Immagini e comunicazione scientifica - INFN

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Immagini e comunicazione scientifica:
dalla descrizione all’evocazione
Alessandro Pascolini
Abstract. Vengono esaminati alcuni aspetti del ruolo delle immagini nella scienza e
nella comunicazione scientifica. In particolare si discute il loro significato per la fisica
contemporanea e si esaminano modelli storici di comunicazione al pubblico mediante
immagini al fine di individuare strategie per programmi attuali.
[Barbarella] Pensi che le figure possano servire anche a me, Lio? [Lio] Senza
immagini si muore… [7]
Premessa
Immagini per produrre scienza, immagini per comunicare la scienza. La possibilità di associare ai concetti le immagini, anche solo simboliche, è un potente
mezzo di conoscenza, aumenta la confidenza con il concetto stesso e permette
elaborazioni e approfondimenti. Per Kant la visualizzazione è sinonimo di intuizione e per Pestalozzi è il fondamento assoluto di tutta la conoscenza.
La ricerca di immagini visuali per i concetti scientifici presenta due ordini di
problematiche: da una parte, gli strumenti euristici a cui possono ricorrere gli
scienziati per affrontare campi nuovi e, dall’altra, le rappresentazioni costruite
nel processo di comunicazione dei risultati scientifici ai non addetti ai lavori.
Come ogni altra attività umana, anche le scienze ricorrono all’uso di immagini, con significati e portata che possono differire da disciplina a disciplina,
anche nelle varie fasi della loro evoluzione. Possono infatti costituire la base
empirica di partenza, rappresentare una realtà di per sé irraggiungibile direttamente, ma anche fornire modelli concettuali, simboli per la formalizzazione
delle teorie, strumenti euristici, simulazioni da porre a verifica fattuale.
Va d’altra parte osservato che la descrizione (anche accurata) di un fenomeno naturale mediante un’immagine non implica automaticamente la sua comprensione razionale: le immagini delle macchie solari di Galileo e di Cristoforo
Scheiner sono entrambe buone riproduzioni di osservazioni accurate ma vengono descritte dai due autori in modo opposto, in quanto inquadrate in due contesti teorici contrapposti.
Il ricorso alle immagini anziché alla visione diretta della realtà non è necessariamente una rinuncia ontologicamente significativa. Di fatto, i nostri sensi
producono nel cervello un’immagine virtuale del mondo osservato, fortemente
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ridotta rispetto alla quantità di informazione disponibile. Il cervello deve comunque eliminare la ridondanza dell’informazione selezionando quella significativa nel contesto in esame, come si fa tracciando un’immagine.
Infatti, tenendo conto della capacità risolutiva dello sguardo umano, pari a
circa 1’, ovvero 3 x 10-4 radianti, e quindi circa 10-7 steradianti, dato che il
campo visivo è circa un terzo della superficie sferica, si conclude che possiamo
vedere in una scena statica circa 108 punti distinti; supponendo che, mediamente, in ciascun punto si possano distinguere 100 livelli luminosi e colori diversi,
ossia acquisire un’informazione di 7 bit per punto, si ha che un’immagine statica produce circa 109 bit d’informazione, gestibili solo da un cervello di dimensioni cosmiche. L’informazione di 109 bit è enormemente ridondante e ci basta
molto meno per renderci conto di che cosa ci circonda: al cervello basta una
sintesi informativa essenziale ed esso nota praticamente solo differenze significative rispetto alla realtà virtuale che si è già costruito.
E il disegno, l’immagine, è un ulteriore sviluppo di questo programma di sintesi, di eliminazione della ridondanza: il disegno non è altro che un codice che ci
permette, a partire da pochissimi dati (quelli dei contorni), di desumere una gran
parte dell’informazione totale disponibile. Secondo Toraldo di Francia:
Risulta dunque chiaro che la scoperta delle regolarità, e quindi il progresso della
fisica, consiste nella scoperta della ridondanza del mondo dei dati sensibili e nella
sua progressiva eliminazione per mezzo di opportuni codici [13].
1. Immagini per produrre scienza
Un ambizioso programma di ricerca di storia naturale basato su immagini venne affrontato da Federico Cesi e dai membri dell’Accademia dei Lincei da lui
fondata all’inizio del Seicento. Come Ulisse Aldrovandi prima di lui, Cesi si
propose di documentare in forma visiva ogni forma naturale – minerali, gemme, fossili, piante, fiori, frutti, animali, sia del nuovo che del vecchio mondo –
con l’obiettivo di giungere a una classificazione razionale del mondo naturale.
Si affidò ad artisti di gran qualità, in particolare Vincenzo Leonardi, producendo un enorme corpus grafico, attualmente al castello di Windsor [6].
Il confronto delle loro osservazioni con quanto trasmesso dalla tradizione
colta pose i Lincei di fronte a una rottura con l’autorità fino allora indiscussa di
Aristotele, Dioscoride e Galeno, aprendo una crisi nella storia naturale per molti versi analoga a quella che stava attraversando la cosmologia. Ma mentre Copernico e Galileo seppero risolvere il problema cosmologico trovando una
semplificazione essenziale per la struttura e i moti del sistema solare, i Lincei
non riuscirono a trovare la chiave per organizzare e semplificare la molteplicità
delle forme di vita terrestri. La semplice collezione di immagini non era lo
strumento adeguato al loro proposito.
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Le cose sono raramente ciò che sembrano. Le immagini mostrano dettagli
troppo meticolosi, ed è proprio questo a impedire di cogliere gli aspetti essenziali e regolari nelle cose. Più le immagini sono accurate, più riflettono il disordine e le irregolarità naturali. Galileo spiegò a Cesi i motivi per cui le immagini
non portano alla vera conoscenza, dipendendo troppo da sensazioni soggettive.
Esse sono descrittive e sintetiche, incompatibili con l’ordine e l’analisi. Solo
quelle qualità che si basano su proprietà oggettive definibili matematicamente
(massa, spazio, estensione, numero) possono aiutarci a definire ciò che è essenziale negli enti materiali.
Come osserva Dieudonné, lo sviluppo di un settore delle scienze matematiche viene spesso ritardato in assenza di una notazione appropriata che consenta
di coglierne la vera natura.
L’esempio tipico è l’algebra: occorsero tredici secoli di sforzi, da Diofanto a Viète e
a Leibniz, per poter scrivere un’equazione algebrica “generale” nella forma [attuale]
e si comprende perciò senza difficoltà perché i Greci non abbiano mai conosciuto
l’algebra propriamente detta. Se il calcolo infinitesimale ha impiegato un secolo ad
assumere la sua forma definitiva, è in gran parte perché, prima di Newton e di
Leibniz, non era stata proposta alcuna notazione comoda per le nuove nozioni di derivata e di integrale e perciò queste stesse nozioni erano state sviluppate solo in modo imperfetto. Una buona notazione è associata inoltre, di norma, ad algoritmi che
ne facilitano l’utilizzazione [5].
I simboli algebrici e analitici permisero di accelerare anche il progresso in fisica,
sostituendo nelle dimostrazioni e, soprattutto, nei ragionamenti il ricorso a formulazioni geometriche, che troviamo ancora in Galileo e Newton. Va notato come l’introduzione della nuova simbologia matematica derivi dalla fertile fusione
della tradizione geometrica ereditata dai greci con quella araba-ebraica e la cultura cabalistica, in cui le lettere alfabetiche e le loro combinazioni acquistano significati autonomi non legati al testo letterale che potrebbero veicolare [8].
L’esplorazione di domini lontani dalla scala di grandezza umana richiede lo
studio e la misura di proprietà e grandezze nuove e irraggiungibili per i nostri
sensi. Diventa così indispensabile la mediazione di strumenti che non solo “amplificano” le potenzialità osservative, come ad esempio i telescopi o i microscopi ottici, ma “creano” i fenomeni stessi da osservare.
Gli scienziati si sono sforzati di trovare nuovi modi per rappresentare questi
mondi invisibili, ma la situazione è particolarmente delicata perché i dati dipendono in modo forte dalla teoria e gli apparati sperimentali sono così complessi che, anche quando forniscono immagini, esse sono il frutto di molti passaggi e mediazioni dal primo processo “nudo” che si vuole studiare. Questa è la
regola nel caso dello studio dei sistemi microscopici, dagli atomi ai quark, che
richiede l’impiego di sistemi integrati di rivelatori di particelle con il compito
di “sentire” i segnali dei microsistemi e di tradurre tali segnali in un linguaggio
decodificabile, per esempio in impulsi elettrici o luminosi.
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Gli scienziati hanno sempre dato notevole importanza al pensare per immagini visuali. Fino al termine del secolo scorso le rappresentazioni visuali derivavano dal mondo della percezione e potevano costituire dei modelli efficaci
per i problemi in esame; nello studio delle strutture microscopiche, tuttavia, col
tempo ci si è dolorosamente convinti che le visualizzazioni diventavano sempre
più inadeguate e ingannevoli, finché, con l’avvento della meccanica quantistica, si è capito che non solo erano inappropriate, ma concettualmente sbagliate.
Gli atomi e le strutture che li compongono – nuclei, elettroni, fino ai quark –
possono essere conosciuti e descritti solo attraverso le proprietà matematiche
della meccanica quantistica: ogni astrazione dal mondo delle percezioni sensoriali genera significati inadeguati alla realtà microscopica. Dopo anni di dibattiti, e di tentativi falliti di ripristinare la visualizzabilità del micro-mondo, gli
scienziati hanno accettato questo stato di fatto e la peculiare natura dei costituenti elementari della materia.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso, nel campo della fisica degli elementi fondamentali la base empirica era in larga parte costituita da immagini
fotografiche, prima prodotte in camere a nebbia, quindi direttamente in emulsioni fotografiche, e infine in camere a scintille e camere a bolle. Con opportuni strumenti di misura, dalle immagini si deducevano le grandezze fisiche significative, ma rimaneva la possibilità di un’osservazione diretta per ricavarne
alcuni aspetti essenziali. Lo sviluppo ulteriore ha introdotto rivelatori puramente elettronici capaci di produrre direttamente, e senza una mediazione visuale, i
dati scientifici di interesse.
L’uso di immagini nella fisica fondamentale riemerge dopo una lunga fase
di rinuncia alle immagini, nella quale era stato loro negato qualsiasi ruolo nello
sviluppo delle conoscenze. I dati sperimentali prodotti negli apparati della fisica nucleare e delle particelle dell’ultima generazione producono un’enorme
quantità di informazione: l’apparato CDF attualmente in funzione al laboratorio
americano Fermilab, ad esempio, osserva una cinquantina di eventi significativi
al secondo, ciascuno dei quali viene descritto da centinaia di migliaia di byte1,
e gli esperimenti in costruzione al laboratorio europeo del CERN prevedono di
aumentare tale massa di informazione di oltre un fattore mille.
Si rende così necessaria una selezione critica degli eventi, una riduzione della complessità, una condensazione dell’informazione, la creazione di chiarezza.
Queste operazioni, che preludono alla fase di elaborazione dei dati significativi,
diventano possibili solo mediante un’osservazione diretta da parte del ricercatore degli “eventi” preselezionati dagli apparati e rappresentati mediante opportune codifiche.
Ma cosa si “vede” effettivamente? Che relazione hanno queste immagini
con il mondo reale? Le immagini sono l’effetto di complesse manipolazioni di
dati primari. La loro interpretazione si basa sulla connessione associativa con
1 http://www.cdf.fnal.gov/upgrades/computing/projects/display/images
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altre immagini del repertorio culturale. Il livello di riferimento è una realtà, ma
non quella fenomenica, bensì quella della costruzione mediatica. Queste immagini sono, di fatto, realizzazioni visuali di modelli teorici non solo della realtà
fenomenica, ma anche dello stesso apparato di misura. Visualizzano concezioni
del mondo; sono comunque immagini del possibile e quindi appartengono alla
realtà.
Nel caso della ricerca teorica si ricorre a simulazioni di modelli affidate a
calcolatori che le rendono possibili. Anche i complessi calcoli della struttura
delle particelle a partire dalla teoria fondamentale della cromodinamica quantistica, discretizzando la struttura spazio-temporale (“QCD sul reticolo”), che richiedono l’uso di calcolatori paralleli, ammettono rappresentazioni visuali e animazioni capaci di dare un’impressione delle soluzioni numeriche, permettendo di guidare la selezione delle strategie di calcolo e di capire la bontà dei calcoli in corso.
2. Immagini per comunicare la scienza
Lo scienziato si rende conto delle limitazioni di questo tipo di immagini e sa
usarle nel modo corretto; ma per la loro natura gran parte di queste immagini
non possono venire direttamente impiegate nella comunicazione al pubblico
senza le necessarie, delicate precisazioni.
In realtà, nella prassi della fisica fondamentale esistono delle immagini che
non sono rappresentazioni strumentali o semplici modelli interpretativi, dipendenti dal legame psicologico fra immagine e percezione, bensì possiedono un
valore di verità nel senso della logica. Si tratta dei diagrammi di Feynman dei
processi quantistici, i quali esprimono esattamente la struttura matematica che
descrive il processo in esame. E appunto i diagrammi di Feynman possono essere utilizzati anche nella comunicazione scientifica [11].
Le immagini hanno un enorme potere evocativo: bastano minimi particolari
per ricreare immagini complete e, attraverso una catena di riferimenti, individuare reti di ricordi, pensieri, ripescare motivi dell’immaginario. È sufficiente un nastrino nero con un piccolo gioiello a far ricomparire il fascino dell’Olympia di
Édouard Manet. Le immagini possono imporsi all’immaginazione e creare emozioni profonde anche se negate o perse; basti pensare alle nicchie vuote dei Budda giganteschi distrutti in Afganistan a cannonate.
L’efficacia di alcune immagini ha una lunga storia. Nel romanzo di Eliodoro2,
la regina etiope Persina guarda l’immagine di Andromeda durante il concepimento di Cariclea, e così la figlia nasce bianca, “colore strano fra gli etiopi”. Un ruolo
analogo ascritto alle immagini è riportato da sant’Agostino con riferimento alla
pratica del tiranno Dioniso di copulare con la moglie solo in presenza di imma2 Eliodoro
d’Emesa, Aethiopica, III sec d.C.
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gini di begli uomini, per non avere figli deformi come lui3. Queste narrazioni si
ricollegano, materializzandola, alla nozione, introdotta da Aristotele e ripresa
da Galeno e Plinio, che i figli nascano con i segni di ciò che i genitori immaginano al momento del concepimento.
La magia non poteva non assegnare poteri straordinari a immagini e simboli;
numerosi esempi si trovano ad esempio nell’opera Ghayat al-hakim
(il fine del saggio), composta verso il 1050 nella Spagna araba da Abu Maslama
Muhammad ibn Ibrahim ibn ‘Abd al-da’im al-Majriti, che avrà grande influenza
fino all’avvento dei sommi maghi dell’umanesimo-rinascimento (Ficino, Pico,
Agrippa, eccetera) [12].
Nella tradizione cattolica si incontrano continuamente immagini miracolose
(fresche narrazioni si trovano nel duecentesco Los miragros de nuestra Señora
di Gonzalo de Berceo) [4], sempre in bilico fra religiosità popolare e idolatria.
L’oggettivo pericolo che le immagini, per la loro efficacia emozionale, portino
all’idolatria è alla base dell’aconismo ebraico e mussulmano, della diffidenza
del primo protestantesimo e, di tempo in tempo, delle reazioni iconoclaste.
Per evitare la contraddizione che le immagini siano più potenti delle mani
che le hanno prodotte, la loro genesi viene considerata di per sé miracolosa,
proveniente dal cielo o da misteriosi autori remoti nello spazio e/o nel tempo. Il
problema di superare il ruolo dell’artefice si presenta anche nella produzione di
immagini scientifiche, in cui si assegna alla fotografia o alle autoradiografie un
valore ontologico superiore, quasi non si tratti più di manufatti, ma di “realtà”
effettive.
Esiste un immaginario collettivo, frutto della trasmissione culturale diretta o
indiretta, che facilita in molti campi la comunicazione di idee, concetti, visioni
della realtà. Un riferimento immediato è l’iconografia sacra mantenuta viva
dalle autorità religiose, che ci permette di interpretare, al di là dell’immagine
immediata, la rete simbolica associata, per esempio, alla Madonna con il Bambino di Carlo Crivelli all’Accademia Carrara di Bergamo, o all’immagine del
Mahadi, il dodicesimo iman degli shi’iiti, o ai mandala del tantrismo. I materiali iconografici di altri universi culturali, con i quali si è interrotta la tradizione,
rimangono invece muti: resta solo il loro valore estetico.
Ci sono stati tentativi di fissare un’iconografia “universale”, almeno
all’interno di una certa cultura, anche al di fuori del campo religioso: nel 1593
il perugino Cesare Ripa stabilì nella sua Iconologia come dovessero essere rappresentati concetti, vizi, virtù, stati d’animo e del corpo, attività umane. La
scienza, ad esempio, doveva essere rappresentata da una donna con la testa alata, uno specchio nella mano destra e una boccia con sopra un triangolo in quella
sinistra. Ogni simbolo aveva il suo preciso significato nel comporre il carattere
associato al concetto. L’opera di Ripa si diffuse in tutta Europa, facendo di lui il
“creative director” e “copywriter” di tutta la pittura e la grafica accademica e
3 Agostino,
Contra Julianum, libro 5 capitolo 9.
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manieristica successiva. Due secoli dopo sarà il ricco corredo iconografico
dell’Enciclopedie a divenire a lungo una fonte iconica per la scienza e la tecnica.
Questa mediazione iconografica diventa sempre più difficile e rischiosa nella scienza avanzata: non esistono, di fatto, riferimenti iconografici consolidati,
né un’autorità che possa fissare gli schemi di un’iconografia universale. Mancano un Ripa e un Diderot, e in realtà ogni scienziato ha una sua immagine personale, più o meno conscia ed esplicitata, degli enti con cui ha a che fare: ogni
rappresentazione grafica lo lascerebbe insoddisfatto.
Occorre tener presente che nel ricorso alle immagini metaforiche si mette in
gioco una particolare comunità di saperi e intenzioni, interessi e gusti, e si postula
un contatto metacomunicativo tra gli interlocutori: ove questo contatto è forte la
comunicazione può essere estremamente sintetica. Immagini senza parole risultano efficaci per comunicare azioni, ricette: ad esempio, le istruzioni di montaggio fornite da IKEA o i Mutus Liber che si scambiavano gli alchimisti [1]. Ma se
il lettore non riesce a produrre un significato, come un estraneo al mondo alchemico di fronte a illustrazioni misteriose, o a simboli non autoreferenziali, allora si
sviluppa un divario, una perdita netta di comunicazione operativa.
Una guida alla preparazione di immagini per la comunicazione scientifica
può venire dall’intenso e preordinato uso di immagini per l’addottrinamento
religioso medievale.
Un esempio paradigmatico sono gli affreschi del Camposanto di Pisa che, accanto alle immagini di Bounamico Buffalmacco, comprendevano sia versi in toscano che alcune iscrizioni latine. Questa struttura mirava a una comunicazione a
più livelli, con materiali comprensibili agli analfabeti, a chi sapeva leggere solo il
volgare e a chi conosceva anche il latino. Per i primi entrava in funzione la capacità di rappresentazione e di emozione caratteristica dell’immagine dipinta, mediata dall’intervento dei predicatori. Problemi analoghi di comunicazione a più
livelli si incontrano normalmente nella comunicazione scientifica al pubblico,
che comprende persone con gradi di conoscenza differenti, e in cui la presenza di
un’interfaccia umana svolge un ruolo fondamentale.
Si tratta di realizzazioni miste, in cui testo e immagine sono strettamente legati: il messaggio si arricchisce se entrambi sono correttamente decifrati e se il
loro rapporto viene compreso. Si ha una situazione per molti versi analoga nei
monumenti pubblici egizi, che fondono in modo moltimodale immagini e testi,
costituendo la sintassi complessiva di un linguaggio visuale e permettendo comunicazioni a più livelli, letture e messaggi differenti. Un caso emblematico,
studiato da Carol Lipson [9] è Hatshepsut, uno dei rari faraoni donna: i testi
pubblici la presentano sempre in forma maschile, il modo sancito per garantirne
il diritto al trono e la discendenza divina. Allo stesso tempo i testi che accompagnano le immagini, accessibili solo a una ristretta cerchia, la descrivono correttamente come donna.
I testi medievali sono spesso scritti avendo chiaramente in mente la loro
possibile realizzazione in forma di immagine, con una precisa descrizione dei
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particolari e una rigorosa organizzazione spaziale, per suscitare la fantasia del
lettore e in modo che un artista la possa esattamente riprodurre. Un caso è considerato in dettaglio da Lina Bolzoni [3]; un altro significativo esempio è dato
dalle visioni di Ildegarda di Bingen, esattamente riprodotte nel manoscritto
1942 della biblioteca statale di Lucca [2].
In tutti questi contesti prevale l’effetto evocativo ed emozionale delle immagini, con tutti i conseguenti rischi interpretativi: nel comunicare scienza bisogna correre consapevolmente questi rischi, valutandoli in modo da poterli
controllare, valorizzando la ricchezza e la freschezza insita nelle immagini.
Jean Painlevé ci ammonisce:
La comprensione completa di un fenomeno naturale lo spoglia delle sue qualità
miracolose? È certamente un rischio. Ma deve almeno conservare tutta la sua poesia, perché la poesia sovverte la ragione e non è mai una ripetizione noiosa. Inoltre alcune lacune nella nostra conoscenza lasciano sempre spazio ad una gioiosa
confusione di mistero, dell’ignoto e di miracolo [10].
Riferimenti bibliografici
[1] Anonimo [1995] Mutus Liber, Arkeios, Roma.
[2] Bingensis, I. [1996] Liber divinorum operum, Brepols, Turnhout.
[3] Bolzoni, L. [2002] La rete delle immagini, Einaudi, Torino.
[4] de Berceo, G. [1999] “Los miragros de nuestra Señora”, in C. Beretta (a cura di)
Miracoli della Vergine. Einaudi, Torino.
[5] Dieudonné, J. [1976] “L’idea di progresso in matematica”, in E. Agazzi (a cura di)
Il concetto di progresso nella scienza. Feltrinelli, Milano.
[6] Freedberg, D. [2000] The eye of the linx, The University of Chicago Press, Chicago.
[7] Forest, J. C. [1957] Les colères du Mange-Minutes, Kesselring, Parigi.
[8] Lévy-Leblond, J. [2005] “Figures and characters in the great book of nature”, in
M. Emmer (a cura di) The visual mind II. The MIT Press, Cambridge Mass.
[9] Lipson, C. S. [2003] “Recovering the multimedia history of writing in the public texts
of ancient Egypt”, in M. E. Hocks e M. R. Kendrick (a cura di) Eloquent images. The
MIT Press, Cambridge Mass.
[10] Painlevé, J. [1931] Mystères et miracles de la nature, 29(3).
[11] Pascolini, A. e Pietroni, M. [2002] “Feynman diagrams as metaphors: borrowing the
particle physicist’s imagery for science communication purposes” Physics Education
37: 324-328.
[12] Rossi, P. A. (a cura di) [1999] Picatrix (Ghayat al-hakim), Mimesis, Milano.
[13] Toraldo di Francia, G. [1976] “Il concetto di progresso in fisica”, in E. Agazzi (a cura di)
Il concetto di progresso nella scienza. Feltrinelli, Milano.
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Alessandro Pascolini insegna Metodi matematici della fisica e Scienza per la pace
all’Università di Padova. I suoi interessi di ricerca riguardano la fisica nucleare teorica, la fisica matematica, le tecnologie militari e la storia della scienza. Si dedica
ad attività di promozione della cultura scientifica in Europa, in particolare realizzando mostre e producendo audiovisivi. Partecipa alle Pugwash Conferences on
Science and World Affairs. La Società Europea di Fisica gli ha conferito il premio
2004 per la divulgazione scientifica.
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