che
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egli infliggeva ai suoi candidati e che Giuseppe Berta ha trovato fra le carte,
come riferisce nel suo articolo in questo volume.
Gallino entra a far parte dell’Ufficio Studi Relazioni Sociali, una struttura
a quel tempo assolutamente inconsueta all’interno di una azienda singolare,
e poi lo eredita da Pizzorno, ridenominandolo Centro di Sociologia.
Gallino, mentre continua a svolgere ricerche rigorose su problematiche di
relazioni industriali (fra cui quella sulle Commissioni Interne), a partire dagli
anni Sessanta conduce la ricerca sul Progresso Tecnologico e Organizzativo
(di qui in avanti PTO), che egli presenterà in convegni importanti fra cui
quello del Centro Nazionale di Difesa e Protezione Sociale e altri. Si conquista la fiducia dei vertici Olivetti anche dopo la morte dell’ing. Adriano, che
gli affidano il compito di monitorare e normare l’organizzazione formale. Il
Centro di Sociologia diventa così Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi
sull’Organizzazione SRSSO e riceve l’incarico di redigere un Manuale
dell’Organizzazione, a cui lavorò molto ma che rimase sempre semisegreto.
Quando nel 1962 io entrai in Olivetti, chiesi di vedere l’organigramma e i
mansionari e mi risposero: “Non ci sono. L’ing. Adriano non li voleva”. Ma
i manager che succedettero a lui, li volevano e li chiesero a Gallino, che
aveva presentato già presentato il suo PTO suscitando il loro interesse per
l’analisi organizzativa. Il Servizio continua tuttavia a fare ricerche fra cui
quelle sull’assenteismo, condotte con un grande rigore metodologico. Nel
1965 Gallino diviene anche professore incaricato presso la Facoltà di Magistero e la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino e nel 1971
divenne ordinario. Ma la Olivetti non lo nominò mai dirigente e di questo si
dolse. Forse per questo o per qualche motivo ignoto, nel 1969 lascia la Olivetti, conservando però un rapporto di consulenza.
Luciano Gallino, quali che fossero le originali aspettative di Adriano
nell’assumerlo, matura l’ambizione di spiegare non solo i comportamenti e
le relazioni industriali in azienda ma di studiare e capire “l’economia e la
società che sta dentro l’organizzazione”, attingendo ai grandi pensatori della
sociologia come Weber e Parsons e agli studiosi di teoria dei sistemi come
Ashby. Dei riferimenti scientifici del primo Gallino si trovano in questo volume approfondimenti importanti da parte di Pichierri, Sapelli, Luciano, Baldissera, Cerruti, Mercurio-Martinez-Mangia e altri.
Non si sa se per auto committenza o per indicazioni di Adriano Olivetti,
il tema che ha l’opportunità di studiare è relativo a un case straordinario: in
che modo l’organizzazione interna dell’azienda aveva sostenuto la rapidissima crescita di un’azienda speciale che da media, se non piccola, era diventata in pochi anni una delle più grandi aziende italiane, passando in quindici
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anni da 5.000 dipendenti a 32.000. Quali sono stati i fattori che hanno reso
possibile ciò? Certamente condizioni favorevoli di mercato e la genialità
dell’imprenditore dovevano essere stati rilevanti. Ma le condizioni interne
dell’impresa, anzi dell’azienda come ama ribadire spesso, devono essere
state fondamentali.
Condusse lo studio consultando una enorme massa di documentazione
riservata e vantandosi di averlo fatto da solo (intervista del 1981, Studi Organizzativi 2015). Oggetto dello studio furono proprio le condizioni interne
di sviluppo dell’azienda ossia a) condizioni strutturali come la ricerca e sviluppo, le straordinarie capacità produttive, il disporre di sistemi informativi
all’avanguardia, la forza della rete commerciale, il brand, il design e altro:
tutte aree in cui la Olivetti aveva maturato competenze straordinarie; b) condizioni di funzionamento: come sono state integrate le diverse funzioni della
struttura gerarchico-funzionale dell’azienda in una fase di intensa crescita e
di relativa incertezza; c) condizioni di competenze: come la singolare attenzione a reclutare le persone migliori, ad accettarne la ridondanza, a gestirle
con cura e a motivarle.
In tal modo Gallino affronta un tema di rilevanza generale: come fa a
funzionare e a crescere una organizzazione complessa ad altissimo tasso di
mutamento dell’ambiente economico, commerciale, sociale esterno? Con
questa domanda Gallino inaugura un percorso di sviluppo della sociologia
dell’organizzazione e delle scienze dell’organizzazione in Italia, dedicandosi
al soggetto più complesso allora esistente: l’azienda industriale in sviluppo.
Cerruti in questo volume bene illustra la differenza fra azienda e impresa, su
cui Gallino insiste molto.
Il punto dirimente della sociologia dell’organizzazione e delle scienze
dell’organizzazione, prima e dopo Gallino, è che l’organizzazione complessa
non è una derivata dei fattori economici, di mercato, di disponibilità di risorse
strumentali e umane del Paese ma ha una sua meccanica, anzi meglio una sua
biologia interna. Gallino scrive: «Non è possibile spiegare in modo adeguato
il comportamento di una grande impresa, ed in specie, nel caso che ci concerne,
il suo dinamismo espansivo, ove ci si limiti ad esaminare le mutevoli condizioni del suo ambiente economico». Egli non trascura l’importanza dell’economia, della politica, del diritto. Anzi si impadronisce con maestria degli strumenti concettuali di quelle discipline: come anche Dahrendorf raccomanderà
poi agli studiosi delle organizzazioni di conoscere le dimensioni economiche,
tecnologiche, legali delle organizzazioni, bene quasi come gli addetti ai lavori.
Gallino concettualizza quelle dimensioni come “ambiente esterno” ossia
il concetto di environment che ritorna con varie nomenclature nei suoi lavori
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e che 10 anni più tardi Lawrence e Lorsh ad Harvard renderanno popolare:
esso ha transazioni a due sensi con la nascita, sviluppo, morte della organizzazione.
Una concezione della organizzazione come organismo e non come orologio è presente nei lavori di Gallino di quegli anni, anche se non adopera questi termini.
Il suo fondamentale libro Progresso tecnologico evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti (1946-1956). Ricerca sui fattori interni di
espansione di una impresa (A. Giuffrè, 1960) (di qui in avanti PTO) è il
lavoro in cui egli tenta questa operazione scientifica.
Il volume descrive minutamente le numerose innovazioni specifiche che
avevano accompagnato la crescita dimensionale dell’azienda: dall’inserimento dei primi trasportatori in officina, alla metodologia commerciale, alla
tecnica finanziaria di gestione, cose veramente disparate e che ricadevano in
competenze molto diverse, dall’economista all’ingegnere. Gallino le descrive minutamente e con il linguaggio degli specialisti e cerca poi di calarle
in un quadro unitario.
Il primo aspetto di quel lavoro era “pedagogico”, come dichiarava in una
intervista che gli feci nel 1981: «Molti dirigenti hanno scoperto che l’avere
le cose sotto gli occhi non significa per nulla conoscerle. Per conoscerle è
necessaria una conoscenza concettuale che si aggiunge alla conoscenza per
esperienza, anche se non la sostituisce. Questa componente fu molto esplicita
e molto importante nell’esperienza Olivetti. Una delle ragioni per cui quel
libro si fece, fu che alcuni alti dirigenti dissero. Qui non riusciamo più a conoscere noi stessi, quindi non sappiamo più cosa stiamo facendo. Questo libro può darci un quadro di insieme che nessuno di noi ormai riesce più a
padroneggiare. Ciascuno, che vive entro la società, non può dire per ciò
stesso di conoscere le cause, gli effetti, le direzioni del suo sviluppo» (Studi
Organizzativi, 2015). Non mi risulta però che questa conclusione così importante, oltre a generare in lui la legittima soddisfazione dello scienziato,
fosse mai divenuta materia di formazione e apprendimento per quegli stessi
quadri e dirigenti, tranne che nelle parti che avevano contribuito a redigere.
Gallino per elaborare questa sintesi adotta la concezione dell’organizzazione come sistema, utilizzando due modelli: il modello parsonsiano, che
impiegherà anche in successivi lavori (e in particolare nel suo libro più bello,
Personalità e industrializzazione) e quello cibernetico di Ashby. In questo
volume Baldissera, Cerruti, Luciano, Pichierri, Scamuzzi esplorano a fondo
i riferimenti culturali del “primo Gallino”. Parsons individua quattro funzioni
che un sistema (un’organizzazione) deve soddisfare in diversa misura per
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conservarsi e crescere ASIL, ossia: A, funzioni adattative (consonanza con
l’ambiente esterno); S, funzioni di perseguimento degli scopi (performance);
I funzioni integrative (coordinamento e controllo; integrazione culturale e
valoriale); L. latenza (conservazione del modello e mantenimento delle strutture motivazionali). Il modello cibernetico a sua volta è contraddistinto dalla
presenza di due fattori: la regolazione e il controllo rispetto ad eventi esterni
e interni, tra loro interrelati.
Il primo modello aiutò Gallino ad affrontare il primo quesito della sua
ricerca: come ha fatto una struttura fortemente gerarchico funzionale come
la Olivetti a “tenere insieme i pezzi”. Ossia a ottenere il massimo di prestazioni dalle diverse funzioni aziendali entro un percorso di forte mutamento
che alterava continuamente anche le loro relazioni; soprattutto come è avvenuta l’integrazione fra funzioni a cui venivano chieste sempre più sfidanti e
nuove performance, che cambiavano continuamente il loro rapporto con
l’esterno in un percorso che cambiava non solo i processi ma anche l’identità
professionale delle persone e il modello di impresa. Il secondo modello cibernetico gli consentì di affrontare il paradosso di un sistema in continuo
movimento e trasformazione ma che mantiene la sua identità. Scrive Gallino,
usando il termine socio-tecnico in termini diversi da quelli del Tavistock da
cui il termine è mutuato, «un’azienda industriale è vista come un complesso
sistema socio-tecnico, entro il quale una quantità variabile di materiali, energie, (ivi inclusi molti aspetti del lavoro) ed informazioni circolano ininterrottamente tra gli elementi che la compongono, ciascuno dei quali ne cura in
variatissime forme l’elaborazione, la trasformazione e la trasmissione, in vista degli scopi unitari del sistema». Ossia l’organizzazione come sistema di
processi e non solo di autorità.
Come lo stesso Gallino ricorda nella intervista citata, il suo lavoro, iniziato prevalentemente per studiare la macrostruttura formale si estese anche
a analizzare l’organizzazione del lavoro e i contenuti di lavoro. In quelle pagine Gallino analizza il rapporto uomo/sistema andando oltre al fondamentale lavoro sulle Officine Renault di Touraine che aveva studiato il rapporto
uomo/macchina. In modo anticipatorio spiega che l’automazione non è una
mera sostituzione di lavoro umano con la macchina, ma la creazione di nuovi
sistemi in cui gli uomini assolvono a nuove funzioni. Egli ridefinisce in una
modalità, ampia per quei tempi, del concetto di progresso tecnologico che
«implica una mutazione di conoscenze tecniche con conseguente adozione
di una nuova linea di orientamento logico- empirico nei confronti della materia, che consente di intervenire su di essa, con diversa e maggiore effica21
cia». Nel suo studio, fatto prima che fossero stati inventati i computer, Gallino anticipa in sostanza l’elemento che accomuna il funzionamento delle
macchine e il lavoro dell’uomo: la conoscenza per progettare e gestire sistemi.
Con questo Gallino fa un ulteriore passo per definire la specificità della
sociologia dell’organizzazione rispetto all’economia: l’analisi delle componenti e delle relazioni specifiche di un sistema. Scrive a pag. 12 del PTO
«L’aver impostato questo studio con prospettiva e ipotesi sociologiche prima
ancora che economiche – pur sempre col dovuto rispetto della logica economica – ci ha condotti a isolare, nel piano del lavoro, due livelli nettamente
distinti: l’uno corrispondente a dati aggregati o sintetici, l’altro a dati analitici
intorno agli aspetti che interessava illuminare. Mentre l’economista, infatti,
considera legittimamente l’impresa come un punto che si sposta alla ricerca
della miglior combinazione (dei fattori) lungo una via tecnica o una curva di
equilibrio, il sociologo delle attività economiche la vede come un sistema
socio-tecnico di inaudita complessità, composto a sua volta da un numero
grandissimo di sotto-sistemi: il comportamento e l’evoluzione dei quali non
possono mai venire descritti e spiegati in dettaglio partendo dal comportamento e dall’evoluzione del sistema maggiore nel suo insieme; così come
questi, alla loro volta, non sono mai definibili o spiegabili come una sommatoria o una combinazione algebrica di quelli».
Fra i capisaldi della fondazione della Sociologia dell’Organizzazione in
Italia vi è il suo libro Personalità e industrializzazione del 1968, a mio avviso
il migliore di tutti i suoi libri. Esso è un piccolo trattato di sociologia economica (credo il primo in Italia) rigoroso e sintetico come un trattato di fisica,
che era destinato ai suoi studenti ma completava la sua rappresentazione
dell’azienda come sistema con la sua variabile più importante: gli uomini,
che nel PTO erano evocati come variabili del sistema e come ombre. Egli
nell’introduzione al volume scrive: «L’intento principale di questo libro è
impostare una analisi sociologica per quanto possibile rigorosa dei rapporti
che intercorrono fra industrializzazione e educazione, tramite la mediazione
di personalità tipiche che la prima richiede e la seconda, adeguandosi o meno
a tali richieste, tende a formare. […] Gli scolari e gli studenti esposti oggi
all’influenza selettiva e formativa della scuola saranno domani operai, amministratori, dirigenti tecnici, imprenditori. Se saranno buoni (operatori) non
dipende solo dalle conoscenze intellettuali e professionali ma dal tipo di motivazione che porteranno nel lavoro». L’impianto rigorosamente strutturalfunzionalista (che echeggia il Famiglia e socializzazione di Parsons) per cui
le persone sono quelle che devono servire alla società in una delle quattro
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funzioni ASIL, è poi mitigata nel testo per la considerazione della capacità
di innovazione, violazione, contestazione, irrazionalità che i soggetti portano
nella società, talvolta con effetti benefici e trasformativi. Sul ruolo dell’attore
sociale nei sistemi organizzativi e nella società, Gallino tornerà con un lungo
e criptico libro con lo stesso titolo, attingendo alla biologia, alla medicina,
alla psicologia, all’informatica.
Nel volume Indagini di sociologia economica del 1972, Gallino fa un ulteriore passo nella costruzione di una sociologia dell’organizzazione e di una
scienza dell’organizzazione: quello di individuare, anche sulla base del caso
Olivetti, un modello di azienda da proporre per la progettazione: l’azienda
processiva. Il titolo Indagini rimarca che il modello dell’azienda processiva
deriva dalle ricerche che ha condotto e che solo in seconda battuta diviene
un modello normativo.
Nel suo contributo in questo volume Gian Carlo Cerruti individua due
caratteristiche specifiche che contraddistinguono principalmente l’impresa
processiva: la capacità di crescita connaturata alla sua organizzazione, e il
rapporto tra gli addetti alle attività indirette (come le vendite, gli approvvigionamenti, la finanza ecc.) e gli addetti alle operazioni dirette (fabbricazione, manutenzione ecc.) che è superiore a quello che accade normalmente
negli altri tipi di imprese. Cerruti identifica quattro elementi connotativi
dell’azienda processiva: la concezione analitica anziché globale (ossia non
esclusivamente tradotta in valori monetari) delle risorse produttive, indicate
come informazioni, energia e materiali; la concezione dell’organizzazione
come sistema; il comportamento organizzativo di tutti i sottosistemi funzionali e strutturali che non dipende esclusivamente dall’immagine dall’ambiente (e delle sue variabili) posseduta dai dirigenti ma dall’immagine cumulativa posseduta dai dirigenti e dai subordinati (o per lo meno da una parte di
essi); la ricerca di personalità omologhe.
L’organizzazione come sistema, l’analisi delle interazioni fra le componenti interne dell’organizzazione, il rapporto dell’organizzazione con l’esterno sono il fondamento di una scienza dell’organizzazione specifica, una
sorta di studio della biologia dell’uovo e non solo del calore che lo fa schiudere: questa relativa “autonomia dell’organizzazione” è il primo elemento
che fa – secondo me – di Gallino il fondatore della sociologia dell’organizzazione e delle scienze dell’organizzazione italiana. Egli anticipa le caratteristiche del sistema “operazionalmente chiuso” ossia quello per cui le sue
caratteristiche originarie non sono dipendenti dall’esterno: di ciò parleranno
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Maturana e Varela per definire cosa è un essere vivente. Per usare una metafora, il calore del sole o della chioccia sono essenziali per far schiudere le
uova, ma solo la biologia dell’uovo fecondato è ciò che genera il pulcino.
Il secondo elemento è l’analisi empirica e qualitativa di un caso, come
quello del suo studio sull’Olivetti, che ne fa una scienza empirica come la
clinica medica lo è nel campo della medicina. Il terzo elemento è la progettualità: la proposta dell’azienda processiva modello derivato dall’analisi empirica, viene proposto come un modello tendenzialmente riproducibile.
Si delineano così i fondamenti di una scienza dell’organizzazione che non
sia solo un “di cui” delle scienze economiche, giuridiche, politologiche.
L’organizzazione è un’entità collettiva dotata di qualche formalizzazione costituita per raggiungere fini. Un’organizzazione si distingue per questo dalle
istituzioni, dal mercato, dai gruppi primari, dai movimenti, dalle comunità,
anche se in ogni organizzazione vi è una componente di ciascuna di esse ed
anche se l’organizzazione vive in una continua interazione con esse.
La definizione di organizzazione che Gallino presenta nel suo Dizionario
è ancora un riferimento per gli studenti e per gli studiosi. Per Gallino, tre
sono le accezioni attribuite al termine “organizzazione”: O1, un’attività organizzatrice; O2, un soggetto collettivo; O3, una struttura. Così le definisce
nel Dizionario: O1 si adopera per designare l’attività diretta di proposito a
stabilire, mediante norme esplicite, relazioni relativamente durevoli fra un
complesso di persone e di cose in modo da renderlo idoneo a conseguire
razionalmente uno scopo. O2 per designare una entità concreta del sistema
sociale che risulta da tale attività: un partito politico, una azienda, una
chiesa, un ospedale, un sindacato; O3 per designare la struttura delle principali relazioni formalmente previste e codificato entro un partito,
un’azienda…: in tal senso si parla di organizzazione del partito Socialista,
della Chiesa cattolica ecc. Questa ultima è sinonimo dell’accezione restrittiva dell’organizzazione formale (Dizionario di sociologia, voce “Organizzazione”, punto A).
O1. L’attività organizzatrice, consistente nell’ordinare le attività nel
tempo, nello spazio e nell’impiego delle risorse come dice Weick, è una dimensione sociologica fondamentale il più delle volte solo immersa in modo
indistinto nella prassi o nelle prescrizioni elaborate dall’economia aziendale,
dall’ingegneria, dalle pratiche di management: salienza sociologica perché
l’agire organizzativo riguarda la ricerca dei modi più adatti – nei diversi contesti e nelle diverse circostanze – per agire ruoli al fine di cooperare, condividere, le conoscenze, coordinare, generare senso e comunità fra le persone,
dimensioni sociologiche che chi scrive ha definito il modello 4C. L’attività
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organizzatrice nelle organizzazioni reali è un insieme di prassi per la regolazione dei comportamenti e delle azioni che può derivare da leggi, procedure,
sistemi tecnologici, prescrizioni gerarchiche, ma in gran parte è il frutto delle
conoscenze esperte e tacite, delle competenze, delle esperienze, delle memorie, delle intuizioni, delle pratiche individuali e di gruppo e soprattutto della
coscienza del fine da raggiungere. Il passaggio da un modello di organizzazione ad uno diverso è spesso il risultato di un movimento come mostra Alberoni.
O2. La nostra società è costituita da un gran numero di organizzazioni
ossia da soggetti collettivi riconoscibili dotati di una personalità giuridica,
e/o economica e/o sociale. Alcuni sono soggetti legalmente riconosciuti
come imprese, amministrazioni pubbliche, scuole, associazioni, fondazioni,
partiti. Altri sono soggetti legittimi, ma non legalmente costituiti come
gruppi culturali, sportivi, religiosi, morali. Alcuni sono soggetti spesso molto
ben organizzati e potenti ma illegali, come una cosca mafiosa o una organizzazione per il traffico dei migranti. Vi è un gran numero di tipologie organizzative che distinguono le organizzazioni in base ai fini, al settore, all’area
merceologica, alla dimensione, all’estensione geografica. Vi sono organizzazioni semplici, organizzazioni complesse, organizzazioni a rete, sistemi
industriali, piattaforme produttive e molto latro. Sono questi gli oggetti delle
scienze organizzative, non solo le aziende industriali che ovviamente hanno
caratteri assenti in altre organizzazioni.
O3. La struttura non è data solo dai componenti funzionali e dalle sue
relazioni cibernetiche dell’organizzazione formale, ma anche da un modello
o paradigma più o meno stabile dei componenti dell’organizzazione e delle
relazioni tra le persone e le cose per conseguire uno scopo. Tale modello è
dato dall’insieme di teorie, leggi e strumenti accettati universalmente, da
un’“unità stilistica”, una cultura, un’ideologia riconoscibile e riproducibile,
in una parola da un paradigma (Kuhn). Molte sono le metafore che sono state
usate per rappresentare i modelli organizzativi: l’organizzazione come macchina, l’organizzazione come organismo, l’organizzazione come sistema
aperto e molte altre (Morgan).
Ciascuna delle tre accezioni indicate da Gallino sono oggetto di studio e
di pratiche da parte dell’economia, della psicologia sociale, della sociologia
del lavoro, del diritto, dell’ingegneria gestionale: ma la loro integrazione reciproca entro un modello unitario e la loro progettazione/gestione sono il
campo privilegiato della sociologia dell’organizzazione.
Colpisce in questi lavori che, nel suo tentativo di analizzare e interpretare
variabili rigorosamente analizzabili nella sua rappresentazione sistemica e
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cibernetica dell’organizzazione, non trovino spazio rilevanti dimensioni sociologicamente rilevanti come il potere, il sistema degli interessi, il conflitto,
la violenza, l’irrazionalità. Quasi che il suo modello fosse in grado di esorcizzarle, quasi che la formalizzazione dell’attore, sviluppato in L’attore sociale, in cui queste dimensioni sono indicate, fosse da sola idonea a comprendere la natura del “comportamento irrazionale” e a trovare forme di regolazione sociale per contenerlo. Solo sulla cultura egli fa uno sforzo di concettualizzazione importante in Personalità e industrializzazione.
È infatti all’organizzazione formale quella a cui Gallino aveva dedicato i
suoi studi in Olivetti e nei volumi citati, in quanto per lui questa era costitutiva del sistema sociale. Minore attenzione egli dedicò alle dimensioni non
formali dell’organizzazione, entrando anche in aperta polemica con
Gouldner (Dizionario, voce “Organizzazione”, alla fine del punto B) che
aveva identificato l’organizzazione naturale come alternativa al concetto di
organizzazione informale (cavallo di battaglia della scuola delle Human Relations) che Gouldner giudicava “un concetto squinternato da caffè”. Gli sviluppi successivi degli studi organizzativi in Italia, da Bonazzi a Butera, partirono dai fondamenti fissati in quegli anni da Gallino ma si estesero a studiare la “società che c’è dentro l’organizzazione” e le forme non formali di
organizzazione, come le organizzazioni organiche, i gruppi di lavoro, le comunità di pratiche, le reti organizzative e altro.
Certamente influenzato più da Gouldner che da Gallino, io elaborai il concetto di “organizzazione reale” nella ricerca sulle acciaierie di Terni e in successive (Butera 1979, 2009). Essa appare costituita da diversi “strati coesistenti” di organizzazioni, ossia di strutture di regolazione che rimangono debolmente connesse (Weick) fra loro finché prevale la cultura burocratica ma
che devono essere invece integrate in situazione di elevate performance, di
servizi critici, di cambiamento: ciò è possibile se sono attivati processi sociali
di cooperazione, comunicazione, scambio di conoscenze, senso di comunità.
Gli “strati organizzativi” coesistenti in una stessa organizzazione sono:
1. l’organizzazione istituzionale, data dalle leggi;
2. l’organizzazione formale, che definisce strutture, autorità, responsabilità, procedure formalizzate;
3. l’organizzazione tecnica, ossia quella indotta dai sistemi informativi;
4. l’organizzazione professionale, ossia l’organizzazione data dalle
norme e dalle culture delle professioni;
5. l’organizzazione di fatto, data dalle prassi di lavoro;
6. la rete organizzativa di istituzioni e imprese in cui essa è inserita;
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7. l’organizzazione percepita, ossia il modo con cui i diversi gruppi che
partecipano all’organizzazione la vedono e la vivono in base alle loro
culture e valori;
8. l’organizzazione informale, in cui irrompono le relazioni personali positive e negative, gli interessi, gli opportunismi, i comportamenti personali, un concetto che io restringo alle dimensioni patologiche
dell’organizzazione.
La sociologia può contribuire non solo a comprendere ma anche a progettare l’organizzazione reale, non solo studiando e disegnando organigrammi,
posizioni e mansioni, ma ridisegnando i processi, i ruoli reali, l’organizzazione del lavoro, l’uso appropriato delle tecnologie, la formazione, la gestione delle persone, la comunicazione e molto altro, tutti sistemi di regolazione dedicati alle conoscenze, capacità, responsabilità, motivazioni, percezioni, interessi, persone vere: altro che organizzazione informale, dimensioni
soft, azione organizzativa e altro, concetti con cui sono stati coperti questi
buchi concettuali dalla manualistica e dalle metodologie di management education! Questo definisce la specificità (e forse la superiorità) della sociologia
dell’organizzazione rispetto alle management science.
Tutte le componenti di quello che io ho chiamato organizzazione reale
sono descritte e molte di esse studiate da Gallino: ma il non averle trattate in
modo unitario non ha certamente contribuito a affermare e praticare la specificità della sociologia dell’organizzazione come scienza e come pratica. Se
egli avesse continuato ad occuparsene lo avrebbe certamente fatto. Ma dalla
fine degli anni Settanta Gallino si è occupato di altro.
E qui vengo ad abbozzare una delle risposte strutturali al quesito: “Perché
Gallino ha fondato la sociologia dell’organizzazione ma l’ha presto lasciata
orfana”.
Questa accezione ampia di organizzazione reale che ho presentato può
generare ipotesi e progetti di ricerca specifici ma non le prove scientifiche
che Gallino cercava. È difficile anche progettare organizzazioni così rappresentate. È anche difficile dare ricette ai manager. Quello che cercava Gallino
in realtà era una sociologia dell’organizzazione che avesse lo stesso statuto
di scienza esatta della fisica o la stessa precisione dell’informatica. Il mio
ragionamento fino a qui mostra che questo non era possibile, ma era tuttavia
possibile sviluppare una scienza dell’organizzazione come organismo biologico. Ma c’è una seconda e più profonda ragione strutturale. L’organizzazione, organizzazione reale vivente, come l’organismo umano non può essere pienamente oggetto di scienza esatta ma forse di una forma di scienza e
pratica professionale chiamata clinica. È Foucalt che spiega che solo alla fine
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del Settecento la imperfetta pratica medica centrata sui sintomi (chi aveva un
disturbo dermatologico riceveva solo cure alla sua pelle ecc.) viene sostituita
da una scienza e una pratica centrata sulle cause delle malattie, sulle interazioni fra i diversi sistemi anatomici e fisiologici dell’organismo e sulla singolarità di ogni organismo umano e di ogni processo patologico. Inizia solo
allora la ricerca medica scientifica intrinsecamente legata alle pratiche terapeutiche. Si aprirono le facoltà di medicina e le pratiche mediche – prima
affidate a pratici, filosofi, stregoni, cava sangue – vennero sostituite dalle
professioni mediche e dagli ospedali. Da quel momento le terapie legittimate
furono soprattutto quelle che si svolgevano entro la giurisdizione dei ricercatori e delle professioni mediche e dentro gli ospedali. Una simile approccio
applicato alle organizzazioni avrebbe implicato: a) l’affermazione della specificità della sociologia dell’organizzazione come scienza ma anche la sua
piena integrazione con altre componenti delle scienze organizzative (economia, psicologia, ingegneria ecc.); b) la disponibilità a partecipare ad un processo di costruzione di professioni e di organizzazioni di servizio alle organizzazioni. Questo avveniva in quegli anni con Crozier in Francia, con la
Woodward e Emery in Gran Bretagna, con Scott in Usa. Ma la sociologia
italiana, in quegli anni fortemente influenzata dalla sociologia critica e fin da
quegli anni “una inferma scienza”, non fece questo passo: lasciando così il
campo ad altre aree disciplinari come l’ingegneria gestionale, l’organizzazione aziendale, la psicologia sociale, il diritto, le management science.
Quindi non sapremo mai se Gallino scartò deliberatamente questo approccio clinico perché non lo condivideva o perché sapeva che sarebbe stato
uno sforzo immenso di institution building che lo avrebbe distolto dalla redazione del Dizionario che aveva iniziato in quegli anni.
5. La questione dell’impresa responsabile
La molteplicità dei fini (economici, tecnici, sociali) e la pluralità dei sistemi di regolazione (formali e non formali) definiscono la peculiarità di una
organizzazione. La Olivetti fu una organizzazione dotata di un modello peculiare. Famosa è la frase di Adriano Olivetti: «Può l’industria darsi dei fini?
Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?».
Una storia diversa da quella dell’“impresa processiva” che descrive la
biologia dell’azienda e che Gallino ritiene di aver rilevato nella sua indagine
è quella della “impresa responsabile” (versus l’impresa irresponsabile) su cui
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Gallino scriverà molto a partire dagli anni Novanta, un costrutto ottativo
sganciato da una base empirica, un idealtipo.
Scrive Bonazzi in questo volume notando quanto Gallino fosse pesantemente influenzato dalla sua esperienza presso l’Olivetti. «Per molti decenni
egli vide in questa azienda l’esempio paradigmatico di “impresa responsabile”, capace di conciliare la ricerca del profitto con gli interessi sociali della
comunità gravitante intorno ad essa. Quando però l’Olivetti, dopo drammatiche vicende, fu comprata e fatta a pezzi da operatori soltanto bramosi di
lucrare sui suoi resti, assistiamo a una divaricazione quasi manichea del discorso di Gallino: da un lato la nostalgica rievocazione dei tempi d’oro di
Adriano Olivetti, dall’altro la veemente denuncia del nuovo capitalismo finanziario e della “impresa irresponsabile” che da esso prende vita». Bonazzi
parla di una sindrome dell’amante tradita.
Una valutazione non dissimile è quella di Berta in questo volume che
scrive: «Luciano Gallino ha concorso grandemente nei suoi scritti degli ultimi anni a riaccendere l’interesse per l’opera e la figura di Adriano Olivetti,
recuperando e riattualizzandone il ruolo come imprenditore e, soprattutto,
come promotore di un modello di “impresa responsabile”. Il successo di questa operazione si deve anche al fatto che Gallino ha contrapposto alle imprese
“irresponsabili” della nostra epoca, l’idealtipo dell’impresa responsabile olivettiana, utilizzando questa contrapposizione per la critica del presente».
Berta mette in dubbio la fondatezza storica della ricostruzione e dell’interpretazione del ruolo imprenditoriale di Adriano Olivetti da parte di Gallino.
Grandori in questo volume è di diverso avviso e sostiene che una impresa
che non persegua solo il fine del profitto non è una utopia ma il risultato di
una corretta e lungimirante visione dell’impresa, che Olivetti perseguì, sia
pur a suo modo e in circostanze irripetibili. Grandori sostiene che «ciò che
andrebbe qualificato come un “mito” è proprio il comune postulato che il
fine dell’impresa sia produrre profitto o valore per gli investitori finanziari…
non quello Olivettiano che la funzione dell’impresa sia realizzare progetti a
beneficio di tutti coloro che vi concorrono e che ne utilizzano il prodotto.
Basterebbe la scienza economica stessa, correttamente applicata, senza nemmeno appello a particolari valori, per affermare che “il punto di vista dell’imprenditore non include l’intero guadagno derivante dal business: c’è un’altra
parte che attiene ai dipendenti […]” perché “l’intero guadagno è una quasirendita composta divisibile tra le diverse persone” (che hanno contribuito a
crearla) “tramite negoziazione, affiancata dai costumi e da nozioni di equità”
(Marshall 1920:519). Basterebbero il diritto e l’economia d’impresa per affermare che una funzione essenziale dell’impresa è costituire un’entità
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“terza” rispetto a tutte le parti costituenti e ai loro specifici interessi, come
ricordato anche in uno dei primi scritti sull’Olivetti di Luciano Gallino».
Io non ho conosciuto Adriano Olivetti ma ho conosciuto l’azienda che lui
ha lasciato: era una azienda che continuava a farsi questa domanda. Io l’ho
definita una “impresa integrale”, un concetto privo di connotazioni moralistiche ma costituente una forma di organizzazione reale caratterizzata dalla
peculiarità dei suoi fini (con un equilibrio virtuoso fra fini economici e sociali) e dei suoi sistemi di regolazione (con un grande rilievo dei sistemi professionali e la cultura) (Butera, 2010a). Un modello di impresa in cui l’eccellenza economica viene ottenuta non malgrado ma in virtù della eccellenza
sociale, e in particolare della qualità della vita dei lavoratori e della preservazione della economia e società tradizionale del territorio: un modello non
diverso da quello oggi realizzato in Italia da Merloni, Zambon, Luxottica,
Illy, Cucinelli, Tecnogym, Loccioni, Fiasconaro e molte altre, oggi indicate
come imprese olivettiane.
6. Il Servizio Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione
dopo Gallino
Butera va al Centro di Sociologia durante il passaggio della Olivetti dalla
meccanica all’elettronica
Gallino nel 1969 si dimise. A me chiesero di prendere il suo posto, dicendomi che erano in corso grandi cambiamenti organizzativi e che il SRSSO
sarebbe stato molto utile. Malgrado che ovviamente la mia competenza
scientifica non era minimamente paragonabile alla sua, temerariamente accettai. Avrei tentato di fare del mio meglio.
Stava avvenendo infatti un terremoto. La Olivetti, allora azienda di
40.000 dipendenti, a causa della concorrenza delle macchine elettroniche
giapponesi, vedeva sfidare la sua tecnologia di base di prodotto e di produzione: dai pezzi di ferro ai chip. Erano in corso esperimenti localizzati di
riorganizzazione nei montaggi e nelle officine per fronteggiare il cambio nei
sistemi di produzione di prodotti per metà ancora meccanici e per metà elettronici, con cui ogni 4 mesi la Olivetti in difesa cercava di fronteggiare l’offensiva delle piccole calcolatrici giapponesi vendute a un 50esimo del prezzo
di quelle meccaniche della Olivetti.
L’inizio della ricerca intervento. In quello stesso 1969 Giancarlo Lunati,
diventato capo delle Direzione Relazioni Aziendali, in accordo con il diret30
tore di Produzione Umberto Gribaudo, incaricò il SRSSO di seguire gli esperimenti in corso in produzione con l’obiettivo di analizzarne il contenuto, gli
effetti sulle persone, la generalizzabilità. Decisi che il ruolo del Servizio di
Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione sarebbe dovuto essere
quello di accompagnare e promuovere il cambiamento basandosi su ricerche
rigorose di ciò che stava realmente accadendo in produzione: invece di formulare modelli ottativi top down, ci ripromettemmo di analizzare i progetti
pilota in corso per scoprire di essi la loro natura e riproducibilità, ossia la
possibilità di diffusione.
Frattanto agli inizi del 1970 andai sei mesi in USA a studiare Organization and Job Design e the coming crisis for production management al MIT
e ad Harvard e a visitare circa 20 aziende coast to coast. Al ritorno scrissi I
frantumi Ricomposti. Ideologia e struttura del taylorismo in America, che
ebbe successo.
Subito dopo il mio ritorno dall’America, intensificammo gli studi e gli
incontri. Avevamo adottato l’approccio socio-tecnico, che cercava di esaminare i fattori del sistema produttivo non isolatamente ma nella loro interazione. Il primo elemento che ci consentì di conquistarci la fiducia e la credibilità presso il management di produzione fu la visione non limitata solo alla
psicologia del lavoro animata da dieci anni dal lodevole desiderio di “ricomporre i frantumi”, quale quella poi presentata nella storia raccontata da Novara, Rozzi, Garruccio nel loro volume del 2005, che inverosimilmente cancella dalla esposizione Gallino, Butera e il SRSSO e il processo di cambiamento che sto descrivendo. Venne proposta una visione strutturalista del
cambiamento centrata su che cosa cambiava davvero nei processi produttivi
e nell’ambiente tecnologico e sociale. Il secondo elemento fu quello di lavorare fianco a fianco con i tecnici e i dirigenti: infatti non bastava capire, occorreva gestire un processo drammatico di apprendimento e una battaglia di
interessi e di cultura. L’approccio analitico che adottai era tributario dell’approccio sistemico di Gallino, dell’approccio socio tecnico dell’analisi della
qualità della vita di lavoro del Tavistock e dell’International Council for
Quality of Working Life, nel cui Executive Committee ero frattanto entrato.
Ma il metodo di ricerca intervento che io introdussi, ispirato a Kurt Lewin,
era del tutto diverso da quello che aveva usato Gallino nel suo PTO: coinvolgere i tecnici e i dirigenti nell’analisi e nelle proposte e predisporci a gestire con loro il processo di selezione e diffusione delle soluzioni.
Avevo così definito la ricerca intervento che adottai in quello e in successivi progetti: «Uno studio sistematico di una singola organizzazione (reparto,
stabilimento, impresa, rete organizzativa), basato su una diagnosi relativa a
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problemi acuti del sistema e da una ipotesi conoscitiva che ha cittadinanza
nella comunità scientifica, orientato verso il cambiamento concreto del modello organizzativo o di sue rilevanti proprietà, azione esso stesso, in quanto
implicante larga parte di formazione e sperimentazione a cui partecipa la direzione e le rappresentanze dei lavoratori, la comunità scientifica e il pubblico che produce come output insieme un prodotto scientifico, un cambiamento, un apprendimento» (Butera, 1979).
Dopo chiamai questo approccio change management strutturale (Butera,
2009).
La diagnosi fu presentata nel rapporto finale del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione del 1972, I mutamenti organizzativi
del montaggio: una analisi ed una proposta di sviluppo pianificato degli interventi.
Presentammo questo rapporto al Direttore di Produzione Umberto Gribaudo. In esso, in sintesi, si diagnosticava l’emergere di un nuovo modello
di organizzazione della produzione, lo si descriveva a fondo, lo si proponeva
per la progettazione di un nuovo sistema di produzione, se ne proponeva il
processo di diffusione. Ricordo che Gribaudo mi chiamò a casa alle 20:00:
una telefonata del capo della Produzione a un giovanissimo dirigente, a casa
e in un orario in cui si è a cena, era per un gentiluomo piemontese un evento
del tutto inconsueto. Mi chiese di botto: «Butera, è sicuro che siamo noi che
stiamo facendo tutte le cose che lei presenta?». Dissi di sì. «Venga a trovarmi
domattina alle 8:00». Non erano i fatti e le soluzioni che lo colpirono, poiché
li conosceva bene dato che li aveva autorizzati e promossi. Ma era il senso
di un cambiamento sistemico che si poteva generalizzare, basato su un nuovo
paradigma e potenzialmente generalizzabile, in cui si ritrovò pienamente. Da
quella mattina partì il programma pianificato di cambiamento della produzione della Olivetti che passava dalla meccanica alla elettronica. Da quella
mattina mettevamo in pratica il metodo di ricerca intervento in una azienda
processiva.
Il processo di gestione del cambiamento. Cominciò da allora il processo
di gestione del cambiamento: dare cioè un senso generalizzabile a quelle
esperienze concrete, valutarne gli impatti economici e sociali, comprenderne
la generalizzabilità, valutare l’impatto sulle funzioni aziendali, saggiare l’impatto culturale.
Fu allora che si dette un nome a quel modello: “isole di produzione” (poi
UMI (Unità di Montaggio Integrate), immagine che rompeva con il modello
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della lunga linea di montaggio con fasi di pochissimi minuti, che aveva dominato in Olivetti e altrove per oltre 30 anni. Nomina sunt substantia rerum:
il termine “isole” suonò come una novità organizzativa importante.
Gli accordi fra azienda e sindacati centrati sulla qualificazione sostanziale
aiutarono il cambiamento. Nell’aprile del 1971 era stato siglato l’accordo
programmatico in cui l’azienda Olivetti si impegnava a presentare ai sindacati nuove forme organizzative al fine di arricchire i contenuti del lavoro. Si
discuteva non solo di soldi e di qualifiche ma di professionalità sostanziale.
Le figure più importanti del sindacato come Trentin e Carniti avevano
espresso grandi aspettative sul “nuovo modo di fare le macchine da scrivere
e da calcolo”.
Molte erano le incognite e le difficoltà tecniche e organizzative del nuovo
modello: piccole linee o posti unici, capi o primus inter pares, incorporazione dei controlli e riparazione nel lavoro diretto o loro assegnazione a operai diversi, rotazione sui posti di lavoro totale o parziale, specializzazione o
meno delle attrezzature, responsabilità del gruppo di lavoro sul gestione del
work in process e sul magazzino parti (che con l’elettronica avevano un valore incomparabile rispetto ai “pezzi di lamiera”) e molto altro.
C’era molta “fronda” da parte della vecchia guardia della produzione. A
metà del 1972 io promossi un incontro in via Clerici a Milano con tutto il
vertice dell’azienda: in quella occasione il progetto delle isole fu approvato
anche dall’amministratore delegato Ottorino Beltrami e con il contributo determinante delle argomentazioni del direttore della Produzione Umberto Gribaudo e del capo del Centro Studi Economici della azienda Franco Momigliano. «Ti confermo il mio accordo sulla opportunità di un’azione incisiva
per stimolare le trasformazioni organizzative» scrisse l’Amministratore Delegato a Gribaudo.
Le isole di produzione vennero varate e si iniziò così a smantellare l’impianto della organizzazione scientifica del lavoro su cui viveva e prosperava
una azienda di 32.000 persone.
Nel 1972 Umberto Gribaudo costituì un Comitato per lo Sviluppo Organizzativo di cui fa parte il SRSSO, con i compiti di:
• promuovere la documentazione e gli studi sui processi innovativi in
atto nell’organizzazione del lavoro operaio e impiegatizio, nelle strutture formali, nei processi organizzativi;
• orientare e supportare le iniziative presenti e future di mutamento organizzativo pianificato;
• fornire assistenza su tutti gli atti formali implicanti modifiche organizzative;
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• formare linee generali di politica organizzativa.
Le invenzioni e le sperimentazioni fluivano senza sosta da parte dei dirigenti e professional – come Alberto Berghino, Gianola, Dionisio Albertin,
Alberto Kirieleison, Pier Carlo Bottino, Luigi Pescarmona e tanti altri – mentre gestivano il treno in corsa: gli esperimenti dell’Auditronic e della Logos
rappresentavano il “cambiamento attraverso progetti pilota, una modalità assolutamente inedita per una azienda che aveva un onnipotente Ufficio Tempi
e Metodi di oltre 100 persone.
Bisognava “portarsi dietro i capi” arricchendone le funzioni. Ma soprattutto bisognava prendersi cura degli operai arricchendo, sì, il loro lavoro, ma
assicurando che tutti ce la potessero fare, che nessuno sarebbe rimasto indietro. Molti operai abituati a fare fasi di un minuto infatti temevano di non
farcela. Le rappresentanze dei lavoratori erano esitanti e tendevano a monetizzare ogni arricchimento.
Anche alcuni anche fra i cinque sociologi del SRSSO avanzavano di continuo dubbi sulla estendibilità del nuovo modo di lavorare all’intera popolazione.
Latenti erano le invidie verso il SRSSO che aveva preso la leadership del
cambiamento da parte del Centro di Psicologia che per primo e lodevolmente
aveva predicato per contrastare il lavoro in frantumi.
La determinazione a realizzare il progetto e lo straordinario impegno di
formazione tacitò gran parte dei timori, pregiudizi, scetticismi, invidie. La
DRA Direzione del Personale, per tre anni fu coesa intorno al progetto concreto di change management, superò il tradizionale approccio sindacal/gestionale entrando nel merito dei contenuti dell’organizzazione e del lavoro:
ora si direbbe che la DRA fu un business partner.
L’ampiezza e la radicalità delle trasformazioni organizzative non potevano non creare nuovi istituti normativi e nuove regole di comportamento
collettivo. Fu il caso dell’accordo sul “premio UMI” che, una volta raggiunto, fu di tale soddisfazione sia per la Direzione che per le Rappresentanze
dei lavoratori, da rischiare di oscurare il progetto organizzativo a favore
dell’accordo salariale.
Nel gennaio del 1973 venne organizzato per il management a tutti i livelli
un “Corso di job and organization design”, con l’obiettivo di illustrare e approfondire metodologie di analisi e di mutamento pianificato dell’organizzazione. Come docente venne invitato il prof. Louis Davis, direttore del Quality
of Working Life Program alla University of California Los Angeles, mio
maestro.
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A metà del 1976, nelle officine era già stato trasformato il lavoro di circa
2.000 operai su 3.600. Alla stessa data, nelle Unità di Montaggio Integrate
lavorano circa 2.000 dei 5.000 operai dei montaggi.
I fattori strutturali che resero possibile il cambiamento. La conferma di
Gallino sull’“azienda processiva”, un percorso diverso di intervento. Il
cambiamento riuscì perché vi erano i fattori strutturali come un radicale mutamento del mercato e della tecnologia che rendeva obsoleto il vecchio modello di produzione di massa reso possibile da prodotti che restavano in produzione per 5/8 anni, che talvolta avevano fino il 50% di mercato mondiale,
che creavano profitto attraverso una continua “limatura” dei tempi di lavoro
operaio. Ora i nuovi prodotti stavano in produzione 6 mesi ed erano per metà
fatti di chip. Ma fu necessario creare consapevolezza in chi era abituato ad
un altro modello produttivo.
Il cambiamento si avvalse di molti eventi precedenti: una – iniziata nel
1965 – di studi e proposte del Centro di Sociologia, del Centro di Psicologia
e di giovani funzionari fra cui me per superare il lavoro in frantumi, il prodigioso scrigno di competenze accumulato in decenni da tecnici e manager e
sprigionata in una breve stagione di tre anni (l’“azienda processiva” diagnosticata da Gallino), il fiorire di esperimenti localizzati condotti da tecnici talentuosi, un lavoro per identificarne la riproduzione e diffusione degli esperimenti, il lavoro del SSRO che accompagnò e orientò il cambiamento, la
pressione sindacale per l’innalzamento della qualificazione formale e l’accordo del 1969, la capacità manageriale e il coraggio del direttore della Produzione Umberto Gribaudo, la visione innovativa di economia industriale di
Franco Momigliano, la decisione del gruppo dirigente di vertice di procedere
senza indugi.
L’azienda processiva diagnosticata da Gallino era stata confermata: questa volta rappresentata non in un inarrestabile e progressivo processo di crescita ma emersa in una drammatica azione di salvataggio. Essa sprigionò
tutto lo scrigno di competenze che possedeva. Questa volta il Centro di Ricerca Sociologica e Studi sull’Organizzazione non si era limitato a produrre
un libro ma aveva fatto ricerca di visibilità internazionale, consulenza, comunicazione, formazione, tutto in team con gli agenti di cambiamento e attivando un international college.
Le battaglie. Forti furono le resistenze esplicite durante tutto il processo
di cambiamento. Cruciali furono i bivi al termine della prima fase.
Nel corso di tutto il processo di cambiamento le resistenze erano venute
soprattutto dall’establishment della produzione. L’argomento contrario principale era che le isole costavano più della linea tradizionale: maggior costo
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del lavoro, maggiore addestramento, maggior costo delle attrezzature. Ma
sotto vi era anche il giustificato timore di uno sconvolgimento delle potenti
funzioni aziendali come la qualità e i tempi e metodi.
Ostili erano alcuni rappresentanti sindacali: la nuova organizzazione del
lavoro avrebbe richiesto più responsabilità per gli operai e più vantaggi per
l’azienda.
Resistenze venivano anche sul metodo: questo modo di cambiare era
estraneo alla cultura dell’ingegneria di produzione e dei tempi e metodi: ma
Massimo Levi, che di quest’ultima era il capo, era un gran professionista di
leggendaria competenza e fu il primo a convincere l’esercito dei suoi che ora
l’organizzazione si doveva fare in un altro modo.
Il modello di cambiamento era profondamente diverso da quello adottato
da grandi corporation americane, inclusa la General Electric da cui veniva
l’Amministratore Delegato. Si prospettava un bivio fra il cambiamento topdown di stile GE versus un processo di change management strutturale quale
quello che avevamo realizzato.
Vi erano resistenze all’interno della Direzione del Personale. Molti nella
DRA non si sentivano parte del processo, e alla prima difficoltà operarono
per far tornare la DRA nella sua funzione tradizionale, non troppo coinvolta
con l’intervento nell’organizzazione.
Gian Antonio Gilli, in SRSSO fin dall’inizio con Gallino, non gradiva il
ruolo che stavamo assumendo che gli sembrava da “internal consultant”,
“poco scientifico” e “troppo a servizio dell’azienda” e influenzava di continuo in modo negativo gli altri quattro sociologi del SRSSO. Io fui meno
bravo di Massimo Levi a convincere i miei e me li trovai contro proprio nel
momento di massima fragilità del SRSSO.
Questa fragilità avvenne quando si realizzarono due fatti. Il primo fu che
L’Amministratore Delegato mi chiese di diventare il suo assistente, sciogliendo il SRSSO troppo poco normativo, troppo poco “Direzione Organizzazione” GE-like. Voleva che lo aiutassi a normare l’organizzazione in suo
nome. Io insistevo che era meglio andare avanti con il metodo di change che
stava dando risultati così buoni. Insomma rifiutai. Il secondo fatto fu che in
base a non so quali veline dei “servizi” con cui l’AD era in contatto mi fu
chiesto di allontanare Gilli e gli altri dal centro in quanto estremisti. Io mi
rifiutai non solo perché Gilli era un grande amico intellettualmente e affettivamente, ma perché la lezione di Adriano Olivetti e l’assunzione di 400 laureati mi aveva insegnato che in quella azienda non si discriminano le idee. E
soprattutto perché sapevo con certezza che non vi era nulla di pericoloso in
queste persone di valore: erano di estrema sinistra come tutti i sociologi in
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quegli anni e, a Milano nel clima del ’68, correvano certamente parole ardenti, ma la Olivetti che amavo aveva incluso figure di sinistra in posizioni
di responsabilità come Momigliano, Volponi e altri. Questo doppio rifiuto di
obbedire non fu gradito. L’ingegner Beltrami, che mi chiamava “il papà delle
isole”, mi intimò di trasformare il SRSSO in un suo staff.
Contemporaneamente i miei collaboratori attaccavano dall’interno: scrissero una durissima nota, che conservo, in cui intimavano di sospendere le
attività di change management e di tornare a fare studi sull’assenteismo o
simili. Il SRSSO fu preso così da due fuochi: l’AD da una parte e i membri
dell’ufficio dall’altra. Il Direttore di Produzione difese a spada tratta il lavoro
del SRSSO.
Ma era una battaglia di troppo, che rompeva l’immagine dell’“azienda
processiva” e democratica in cui mi piaceva lavorare e minacciava la identità
scientifica e professionale che in quella straordinaria vicenda avevo acquisito. Il processo di cambiamento dell’azienda sarebbe continuato (come infatti continuò) ma forse la esperienza mia e del mio centro di ricerche sociologiche e studi sull’organizzazione stava trovando un muro. Forse il nuovo
management stava stravolgendo l’azienda che mi aveva insegnato tanto e che
amavo, cosa che si rivelò vera. Decisi, a 33 anni, di dare le dimissioni per
sviluppare il metodo e le soluzioni a cui avevo preso parte in quegli anni
fantastici. Dopo pochi mesi fondai a Milano l’Istituto di Ricerca Intervento
sui Sistemi Organizzativi, continuando l’esperienza di change management
strutturale in altri contesti. Scrissi tanti articoli e libri. Nel 1988 venni nominato professore di prima fascia. In tempo per insegnare e fare ricerca, fuori
tempo per costituire una comunità accademica intorno alla disciplina della
sociologia dell’organizzazione che insegnai poi per 25 anni.
Gli outcome scientifici. Diversi furono i prodotti della ricerca intervento
che abbiamo rievocata.
Innanzitutto il mio libro I frantumi ricomposti: ideologia e struttura del
declino del taylorismo in America del 1972 citato, che fu originato dalle ipotesi che stavamo maturando nel progetto e che al progetto offrì la struttura
concettuale.
Il mio articolo “Contributo all’analisi di variabili strutturali che influiscono sul mutamento dell’organizzazione del lavoro” pubblicato su Studi Organizzativi e in Davis e Cherns The quality of working life fu tradotto in cinque lingue. Esso contiene anche il riferimento ad articoli e ricerche, anche
esterne alla Olivetti, che fiorirono numerose intorno al progetto.
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Le dimensioni più teoriche sulla natura dell’organizzazione, del lavoro e
del cambiamento apprese durante il progetto apparvero in vari articoli poi
raccolti nel mio La divisione del lavoro in fabbrica del 1977.
Il caso Olivetti è stato studiato in Italia e all’estero da studiosi di diverse
discipline, da Salvati e Beccalli a Kern e Schumann.
La storia e i risultati del progetto sono stati descritti nel volume del 2011
Valorizzare il lavoro e sviluppare l’impresa. La storia delle “isole” della
Olivetti nella rivoluzione dalla meccanica all’elettronica (il Mulino, 2011).
7. L’eredità di Gallino come sociologo e scienziato dell’organizzazione
La mia comprensione della storia di Gallino come sociologo e scienziato
dell’organizzazione potrebbe essere così sintetizzata.
Luciano Gallino è stato uno dei più grandi sociologi italiani.
La sua erudizione e la sua capacità di descrivere limpidamente e ordinare
i concetti sono state prodigiose.
Ha fondato la Sociologia dell’Organizzazione in Italia, introducendo la
letteratura sociologica più aggiornata e facendo riferimenti ai grandi sociologi generali.
Ha posto le basi per la costituzione di una Scienza dell’Organizzazione
multidisciplinare, impadronendosi pienamente delle categorie e del linguaggio dell’economia, della psicologia, della biologia, dell’ingegneria, dell’informatica.
Alla Olivetti ha fatto ricerche approfondite e scritto manuali prevalentemente sulla macro organizzazione con l’attesa che il management traducesse
in azioni le indicazioni contenute nei suoi scritti e nei suoi documenti.
Non si è quasi mai impegnato a fare progettazione e sviluppo dell’organizzazione, tranne il periodo dell’Arpes (descritto in questo volume da Baldissera).
Dopo aver pubblicato opere seminali nel campo della sociologia dell’organizzazione, il suo interesse alla fine degli anni Settanta si sposta su altri
temi. Negli ultimi anni si occupa di imprese irresponsabili e responsabili, di
finanza-capitalismo e soprattutto del lavoro che manca o è degradato.
Da una storia di studioso schivo e isolato negli ultimi anni passa a scrivere
lavori fortemente militanti.
Lascia una eredità culturale di libri e articoli sterminata su cui centinaia
di studenti e molti ricercatori e docenti maturi hanno studiato, ma non si è
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preoccupato di costituire e sviluppare una sua scuola. Si è per lo più aspettato
che ciò che lui scopriva e descriveva sarebbe stato messo in pratica da altri
“come le onde di un sasso nello stagno”.
Non ha scritto un manuale istituzionale di Scienza dell’Organizzazione,
non ha lavorato per far comprendere e diffondere i modelli di organizzazione
e di impresa che ha proposto (azienda processiva, impresa responsabile ecc.),
non ha tenuto insieme i suoi allievi in una scuola.
I cultori di sociologia dell’organizzazione in questi anni non si sono aggregati. Gallino non ha tenuto insieme il gruppo dei suoi originari allievi torinesi che pur conservando una comune base scientifica e culturale, hanno
sviluppato carriere parallele come scrive bene Adriana Luciano in questo volume, mi riferisco a Baldissera, Bianco, Luciano, Pichierri che, come si dice,
worked alone together. Alcuni suoi allievi come Ceri e Maggi hanno lavorato
in altre sedi senza molte connessioni con gli altri. Altri come Gilli, che aveva
sostituito la fervida ammirazione dell’inizio per Gallino in una profonda
presa di distanza, hanno cambiato mestiere. Di me, che mi considero un suo
allievo clandestino senza che lui se ne sia mai curato, ho già detto: la mia
scuola è stata l’Istituto di Ricerca intervento sui Sistemi Organizzativi fondata nel 1974 e in accademia sono arrivato troppo tardi per acquisire potere
accademico. Non erano suoi allievi Bonazzi (che è stato per anni “la sociologia dell’organizzazione” interagendo con gli altri però solo attraverso i suoi
importanti manuali e i suoi bei libri), De Masi a Roma e Gherardi a Trento
che hanno costruito le loro scuole popolose, quanto di più distanti dal pensiero e dallo stile di Gallino, si possa immaginare). Mi scuso in anticipo delle
omissioni che certamente sto commettendo.
Gallino negli ultimi anni ha messo le sue capacità analitiche al servizio di
alcune cause che generano indignazione e lo hanno indotto a prendere posizione etiche e politiche, anche se raramente corredate di proposte fattibili.
Come ricorda Costantino nel suo contributo al volume egli era assolutamente
consapevole di quanto oggi sia arduo il compito di chi vuole difendere la
qualità (sociale, culturale, relazionale, oltre che economica) della vita dei lavoratori di fronte alla duplice minaccia della loro sostituzione da parte delle
macchine e/o di altri, più sfortunati individui. Un compito che bisogna affrontare «combinando la tenacia del ricercatore con la passione che ogni cittadino dovrebbe portare alla difesa d’un bene comune essenziale. Un bene
qual è una società in cui la molteplicità degli interessi, delle culture, delle
condizioni di lavoro e di esistenza trova una composizione armonica in forza
di alcuni ideali irriducibili di giustizia sociale, di uguaglianza, di diritti delle
persone» (Gallino, 2007).
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Vi sono tre ragioni in sintesi perché Gallino non ha costruito una disciplina, una area professionale forte, una scuola e perché le sue proposte non
si sono diffuse.
Una ragione oggettiva è che dopo averla fondato ha quasi abbandonato la
Sociologia e gli Studi sull’organizzazione a partire dalla fine degli anni Settanta.
Una ragione relazionale. Tutti i suoi allievi diretti e indiretti dal 1965 al
1970 si sono occupati di sociologia dell’organizzazione, sociologia industriale, sociologia del lavoro nell’alveo dei suoi libri. Come ho detto non si è
creata community, se non con pochissimi. Sono ben noti la sua freddezza
relazionale, la sua difficoltà a costituire e guidare gruppi sociali, la sua scarsa
generosità come maestro, talvolta la ingiustificata ostilità verso qualcuno.
Una serie di ragioni strutturali sono quelle che qui ci interessano. A differenza della medicina, non è nata una clinica dell’organizzazione; a differenza dell’architettura non è nata una scuola di progettazione organizzativa.
Lo studio delle organizzazioni è stato considerato allora e ancora tuttora dai
poteri accademici italiani una derivata dell’economia, del diritto dell’ingegneria: occorreva condurre una battaglia nell’accademia che Gallino non
volle e/o non poté combattere e che nessuno dei suoi allievi ufficiali e clandestini da soli poté fare. L’organizzazione è considerata dai policy maker
pubblici come l’intendenza che seguirà alle scelte economiche, politiche,
giuridiche; dai grandi imprenditori come l’allineamento alla strategia; dai
piccoli imprenditori come una dimensione indifferenziata entro lo scorrere
delle prassi gestionali.
La comunità dei sociologi avrebbe potuto raccogliere la sua eredità. Qualche singolo studioso certamente lo ha fatto. Quasi nessuno condividendo i
suoi metodi di indagine e di intervento. La comunità comunque nel suo complesso non ha continuato il suo lavoro.
Ma vi è un grande bisogno di scienze sociali nell’analisi e nella progettazione delle organizzazioni complesse in Italia, in particolare su alcuni temi
chiave.
Il rigore e le categorie dell’analisi della sociologia dell’organizzazione, il
suo essere “at the crossroad” di diverse discipline, l’organizzazione come
sistema in transazione biunivoca con l’ambiente, l’autonomia della “biologia” dell’organizzazione non riducibile all’economia e alla tecnologia, la
progettazione organizzativa come fenomeno sociale complesso, il ruolo
dell’organizzazione nel contribuire a risolvere grandi problemi della società:
questi sono alcuni elementi di quella eredità di quella fase fondativa delle
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scienze organizzative che potranno e dovranno essere ancora impiegate e valorizzate.
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