Prefazione di Piero Bevilacqua * L’occasione immediata che ispira l’ideazione di questo libro è dichiaratamente politica. Per una giovane studiosa, che già dagli anni degli studi universitari si è occupata di storia del sindacato, l’elezione di Susanna Camusso, il 3 novembre del 2010, a segretario generale della CGIL è un evento che scandisce un mutamento politico di rilievo. Degno di indurre riflessioni storiche più generali. In effetti, una donna alla testa del più grande sindacato italiano – e, ancora oggi, uno dei più «solidi» dell’Occidente –, non è un evento consueto. Non lo è, per la verità, neppure nel resto d’Europa e negli altri paesi industrializzati, dove pure le condizioni generali delle donne non hanno conosciuto gli arretramenti subiti negli ultimi anni dalle lavoratrici italiane. Nella lunga storia di questa Confederazione è la prima volta che accade. Anche se certo non è la prima volta che una donna è posta ai vertici di una organizzazione di categoria. Ma si tratta di eventi rari e sporadici, anche in quest’ultimo caso. Siamo di fronte a una tradizione lunghissima e tenace di dirigenza maschile che spinge la curiosità storica a indagarne le ragioni, a capire la portata e i meccanismi delle resistenze che si sono opposte alla «emersione» delle figure femminili in ruoli di direzione e di comando. E questa è in effetti la non celata intenzionalità del libro della Palumbo: tentare di capire le ragioni per le quali, pur essendo state le donne protagoniste, per oltre un secolo, delle lotte sociali del nostro Paese, esse raramente hanno conseguito posizioni di vertice nelle organizzazioni. Compito storiografico, ovviamente, * Professore ordinario di storia contemporanea nella Sapienza Università di Roma. 15 assai arduo: come voler cercare di spiegare, in un semplice saggio, le ragioni storiche dell’asservimento secolare delle donne al potere maschile. Benché la Palumbo non manchi di individuare alcuni importanti ostacoli giuridici e culturali che hanno sbarrato la strada all’emancipazione femminile in tale ambito: dalle norme del Codice civile del 1865, che contrastavano la partecipazione delle donne alle Società di mutuo soccorso, ai pregiudizi maschili attivi anche dentro lo stesso movimento sindacale e socialista. D’altra parte, un contributo di conoscenza, pur limitato e circostanziato, può venire dalla ricostruzione delle vicende e dei processi che hanno portato, in alcuni felici casi, all’ascesa delle figure femminili in ruoli di dirigenza nazionale. Una impostazione di ricerca che equivale al rovesciamento di una tradizione vittimistica e celebrativa a lungo presente, se non dominante, nella storia delle donne lavoratrici. «Il topos storicamente rilevante – ricorda con una punta di giustificata polemica la Palumbo – circa la presenza femminile nel movimento dei lavoratori è quello della vittima». Le donne diventano visibili e storicamente rilevanti quando vengono uccise. Per la verità tale atteggiamento è stato in gran parte corretto dalla recente ricerca storica, mentre in effetti poco studiati sono ancora i processi che portano non alla sconfitta, ma al successo delle donne e alla loro ascesa ai posti di comando. Ed è quanto si è proposta di realizzare l’autrice, selezionando con buon senso e realismo storiografico la vicenda di quattro figure di donne dirigenti del sindacalismo italiano, in quattro fasi storiche ben distinte. Fasi che scandiscono un secolo di lotte sociali e di storia del nostro Paese. Mentre le quattro figure corrispondono a personalità di rilievo che hanno lasciato un segno non uguale né uniforme nell’immaginario politico nazionale, ma che hanno segnato comunque pagine non comuni di impegno e di realizzazioni: Argentina Altobelli, Regina Terruzzi, Mina Biagini e Donatella Turtura. Il lettore troverà nel testo abbondanza di documentazione per scoprire o riscoprire il profilo di queste donne d’eccezione. Tanto più che esse non sono mai separate – nella ricostruzione della Palumbo – dalle vicende davvero epiche delle lotte sociali del Novecento di cui l’Italia è stata protagonista, non poche volte in forme drammatiche. L’autrice, infatti, che ha ricostruito le vicende delle sue eroine nel contesto della propria epoca, ha potuto utilizzare una storiografia ormai vastissima sulle condizioni delle campagne italiane in età contemporanea. Terreno in cui la ricerca storica italiana 16 può oggi vantare una ricchezza e maturità di risultati che la pongono ai primi posti nel mondo in questo ambito scientifico e culturale. Non è possibile qui accennare ai tanti aspetti delle vicende narrate in questo libro per introdurre il lettore al mondo esplorato dall’autrice. Anche se si è tentati dal desiderio di mostrare immediatamente, soprattutto ai lettori giovani, che hanno poche informazioni sulle condizioni sociali e di lavoro nelle nostre campagne, quali fossero le forme di sfruttamento praticate poco più di un secolo fa. Non può che fare impressione, ad esempio, scoprire quanto lunga fosse la giornata di lavoro delle donne braccianti. Si pensi alle informazioni indirette che fornivano due grandi dirigenti socialisti, Ivanoe Bonomi e Carlo Vezzani, su la «Critica sociale» del 1901: «I socialisti si occuparono di queste donne e le unirono in Lega; così hanno ottenuto un orario molto più breve di quello di prima, che era dalla levata del sole al tramonto. Ora è dalle 6 ant.(elucane) alle 5 pom.(eri-diane)». Vale a dire una conquista sindacale che portava la giornata lavorativa delle donne a 11 ore, mentre prima si aggirava intorno alle 13-14! Un orario che a lungo è stato la norma in tutte le campagne italiane. Ancora nel secondo dopoguerra, le braccianti del Sud dicevano di lavorare «dalle stelle del mattino alle stelle della sera». Ma certo non posso non soffermarmi sulla figura di Argentina Altobelli, a cui l’autrice ha dedicato una ricerca appassionata, utilizzando un’ampia gamma di fonti e che certo non è oggi la figura popolare che meriterebbe di essere nella memoria nazionale. Argentina Altobelli diventa segretaria della Federterra il 2 aprile del 1904 «in un momento – ricorda l’autrice – particolarmente difficile della vita della Federterra, in cui i dati degli iscritti e l’esigua diffusione territoriale incisero notevolmente nella crisi del Partito socialista italiano». Ma quell’organizzazione che l’Altobelli diresse sino al 1922 sarebbe diventata ben presto una delle maggiori organizzazioni sindacali d’Europa, capace di organizzare scioperi memorabili per numero di partecipanti e ampiezza delle aree coinvolte. Pur non volendo enfatizzare il ruolo individuale dei capi, bisogna riconoscere che l’Altobelli fu una personalità d’eccezione nella storia del sindacato italiano. Un leader che stava alla pari, per prestigio e autorevolezza, con i grandi dirigenti internazionali del movimento operaio dell’epoca. C’era in lei una capacità e lucidità di analisi e insieme una forza comunicativa che ne faceva un dirigente, per così 17 dire, naturale. Il suo modo di rappresentare la realtà, la sua capacità di intrecciare l’analisi sociale con la condizione e i sentimenti umani, senza mai indulgere nei toni melodrammatici, fanno ricordare molto da vicino l’oratoria di Giuseppe Di Vittorio, forse il nostro più grande leader sindacale. Di Vittorio veniva dal mondo contadino della sua Puglia, l’Altobelli, nata a Imola, aveva un’estrazione borghese ed aveva intrapreso gli studi universitari prima di entrare nel sindacato. Perciò tanto più stupisce la prosa di questa donna che doveva parlare a masse di contadini analfabeti e riusciva a descrivere la condizione delle lavoratrici con una forza comunicativa incomparabile: Le statistiche – scriveva in un articolo del 1912 citato dalla Palumbo – ci rivelano, colla certa eloquenza delle cifre, che le donne lavoratrici sono parecchi milioni, che aumentano ogni giorno, che partecipano ad ogni lavoro, ad ogni attività sociale; ma non ci narrano tutti i dolori, i patimenti, le sofferenze economiche e morali che le donne debbono affrontare e subire nel lavoro e nella vita. E come se non bastassero le ingiustizie e lo sfruttamento capitalistico, anche nella famiglia la donna compie un quotidiano, ingrato, umile e pesante lavoro, profondendovi tesori di abnegazione e di affetto, essa non gode quella considerazione di cui avrebbe ben diritto in ricompensa delle sue cure domestiche. L’uomo è così abituato ad essere circondato dalle premure diligenti della massaia, che egli finisce per considerarla ed apprezzarla soltanto in misura ed alla stregua della comodità che soddisfa le sue esigenze di benessere. Che importa poi se la donna massaia, quella che gli uomini chiamano «la regina della casa» è isolata dal mondo, piccola e meschina fuori dal suo regno, ignara della vita, delle esigenze sociali, inaccessibile con la sua anima all’anima e allo spirito dell’umanità. La ricostruzione del profilo di questa dirigente consente anche di mostrare come, nel vivo delle lotte di quell’epoca di tumultuose trasformazioni, i socialisti apprendessero lezioni politiche straordinarie che avrebbero orientato la condotta del movimento operaio organizzato nei decenni avvenire. Lezioni che ancora oggi, nel disfacimento della politica come strumento di trasformazione radicale della società, appaiono del tutte dimenticate. Scriveva l’Altobelli, in un passaggio ricordato dalla Palumbo: «l’esperienza ha dimostrato come si renda necessario ogni giorno integrare la resistenza con istituti complementari, senza dei quali la sua azione resterebbe paralizzata o sensibilmente diminuita nella sua efficacia. A che varrebbe 18 scioperare e conquistare un aumento di tariffa quando manchi un Istituto di controllo sull’onesta applicazione della conquista stessa? L’accaparramento della mano d’opera abbandonata alla libera scelta del conduttore di terre renderebbe nulli la conquista e lo sforzo della resistenza». Tanti istituti, come l’Ufficio di collocamento e le varie leggi di protezione del lavoro, sono nate da tale intuizione, che ancora oggi fatica a farsi strada nelle forme nuove che andrebbero create o fatte rinascere. O addirittura viene fatta indietreggiare nelle sue conquiste storiche – come il contratto nazionale di lavoro – sotto l’urto delle politiche neoliberiste dei recenti governi. La ricostruzione del profilo e dell’impegno sindacale di Regina Terruzzi consente all’autrice di ricostruire il movimento delle donne rurali durante il ventennio fascista. Un processo che vide il passaggio dall’Unione delle massaie di campagna, nata nel 1918 in Lombardia e legata alle Cattedre ambulanti di agricoltura – una «piccola organizzazione interclassista formata da donne aristocratiche, della media borghesia e da contadine» ricorda l’autrice – alla Federazione delle massaie rurali creata dal fascismo. Si tratta di un capitolo recentemente esplorato dalla storiografia italiana e internazionale, che ha mostrato l’ambivalenza delle forme di controllo delle lavoratrici da parte del fascismo. Il regime, infatti, mentre irreggimentava le donne nelle sue strutture autoritarie e ideologicamente opprimenti, le staccava inevitabilmente dall’ambito puramente domestico proiettandole sullo scenario sociale. Le masse femminili irrompevano così sul terreno organizzato del movimento sindacale, ma irreggimentate dentro le strutture di uno Stato che mirava a un controllo ravvicinato e a una marcata plasmazione ideologica delle masse popolari. La vicenda della Terruzzi viene esaminata in maniera particolareggiata, quale protagonista di una strategia «innovativa» da parte del fascismo, che spostava in avanti, per così dire, le forme di controllo delle donne lavoratrici e mutava i linguaggi dell’egemonia borghese. Uno «degli aspetti innovativi della nuova ondata di mobilitazione fascista – ricorda l’autrice – fu proprio il fatto che includeva le donne. Ciò introduceva una chiara rottura con gli anni venti, quando persino il piccolo gruppo di donne borghesi che cercò di avere un ruolo politico attivo attraverso i Fasci femminili incontrò costante ostilità e indifferenza da parte di gran parte della struttura gerarchica del PNF». 19 La Palumbo mostra senza reticenza l’ambiguità politica di questa figura, mazziniana e socialista, che in effetti operò instancabilmente per organizzare le donne, ma che ebbe una relazione, per così dire organica, con il regime e anche un lungo rapporto personale con Mussolini, sin da quando questi era socialista e soldato al fronte, per continuare fino ai primi anni trenta. Tant’è che, come ricorda la Palumbo, ella «parteciperà alla fondazione dei fasci di combattimento e, addirittura, è rintracciabile una sua adesione, probabilmente solo morale, anche alla Marcia su Roma del 1922». Ma non è solo questo l’elemento di ambiguità. Molti in Italia, per le ragioni più varie, credettero nelle «buone intenzioni» del fascismo ai suoi esordi. Anche personalità di gran lunga più eminenti di una dirigente sindacale come Regina Terruzzi. Benché un potere conseguito con la violenza di piazza e con l’eliminazione fisica degli avversari avrebbe da subito dovuto consigliare un atteggiamento quanto meno più prudente, anche alle menti più inclini alla conservazione sociale. Ma il fatto è che la Terruzzi ebbe un posto di rilievo nelle organizzazioni femminili del regime sino al 1932. Ella dunque condivise politicamente le sue scelte di politica generale. Vale a dire che accettò di collaborare con un regime che aveva distrutto le Camere del lavoro, chiuso i giornali dell’opposizione, messo fuorilegge i partiti, perseguitato gli antifascisti. La sottolineatura di tale adesione della Terruzzi al fascismo non significa affatto, ovviamente, negare legittimità all’inserimento del suo profilo nella storia del sindacalismo italiano. Al contrario, la sua vicenda ci consente di osservare in maniera più profonda, nelle sue luci e nelle sue ombre, la capacità di presa e di consenso del fascismo anche su ambiti che avrebbero dovuto essergli ostili. Attraverso tale figura si comprende meglio come il regime abbia costruito il suo consenso utilizzando, talora, anche uomini e donne che provenivano dall’esperienza socialista. Ma, per la verità, a livello di sguardo storico generale su questo personaggio ci saremmo aspettati dall’autrice una maggiore severità di giudizio. Non è certo sufficiente affermare, come fa la Palumbo: «Regina, pur appoggiando a livello personale le scelte di Mussolini, tuttavia ne condannerà gli atteggiamenti più violenti». Era difficile in verità, sul piano politico e morale, separare le scelte di Mussolini tra quelle «pacifiche» e quelle «violente». Quando la Terruzzi continuava a dare al regime il suo appoggio e la propria opera, i capi socialisti e dell’antifascismo erano in esilio o in clande20 stinità, Matteotti era stato ucciso, Gramsci languiva nel fondo di un carcere. Quella della Terruzzi non era un’ambivalenza da poco. Nel 1925, ricorda la stessa Palumbo, ad Argentina Altobelli Mussolini offrì la possibilità di organizzare le masse contadine femminili. Ma Argentina rifiutò. Un nuovo scenario succede alla storia della Terruzzi, quello che le libertà civili conquistate con la caduta del fascismo e la Resistenza avrebbero offerto al protagonismo politico e sindacale delle donne italiane. In tale ambito si muove, infatti, Mina Biagini, la terza delle dirigenti sindacali di cui l’autrice ricostruisce le vicende biografiche e i percorsi della militanza politica e sindacale. La Biagini segna una rottura, sia di classe che politica, rispetto alle due precedenti protagoniste. Viene dal mondo contadino, è figlia infatti di mezzadri e nasce a San Gimignano, provincia di Siena, nel 1922. E anche sotto il profilo geografico si tratta di una novità. Il quadro delle lotte è ora quello delle colline subappenniniche, mentre quello precedente è quasi esclusivamente padano. Il Mezzogiorno, purtroppo, rimane escluso dalla ricostruzione dei profili biografici (ma non dalla ricostruzione storica generale). Un’assenza che ovviamente non possiamo rimproverare all’autrice, ma che comunque segnala un evidente ritardo della ricerca sulle vicende delle donne meridionali. La Biagini, inoltre, è comunista – si iscrive giovanissima nelle file di quel partito quando è ancora clandestino – e partecipa attivamente come staffetta alla Resistenza e alla Liberazione. Per la verità, nell’economia del libro, la personalità della Biagini – che rivestirà incarichi regionali e nazionali nel PCI postbellico, diventando poi responsabile della Commissione femminile nazionale dei mezzadri – non assume il rilievo delle altre figure qui protagoniste. Certamente anche per problemi di fonti documentarie. E tuttavia la sua vicenda consente all’autrice di mostrare un sindacato e un movimento femminile, non più circoscritto alle aree delle campagne padane, vale a dire alle zone d’origine del movimento socialista italiano, ma ormai attivamente proiettato sull’intero territorio nazionale, e soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, che nella prima parte del libro vengono comprensibilmente trascurate. Che la Biagini scompaia un po’ nella folla dei protagonisti che si muovono sulla scena delle lotte del dopoguerra è d’altra parte abbastanza inevitabile, vista la statura e si potrebbe dire la folla dei dirigenti attivi in quell’epoca, 21 la molteplicità e vastità dei movimenti di lotta che occupano quasi un paio di decenni. Si tratta, peraltro, di una fase storica su cui esiste una storiografia ormai sterminata, di cui l’autrice ha cercato di tener conto con diligenza, registrando i successi e le sconfitte che il sindacato conseguì e subì tra la fine degli anni quaranta e i primi anni sessanta. Conclude il volume, con scelta felice e direi obbligata, la figura di Donatella Turtura, una delle grandi dirigenti politiche e sindacali che hanno occupato la scena per buona parte della seconda metà del Novecento. Nata a Bologna nel 1933, comunista, essa partecipa alle lotte della sua regione e alla vita politica di un Partito che in quella città è indubbiamente, a quell’epoca, il più forte dell’intero Paese. Il suo percorso nel sindacalismo femminile, e specificamente fra le braccianti agricole italiane, è particolarmente lungo e ricchissimo di fasi nelle quali la sua personalità ha contato nel determinare indirizzi e scelte di grande rilievo. Si pensi, a tal proposito, alla conquista del contratto nazionale per i braccianti, che consentirà anche ai lavoratori più deboli di godere di alcune conquiste di base strappate nelle aree tradizionalmente più avanzate. Questo lungo percorso – nel quale la Turtura si è distinta per la ricerca intelligente e paziente dell’unità delle donne lavoratrici, al di là delle varie sigle sindacali che le organizzavano e talora le dividevano – trova il suo momento di maggiore riconoscimento l’8 maggio del 1977, quando è nominata segretario generale della Federbraccianti. Sarà inoltre membro nella segreteria nazionale della CGIL. Un punto di arrivo che certo non costituisce una conclusione, ma una continuità d’azione e di indirizzi da una posizione di più elevato potere e responsabilità. Non è certo compito di chi scrive, né la cosa avrebbe qui gran senso, riassumere le vicende sindacali attraverso cui si è venuta svolgendo la militanza di questa donna di grande energia e umanità. Un personaggio che ha lasciato una forte impronta nel sindacato e di cui, peraltro, è ancora viva la memoria tra tanti contemporanei che l’hanno direttamente conosciuta. Il lettore potrà farsene un’idea leggendo i capitoli finali del libro, che cercano anche di mostrare l’azione dirigente di questa figura nei processi più generali della «modernizzazione italiana». Una fase della nostra storia nella quale il quadro delle vicende nazionali delle nostre campagne 22 si lega all’Europa e alle politiche agricole comunitarie. Ma anche una fase storica nella quale, tuttavia, le masse bracciantili vedono declinare il loro peso sociale e politico e la trasformazione industriale del Paese cambia ormai irreversibilmente i rapporti storici tra città e campagna. 23