1 FATTISPECIE E FATTO IDONEO SOMMARIO: 1. Il problema del fatto giuridico e la teoria della fattispecie. - 2. Considerazioni critiche sulla teoria della fattispecie. - 3. La questione dei rapporti «di fatto» - 4. La dissociazione tra fonte ed effetto, in particolare, i rapporti contrattuali di fatto. - 5. Il ruolo della norma sulle fonti delle obbligazioni: il fatto idoneo e il rinnovato interesse verso l’art. 1173 c.c. - 6. Considerazioni conclusive. 1. Il problema del fatto giuridico e la teoria della fattispecie. La realtà materiale consegna al giurista eventi in cerca di sistemazione giuridica. Un accadimento, naturale o umano, non reca in sé la giuridicità. Tale caratteristica, piuttosto, è attribuita ad esso, sulla base di in un criterio che dev’essere intercettato. Un’indagine intorno a siffatto parametro richiede di esaminare, in prima battuta, la teoria della fattispecie. Il termine allude ad una categoria ben radicata nella mentalità dei giuristi, insita nel bagaglio culturale dell’esperto di diritto, familiare a costui sino ad apparire quasi scontata. Fattispecie deriva dal latino «facti species» e significa, non a caso, «apparenza» o «immagine» del fatto. Il vocabolo, quindi, rinvia alla rappresentazione, alla riproduzione artificiale di un accadimento. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il termine è stato accostato al tedesco Tatbestand, inizialmente impiegato per designare l’insieme di elementi o circostanze che compongono il reato, le quali, perciò, determinano l’applicazione della pena [C. MAIORCA, 1961, p. 13] . Il concetto, dunque, trova origine in un settore dell’ordinamento, quello penalistico, per fronteggiare stringenti esigenze di certezza. Ivi, la sanzione, quale risposta dell’ordinamento a un fatto, si traduce in una pesante limitazione della libertà personale, sicché, si avverte la necessità che vincoli possano essere imposti al soggetto soltanto in virtù di una chiara, precisa, dettagliata previsione normativa. La descrizione di una condotta, e con essa la prefigurazione degli effetti corrispondenti, consente al destinatario di conoscere in anticipo le conseguenze delle proprie azioni, potendo egli così autodeterminarsi. In ragione della descritta attitudine, il concetto di fattispecie ha oltrepassato ben presto i confini del diritto penale, per assurgere a categoria generale del diritto. La dottrina civilistica, dapprima impegnata a studiare le trasformazioni dei diritti soggettivi e delle obbligazioni, in un secondo momento ha osservato come, all’origine delle riferite trasformazioni, vi fossero determinati fatti ed ha iniziato a designare tali fatti con l’espressione «fatti giuridici». Di conseguenza, si avvertiva la presenza di uno specifico rapporto di causalità tra quei fatti e quelle trasformazioni, alle quali si riferiva il termine «effetto». In relazione all’evento, il fatto, che la norma prevede e rende causativo, assume il nome tecnico di fattispecie [F. SANTORO PASSARELLI, rist. 1986, p. 103]. Si giunge, per tale via, alla costruzione della nomenclatura tutt’ora familiare: fatto giuridico, effetto giuridico, rapporto di causalità giuridica [A. FALZEA, 1965]. Il concetto di fattispecie si specifica nel «complesso degli elementi necessari per la produzione di un effetto o di un insieme di effetti» [D. RUBINO, rist. 1978, p. 3]. 2 In questa prospettiva: - la fattispecie ed i corrispondenti effetti giuridici rappresentano i «due poli», attorno ai quali ruota l’intera dinamica del diritto [D. RUBINO, rist. 1978, p.3]; - sono fatti giuridici quelli produttivi di un evento giuridico, consistente, particolarmente, nella costituzione, nella modificazione o nell’estinzione di un rapporto giuridico, oppure nella sostituzione di un nuovo rapporto a un rapporto preesistente; o altrimenti nella qualificazione di una persona, di una cosa o di un altro fatto [F. SANTORO PASSARELLI, rist. 1986, p. 103]; - per rilevanza giuridica si intende la considerazione del fatto giuridico in relazione al suo ricollegarsi agli effetti in vista dei quali esso è stato configurato dal legislatore [G. CONSO, 1955, p. 39] - non possono essere ricondotti alla categoria dei fatti giuridici i c.d. «atti meramente leciti», ossia quelli consentiti dal diritto, ma non idonei a determinare un evento giuridico. - il concetto del fatto può assumere diverse accezioni. In particolare, può rilevare come elemento costitutivo di una categoria comprensiva di più elementi di fatto (fatto, fatto complesso, fattispecie); come elemento materiale, inserito nell’insieme dei presupposti di una data conseguenza giuridica; come categoria che comprende particolari elementi di fatto (perlopiù distinto in semplice o complesso). In tale ultimo significato il concetto di fatto è impiegato anche come sinonimo di fattispecie [C. MAIORCA, 1961, p. 113]. Il termine fattispecie, dunque, è stato inizialmente adoperato per indicare l’insieme degli elementi e delle circostanze necessarie affinché si produca un effetto giuridico. Tale modo di concepire la fattispecie è stato definito «funzionale», poiché in questa prospettiva il fatto è previsto in funzione dell’effetto: il fatto, cioè, è giuridico in quanto una norma ricolleghi ad esso la produzione di un effetto. Di riflesso, la norma giuridica si compone di una parte fattuale e/o condizionante (la fattispecie intesa come schema logico e normativo) e di una parte effettuale e/o consequenziale (gli effetti giuridici). La norma, insomma, contempla uno o più fatti eventuali e ad essi riconnette uno o più effetti, anch’essi eventuali. La fattispecie prevista in via ipotetica dalla norma è definita «astratta». Essa si distingue da quella «concreta», considerata nel suo storico divenire. Taluno ha proposto di discernere ulteriormente tra fattispecie concreta e fattispecie «reale», intendendo per quest’ultima la fattispecie individuata nel tempo e nello spazio. A tale partizione corrisponde una distinzione sul piano degli effetti, là dove si fa differenza tra effetto astratto (ipoteticamente previsto dalla norma), effetto concreto (che si produce allorquando vi sia una fattispecie concreta sussumibile in quella astratta), effetto reale (individuato nel tempo e nello spazio) [D. RUBINO, rist. 1978, p. 3 ss.]1. 1 Altre distinzioni sono state fatte in relazione all’essenza del fatto. Al riguardo, si discerne tra fatti volontari o non volontari. Nell’ambito dei fatti volontari, in relazione alla diversa entità o direzione della volontà, si differenziano gli in atti in senso stretto dai negozi. In base alla struttura, si distingue a seconda che si tratti di un fatto unitario o di una pluralità di elementi o eventi. Una differenziazione viene operata anche rispetto all’ efficacia che può essere sostitutiva modificativa o estintiva, o anche dichiarativa o presuntiva di preesistenti situazioni giuridiche [Scognamiglio]. 3 L’applicazione del diritto avviene secondo un «ritmo sillogistico»: ricostruito il fatto, si riconduce la fattispecie concreta ad una fattispecie astratta, mediante un procedimento meccanico di sussunzione. L’evento è sussunto nello schema astratto di una determinata fattispecie legislativa, attraverso un processo di semplificazione che porta a non considerare gli elementi «minori» ma solo quelli «salienti». 2. Considerazioni critiche sulla teoria della fattispecie. L’elaborazione sopra esposta presuppone che un fatto sia giuridicamente rilevante soltanto nel caso in cui sia possibile riconnettere ad esso un effetto, sulla base di una disposizione normativa. Secondo questa teorica, dunque, i due profili della rilevanza e dell’efficacia finiscono col coincidere, divengono sinonimi. Tale assunto è stato avversato. Correttivi, quindi, sono stati apportati alla teoria della fattispecie. Un fatto, è stato osservato, può essere rilevante per l’ordinamento, pur a prescindere dalla produzione di un effetto. In questo senso, un fatto può essere rilevante, ma non ancora efficace, seppure, in ogni caso, idoneo a produrre effetti (si pensi, a titolo esemplificativo, al contratto sottoposto a condizione). Si parla, in proposito, di rilevanza preordinata all’efficacia [A. FALZEA, 1939, p. 24 ss.]. La teoria in questione, sebbene riconosca l’autonomia della rilevanza rispetto all’efficacia, non si spinge fino a postulare la totale autonomia dei concetti, giacché un fatto sarebbe rilevante pur sempre in quanto idoneo a produrre effetti. Secondo una parte della dottrina, la necessità di una distinzione tra i due piani della rilevanza e dell’efficacia, ai fini della giuridicità, non si avvertirebbe, in relazione alla maggioranza delle fattispecie giuridiche. Tuttavia, la considerazione della rilevanza giuridica rivestirebbe un interesse notevole nei confronti di taluni fenomeni giuridici. I quali, per la peculiare essenza e funzione che già essi assumono nell’ambito delle relazioni sociali, costituiscono oggetto di una qualificazione altrettanto peculiare da parte dell’ordinamento giuridico che ne prevede una conseguente disciplina. Si allude, in sostanza, a quegli atti e/o comportamenti in cui si manifestano la volontà e la libertà dell’uomo. Rispetto ad essi, l’ordinamento giuridico sarebbe chiamato ad esprimere un apprezzamento positivo ovvero negativo di vario contenuto [R. SCOGNAMIGLIO, 1989, p. 6]. Tali fatti, quindi, sarebbero rilevanti, ma non preordinati all’efficacia. Essi riceverebbero una valutazione da parte dell’ordinamento, e tuttavia non sarebbero necessariamente destinati a produrre effetti (si pensi, ad esempio, ad un soggetto che passeggi per il proprio fondo: si tratta, in questo caso, di un fatto rilevante in quanto esercizio di una situazione soggettiva). Un ulteriore tentativo è stato fatto in dottrina per spiegare la dinamica degli effetti senza passare per la categoria della fattispecie. Ne risulta una tesi, secondo la quale, il criterio per enucleare dalla massa dei fatti quelli ai quali si può attribuire un ruolo nel mondo del diritto, risiederebbe nell’esistenza di una valutazione all’interno dell’ordinamento. Nella nozione di fatto giuridico, di conseguenza, rientrerebbero tutte le circostanze che formano oggetto di valutazione da parte dell’ordinamento [A. CATAUDELLA, 1967, p. 935 ss.]. La valutazione, però, non si risolverebbe in un giudizio di approvazione o di riprovazione, bensì, in un senso più ampio, nella considerazione che del fatto l’ordinamento fa per decidere (in relazione ai suoi fini 4 propri) l’atteggiamento da assumere nei confronti del medesimo. Si può dire dunque che, in quest’ottica, è vero che una valutazione appare necessaria perché si producano gli effetti giuridici (non ci può essere efficacia senza rilevanza), ma non è vero anche il contrario (e cioè, non si può dire che non ci può essere rilevanza senza efficacia), poiché non sempre alla valutazione conseguono effetti. Difatti, secondo questa tesi, la presa di posizione dell’ordinamento potrebbe manifestarsi anche nel rifiuto di collegare effetti giuridici alla fattispecie. Si adducono, in proposito, le categorie del negozio nullo e dei negozi ad effetti differiti [A. CATAUDELLA, 1967, p. 936]. 3. La questione dei rapporti «di fatto». La teoria della fattispecie, pur con i correttivi esaminati, incontra un limite. Difatti, allorché un elemento della serie difetti nel tempo richiesto ovvero sia dato di riscontrare irregolarità, anomalie o, ad ogni modo, variazioni rilevanti, sul piano logico e strettamente formale la fattispecie verrebbe meno, giacché essa richiede la totalità degli elementi previsti. Di conseguenza, dovrebbe difettare anche la giuridica rilevanza e, per tramite di ciò, l’efficacia del fatto. Tuttavia, nell’osservare la reale disciplina giuridica di qualsiasi fattispecie importante – negozio o sentenza, provvedimento amministrativo o legislativo, procedure elettorali, attività processuali e via dicendo – ci si avvede di come un principio del genere, rigido e anelastico, sia insostenibile sul piano pratico [A. FALZEA, 1965]. Vi sono fattispecie di notevole complessità, rispetto alle quali è difficile riscontrare un concorso assolutamente regolare di tutti gli elementi richiesti. Se alla minima deviazione dal modello legale dovesse in ogni caso seguire una totale nullità o mancanza di effetti, vi sarebbe una notevole dissipazione di energie spese a vuoto, che nessun ordinamento giuridico potrebbe tollerare [A. FALZEA, 1965]. Nell’ambito del diritto penale, che della fattispecie è il terreno d’elezione, nel caso in cui un contegno non possa essere assimilato a quello descritto da una norma incriminatrice, l’imputato è mandato esente da sanzione. Lo stesso non avviene nell’ambito del diritto civile, là dove il giurista non può esimersi dal dare risposta ad un fatto in cerca di sistemazione giuridica. In questo contesto, dunque, si pone la necessità di verificare come incida sul valore complessivo del risultato la deviazione occorsa in un dato elemento, ossia, si deve riscontrare in che misura questa deviazione alteri i termini del problema d’origine e reclami una nuova soluzione giuridica [A. FALZEA, 1965]. Significativa, al riguardo, è la questione dei rapporti di fatto. Con quest’espressione si allude a una serie di fenomeni, di situazioni, di rapporti che non sono espressamente regolati da una norma giuridica, e perciò, non costituiscono una “fattispecie” tipica, ma si mostrano produttivi di effetti giuridici. Dunque, al termine che designa determinati istituti si aggiunge la locuzione «di fatto» per designare fenomeni che ricordano la fattispecie richiamata, e tuttavia, non si identificano con essa, poiché manca un elemento costitutivo oppure si riscontra un vizio genetico o funzionale. In sostanza, in queste ipotesi appare chiaro che la fattispecie tipica non ricorre; ciò nonostante, se ne evoca egualmente il nome, con l’aggiunta della qualifica «di fatto», 5 quasi a voler puntualizzare che la rievocazione del rapporto «di diritto» debba risolversi in un mero richiamo. Il che non vale a escludere che il fenomeno abbia una rilevanza per il diritto, ma richiede di determinare la portata che le alterazioni assumono rispetto all’istituto tipico richiamato [V. FRANCESCHELLI, 1984]. 4. La dissociazione tra fonte ed effetto, in particolare, i rapporti contrattuali di fatto. Un tema esemplificativo, in relazione alla problematica in esame, è quello dei rapporti contrattuali di fatto. La civilistica moderna designa con tale qualifica situazioni assimilabili di fatto a fattispecie contrattuali, rispetto alle quali esse si differenziano per mancanza di presupposti di validità o per riduzione di elementi costitutivi [E. BETTI, 1955, p. 117]. Il termine «rapporti contrattuali di fatto» è stato bollato come infelice e contraddittorio [L. RICCA, p. 30]. In ragione della «non felice» designazione, al fine di prevenire l’equivoco cui essa può dar luogo, è stato necessario puntualizzare che le situazioni cui tali rapporti si ricollegano, sono pur sempre fattispecie dotate di rilevanza giuridica [E. BETTI, 1955, p. 128]. Sul piano teorico la ricostruzione viene elaborata per ovviare ad alcuni inconvenienti che si sono originati a causa dell’evoluzione del contesto sociale ed economico, in particolare rispetto al fiorire della contrattazione di massa. Casi che difficilmente potevano essere ricondotti alla fattispecie contrattuale, difatti, venivano risolti mediante il ricorso ad una finzione di volontà: a tale modo di procedere la dottrina dei rapporti contrattuali di fatto ha inteso offrire un’alternativa. Difatti, è stato osservato in dottrina come la teorica in esame, in verità, sia frutto del timore della dottrina di condurre il discorso inerente all'autonomia negoziale alle sue logiche e necessarie conseguenze. Al fine di evitare una revisione della categoria contrattuale, così da estenderne i confini al punto da ricomprendere figure non idonee a rientrare nella nozione tralatizia, è stata creata una categoria a sé, capace di accogliere le ipotesi in questione [G. STELLA RICHTER, 1977, p. 187 ss.]. La valorizzazione dei profili oggettivi del contratto ha consentito un superamento della concezione tradizionale, incentrata sull’elemento volontaristico. L’evoluzione in tema di autonomia negoziale ha permesso di fronteggiare la problematica della finzione di volontà, che, come si è visto, ha offerto una prima giustificazione alla teoria dei rapporti contrattuali di fatto. Quest’ultima, dunque, conteneva già in sé le ragioni del proprio declino. Ad essa, tuttavia, si riconosce il merito di aver tentato l'individuazione, per alcuni casi particolari, di una diversa e più realistica fonte di obbligazioni, oltre il tradizionale binomio contratto-atto illecito [G. STELLA RICHTER, 1977]. Gli studiosi, a proposito delle fattispecie in questione, hanno rilevato una dissociazione tra la fattispecie e gli effetti, nell’ambito delle fonti delle obbligazioni. Ciò in quanto, nei rapporti contrattuali di fatto l’obbligazione può sottostare alle regole proprie di quella contrattuale, benché un contratto manchi o sia nullo [P. RESCIGNO, 1979, p. 156]. Quando si discorre di «rapporti contrattuali di fatto» si richiamano figure assai diverse tra loro, ma affini, in quanto esse si costituiscono poiché accadono fatti, non 6 già perché si conclude un contratto. L’elenco include le trattative contrattuali, il trasporto di cortesia, la locazione nulla o proseguita di fatto dopo la scadenza, il rapporto di lavoro a cui fondamento sia un atto nullo, la società il cui atto costitutivo si riveli successivamente invalido, la fornitura di acqua, luce, gas, pubblico trasporto (ci si riferisce, in buona sostanza, alla prestazione dei servizi di pubblica utilità). Il novero testé riprodotto può essere raggruppato due grandi classi: nella prima, rientrano le ipotesi caratterizzate dalla mancanza della conclusione di un contratto tramite scambio di dichiarazioni di volontà; nella seconda, si ritrovano ipotesi accomunate dall’esistenza di una volontà congiunta, alla quale, tuttavia, non sia possibile attribuire valore costitutivo, ad esempio perché essa si presenta inficiata da profili di invalidità. Le prime riflessioni intorno alla categoria sono frutto dell’esperienza giuridica tedesca. Risale al 1941 la celebre prolusione «sui rapporti contrattuali di fatto» [G. HAUPT, ed. it. G. VARANESE, 2012]. Il contesto storico, politico e ideologico che fa da sfondo alla teorica considerata non deve essere trascurato. La teoria affonda le radici in pieno nazionalsocialismo, là dove la volontà dello Stato e delle comunità, che del primo rappresentano la proiezione, prevale sul volere del singolo. In quest’ottica, vincoli possono essere imposti a ciascuno a prescindere dalla propria volontà. La teoria analizzata distribuisce le ipotesi considerate all’interno di tre gruppi: i rapporti derivanti da contatto sociale, i rapporti derivanti dall’inserzione in un’organizzazione comunitaria, i rapporti derivanti da un obbligo sociale di prestazione. I rapporti contrattuali di fatto, quindi, possono trovare la propria fonte in un fatto diverso dal contratto. Tale fatto, a sua volta, può essere un contatto sociale (come avviene nelle trattative contrattuali; lo stesso dicasi per il trasporto di cortesia e per la locazione nulla o proseguita di fatto dopo la scadenza), l’inserzione in un’organizzazione comunitaria (è il caso del rapporto di lavoro a cui fondamento sia un atto nullo e della società il cui atto costitutivo si riveli successivamente invalido), l’esistenza di un obbligo sociale di prestazione (come accade nella fornitura di acqua, luce, gas, pubblico trasporto). L’influsso esercitato dal contesto politico e ideologico si avverte con maggiore intensità rispetto ai rapporti derivanti dall’inserzione in una comunità. Il contratto di lavoro, visto da questa prospettiva, si presenta caratterizzato da una duplice fonte: il contratto, da un lato, l’inserzione in una comunità, dall’altro lato; sicché, venuto meno il primo (ad esempio perché invalido) il rapporto continua a trovare giustificazione in virtù dell’altra fonte (l’inserimento in una comunità di vita organizzata). Gli sviluppi successivi hanno condotto ad una progressiva valorizzazione dei rapporti derivanti da un obbligo sociale di prestazione. L’esperienza giuridica tedesca, ancora una volta, si rivela essere un terreno fertile. Si giunge a teorizzare, così, l’esistenza di rapporti obbligatori da comportamento sociale tipico [K. LARENZ, v. A. DI MAJO, 1988, pp. 196 ss.]. La tesi richiamata induce a enucleare obblighi sociali di prestazione, a prescindere dalla volontà dell’agente, ma in forza del significato che la condotta da costui posta in essere assume alla luce degli usi dei 7 traffici. Si giunge ad affermare, per questa via, l’impossibilità di sottrarsi alle conseguenze giuridiche di un proprio atto. Si segnala, sul punto, il celebre caso del parcheggio di Amburgo. Di seguito, la questione portata all’attenzione della Corte federale di giustizia tedesca. Un comune aveva affidato a una società la gestione di un parcheggio riservato in uno spazio pubblico e lo aveva incaricato di sorvegliarlo nonché di riscuotere il pedaggio in alcune ore della giornata. Una signora si era introdotta nell’area in questione e aveva lasciato in sosta la propria vettura, ma aveva dichiarato di rifiutare la sorveglianza e di non voler pagare il pedaggio. Il giudice avrebbe potuto seguire vie diverse. Avrebbe potuto, per esempio, ricondurre la fattispecie all’indebito o all’illecito. Avrebbe potuto, ancora, ricorrere ad una finzione di volontà. La Corte, invece, in quell’occasione, ha condannato la conducente del veicolo, poiché ha ritenuto che il suo comportamento avesse un significato sociale tipico e fosse, pertanto, vincolante, indipendentemente da una sua eventuale volontà in tal senso. 5. Il ruolo della norma sulle fonti delle obbligazioni: il fatto idoneo e il rinnovato interesse verso l’art. 1173 c.c. La realtà sembra foggiare molteplici relazioni vincolanti per le parti, senza che la loro volontà al riguardo possa rilevare. Ciò in quanto, rispetto a taluni tipici rapporti della vita sociale non si può parlare di una naturale coesistenza di semplici terzi. In relazione ad essi, l’applicazione delle norme che regolano i contratti appare più consona. Nel trasporto di cortesia, per esempio, la costruzione di un rapporto contrattuale di fatto consente di attenuare la più lata responsabilità aquiliana che graverebbe altrimenti sul vettore, in caso di infortunio. Le considerazioni appena svolte consegnano un dato: l’indagine sulla giuridicità dei rapporti di fatto richiede di essere condotta, altresì, nella prospettiva dell’intento dei soggetti. Difatti, nelle ipotesi in esame, il rapporto produce effetti in sé, indipendentemente da un eventuale intento negativo dei soggetti coinvolti, ossia, a prescindere dalla sussistenza di una volontà diretta a non assumere obbligazioni. Il problema, quindi, dev’essere affrontato nella prospettiva della teoria delle fonti dell’obbligazione [V. FRANCESCHELLI, 1984]. L’elencazione delle fonti delle obbligazioni, appunto, è volta a consentire l’individuazione di quei fatti che nell’ambito di un dato ordinamento sono idonei a far nascere un vincolo obbligatorio. Una disposizione in tema di fonti era contenuta nel codice abrogato. L’art. 1097, infatti, dedicato alle «cause» delle obbligazioni, annoverava tra esse la legge, il contratto o quasi contratto, il delitto o quasi delitto. Il riferimento alla legge si spiega alla luce del contesto ideologico dell’epoca [P. RESCIGNO, 1979, P. 151]. Il codice del 1865, infatti, si colloca in un periodo dominato dall’ideologia liberale. La volontà individuale era centrale: nessun vincolo poteva derivare alla libertà di ciascun individuo se non in forza della propria volontà. Qualsiasi vincolo proveniente da fonte diversa doveva essere considerato eccezionale ed era affidato, pertanto, ad una previsione generale ed astratta. Il rinvio alla legge, quindi, viene letto nell’ottica di 8 una concezione «garantista» della volontà privata. Quanto al contratto, esso era concepito come scambio di dichiarazioni di volontà. Il quasi contratto, invece, era definito come un «fatto volontario e lecito, dal quale risulta un’obbligazione verso un terzo o un’obbligazione reciproca tra le parti» (art. 1140 cod. abr.). La categoria contemplava le figure dell’indebito e della gestione di affari, disciplinate negli articoli successivi, e in esse si esauriva. Il delitto comprendeva le sole ipotesi di responsabilità diretta. Rimanevano scoperti, quindi, i casi, in cui fosse stato chiamato a rispondere del danno un soggetto diverso dall’agente. Tali eventualità ricadevano nell’ambito del quasi delitto. L’art. 1173 del codice vigente si discosta in maniera notevole dalla formulazione appena descritta. Il raffronto tra le rubriche delle due disposizione suggerisce un primo dato: non si parla più di «cause» bensì di «fonti». Il legislatore adopera il medesimo vocabolo nell’art. 1 disp. prel., a proposito delle fonti del diritto. L'uso di questo termine, quindi, attribuisce un particolare rilievo ai fatti produttivi di obbligazioni: si assiste ad una sorta di «promozione». Il novero delle fonti comprende: il fatto illecito, il contratto, ogni altro atto o fatto idonee a produrle in conformità all’ordinamento giuridico. Manca, come è facile notare, il riferimento alla legge. Le figure del quasi contratto e del quasi delitto non sono più menzionate: la prima, in quanto relativa a fatti diversi, non suscettibili di classificazione unitaria (secondo quanto si legge nella relazione al codice); la seconda, poiché la categoria dei fatti illeciti è stata ampliata fino a ricomprendere al proprio interno ipotesi, in cui la responsabilità viene attribuita anche a soggetti diversi dagli autori materiali. Il rinvio, in chiusura, agli altri atti o fatti idonei è stato inizialmente interpretato come un riferimento a fonti «nominate». Il legislatore, in quest’ottica, avrebbe inteso rinviare soltanto a quelle ipotesi espressamente disciplinate, ossia: le promesse unilaterali, i titoli di credito, la gestione di affari, il pagamento dell’indebito, l’arricchimento senza causa. Tale ricostruzione, con evidenza, appare come un retaggio del principio di tipicità di ogni singola fonte [A. DI MAJO, 1990, p. 14]. Secondo questo principio, in ossequio all’esigenza di certezza del diritto, ogni rapporto obbligatorio troverebbe la sua fonte in una fattispecie tipica, espressamente contemplata dal legislatore e delineata in ogni singolo elemento. Siffatto principio è stato messo in discussione, stante la possibilità riconosciuta ai privati di concludere contratti atipici. Anche la tipicità dell’illecito è stata contestata. Si è giunti, così, a rimeditare la tipicità della terza categoria di fonti dell’obbligazione; il che ha autorizzato a conferire un carattere elastico alle stesse [M. GIORGIANNI, 1968, p. 604; P. RESCIGNO, 1979, p. 151; A. DI MAJO, 1990, p. 171]. Di modo che, si ritiene ormai quasi pacificamente che il riferimento agli altri atti o fatti consenta di considerare idonee a produrre obbligazioni tanto fattispecie espressamente disciplinate, quanto fattispecie non individuate. Tale acquisizione ha portato ad una rinnovata attenzione verso l’art. 1173 c.c., sia da parte della dottrina sia ad opera della giurisprudenza. A partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, il ricorso alla norma in esame è divenuto sempre più frequente, per risolvere le questioni più disparate. Rappresentativi, sul punto, sono 9 alcuni passaggi della storica sentenza che ricostruisce la responsabilità del medico dipendente in termini di responsabilità contrattuale da «contatto sociale qualificato»2. L'attrazione nello schema e nella disciplina del contratto, soprattutto per ciò che riguarda la responsabilità per inadempimento, si manifesta altresì per i doveri che insorgono nella fase formativa del contratto e nelle ipotesi di efficacia del contratto successiva o persistente al di là del momento finale. Esemplificativi, in proposito, sono gli obblighi che prendono vita al momento della cessazione, come nel caso dell'art. 2124 c.c., e quelli che si protraggono al di là dal contratto, come nell’ipotesi di ritardata restituzione della casa locata (art. 1591 c.c.). Rispetto alla responsabilità precontrattuale, la dottrina, seguita solo in tempi recentissimi dalla giurisprudenza3, si mostra incline a situare la fattispecie nel territorio della responsabilità contrattuale. Ciò in quanto, si reputa che il «contatto sociale» istituito con altri soggetti del traffico negoziale sia già per sé idoneo ad attivare meccanismi e tutele dell'autonomia negoziale e degli affidamenti che l'esercizio dell'autonomia determina. Di contatto sociale come fonte di obbligazioni ex art. 1173 c.c. si discorre anche rispetto alla responsabilità della banca girataria per l'incasso4, dell’insegnate, del 2 Cass. 22 gennaio 1999, n. 589: «Va subito rilevato che non si può criticare la definizione come "contrattuale" della responsabilità del medico dipendente di struttura sanitaria, limitandosi ad invocare la rigidità del catalogo delle fonti ex art. 1173 c.c., che non consentirebbe obbligazioni contrattuali in assenza di contratto. Infatti la più recente ed autorevole dottrina ha rilevato che l'art. 1173 c.c., stabilendo che le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico, consente di inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale ( tra cui, con specifico riguardo alla fattispecie, Può annoverarsi il diritto alla salute), Che trascendono singole proposizioni legislative. Suggerita dall'ipotesi legislativamente prevista di efficacia di taluni contratti nulli (art. 2126, c.1, 2332, c.2 e 3, c.c., art. 3 c. 2 l. n. 756-1964), ma allargata altresì a comprendere i casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al semplice "contatto sociale" (secondo un'espressione che risale agli scrittori tedeschi), si fa riferimento, in questi casi al "rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale". Con questa espressione si riassume una duplice veduta del fenomeno, riguardato sia in ragione della fonte (il fatto idoneo a produrre l'obbligazione in conformità dell'ordinamento - art. 1173 c.c.-) sia in ragione del rapporto che ne scaturisce (e diviene allora assorbente la considerazione del rapporto, che si atteggia ed è disciplinato secondo lo schema dell'obbligazione da contratto). La categoria mette in luce una possibile dissociazione tra la fonte - individuata secondo lo schema dell'art. 1173 - e l'obbligazione che ne scaturisce. Quest'ultima può essere sottoposta alle regole proprie dell'obbligazione contrattuale, pur se il fatto generatore non è il contratto. In questa prospettiva, quindi, si ammette che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell'ambito dell'art. 2043 c.c., l'ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale» 3 Cass. 12 luglio 2016, n. 14188 4 Cass. 6 ottobre 2005, n. 19512: «Promanando direttamente dalla legge, la responsabilità della banca girataria per l'incasso non si configura come obbligazione ex delicto, ma, per l'appunto, come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all'art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico. Trattasi, in fin dei conti, di fattispecie tipica di obbligazione che, pur non avendo natura contrattuale, non può per ciò solo essere ricondotta nello schema generale dell'art. 2043 c.c., trovando invece il suo archetipo nell'art. 1173 c.c. Il fondamento della correlativa azione risarcitoria è unico e non vi è bisogno di diversificarne il titolo (contrattuale, extracontrattuale, cartolare) a seconda del soggetto che si ritiene danneggiato. Il criterio per individuare il soggetto titolare della pretesa dovrà 10 mediatore e, da ultimo, in merito alla questione della validità del contratto preliminare del preliminare5. Si è parlato, in proposito, di un superamento del sistema per fonti [A. DI MAJO, 1990, p. 13], poiché, dato un fatto, occorrerebbe valutare in ogni caso la sua attitudine ad essere fonte di obbligazione, alla luce di un raffronto, in termini di conformità, con l’intero ordinamento. La disposizione sulle fonti, a questo punto, potrebbe apparire superflua. Un’elencazione delle fonti, del resto, manca in diverse esperienze giuridiche. Il BGB, ad esempio, ne ha fatto a meno. L’importanza della norma sulle fonti, però, appare subito allorquando si consideri la sua capacità di chiarire alcuni aspetti fondamentali della dinamica del diritto. Essa consente di «trasfondere», all’interno delle fonti, principi, soprattutto di rango costituzionale, che non esauriscono le singole proposizioni legislative, ma, anzi, le trascendono. L’operatore del diritto, allora, è chiamato a verificare se attraverso le indicazioni fornite dall’ordinamento giuridico nel suo complesso possano filtrare valori tutelabili tramite situazioni giuridiche soggettive, ossia, in questo caso, mediante situazioni creditorie e debitorie. Indispensabile è la mediazione di fatti o atti di cui all’art. 1173 c.c. La norma sulle fonti, dunque, svela il meccanismo che opera ogniqualvolta un evento, un accadimento, si presenti al cospetto del diritto e ne chieda una sistemazione giuridica, al fine di ricevere un’adeguata risposta in termini di tutela. Il legislatore del ’42, probabilmente, non poteva immaginare la portata dirompente della disposizione normativa in esame. La conformità all’ordinamento, in quel contesto, era indice di una visione del diritto tendenzialmente statalista e di ispirazione autoritaria: l’ordinamento giuridico, con funzione prevalente rispetto alla volontà individuale, racchiudeva il complesso di principi desumibili dalla normativa statale. Il mutamento dell’assetto politico e ideologico, l’introduzione della Carta costituzionale consegnano una visione dell’ordinamento quale complesso di criteri e principi desumibili dall’intero corpus della normativa e in particolare da quella di rango costituzionale. Ad esso l’interprete deve attingere per trovare risposta al conflitto prospettato da un fatto il quale, non più mera ipotesi da sussumere in una fattispecie espressamente consegnata, diviene oggetto di valutazione in quanto richiami l’idea della convivenza e della relazionalità. Il sillogismo giudiziale non necessariamente è costretto ad uscire di scena. Importante, piuttosto, è la scelta delle premesse da ricercare all’interno del complesso ordinamentale: da esse dipende la congruità della conclusione e, dunque, della soluzione. Da ciò dipende l’attuazione del diritto. essere fondato sull'individuazione della sfera giuridica patrimoniale sulla quale è in concreto caduto il danno. In linea generale, il pregiudizio derivante dal pagamento dell'assegno circolare a soggetto diverso dal prenditore potrebbe ripercuotersi sul richiedente, ovvero sul prenditore, ovvero infine sulla stessa banca emittente se nella negoziazione si sia inserita una banca girataria per l'incasso». 5 Cass. 6 marzo 2015, n. 4628: «All'interno di una gamma di situazioni che ricevono risposte diverse, quelle contrassegnate sotto la lettera b sono riconducibili a una fase sostanzialmente precontrattuale, in cui la formazione del vincolo è limitata a una parte del regolamento. La violazione di queste intese, perpetrata in una fase successiva rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, da luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell'art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico». 11 6. Considerazioni conclusive. L’analisi che precede sembra autorizzare alcune conclusioni. La risposta ad un fatto in cerca di sistemazione giuridica è un punto di approdo, al quale si può giungere mediante percorsi differenti. Una prima via, porta ad avvicinare il fatto al modello, ad uno schema predeterminato e consegnato all’operatore giuridico. Tale operazione, spesso, implica un intervento sul fatto. Quest’ultimo viene modificato o, comunque, adattato al modello, con conseguente sacrificio delle peculiarità del caso concreto. Una seconda via, animata dal medesimo intento di avvicinare fatto e modello, induce ad intervenire sul modello stesso, tramite un ampliamento dell’ambito della norma: di essa viene fornita una nuova interpretazione che aggiorni il suo significato alle mutate situazioni di fatto, in assenza di modifiche al testo. La disposizione, insomma, rimane invariata. Muta, invece, il giudizio di valore che da essa si ricava: diversa, dunque, è la norma. Per tornare al caso del parcheggio, si pensi al differente inquadramento consentito dall’evoluzione in materia di contratto. Una terza strada, tramite procedimenti analogici, conduce ad una formulazione normativa nuova, nella quale la situazione di fatto possa trovare adeguata sistemazione. L’incertezza e la fragilità di queste costruzioni, talvolta, forniscono un input al legislatore il quale interviene per dare una riposta alla problematica posta dal fatto. Si pensi a quanto avvenuto in tema di contratto di lavoro nullo e di società il cui atto costitutivo si riveli successivamente invalido. Le questioni erano avvertite già prima dell’emanazione del codice. L’elaborazione della teoria dei rapporti contrattuali di fatto, di poco precedente, ne dà testimonianza. Si tratta, infatti, di quelle ipotesi che vengono ricondotte alla categoria dei rapporti derivanti dall’inserzione in un’organizzazione comunitaria. Il legislatore italiano del 1942, appunto, ha dedicato un’apposita disposizione normativa tanto al problema del contratto di lavoro nullo, quanto a quello relativo alla società. La rubrica dell’art. 2126 c.c., in tema di contratto di lavoro nullo, è indicativa. Si discorre, infatti, di «prestazione di fatto», con terminologia che riecheggia la teorica esaminata. Il legislatore, così, ha dedicato un’apposita disposizione al fine di risolvere una questione prospettata da un fatto, in mancanza della quale l’operatore giuridico avrebbe incontrato particolari difficoltà. Non sempre, tuttavia, ciò accade, né è possibile attendere che il legislatore intervenga, poiché il diritto civile è chiamato a dare delle risposte, continuamente in bilico tra esigenze di certezza ed esigenze di giustizia. Altri e più familiari esempi, ancora, possono essere portati all’attenzione. Si allude alle questioni poste da quelle ipotesi che sono state collocate «ai confini tra contratto e torto». Si tratta di casi che possono essere ricondotti, talvolta con evidenti forzature, al fatto illecito con esiti, però, poco soddisfacenti in termini di tutela del soggetto danneggiato. È possibile, insomma, in questi casi, un’applicazione del diritto. Altra cosa, tuttavia, è verificare se si possa discorrere anche di attuazione dello stesso. La soluzione, infatti, può risultare non congrua rispetto ad esigenze di giustizia. Dottrina e giurisprudenza, nel tentativo di dare una risposta alle questioni riferite, hanno percorso vie diverse. La riconduzione di queste ipotesi all’illecito dà saggio di 12 come un fatto possa essere avvicinato al modello, con conseguente sacrificio delle peculiarità del fatto stesso. In questi casi, ad esempio, non si considera la circostanza che i soggetti interessati non siano «estranei». La questione, quindi, può essere risolta mediante il ricorso alla categoria del contatto sociale qualificato come fonte dell’obbligazione, tramite il rinvio dell’art. 1173 agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni. La scelta di questa soluzione conduce ad una diversa interpretazione della disposizione, che attribuisca un carattere elastico all’ultimo inciso dell’articolo richiamato. Questa soluzione dimostra come, talvolta, la risposta ad un fatto in cerca di sistemazione giuridica debba passare attraverso una nuova interpretazione della norma, senza che ciò implichi un intervento sull’enunciato linguistico contenuto nella fonte. L’esigenza di certezza lascia spazio a quella di giustizia, ma non sembra soccombere definitivamente. L’elaborazione della categoria del contatto sociale, da tale angolo visuale, può essere intesa come il tentativo di porre un argine al carattere elastico riconosciuto alla norma sulle fonti delle obbligazioni. Ciò spiegherebbe l’eterogeneità che connota le ipotesi ad essa ricondotte, talvolta a costo di qualche forzatura (significativa, al riguardo, è la vicenda della responsabilità dell’istituto di credito). Al di là di tale ultima osservazione incidentale, ad ogni modo, gli esempi fin qui proposti consegnano un dato: il fatto e la norma non sono entità tra loro antitetiche e separate. Si registra, invece, una continua interazione tra i due termini, sicché difficilmente si può ancora negare che il fatto abbia un ruolo nell’individuazione della disciplina applicabile al caso concreto. Attraverso le indicazioni fornite dall’ordinamento giuridico nel suo complesso, dunque, possono filtrare valori tutelabili tramite la nascita di situazioni giuridiche soggettive, ma sempre con la mediazione di fatti. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI. BETTI E., Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1955. CATAUDELLA A., Fattispecie, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967. CONSO G., I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955. DI MAJO A., Delle obbligazioni in generale, in Commentario del codice civile ScialojaBranca, Bologna-Roma, 1988. DI MAJO A., Obbligazioni I, Enc. giur., XXI, Roma, 1990. FALZEA A., Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965. FALZEA A., Fatto giuridico, in Enc. dir., XVI, Milano 1967. FALZEA A., Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939. 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