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UTE
Anno 2015-16
prof. GABRIELLA GOGLIO
LA MUSICA NELL’OTTOCENTO
A. Il melodramma
 L’esperienza romantica del primo Ottocento (richiamo).
 I caratteri del romanticismo italiano e il fiorire del
melodramma.
 La cultura germanica e l’opera wagneriana.
 Il realismo e il verismo nell’opera lirica del secondo
Ottocento.
 Ascolti dalle opere di:
VINCENZO BELLINI, GIUSEPPE VERDI, RICHARD W AGNER,
GEORGE BIZET, PIETRO MASCAGNI, GIACOMO PUCCINI.
B. La musica strumentale
 La crisi post-romantica: il positivismo e il mutamento del
linguaggio musicale.
 Ascolti dalle composizioni strumentali di:
JOHANNES BRAHMS, PIOTR ILIJC CIAIKOVSKIJ,
RICHARD STRAUSS, GUSTAV MAHLER.
LETTURE TRATTE DA SAGGI CRITICI
CARATTERI G ENERALI DEL ROMANTICISMO IN MUSICA
La grande opera del romanticismo in musica è la dissoluzione degli schemi formali
classici e la sostituzione ad essi di una forma che non conosce schemi preconcetti, ma si
plasma direttamente sull'intuizione della fantasia e non si prolunga neanche per una
battuta in più della reale ispirazione. Un'opera simile, naturalmente, trova le sue premesse
in un radicale mutamento della poetica, a cui obbediscono i musicisti, e va congiunta con
una complessa rivoluzione del linguaggio musicale. (...)
Fu attraverso il crescente individualismo che le innovazioni armoniche e formali
penetrarono al midollo dell'arte. La persona umana, divenuta il centro della speculazione
filosofica, il fine delle aspirazioni politiche, l'anima d'ogni concezione del mondo, si pone
come protagonista nell'arte.(...)
Fu necessaria una radicale riforma del linguaggio musicale per renderlo aderente alla
mobilità degli stati affettivi e in genere alle instabili fluttuazioni della vita dello spirito. Tutti
gli elementi dinamici della musica vengono favoriti e potenziati, e la statica simmetria,
l'equilibrio delle relazioni tonali nel piano della sonata classica vengono rotti e gettati in un
fluire incessante di modulazioni.(...)
Se questa disgregazione dell'armonia classica nel senso d'una illimitata mobilità di
modulazioni e d'un adeguamento della forma all'intuizione, fu la conseguenza più
profonda del romanticismo sul linguaggio musicale, (...) il perfezionamento del gusto
timbrico fu un altro aspetto, sviluppato fino a risultati di enorme importanza, della
consapevole volontà espressiva prodotta dal romanticismo. La poesia dei singoli timbri
strumentali fu esplorata con appassionato interesse (...); l’appropriatezza strumentale
diventa una delle maggiori cure del compositore e uno dei suoi mezzi espressivi più
efficaci. È una rivincita del colore sul disegno, favorita dall’affievolimento delle qualità
architettoniche nel linguaggio musicale romantico (...).
L’assoluta dedizione dell’arte romantica all’interiorità dell’individuo produce
l’inesauribile versatilità dei suoi aspetti, che vanno da un romanticismo temperato semplice effusione di sentimentale tenerezza, di nostalgie amorose, di ebbrezze
contemplative di fronte agli spettacoli naturali - ad un più intenso e sofferto romanticismo,
fatto di chimeriche aspirazioni ideali, di allucinazione morbosa, di slanci appassionati cui
seguono le più mortali disperazioni.
(Massimo Mila - Breve storia della Musica - PBE)
IL ROMANTICISMO IN ITALIA
Il Romanticismo nasce in Germania e si diffonde nei paesi europei attraverso
diversi fenomeni di adattamento a circostanze locali. La ricca tradizione classica dell’Italia
impone un inevitabile processo di temperamento, analogo a quello che cinque secoli prima
aveva subito lo stile dell’architettura gotica, quando i maestri del duomo di Orvieto ne
correggevano l’irresistibile slancio ascensionale con una solida impalcatura di linee
orizzontali. È significativo che il più grande esponente del movimento romantico in Italia
sia stato un artista di così equilibrato buon senso, di così olimpica saggezza come
Alessandro Manzoni, un romantico che anche Goethe poteva sinceramente apprezzare.
Per lunga eredità di educazione classica, forse anche per naturale inclinazione favorita dal
clima e dal paesaggio, l’italiano ripugna al vertiginoso approfondimento del lato “notturno”
della vita e alla ricerca degli aspetti segreti delle cose. S’immerge nell’evidenza sensibile
dei fenomeni, più che interrogarne il mistero (…).
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Perciò, se anche in Italia il Romanticismo significò potenziamento dell’individuo, chiamato
in primo piano in tutti i campi dell’arte e della vita morale, questa esaltazione dell’individuo
non si accompagnò a un senso profondo della sua limitatezza e al bisogno irresistibile di
evaderne. L’anelito all’infinito, la ricerca disperata dell’assoluto sono gli elementi che
difettano al romanticismo italiano (…).
Per i compositori italiani dell’Ottocento la musica è saldamente legata a concrete
vicende melodrammatiche e alla plasticità di definiti personaggi. Che cosa rimane
dell’originaria accensione romantica nell’Ottocento musicale italiano? L’affermazione
dell’individualismo si traduce in un’intensificazione dei sentimenti: il melodramma esce
dalla composta misura della razionalistica retorica settecentesca per entrare in un clima
più appassionato e più ardente, che tocca da vicino gli interessi e le esperienze di ogni
uomo. Tutto ciò che nel Romanticismo è ribellione all’onnipotenza della ragione ed
esaltazione del cuore, del sentimento, è bene accetto alla musica italiana del secolo XIX.
Ma delle tante vie che il Romanticismo tedesco esplora per evadere dalla limitatezza
dell’individuo e assumerlo nella certezza dell’assoluto, l’italiano lascia cadere quelle che
non facciano perno ancora e sempre intorno alla persona umana.
(M. Mila - op. cit.)
LA FORMA MUSICALE MELODRAMMA
Tre sono gli elementi fondamentali della forma melodramma: la musica strumentale,
il canto e l’azione scenica (…). Ci sono però altri elementi di non secondaria importanza.
Innanzitutto la scenografia, che cura l’ambiente, la cui influenza è determinante sul
comportamento umano e nello stesso tempo ne è un riflesso; la coreografia, che coordina
i movimenti dell’individuo e delle masse corali e delle comparse; i costumi, che
contribuiscono essenzialmente al tratteggio di ogni individualità; inoltre non trascurabili
sono tutti quei fattori che concorrono a realizzare l’atmosfera ambientale, come le luci e i
rumori; infine la regia, coordinamento creativo di tutti questi elementi, che devono essere
rappresentati in modo unitario.
La musica, a sua volta, assume forme diversissime, dal canto individuale a quello corale,
che si possono dispiegare in recitativi, arie, duetti, quartetti, cori e altro ancora; quella
puramente strumentale può assumere la forma di un intermezzo, di preludio, interludio,
ouverture. C’è infine la parola, ma non si deve cercare nel libretto il senso poetico, né
soffermarsi su assurdità logiche come il “sentir l’orma dei passi spietati” (BALLO IN
MASCHERA, di Giuseppe Verdi): la parola infatti ha solo un valore evocativo drammatico e
deve fondersi in perfetta unità con la musica. (…).
Il melodramma va quindi realizzato come perfetto equilibrio di tutti questi elementi, perché
sia comunicativo di un’esperienza.
(Gabriella Goglio/Corrado Setti - Intendere la musica - Ed. LAMPI DI STAMPA)
L’ESPERIENZA ESTETICA DEL MELODRAMMA
L’opera dell’Ottocento più che un dramma, è il mito del dramma; irreale e
leggendaria. Se si vuole capirne qualche cosa, non bisogna prenderla alla lettera. Quello
che accade sulla scena è una finzione che vive del mito della musica. L’architettura
musicale è la ragione suprema della rappresentazione. Gli spasimi dell’agonia non vietano
al moribondo di prolungare il suo canto pur di compiere il giro melodico dell’espressione,
gli amanti danno in effusioni sentimentali secondo un’armonica simmetria di periodi
musicali, le passioni divampano nel quadro di un ponderato svolgersi di pezzi di musica, i
cori possono sentire tutta l’impazienza di andare via ma non c’è verso che si muovano se
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le cadenze non compiono il loro moto conclusivo. Ma tutte queste cose che, viste ad
occhio nudo, sembrano assurde e muovono facilmente alla celia, sono invece
artisticamente serie. L’azione è un’apparenza che ha le radici nel canto e nel suono. La
parola ha l’unica funzione di secondare un metro e affondare nella musica. (…)
Il tempo che occupa un canto, lo spazio di uno svolgimento strumentale non equivale alla
durata dello svolgersi di un fatto. Il contenuto psicologico di un atto richiede una
estensione di tempo che non è il tempo della musica. La durata di questa ha una sua
intensità di azione che nasce con sé ed è autonoma. Altrimenti la musica sarebbe solo
fotografia sonora di eventi psicologici. Il prolungarsi di una musica ha una sua qualità
intrinseca che muove dalla concentrazione di un attimo di sentimento. Un personaggio
d’opera che, nel morire, prolunga la sua agonia con un canto, fuori le ragioni della verità
fisiologica, può rendere un momento di dolore, per quello che vi è in esso di essenziale e
realmente sentito, nella forma della contemplazione musicale assai più viva e profonda
che non la realtà pratica e fuggevole di quel momento colto nell’apparenza senza
approfondimento interiore, delle leggi fisiche. Quell’agonia che pare si prolunghi più del
necessario, non è l’agonia fisica ma la commossa immagine di essa che lo spirito rivive
facendosene spettacolo. La natura è superata dalla rinascita artistica che è nuova
creazione. (…) All’opera non interessa l’azione per il suo pratico valore di avvenimento, né
importa che sia conseguente e verosimile. Importa quello che è sotto di essa, che vive nel
cuore umano, di cui l’azione drammatica è conseguenza e che la musica rappresenta nel
suo intrinseco valore di sentimento.
(Guido Pannain - L’opera e le opere - Ed. CURCI)
Quando i moribondi cantano a piena voce o i personaggi pensano ad alta voce
senza essere uditi dagli altri o più linee melodiche si intrecciano confondendo le singole
voci, la mente giudica facilmente di trovarsi di fronte a una forma assurda, paradossale e
ridicola di verismo. Se invece riusciamo a vivere la forma dall’interno, non solo scopriamo
che tutti questi elementi non devono avere senso in se stessi bensì come
rappresentazione simbolica, ma intendiamo anche che la complessità della forma è
espressione di un’altra realtà interiore: quella dei sentimenti e delle passioni che l’uomo
vive quando entra nel rapporto. Il musicista contempla e ricompone sul piano estetico
l’azione umana mossa dalla sfera psicologica, con i suoi circuiti emotivi, sentimentali,
passionali, fino al generarsi del dramma.
Occorre però precisare che il dramma non è insito nell’azione in sé, ma è la visione che
scaturisce dal voler conoscere, da un piano più elevato e distaccato, le cause psicologiche
che nell’azione coinvolgono e trascinano l’uomo: il dramma e la conseguente catarsi –
cioè la purificazione dopo la liberazione – si generano dunque in chi osserva per
conoscere il processo universale della dinamica delle passioni umane (l’artista e noi).
Per questo le vicende del melodramma sono sempre simboliche e fungono da supporto
alla rappresentazione di tale dinamica; anche i personaggi non hanno mai un valore fisico,
ma sono l’incarnazione di qualità umane campite nella loro tipicità. Ne consegue che
l’antico Egitto di Aida, come la Parigi di Violetta o il misterioso Oriente di Turandot, non
sono che uno spazio mitico esistente solo nell’interiorità dell’Uomo; e le vicende scelte
trascendono sempre il momento storico per rappresentarsi come eterna storia umana e
hanno significato in quanto creano le condizioni al costituirsi dei rapporti e dei contrasti tra
i personaggi, nei quali si accendono e si consumano le passioni. (…)
Ascoltando il melodramma, non ci si deve dunque preoccupare di creare un nesso logico
tra le varie azioni o di ritrovare un senso veristico in esse: si deve invece superare la ben
più ardua difficoltà di penetrare nel suo valore simbolico e stare di fronte al manifestarsi, in
modo spietatamente evidente, del mondo delle passioni psicologiche, che abitualmente
non amiamo guardare.
(Goglio/Setti, op. cit.)
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LA CRISI DEL PERIODO POSTROMANTICO
Con la morte di Schumann, avvenuta nel 1856, sembra essersi spenta l’età d’oro
del Romanticismo; da quel momento in poi l’ideale infinito non sarebbe più stato
conseguito con tanta generosità, con tanta passione e chiara consapevolezza.
Nella seconda metà del secolo la visione della vita e l’atmosfera spirituale della
cultura europea stanno mutando. L’esperienza romantica – per tutto ciò che comporta – si
era compiuta pienamente solo in poche grandi Coscienze, mentre nei più era rimasta
un’aspirazione, una tensione che non aveva aperto alcun processo di sviluppo morale,
così che ogni entusiasmo, ogni accensione aveva finito con lo spegnersi nella delusione
per il fallimento dei risultati esterni (vedi il fallimento dei moti mazziniani in Italia ed il
disastro europeo del 1848, quando davvero l’eroismo di tanti giovani era sembrato vano).
Entrata così in crisi la fiducia nelle forze ideali, che fino ad allora avevano sostenuto
gli animi, si fa strada la necessità di osservare la vita, gli uomini e la loro manifestazione in
una prospettiva maggiormente diretta alla concretezza delle cose, alle effettive condizioni,
situazioni umane e ai conseguenti bisogni individuali e sociali. Il positivismo di Auguste
Comte (1798–1857) dà obiettivazione filosofica alla reazione al romanticismo, sostenendo
che l’uomo deve rinunciare a penetrare l’essenza metafisica delle cose, per limitarsi a
considerare i fatti così come si presentano all’esperienza e a coglierne i nessi: il “reale”
diviene il nuovo ideale su cui costruire un mondo retto dai nuovi valori di giustizia e
collaborazione sociale, valori fondati sulla concretezza dei fatti e sulla fiducia nel potere
della scienza di dare all’uomo l’esatta conoscenza della realtà.
Sulla base di questa visione sorge e si espande la civiltà “borghese” dell’Ottocento,
strutturatasi con la spinta della tecnicizzazione del lavoro e dell’industrializzazione della
vita economica; e riaffiora – come già nel periodo illuminista – una mentalità
ingenuamente ottimistica nella possibilità di un illimitato progresso, della trasformazione e
del dominio della natura. In effetti, grazie all’applicazione dei risultati della ricerca
scientifica ai vari campi della vita sociale, si ottengono innegabili esiti pratici, che
determinano innumerevoli e sensibili miglioramenti delle condizioni materiali di vita,
particolarmente evidenti nel campo della medicina, dei trasporti, delle comunicazioni e
molto altro ancora. D’altro canto la scienza stessa, concependo l’uomo come entità
puramente oggettiva e materialistica, soggetta alle leggi naturali e alla lotta per la
sopravvivenza – secondo quanto sostenuto dalla teoria dell’evoluzione darwiniana e
riscontrabile in diverse opere scritte tra il 1859 e il 1871 – ne esclude tutti gli aspetti che la
mente non può indagare come fenomeno e determina nell’individuo la scissione tra il suo
essere contingente e il suo mondo interiore: così, parallelamente al suo crescente
benessere materiale, si riduce sempre più la sua possibilità di sentirsi parte di un Tutto più
vasto e trascendente i limiti fisici.
In questa condizione l’individuo si distacca progressivamente dal senso dell’Ideale
romantico, smarrisce la capacità di percepirlo, di intuirlo nel suo valore spirituale e di
sacrificarsi per esso. Vive invece un ideale che tende a identificarsi e a confondersi con
l’immagine che se ne fa la persona: esso diviene allora un mondo isolato ed astratto di
bellezza, il sogno di una vita felice, erroneamente inteso come un mondo spirituale da
contrapporre al crudo realismo della propria condizione umana, prigioniera dell’oggettività
esterna; oppure è un ideale ancora alimentato dal senso del valore, ma che vuole
realizzarsi nelle forme finite del mondo esterno, dove non sarà mai. In ogni caso l’ideale,
proiettato sul mondo esterno dalla mente, trova in esso il suo grande, fatale oppositore. Si
alimenta perciò l’antitesi tra mondo esteriore e mondo interiore, tra finito e infinito, tra
natura e spirito, tra ideale e reale, antitesi che dilanierà gli animi, giungendo a toccare
punte di estrema drammaticità.
Anche l’artista, in quanto uomo del suo tempo, riflette in sé il nuovo modo di
concepire e di vivere la vita; quindi, se da una parte si radicano nella sua persona abitudini
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e consuetudini rese possibili e avvalorate dalla nuova visione materialistica (come la
ricerca della fama e del successo), dall’altra la sensibilità che gli è propria fa emergere in
lui un senso di disagio, di malessere, di inappagamento interiore, quello stato chiamato
spleen, il male del secolo: infatti quanto più ricerca come persona una sicurezza fatta di
benessere, di tranquillità e il più possibile priva di problemi, tanto più sente come
Coscienza di essere condizionato dalle circostanze esterne e quindi incapace di realizzare
l’aspirazione ideale più intima, che si va così progressivamente sfuocando e svuotando di
significato. Perciò gli artisti di questo periodo affidano alla loro opera il messaggio della
propria anima turbata da un male oscuro, radicato in zone sconosciute della natura
umana, che essi svelano e offrono alla nostra conoscenza: si scoperchia così un vero e
proprio vaso di Pandora, da cui emergono molteplici aspetti, legati soprattutto alla
personalità umana, e che saranno campo di indagine fino ai nostri giorni.
(C. Setti / G. Goglio - Il canto della terra - LAMPI DI STAMPA)
La nuova epoca rivolge l’uomo interamente verso il mondo esteriore: dal suo
rapporto con questo devono ricevere forma il suo pensiero e la sua vita. Nella teoria, la
speculazione filosofica cede il posto alle scienze ed il lavoro trova il suo fine precipuo non
più nella cultura interiore dell’individuo per mezzo dell’arte e della letteratura ma nel
miglioramento delle condizioni politiche e sociali. Anche il carattere dell’attività si
trasforma: non è più l’ardito volo della fantasia che trasporta l’uomo al di sopra
dell’esistenza sensibile in nuovi mondi, ma è un’attività che si modella strettamente sopra
gli oggetti visibili (...). Il realismo abbandona tutte le connessioni invisibili e fa della storia e
della società, così come esse empiricamente sono, la sede e la sorgente di ogni vita
spirituale, la sfera esclusiva della vita umana.
(Rudolf Eucken - La visione della vita nei grandi pensatori - BOCCA)
Il LINGUAGGIO MUSICALE POST-ROMANTICO
Anche il linguaggio musicale si modifica dunque sensibilmente, assumendo
caratteri strettamente aderenti all’esperienza umana emergente. Cerchiamo di
evidenziarne alcuni elementi, che anche un semplice ascolto può rivelare: innanzitutto un
senso di “gonfiatura” degli elementi musicali, a cominciare da quello timbrico che si
costruisce su impasti e sonorità di grande pathos sentimentale, vissuto all’estremo limite
ma spesso rivelatore del vuoto interiore; anche la melodia è generalmente frammentata in
idee secondarie, diluita in lunghe divagazioni, sfibrata da continue tensioni e distensioni,
nelle quali va sfumando la chiarezza del nucleo tematico generatore; i ritmi sono
tormentati, spezzati da pause improvvise, ripresi freneticamente e ancora dilatati fino allo
spegnimento e alla sospensione di ogni dinamica.
Dal punto di vista strutturale si riprendono le forme classiche (sonata, concerto,
sinfonia, ecc.), ma essendo smarrito il senso del processo che deve animarle dall’interno,
esse restano prive dell’intima coerenza che ne fa un organismo unitario: perciò queste
composizioni presentano elementi tematici mutevoli e diversificati, che si intersecano, si
contrappongono e sovrappongono, senza comporsi in un organico processo di sviluppo.
Prende così forma nel linguaggio musicale il mutevole mondo di sentimenti in cui si dibatte
la persona, agitata da stati d’animo ora sovraccarichi di emotività, ora velati di triste
malinconia, ora pregni di oscuro pessimismo.
Naturalmente questi caratteri generali dell’esperienza musicale post-romantica
assumono una fisionomia particolare e specifica nel singoli artisti, nella cui opera
confluiscono e si fondono elementi eterogenei quali le origini etniche, la cultura, il carattere
e la natura psicologica personali, dando vita ad espressioni individuali uniche e irripetibili.
(Setti/Goglio - op. cit.)
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VINCENZO BELLINI (1801-1835)
1801 – nasce a Catania VINCENZO BELLINI, in una famiglia di organisti compositori, da cui
riceve le prime lezioni di musica, per la quale dimostra una precocissima attitudine.
1819 – studia al Conservatorio di Napoli, dove conosce il melodramma napoletano, Haydn
e Mozart. Compone le sue prime opere, rappresentate al Teatro San Carlo con successo.
1827/1833 – per dimenticare l’infelice relazione con Maddalena Fumaroli, si trasferisce a
Milano, dove scrive per la Scala e inizia la collaborazione con il librettista Felice Romani.
Si afferma il suo stile personale, che privilegia il canto espressivo rispetto a quello fiorito
alla Rossini. Bellini riesce a vivere con i proventi del suo lavoro.
1833 – si reca a Londra e di lì a Parigi, dove conosce alcuni grandi compositori europei,
come Chopin, e il suo linguaggio musicale si arricchisce di soluzioni nuove.
1835 – il 23 settembre muore a Parigi, stroncato da un’infezione intestinale. Sepolto al
Père Lachaise, la sua salma sarà traslata a Catania nel 1876.
____________________
Se ascolteremo opere di Bellini, la nostra attenzione dovrà spostarsi e concentrarsi
principalmente sulla melodia. E dovremo dire “canto”, perché la melodia belliniana, come
osservò il Pizzetti, è nettamente vocalistica, come non lo sono tante altre cose scritte per
le voci umane. (…) Ma che c’è in questo canto belliniano? C’è un senso di poesia
dolorosa che invano cercheremo in altri autori prima o dopo di lui. C’è una divina
malinconia, senza essere così crudamente pessimistica come quella leopardiana, e
appunto come il Leopardi sembra dirci: “e il naufragar m’è dolce in questo mare”.
(Gino Roncaglia - Invito all’opera - Ed. TARANTOLA)
Bellini portava in sé un segreto immenso: seppe congiungere la voce commossa
del sentimento al battito del cuore universale. Il suono perde ogni residuo peso e diventa
cosa intoccabile, irripetibile, irriproducibile. È un suono che si distingue, si diversifica. Della
sua estensione non avverti la durata perché non ha niente di numerico e spaziale, ma
costituisce una intensità pura, d’inafferrabili vibrazioni che sono le sillabe di un linguaggio
senza parola, per il quale il pulsare dell’essere si fissa in un momento che è di sempre. A
questo risonare con accento di eternità si diede il nome di canto. Ma un canto che non è
come alcun altro e non porta con sé tracce di ricordi e di passato. Il canto di Bellini non ha
memoria; è tutto accumulato nel presente. È la voce umana che si traduce in atto dello
spirito, che fissa il caduco e il fuggevole nella vibrazione eterna.
(Guido Pannain - L’opera e le opere - Ed. CURCI)
Da una lettera di Bellini del 1829: “Studio attentamente il carattere dei personaggi,
le passioni che li predominano e i sentimenti che esprimono. Invaso dagli affetti di
ciascuno di loro, immagino di essere divenuto quel desso che parla e mi sforzo di sentire e
di esprimermi alla stessa guisa. Conoscendo che la musica risulta dalla verità dei suoni e
che le passioni degli uomini si appalesano con suoni diversamente modificati,
dall’incessante osservazione di essi ho ricavato la favella del sentimento per l’arte mia.
Chiuso quindi nella stanza mia, comincio a declamare la parte del personaggio del
dramma e con tutto il calore della passione osservo intanto le inflessioni della mia voce,
l’affrettamento ed il languore della pronuncia in quella circostanza, l’accento insomma ed il
suono dell’espressione”.
(Salvatore Pugliatti - Bellini - Ed. Universitaria Messina)
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GIUSEPPE VERDI (1813-1901)
1813 – nasce a Roncole di Busseto (PR) GIUSEPPE VERDI, figlio di un oste e di una filatrice.
Segue corsi di studi regolari grazie alla generosità del ricco commerciante Barezzi.
1832 – viene respinto al Conservatorio di Milano; dopo qualche anno sposa Margherita
Barezzi, che morirà improvvisamente, quasi contemporaneamente ai due figli.
1842 – il successo di Nabucco segna l’inizio della sua brillante carriera di compositore.
1843/50 – sono gli “anni di galera”, nei quali consolida la sua fama e il suo patrimonio.
Inizia la convivenza con Giuseppina Strepponi (che sposerà nel 1859) a Sant’Agata.
1851/53 – con le opere della “trilogia popolare” consolida la sua fama a livello europeo.
1853/71 – le opere della maturità artistica hanno successo, ma il mondo musicale sta
cambiando e Verdi trascorre un lungo periodo di silenzio, prima degli ultimi capolavori.
1873 – compone la Messa di Requiem per commemorare Manzoni, morto l’anno prima.
1887/93 – dalla collaborazione con Arrigo Boito nascono Otello e Falstaff, le ultime opere.
1899 – muore Giuseppina; Verdi finanzia la costruzione della Casa di Riposo per Musicisti
a Milano. Nomina erede universale la cugina Maria, adottata dai Verdi da bambina.
1901 – il 27 gennaio, si spegne a Milano, al Gran Hotel et de Milan.
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Verdi, nella sua ingenuità di barbaro campagnolo, aveva l’istinto del teatro e sentiva
potentemente il modo, la strumentazione, il ritmo di una scena e tosto lo afferrava
inesorabilmente, facendo coincidere con intuito sicuro le esigenze sceniche con le
immagini musicali della sua coscienza (…). Attraverso le esperienze delle prime opere
viene maturandosi un tipo di vicenda verdiana, dove l’uomo asservito e snaturato dalle più
violente passioni, ritorna, per effetto diretto o no di un amore, a poco a poco umano,
passando attraverso l’esperienza capitale del dolore.
(M. Mila - Il melodramma di Verdi - Ed. FELTRINELLI)
Da molte confidenze di Verdi sappiamo qual metodo seguiva nel lavoro di
composizione: studiare, meditare profondamente l’argomento; vedere nette, vive dinanzi
agli occhi le figure sceniche, nei loro contorni fisici e spirituali, come se fossero ritratte in
un quadro luminoso, con pieno rilievo; imparare a memoria, a forza di recitarle, di
scandirle, di accettarle, le parole del libretto, poi, radunata nell’anima la passione,
sciogliere l’onda della musica.
(Carlo Gatti - Verdi - Ed. MONDADORI)
A ben guardare tutti i soggetti, i personaggi principali, le fondamentali situazioni dei
libretti musicati da Verdi, con le loro esuberanze romantiche e gli eccessi verbali, sono
fuori della vita reale. Chi dà a tutto ciò un palpito umano e insieme trascendentale è la
musica e soltanto la musica. In ciò consiste il verdiano “inventare il vero”, dare cioè un
senso di realtà alle più irreali e spesso assurde concezioni poetiche.
(Gino Roncaglia - Galleria Verdiana - Ed. CURCI)
La riconquista dell’umanità, questo senso di fraternità delle creature, questo calore
di sangue e pianto, che è una verità da guadagnarsi contro l’impeto folle delle passioni,
che tendono a snaturarci, a fare di noi dei mostruosi monomani, è il crisma della grande
arte verdiana, formula non meno coerente ed intimamente sentita di quanto sia per
Wagner il concetto misticheggiante di redenzione. Ed ha in sé tutta l’immanenza, la
“terrestrità” dell’arte verdiana, che nasce dall’uomo e si esaurisce totalmente nell’uomo.
(M. Mila – op. cit.)
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RICHARD WAGNER (1813-1883)
1813 – nasce a Lipsia RICHARD W AGNER. Rimasto presto orfano di padre, si accosterà tardi
alla musica, che apprenderà sostanzialmente come autodidatta.
1833 – compone testo e musica della sua prima opera, che risente ancora degli influssi
del melodramma italiano e francese.
1842 – dopo un soggiorno a Londra e a Parigi, torna in patria come maestro della
Cappella di corte. Lo studio della storia e delle antiche leggende germaniche gli ispirano i
temi delle opere future e la rivoluzionaria concezione del Wort-Ton-Drama.
1852 – definisce il progetto della Tetralogia (Anello del Nibelungo).
1864 – l’incontro con re Ludwig di Baviera, suo mecenate, lo libera dalla precarietà
economica, ma dopo due anni egli è costretto a lasciare Monaco e a stabilirsi a Lucerna.
1870 – sposa Cosima Liszt, ex moglie del maestro von Bülow, dalla quale avrà sei figli.
1872 – si trasferisce a Bayreuth, dove quattro anni dopo inaugura il teatro consacrato alle
sue opere (Festival di Bayreuth) e conclude la Tetralogia.
1883 – colpito da un attacco cardiaco, Wagner muore a Venezia, dove si era trasferito
l’anno prima, mentre era intento a scrivere un saggio.
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Wagner applica in pieno tutti i principi che danno vita a una forma nuova: il dramma
musicale. I fondamentali di essi sono i seguenti: concorso di tutte le arti, poesia, musica,
pittura, mimica, alla creazione del “dramma”; lo scopo deve essere il dramma e non la
musica; la melodia deve sorgere spontanea dalla parola declamata con intensità
drammatica; nessuna interruzione deve arrestare il libero corso della melodia; e perciò
nessun punto fermo, nessuna forma chiusa; abolita quindi la divisione in “pezzi” staccati
alternati a recitativi secchi o strumenti. Da questo fluire continuo della melodia prende
origine il concetto wagneriano della melodia infinita. Essa deve liberamente circolare nel
canto e nell’orchestra. Quest’ultima, resa invisibile (golfo mistico) deve commentare il
dramma svolgendo un tessuto di motivi e temi fondamentali o conduttori.
(G. Roncaglia – op. cit.)
Allontanandosi sempre più deliberatamente dal genere tradizionale dell’opera
storica, il drammaturgo va a cercare i propri soggetti nel mito, in una fase aurorale
dell’umanità, che meglio di ogni altra risponde all’indeterminatezza della musica, scevra
com’è di precisazioni cronologiche e di costume. Eppure l’importanza della riforma
drammatica operata da Wagner impallidisce di .fronte a quella della rivoluzione musicale
da lui condotta a termine portando alle estreme conseguenze le premesse romantiche e
dividendo nettamente in due la storia del linguaggio musicale dell’Ottocento. (…)
Questo ininterrotto tessuto musicale, ove non si avvertono giunture, tagli, riprese, ma solo
si distinguono nella loro funzione di evocazione drammatica i ritorni dei motivi conduttori,
richiedeva una nuova concezione armonica del discorso musicale, in cui i gradi
fondamentali della tonalità - tonica, dominante, sottodominante etc. - non hanno più quello
spicco che possedevano quando erano in stretta relazione con le svolte capitali
dell’architettura formale. Il principio romantico della modulazione continua, che nel suo
cangiante divenire coglie la mobilità incessante della vita affettiva, giunge in Wagner ad
ottundere in certo modo le funzioni tonali, e perviene (…) a quel cromatismo che
costituisce il più opportuno linguaggio musicale per rendere il fondamentale stato d’animo
romantico dell’anelito a qualcosa d’irraggiungibile, di sperato o rimpianto, comunque fuori
dalla realtà del presente.
(M. Mila – op. cit.)
9
GEORGES BIZET (1838-1875)
1838 – nasce a Parigi GEORGES BIZET, in una famiglia di modeste condizioni economiche,
ma di attivi musicisti, che lo avviano agli studi di canto e composizione.
1848 – entra al Conservatorio di Parigi, dove conosce Gounod, di cui subisce l’influsso.
1857/60 – vince il prestigioso “Prix de Rome” e risiede per alcuni anni a Roma, scrivendo
opere di evidente ispirazione italiana, che contribuiscono alla maturazione del suo stile.
Ma in questi anni avverte anche i primi sintomi di una grave malattia alla gola ed è colto da
profonde crisi depressive, che rallentano la sua produzione.
1860 – torna a Parigi e riprende a comporre, ma la critica gli è ostile e lo accusa di essere
un emulatore di Verdi e Wagner.
1872 – lavora all’opera Carmen, terminata due anni dopo e andata in scena nel ’75; la
freddezza con cui viene accolta lo fa cadere in una nuova irreversibile crisi.
1875 – ritiratosi in maggio a Bougival, presso Parigi, vi muore dopo pochi giorni, forse
suicida. Il clamoroso successo di Carmen giungerà sei mesi dopo, da Vienna.
____________________
Benché eccellente allievo (e poi genero) di Halévy al Conservatorio, “Prix de
Rome”, egli non ebbe amica la fortuna nella carriera teatrale, non fu insegnante di
conservatorio, visse una dura bohème, e nemmeno esteriormente ebbe l’autorevole
aspetto dei ben portanti patriarchi dell’opera francese; morì giovane, come un artista
romantico, l’anno stesso in cui produsse il suo capolavoro (…).
Carmen fu nella musica una rivoluzione perfettamente analoga a quella operata da
Courbet nella pittura. Questi aveva riscoperto la natura, il paesaggio nella sua
immediatezza, senza intermediari di tradizione accademica, sbarazzandosi d’un tratto di
tutto il farraginoso armamentario del quadro storico (…). Carmen era la riscoperta
dell’umanità nuda, senz’ombra di sovrastrutture culturali o teatrali. Nietsche vi ravvisava
“l’amore in quanto esso v’ha di implacabile, di fatale, di cinico, di candido, di crudele - ed è
in questo ch’esso partecipa alla natura! ”
Alle prime rappresentazioni Carmen non piacque. Il pubblico fu disorientato: per la prima
volta la protagonista moriva sulle scene dell’Opera-comique. (…). La superba
interpretazione della Galli-Marie, col suo realismo sfrontato e provocante, accrebbe il
disagio degli spettatori. Si gridava allo scandalo. Carmen fu giudicata uno spettacolo poco
per bene. E tutti questi malintesi il pubblico, con la sua consueta luminosità di giudizio,
sintetizzò in una sentenza: Bizet era un wagneriano. Naturalmente, invece, Bizet era la
quintessenza del genio francese.
(M. Mila - Breve storia della musica - Ed. EINAUDI)
Bizet è una delle più ricche, fervide e geniali nature musicali che siano mai apparse.
Tutto in lui è istinto, immediatezza, espansività. Egli ignora le lunghe meditazioni, i disegni
lentamente maturati, realizzati secondo i metodi e le norme di una ragione ponderatrice e
d’una tenace volontà. Egli è altresì incapace di quelle lente e ascendenti e progressive
elevazioni che, in taluni spiriti, inclini al misticismo, al fervore religioso, si dilatano e
s’innalzano gradatamente (…).
Egli non conosce dialettica ed eloquenza; è immune da qualsiasi bruma e nebulosità.
(Antonio Capri - Musica e musicisti d’Europa - Ed. HOEPLI)
10
PIETRO MASCAGNI (1863-1945)
1863 – nasce a Livorno Pietro Mascagni, figlio di un fornaio.
1876 – contro la volontà del padre, intraprende gli studi musicali a Livorno.
1882 – si trasferisce a Milano, dividendo una stanza in affitto con l’amico Puccini, ed entra
nel locale Conservatorio, dove ha per maestro Ponchielli.
1885 – insofferente della disciplina scolastica, abbandona il Conservatorio e si unisce
come direttore d’orchestra a compagnie d’operetta girovaghe.
1886 – è in tournée a Cerignola (Foggia), dove diventa direttore della locale Filarmonica.
Rimarrà nella città pugliese fino al1995, salvo saltuarie assenze per impegni artistici.
1899/00 – la sua fama mondiale lo porta, come direttore d’orchestra, a Pietroburgo,
Vienna e negli USA. Negli anni successivi è in varie tournées anche in Europa.
1927 – è delegato dal Governo a rappresentare l’Italia alle celebrazioni viennesi per il
centenario della morte di Beethoven.
1932 – si iscrive al Partito Fascista, che sconfesserà negli anni di guerra.
1945 – nell’agosto, muore all’Hotel Plaza di Roma, sua residenza fissa dal 1927.
____________________
Il verismo stava principalmente nella scelta dei soggetti, attinti per lo più alla realtà
della vita contemporanea; oppure riportati, se si trattava di soggetti storici, alla dimensione
angusta e alla violenza brutale del fatto di cronaca. (…) Ma dal punto di vista musicale il
melodramma verista ha ben poco di veramente realistico e costituisce un fenomeno di
aggiornamento, condotto con sensibilità pronta e spregiudicata. (…) Infrante le barriere
culturali con cui s’era creduto di proteggere un primato ormai svanito, il melodramma
verista rimescola le proprie acque con quelle della musica europea, così prodigiosamente
cresciuta durante l’Ottocento. (…) Gli operisti avevano alle loro spalle un ricco passato cui
non intendevano rinunciare: il verismo consiste perciò in una frettolosa conciliazione della
tradizionale vocalità italiana con le inderogabili conquiste del sinfonismo ottocentesco e
del dramma musicale wagneriano. (…)
L’intrinseca debolezza musicale dell’opera verista si manifesta in quel fenomeno delle
affermazioni iniziali, a cui non fa seguito una coerente parabola di maturazione artistica.
Nel 1890 la Cavalleria rusticana apparve sull’orizzonte lirico nazionale come una
promessa prodigiosa, ma già un anno dopo (Amico Fritz) si appanna la freschezza
dell’ispirazione mascagnana; il declino continua per altre due opere (…). Infine la parabola
discendente precipita.
(M. Mila - op. cit.)
La nota psicologica dominante nell’opera verista, fu l’amore; amore non
cerebralmente raffinato o pervertito, come in Debussy e in Strauss, ma sentito ed
espresso elementarmente, come ebbrezza o spasimo della carne bramosa, gelosa,
tradita, fremente, sanguinante, crudele.
Tale appunto è l’atmosfera dominante in Cavalleria rusticana, in cui si manifestano con
tratti efficaci tutte le caratteristiche dell’arte di Mascagni: caratteristiche di veemenza
impetuosa, di canora espansività, solcata da esclamazioni orchestrali, in cui si esplica
l’esuberanza comunicativa di un facile lirismo.
(Antonio Capri - Musica e musicisti d’Europa - HOEPLI)
11
GIACOMO PUCCINI (1858-1924)
1858 – nasce a Lucca GIACOMO PUCCINI, appartenente a una dinastia di musicisti. La
precoce morte del padre precipita la famiglia in gravi ristrettezze economiche.
1870 – si iscrive all’Istituto musicale di Lucca e due anni dopo è già in grado di contribuire
al bilancio familiare come organista in varie chiese di Lucca.
1880 – conseguito il diploma, ottiene una borsa di studio dalla regina Margherita, che gli
permette di perfezionarsi al Conservatorio di Milano, dove rimane fino al 1883.
1884 – inizia la convivenza con Elvira Bonturi, dalla quale avrà il figlio Antonio.
1891 – si trasferisce in Toscana, a Torre del Lago, dove nel 1900 si farà costruire una
villa, il suo rifugio, luogo ideale di lavoro e di incontro con gli amici artisti.
1893 – il successo di Manon Lescaut consacra definitivamente la sua fama.
1912 – la morte di Ricordi gli sottrae l’editore/mecenate che lo aveva sempre sostenuto e
comincia per Puccini un periodo di crisi.
1920 – inizia a lavorare su Turandot, la sua ultima opera che resterà incompiuta.
1924 – viene operato a Bruxelles per un tumore alla gola. Ma il male è avanzato e le sue
condizioni si aggravano fino alla morte, sopraggiunta il 24 novembre per un collasso.
____________________
Puccini era un operista dotato di un senso del teatro che non può non dirsi
stupendo, di un savoir faire tecnico che nella maturità raggiunse la maestria sovrana, di un
dono naturale per la melodia lirica che, manifestatosi fin dal suo primo lavoro teatrale, non
l’abbandonò quasi mai durante l’intera carriera e rese le sue ispirazioni più belle
patrimonio musicale comune; un compositore che, con cinque delle sue dodici opere,
domina i teatri del mondo intero, grandi e piccoli, affiancandosi così a Mozart, Wagner,
Verdi e Strauss. (...)
(Mosco Carner - Giacomo Puccini - IL SAGGIATORE)
Basterebbe la capacità di progresso per fare assegnare a Giacomo Puccini un
posto speciale nel periodo dell’opera verista. (...) ebbe tanta personalità da prediligere un
tipo particolare di vicenda, un determinato ordine di sentimenti (...). Melodista gentile,
sospiroso, sentimentale, si compiacque dell’idillio e dell’elegia, dei mezzi toni espressivi,
delle sfumature delicate. (...)
Del resto anche la qualità drammatica ed espressiva di Puccini, per lo più gentile e
delicata, gli assegna una posizione appartata nella scuola verista, alla cui brutalità di effetti
si accostò raramente.
(M. Mila - op. cit.)
(...) Puccini, pur serbando inalterati i lineamenti della sua fisionomia di melodista
delicato, tenero, sospiroso, incline a una trepida e dolce femminilità, non cessò mai
dall’esplorare quei campi della produzione musicale a lui contemporanea, verso i quali la
sua sensibilità era attirata da affinità elettive di gusto e di orientamento, onde allargare la
cerchia dei suoi mezzi e delle sue possibilità.
Prendendo le mosse da Massenet, Puccini si accostò in seguito a Debussy e ne assimilò
procedimenti armonici, coloristici ed orchestrali, che diedero alla sua arte una tinta
leggiadra di modernità.
(A. Capri - op. cit.)
12
JOHANNES BRAHMS (1833-1897)
1833 – nasce ad Amburgo JOHANNES BRAHMS, in una famiglia modesta, che tuttavia
riconosce le doti del ragazzo e gli assicura una formazione di qualità.
1853 – incontra il violinista Joachim, Liszt e Schumann, che Brahms considererà sempre il
suo unico vero maestro.
1857 – dopo la morte di Schumann, torna ad Amburgo, dove costituisce e dirige per tre
anni un coro femminile, attività importante per il suo lavoro compositivo.
1862 – si reca a Vienna, dove risiederà definitivamente dal 1878.
1870 – conosce Wagner e il direttore d’orchestra Von Bülow, che diventa uno dei suoi
maggiori estimatori e dirige le sue opere sinfoniche con successo.
1870/90 – nei vent’anni successivi, si dedica totalmente alle composizioni per orchestra,
sinfonie e concerti, fino ai capolavori cameristici dell’ultimo periodo.
1897 – a un anno dalla scomparsa di Clara Schumann, da lui venerata, anche Brahms si
spegne a Vienna per un cancro e viene sepolto nel “Quartiere dei musicisti”.
____________________
La musica brahmsiana nasce da un mondo interiore che non ha niente di molto
singolare e che non racchiude, in se stesso, né grandi speranze né grandi affermazioni.
Nasce da un mondo interiore assai simile a quello dell’uomo medio, dell’uomo di salute
normale, di nervi intatti, di tre o quattro saldi principi intorno al vivere etico, di tre o quattro
idee generali intorno alla bellezza della natura, la bellezza dell’amore, la venerabilità dei
fanciulli, la convenienza dei riti liturgici (ogni popolo a modo suo), il rispetto per gli eroi
mitici o storici, per le passioni leggendarie che lì vicino non esistono ma che, in altro posto,
in altro tempo, potranno benissimo esistere potranno essere esistite benissimo (...). Da
tutto questo è assente ogni sensazione di lotta, ogni volontà di contrastare, ogni desiderio
di isolarsi per rendersi diversi e godere della propria eccezione. (...).
(Giulio Confalonieri - Guida alla musica - Ed. ACCADEMIA)
Spente le fiamme dello “Sturm und Drang” nell’insuccesso dei moti quarantotteschi,
allo stile dominatore e fatale dei passionali eroi romantici subentra un ripiegamento dello
spirito su posizioni di malinconica rassegnazione: nel mondo aggrovigliato delle
frustrazioni germogliano le crisi dell’uomo moderno. Queste indicazioni accompagnano fin
sulla soglia del nucleo segreto in cui consiste, appunto, la modernità dell’arte di Brahms.
La rinuncia ai grandi ideali, la dimessa sfiducia delle generazioni postrisorgimentali, la
convinzione che tutto sia già stato fatto dai grandi che vennero prima (...), tutto ciò
alimenta la scontentezza interiore di quell’età.
(M. Mila - I Grandi Musicisti n.62 - F.lli FABBRI Ed.)
Il suo mondo sentimentale è nell’intimo tormentato da una greve malinconia, quasi
un’affezione dello spirito, che potrebbe sconvolgere l’opera dell’artista che ha coscienza
della propria ricchezza di sensi e di sentimenti, ma teme di esserne sopraffatto. La
tenacia, la durezza del lavoro compositivo brahmsiano confermano questa volontà di
dominio sulle zone troppo torbide ed oscure del proprio animo: tale lavoro è naturalmente
lo sfogo di una concezione morale, di un imperioso desiderio di trovare la “grazia”
attraverso l’asprezza della propria opera.
(Luigi Ronga - Arte e gusto nella musica - Ediz. RICCIARDI)
13
PIOTR ILIC CIAJKOVSKIJ (1840-1893)
1840 – nasce a Kamsko-Votkinsk (Russia) PIOTR CIAJKOVSKIJ, figlio di un ingegnere
minerario e di una nobile di origine francese. Mostra presto spiccate attitudini musicali.
1850 – frequenta la Scuola di Giurisprudenza, essendo destinato a una carriera di
burocrate. Negli anni di scuola contrae il vizio del fumo e dell’alcool.
1856 – dopo il diploma, assume un incarico governativo, ma non lascia la musica.
1863 – abbandona l’impiego statale e si iscrive al Conservatorio di San Pietroburgo, dove
rimarrà fino al 1865; da quell’anno ricopre una cattedra di armonia.
1877 – conosce Nadezda von Meck, ricchissima vedova amante dell’arte, che sarà la sua
mecenate fino alla rottura del loro rapporto nel 1890. Nello stesso anno sposa una sua
allieva, per mettere a tacere le voci sulla sua omosessualità; scelta forzata che lo
distrugge psichicamente e lo porta all’orlo del suicidio.
1877/91 – compone le opere più famose e viaggia molto in Europa e America.
1893 – muore durante un’epidemia di colera, come era accaduto alla madre nel 1855.
____________________
Ciajkovskij è una delle personalità più complesse, più tormentate, più inafferrabili di
tutta la storia della musica, ma che ha saputo riversare nella musica i segreti più intimi
della sua anima (...). Specialmente nei momenti in cui si sente sempre più perseguitato da
un fato crudele, quando egli più profondamente soffre per la sua condizione di uomo e la
sua sensibilità sembra giunger sull’orlo di una tragica rottura, proprio in quei momenti la
sua fantasia creativa si adagia in un doloroso autocompiangimento che non conosce limiti,
il suo dolore non è mai tragedia, i suoi accenti non sono mai eroici, ma quasi sempre solo
patetici. Tuttavia la sua musica non è mai insincera: in essa scorre - un così ingenuo
abbandono, che la rende autentica, sofferta testimonianza umana (...).
Ciajkovskij credeva ai facili sentimentalismi e vi adeguava la propria musica in tutto e per
tutto. Il risultato era che le proporzioni interne (della sinfonia) venivano completamente a
mancare e nei momenti meno riusciti la retorica mascherava il vuoto morale di una simile
personalità. In compenso l’invenzione melodica riusciva a tenere in vita tutto l’edificio
sonoro, in virtù di una sua innegabile potenza di suggestione. I temi di Ciajkovskij hanno
sempre una grande ampiezza di disegno, una pienezza sentimentale, una discorsività
innegabile: sono quasi sempre pensati per una grande massa di archi che trascina ad
emozioni epidermiche. Sull’invenzione melodica tutta la sinfonia cresce e palpita di una
vita intensamente espressiva: temi per di più che ritornano continuamente, sempre
perfettamente riconoscibili, perché il musicista non ha affatto il dono della variazione (...).
(Fratelli Fabbri - Storia della Musica – 1a Edizione)
Ciajkovskij fu senz’altro un decadente: romantico quando la stagione del
romanticismo era passata, di intenzioni cosmopolite quando la scuola russa cercava una
sua manifesta espressione nazionalista, sinfonista quando la sinfonia era già in declino.
Dunque, apertamente, decadente. Ma forse, proprio per questo, ricco di tutta l’esperienza
che la decadenza comporta (...). In ciò si configura la stessa psicologia slava sempre
pronta alle allucinazioni, ai misticismi, al senso di fatalità. (Aveva) una natura femminile,
una sensibilità esasperata, un’incertezza continua, una mancanza totale di qualità eroiche
se non di fronte alla volontà ferrea di fare il musicista.
(Fratelli Fabbri - Grande storia della musica - 2a Edizione)
14
RICHARD STRAUSS (1864-1949)
1864 – nasce a Monaco di Baviera RICHARD STRAUSS, in una famiglia agiata e con
interessi musicali, che gli diede dall’infanzia un’educazione in tal senso.
1889 – dopo gli esordi sulle orme di Wagner, trova il suo stile con Don Juan, seguito dal
altri poemi sinfonici di grande successo, come Also sprach Zarathustra.
1899/1913 – la sua fama tocca l’apice con le opere Salomé (1905) ed Elektra (1909).
1936 – alle Olimpiadi di Berlino non dirige l’inno nazionalsocialista e non coopera mai
completamente con il potere anche durante la guerra.
1945 – accusato di collaborazionismo, fu esiliato in Svizzera, ma sarà assolto nel 1947.
1949 – tornato da due anni a Garmisch, vi muore nel mese di settembre.
___________________
(...) singolare e dotatissimo musicista, maestro sommo dell’orchestra, autore di
opere teatrali e poemi sinfonici di indiscutibile maestria. (...) L’opera straussiana, della
quale pure sarebbe incauto negare la genialità, è il compendio di esperienze rivolte a
vitalizzare la tradizione modificandone solo certi aspetti esteriori. (...)
Il nuovo per lui fa tutt’uno con l’abbagliamento della tecnica, con lo spreco sonoro, con il
dominio della materia, onde stupire l’ascoltatore ghermito dalla violenza dei procedimenti.
Ma l’impressione prepotente dei clangori strumentali non serve a risvegliare e a scuotere
la coscienza critica, e si propone fini eminentemente solipsistici. Infatti la struttura
armonica non conosce, al contrario che in Mahler, incrinature profonde, non suggerisce un
pessimismo storicizzato o quantomeno il dibattersi delle forme sotto la pressione di
determinate situazioni sociali e umane in movimento: il virtuosismo diventa un modo per
camuffare, sotto la vernice modernistica, un obiettivo di conservazione, se non addirittura,
almeno nelle opere tarde di questo musicista, di ristabilimento. Lo stesso cromatismo
ereditato da Wagner non è condotto alle sue estreme conseguenze, ma è tenuto
prudentemente al di qua del salto atonale.
(Armando Gentilucci - Guida all’ascolto della musica contemporanea - FELTRINELLI)
(...) Strauss ricapitola ed esaurisce le principali esperienze romantiche. V’è in lui
una dedizione incondizionata alle formule del romanticismo (...). I principali tratti di
quest’ultimo, Strauss raccoglie e porta alle estreme conseguenze. Egli concepisce la
musica come illustrazione e coloritura di un’impalcatura letteraria, incapace di realizzarla
nella sua autonomia puramente sonora. È perciò il maggior cultore del poema sinfonico a
soggetto e, assecondando la sua potente vena di barocchismo marinistico, volta a destare
nell’ascoltatore la meraviglia, si compiace di realizzare coi suoni effetti imitativi realistici e
convenzionali. (...)
Strauss è stato spesso addirittura insultato per la sua aridità spirituale, per la sua attitudine
a cogliere e rendere musicalmente soltanto la sensazione, e gli è stato fatto carico di tutti i
difetti d’una prospera borghesia materialistica e positivista come quella del tardo secolo
XIX. Ma realmente non si vede perché questa materia artistica dovrebbe avere minore
legittimità estetica di qualsiasi altra. E là dove Strauss ha realizzato con foga e fecondità
inesauribili la poesia della volgarità e della sensualità, ora spavaldamente forte e sicura di
sé come nel Don Giovanni, il più pregevole dei suoi poemi sinfonici, ora sottilmente
ambigua e perversa come nelle sue due migliori opere, la Salomè e l’Elettra, la sua arte
richiede un franco riconoscimento.
(M. Mila - op. cit.)
15
GUSTAV MAHLER (1860-1911)
1860 – nasce nella città boema di Kalischt, GUSTAV MAHLER, di famiglia ebrea, funestata
da numerosi lutti, soprattutto la morte di molti fratelli del piccolo Gustav.
1870 – entra al Conservatorio di Vienna e dopo il diploma inizia la carriera di direttore.
1880 – compie le sue prime esperienze come direttore di operette; dirigerà poi nei teatri di
molte città mitteleuropee, tra cui Lubiana, Praga, Budapest.
1897 – diventa direttore all’Opera di Vienna, dove resta per dieci mitici anni.
1902 – sposa Alma Schindler, con la quale vivrà un rapporto difficilissimo e che dopo la
morte del marito ne scriverà una famosa biografia.
1907 – infastidito dagli intrighi degli ambienti teatrali e dagli attacchi continui della critica al
suo lavoro di compositore, accetta l’invito del Metropolitan di New York, dove dirige i
concerti della Philarmonic Society.
1911 – rientra in Europa e muore in un sanatorio viennese nel maggio dello stesso anno,
per una endocardite incurabile, di cui soffriva da tempo.
___________________
Mai artista fu tanto più nel proprio tempo, se quel tempo si considera in una giusta
prospettiva. Malgrado abbia avuto in vita molti riconoscimenti e successi, egli continuò
sino alla morte a ritenersi un incompreso. (...) Mahler incontrò il successo, e vide crearsi
intorno a sé profonde fratture: grandi entusiasmi di folla, profondi dissensi di critica lo
accompagnarono dovunque. Trovò tutto fuorché l’indifferenza. E tuttavia continuò a
ripetere “La mia musica è musica del futuro”.
(Ugo Duse - La Musica Moderna n.52 - F.lli FABBRI Ed.)
Mahler sarebbe forse meno affascinante se non fosse, a volte, tanto difficile. Nel
suo approccio “iperdimensionale” c’è ben poco della soddisfatta ampollosità fin-de-siècle,
del gigantismo, della megalomania, dell’abbondanza fino al parossismo; vi traspare molto
più un’ansietà demiurgica: l’angoscia di creare un mondo che proliferi oltre ogni controllo
razionale, la vertigine di creare un’opera in cui l’armonia e la contraddizione abbiano
uguale peso, l’insoddisfazione delle dimensioni riconosciute dell’esperienza musicale, la
ricerca di un ordine meno palesemente stabilito e meno indulgentemente accettato.
(Pierre Boulez - Prefazione a “Gustav Mahler” di Bruno Walter - Ed. RIUNITI)
Chiunque abbia conosciuto Mahler ricorderà come la serena espressione del suo
viso spesso diventasse improvvisamente triste. Solo a poco a poco intuii il significato di
questi attacchi di malinconia. Nel profondo della sua anima giaceva un grande dolore
universale, le cui gelide ondate, risalendo in superficie, lo colpivano con freddi rovesci. “Su
quali oscuri fondamenti riposa dunque la nostra esistenza?” mi chiese una volta... In fondo
non si liberò mai dalla lotta dolorosa nel ricercare il senso dell’esistenza umana... Ne
scaturivano gli impulsi spirituali più forti per la sua creazione, ognuna delle sue opere era
un nuovo tentativo di risposta. E quando raggiungeva la risposta, l’antica domanda
sorgeva di nuovo in lui con il suo insaziabile e struggente richiamo.
(...) aveva e sapeva molto più di quanto domandasse, poiché in lui c’era la musica, in lui
c’era l’amore; penso quindi che, giunto alla perfezione, avesse capito che la sua ricerca
fiduciosa conteneva già la risposta e che il suo anelito struggente sia stato placato.
(Bruno Walter - “Gustav Mahler” - Ed. RIUNITI)
16
VINCENZO BELLINI
N O R M A (1831)
ATTO PRIMO - SCENA IV
Entra Norma in mezzo alle sue ministre. Ha
sciolto i capelli, la fronte circondata di una
corona di verbena, ed armata la mano d'una
falce d'oro. Si colloca sulla pietra druidica, e
volge gli occhi d'intorno come ispirata.
Tutti fanno silenzio.
Casta Diva, che inargenti
Queste sacre antiche piante,
Al noi volgi il bel sembiante,
Senza nube e senza vel!
Oroveso e Coro
Casta Diva, che inargenti
Queste sacre antiche piante,
Al noi volgi il bel sembiante,
Senza nube e senza vel!
Norma
Tempra, o Diva,
Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancora lo zelo audace.
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.
Oroveso e Coro
Diva, spargi in terra
Quella pace che regnar
Tu fai nel ciel.
Norma
Sediziose voci, voci di guerra
Avvi chi alzarsi attenta
Presso all'ara del Dio?
V'ha chi presume
Dettar responsi alla veggente Norma,
E di Roma affrettar il fato arcano?
Ei non dipende, no, non dipende
Da potere umano.
Oroveso
E fino a quando oppressi ne vorrai tu?
Contaminate assai non fur le patrie selve
E i templi aviti dall'aquile latine?
Omai di Brenno oziosa
Non può starsi la spada.
Uomini
Si brandisca una volta!
Norma
E infranta cada.
Infranta, sì, se alcun di voi snudarla
Anzi tempo pretende.
Ancor non sono della nostra vendetta
I dì maturi.
Delle sicambre scuri
Sono i pili romani ancor più forti.
Oroveso e uomini
E che t'annunzia il Dio?
Parla! Quai sorti?
Norma
Io ne' volumi arcani leggo del cielo,
In pagine di morte
Della superba Roma è scritto il nome.
Ella un giorno morrà,
Ma non per voi.
Morrà pei vizi suoi,
Qual consunta morrà.
L'ora aspettate, l'ora fatal
Che compia il gran decreto.
Pace v'intimo …
E il sacro vischio io mieto.
_____________________
ATTO SECONDO - SCENA X
Norma
In mia man alfin tu sei:
Niun potria spezzar tuoi nodi.
Io lo posso.
Pollione
Tu nol dei.
Norma
Io lo voglio.
Pollione
E come?
Norma
M'odi.
Pel tuo Dio, pei figli tuoi,
Giurar dei che d'ora in poi
Adalgisa fuggirai,
All'altar non la torrai,
E la vita io ti perdono,
E mai più ti rivedrò.
Giura.
Pollione
No. Sì vil non sono.
Norma
Giura, giura!
Pollione
Ah! Pria morrò!
Falcia il vischio; le Sacerdotesse lo
raccolgono in canestri di vimini; Norma si
avanza e stende le braccia al cielo; la luna
splende in tutta la sua luce; tutti si prostrano.
17
Norma
Non sai tu che il mio furore
Passa il tuo?
Pollione
Ch'ei piombi attendo.
Norma
Non sai tu che ai figli in core
Questo ferro?
Pollione
Oh Dio! Che intendo?
Norma
Sì, sovr'essi alzai la punta.
Vedi, vedi a che son giunta!
Non ferii, ma tosto, adesso
Consumar potrei l'eccesso.
Un istante, e d'esser madre
Mi poss'io dimenticar!
Pollione
Ah! Crudele, in sen del padre
Il pugnal tu dei vibrar!
A me il porgi.
Norma
A te?
Pollione
Che spento cada io solo!
Norma
Solo? Tutti!
I Romani a cento a cento
Fian mietuti, fian distrutti,
E Adalgisa …
Pollione
Ahimè!
Norma
Infedele a suoi voti …
Pollione
Ebben, crudele?
Norma
Adalgisa fia punita,
Nelle fiamme perirà, sì, perirà!
Pollione
Ah! Ti prendi la mia vita,
Ma di lei, di lei pietà!
Norma
Preghi alfine?
Indegno! È tardi.
Nel suo cor ti vo' ferire,
Sì, nel suo cor ti vo' ferire!
Già mi pasco ne' tuoi sguardi,
Del tuo duol, del suo morire,
Posso alfine, io posso farti
Infelice al par di me!
Pollione
Ah! T'appaghi il mio terrore!
Al tuo piè son io piangente!
In me sfoga il tuo furore,
Ma risparmia un'innocente!
Basti, basti a vendicarti
Ch'io mi sveni innanzi a te!
Norma
Nel suo cor ti vo' ferire!
Pollione
Ah! T'appaghi il mio terrore!
Norma
No, nel suo cor!
Pollione
No, crudel!
Norma
Ti vo' ferire!
Pollione
In me sfoga il tuo furore,
Ma risparmia un'innocente!
Norma
Già mi pasco ne' tuoi sguardi, (ecc.)
Pollione
Ah! Ti basti il mio dolore
Ch'io mi sveni innanzi a te!
Dammi quel ferro!
Norma
Che osi? Scostati!
Pollione
Il ferro, il ferro!
Norma
Olà, ministri, sacerdoti, accorrete!
SCENA ULTIMA
Ritornano Oroveso, i Druidi, i Bardi e i Guerrieri.
Norma
All'ira vostra
Nuova vittima io svelo.
Una spergiura sacerdotessa
I sacri voti infranse,
Tradì la patria,
E il Dio degli avi offese.
Oroveso e Coro
O delitto! O furor!
La fa palese!
Norma
Sì, preparate il rogo!
Pollione
Oh! Ancor ti prego,
Norma, pietà!
Oroveso e Coro
La svela!
Norma
Udite.
(Io rea l'innocente accusar
Del fallo mio?)
Oroveso e Coro
Parla. Chi è dessa?
Pollione
Ah! Non lo dir!
Norma
Son io.
18
Oroveso e Coro
Tu! Norma!
Norma
Io stessa. Il rogo ergete.
Oroveso e Coro
(D'orrore io gelo!)
Pollione
(Mi manca il cor!)
Oroveso e Coro
Tu delinquente!
Pollione
Non le credete!
Norma
Norma non mente.
Oroveso
Oh! Mio rossor!
Coro
Oh! Quale orror!
Norma
Qual cor tradisti, qual cor perdesti
Quest'ora orrenda ti manifesti.
Da me fuggire tentasti invano,
Crudel Romano, tu sei con me.
Un nume, un fato di te più forte
Ci vuole uniti in vita e in morte.
Sul rogo istesso che mi divora,
Sotterra ancora sarò con te.
Pollione
Ah! Troppo tardi t'ho conosciuta!
Sublime donna, io t'ho perduta!
Col mio rimorso è amor rinato,
Più disperato, furente egli è!
Moriamo insieme, ah, sì, moriamo!
L'estremo accento sarà ch'io t'amo.
Ma tu morendo, non m'aborrire,
Pria di morire, perdona a me!
Che feci, o ciel!
Oroveso e Coro
Oh! In te ritorna,
Ci rassicura!
Norma
(ai Sacerdoti)
Io son la rea.
Oroveso e Coro
Canuto padre te ne scongiura,
Di che deliri, di che tu menti,
Che stolti accenti uscir da te!
Il Dio severo che qui t'intende,
Se stassi muto, se il tuon sospende,
Indizio è questo, indizio espresso
Che tanto eccesso punir non de',
Ah no, che il Dio punir non de'!
Norma! Deh! Norma, scolpati!
Taci? Ne ascolti appena?
GIUSEPPE VERDI
NABUCCO (1842)
ATTO PRIMO - SCENA I
Coro
Vergini
Gran Nume, che voli sull’ale dei venti,
Che il folgor sprigioni dai nembi frementi,
Disperdi, distruggi d’Assiria le schiere,
Di David la figlia ritorna al gioir.
Peccammo!…Ma in cielo le nostre preghiere
Ottengan pietade, perdono al fallir…
Tutti
Deh! L’empio non gridi, con baldo blasfema:
“Il Dio d’Israello si cela per tema?”
Non far che i tuoi figli divengano preda
D’un folle che sprezza l’eterno poter!
Non far che sul trono davidico sieda
Fra gli idoli stolti l’assiro stranier!
Tutti
Gli arredi festivi giù cadano infranti,
Il popol di Giuda di lutto s’ammanti!
Ministro dell’ira del Nume sdegnato
Il rege di Assiria su noi già piombò!
Di barbare schiere l’atroce ululato
Nel santo delubro del Nume tuonò!
Leviti
I candidi veli, fanciulle, squarciate,
Le supplici braccia gridando levate;
D’un labbro innocente la viva preghiera
È grato profumo che sale al Signor!
Pregate fanciulle!… per voi della fiera
Nemica falange sia nullo il furor!
19
TRAVIATA (1853)
DON CARLO (1867)
ATTO PRIMO - SCENA V
ATTO SECONDO - SCENA VI
Recitativo e Aria di Violetta
Duetto Filippo/Rodrigo
Violetta
È strano!… È strano!… In core
Scolpiti ho quegli accenti!
Saria per me sventura un serio amore?
Che risolvi, o turbata anima mia?
Null’uomo ancora t’accendeva… O gioia
Ch’io non conobbi, essere amata amando!…
E sdegnarla poss’io
Per l’aride follie del viver mio?
Filippo
Restate!
Presso alla mia persona
perché d’essere ammesso
voi non chiedeste ancor?
Io so ricompensar tutt’i miei difensor;
Voi serviste, lo so, fido alla mia corona.
Rodrigo
Sperar che mai potrei dal favore dei Re?
Sire, pago son io, la legge è scudo a me.
Filippo
Amo uno spirto alter. L’audacia perdono…
Non sempre…
Voi lasciaste il mestier della guerra;
Un uomo come voi, soldato d’alta stirpe,
Inerte può restar?
Rodrigo
Ove alla Spagna una spada bisogni,
Una vindice man, un custode all’onor,
Bentosto brillerà la mia di sangue intrisa!
Filippo
Ben lo so…
ma per voi che far poss’io?
Rodrigo
Nulla per me, ma per altri.
Filippo
Che vuoi dire? Per altri?
Rodrigo
Io parlerò, sire.
Filippo
Favella!
Rodrigo
O Signor, di Fiandra arrivo;
Quel paese un dì sì bel,
D’ogni luce or fatto privo
Ispira orror, par muto avel!
L’orfanel che non ha loco
Per le vie piangendo va;
Tutto struggon ferro e foco,
Bandita è la pietà.
La riviera che rosseggia
Scorrer sangue al guardo par;
Della madre il grido echeggia
Pei figlioli che spirar.
Ah! Sia benedetto Iddio, che narrar lascia a me
Questa cruda agonia perché sia nota al Re.
Filippo
Col sangue sol potrei la pace aver del mondo;
Il brando mio calcò l’orgoglio ai novator
Che illudono le genti con sogno mentitor…
La morte in questa man ha un avvenir fecondo.
Ah, fors’è lui che l’anima solinga ne’ tumulti
Godea sovente pingere de’ suoi colori occulti!…
Lui che modesto e vigile all’egre soglie ascese,
E nuova febbre accese, destandomi all’amor.
A quell’amor ch’è palpito dell’universo intero,
Misterioso, altero, croce e delizia al cor.
(Resta concentrata un istante poi dice)
Follie!… Follie!… delirio vano è questo!…
Povera donna, sola, abbandonata in questo
Popoloso deserto che appellano Parigi,
Che spero or più?… Che far degg’io?…
Gioire, di voluttà nei vortici perire.
Sempre libera degg’io folleggiar di gioia in gioia,
Vo’ che scorra il viver mio pei sentieri del piacer,
Nasca il giorno, o il giorno muoia,
Sempre lieta ne’ ritrovi
A diletti sempre nuovi dee volare il mio pensier
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Rodrigo (con impeto)
Fiera ha l’alma insiem e pura!
Filippo (con esplosione di dolore)
Nulla val sotto il ciel il ben ch’ei tolse a me!
Il loro destin affido a te!
Scruta quei cor, che un folle amor trascina!
Sempre lecito è a te di scontrar la Regina!
Tu, che sol sei un uomo,
Fra questo stuolo uman.
Ripongo il cor nella leal tua man!
Rodrigo (a parte, con trasporto di gioia)
Inaspettata aurora in ciel appar!
S’aprì quel cor, che niun potè scrutar!
Filippo
Possa cotanto dì la pace a me tornar!
Rodrigo
O sogno mio divin! O gloriosa speme!
(il Re stende la mano a Rodrigo,
che gliela bacia)
Rodrigo
Ciel! Voi pensate, seminando morte,
Piantar per gli anni eterni?
Filippo
Volgi un guardo alle Spagne!
L’artigian cittadin, la plebe alle campagne
A Dio fedel e al Re un lamento non ha!
La pace istessa io dono alle mie Fiandre!
Rodrigo (con impeto)
Orrenda, orrenda pace!
La pace è dei sepolcri!
O Re, non abbia mai
Di voi l’istoria a dir: Ei fu Neron!
Quest’è la pace che voi date al mondo?
Desta tal don terror, orror profondo!
È un carnefice il prete
un bandito ogni armier!
Il popol geme e si spegne tacendo,
È il vostro imper deserto immenso, orrendo,
S’ode ognun a Filippo maledir!
Come un dio redentor,
l’orbe inter rinnovate,
V’ergete a voi sublime,
sovra d’ogn’altro re!
Per voi s’allieti il mondo!
Date la libertà!
Filippo
O strano sognator!
Tu muterai pensier, se il cor dell’uom
Conoscerai, qual Filippo il conosce!
Ed or… non più!… Ha nulla inteso il Re…
No, non temer! (cupo)
Ma ti guarda dal Grande Inquisitor!
Rodrigo
Che! Sire!
Filippo
Tu resti in mia regal presenza
E nulla ancor hai domandato al Re?
Io voglio averti a me d’accanto!…
Rodrigo
Sire! No! Quel ch’io son restar io vo’…
Filippo
Sei troppo alter!
Osò lo sguardo tuo penetrar il mio soglio…
Del capo mio, che grava la corona,
L’angoscia apprendi e il duol!
Guarda or tu la mia reggia:
l’affanno la circonda.
Sgraziato genitor!
Sposo più triste ancor!
Rodrigo
Sire, che dite mai?
Filippo
La Regina…un sospetto mi tortura…
Mio figlio!…
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