- Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche

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FATTISPECIE E FATTO IDONEO
SOMMARIO: 1. Il problema del fatto giuridico e la teoria della fattispecie. - 2. Considerazioni
critiche sulla teoria della fattispecie. - 3. La questione dei rapporti «di fatto» - 4. La dissociazione
tra fonte ed effetto, in particolare, i rapporti contrattuali di fatto. - 5. Il ruolo della norma sulle fonti
delle obbligazioni: il fatto idoneo e il rinnovato interesse verso l’art. 1173 c.c. - 6. Considerazioni
conclusive.
1. Il problema del fatto giuridico e la teoria della fattispecie.
La realtà materiale consegna al giurista eventi in cerca di sistemazione giuridica.
Un accadimento, naturale o umano, non reca in sé la giuridicità. Tale caratteristica,
piuttosto, è attribuita ad esso, sulla base di in un criterio che dev’essere intercettato.
Un’indagine intorno a siffatto parametro richiede di esaminare, in prima battuta, la
teoria della fattispecie. Il termine allude ad una categoria ben radicata nella mentalità
dei giuristi, insita nel bagaglio culturale dell’esperto di diritto, familiare a costui sino
ad apparire quasi scontata.
Fattispecie deriva dal latino «facti species» e significa, non a caso, «apparenza» o
«immagine» del fatto. Il vocabolo, quindi, rinvia alla rappresentazione, alla
riproduzione artificiale di un accadimento.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il termine è stato accostato al tedesco
Tatbestand, inizialmente impiegato per designare l’insieme di elementi o circostanze
che compongono il reato, le quali, perciò, determinano l’applicazione della pena [C.
MAIORCA, 1961, p. 13] .
Il concetto, dunque, trova origine in un settore dell’ordinamento, quello
penalistico, per fronteggiare stringenti esigenze di certezza. Ivi, la sanzione, quale
risposta dell’ordinamento a un fatto, si traduce in una pesante limitazione della libertà
personale, sicché, si avverte la necessità che vincoli possano essere imposti al
soggetto soltanto in virtù di una chiara, precisa, dettagliata previsione normativa. La
descrizione di una condotta, e con essa la prefigurazione degli effetti corrispondenti,
consente al destinatario di conoscere in anticipo le conseguenze delle proprie azioni,
potendo egli così autodeterminarsi.
In ragione della descritta attitudine, il concetto di fattispecie ha oltrepassato ben
presto i confini del diritto penale, per assurgere a categoria generale del diritto.
La dottrina civilistica, dapprima impegnata a studiare le trasformazioni dei diritti
soggettivi e delle obbligazioni, in un secondo momento ha osservato come,
all’origine delle riferite trasformazioni, vi fossero determinati fatti ed ha iniziato a
designare tali fatti con l’espressione «fatti giuridici». Di conseguenza, si avvertiva la
presenza di uno specifico rapporto di causalità tra quei fatti e quelle trasformazioni,
alle quali si riferiva il termine «effetto».
In relazione all’evento, il fatto, che la norma prevede e rende causativo, assume il
nome tecnico di fattispecie [F. SANTORO PASSARELLI, rist. 1986, p. 103]. Si giunge,
per tale via, alla costruzione della nomenclatura tutt’ora familiare: fatto giuridico,
effetto giuridico, rapporto di causalità giuridica [A. FALZEA, 1965].
Il concetto di fattispecie si specifica nel «complesso degli elementi necessari per la
produzione di un effetto o di un insieme di effetti» [D. RUBINO, rist. 1978, p. 3].
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In questa prospettiva:
- la fattispecie ed i corrispondenti effetti giuridici rappresentano i «due
poli», attorno ai quali ruota l’intera dinamica del diritto [D. RUBINO, rist. 1978,
p.3];
- sono fatti giuridici quelli produttivi di un evento giuridico, consistente,
particolarmente, nella costituzione, nella modificazione o nell’estinzione di un
rapporto giuridico, oppure nella sostituzione di un nuovo rapporto a un
rapporto preesistente; o altrimenti nella qualificazione di una persona, di una
cosa o di un altro fatto [F. SANTORO PASSARELLI, rist. 1986, p. 103];
- per rilevanza giuridica si intende la considerazione del fatto giuridico in
relazione al suo ricollegarsi agli effetti in vista dei quali esso è stato
configurato dal legislatore [G. CONSO, 1955, p. 39]
- non possono essere ricondotti alla categoria dei fatti giuridici i c.d. «atti
meramente leciti», ossia quelli consentiti dal diritto, ma non idonei a
determinare un evento giuridico.
- il concetto del fatto può assumere diverse accezioni. In particolare, può
rilevare come elemento costitutivo di una categoria comprensiva di più
elementi di fatto (fatto, fatto complesso, fattispecie); come elemento materiale,
inserito nell’insieme dei presupposti di una data conseguenza giuridica; come
categoria che comprende particolari elementi di fatto (perlopiù distinto in
semplice o complesso). In tale ultimo significato il concetto di fatto è
impiegato anche come sinonimo di fattispecie [C. MAIORCA, 1961, p. 113].
Il termine fattispecie, dunque, è stato inizialmente adoperato per indicare l’insieme
degli elementi e delle circostanze necessarie affinché si produca un effetto giuridico.
Tale modo di concepire la fattispecie è stato definito «funzionale», poiché in questa
prospettiva il fatto è previsto in funzione dell’effetto: il fatto, cioè, è giuridico in
quanto una norma ricolleghi ad esso la produzione di un effetto.
Di riflesso, la norma giuridica si compone di una parte fattuale e/o condizionante
(la fattispecie intesa come schema logico e normativo) e di una parte effettuale e/o
consequenziale (gli effetti giuridici). La norma, insomma, contempla uno o più fatti
eventuali e ad essi riconnette uno o più effetti, anch’essi eventuali.
La fattispecie prevista in via ipotetica dalla norma è definita «astratta». Essa si
distingue da quella «concreta», considerata nel suo storico divenire. Taluno ha
proposto di discernere ulteriormente tra fattispecie concreta e fattispecie «reale»,
intendendo per quest’ultima la fattispecie individuata nel tempo e nello spazio. A tale
partizione corrisponde una distinzione sul piano degli effetti, là dove si fa differenza
tra effetto astratto (ipoteticamente previsto dalla norma), effetto concreto (che si
produce allorquando vi sia una fattispecie concreta sussumibile in quella astratta),
effetto reale (individuato nel tempo e nello spazio) [D. RUBINO, rist. 1978, p. 3 ss.]1.
1 Altre distinzioni sono state fatte in relazione all’essenza del fatto. Al riguardo, si discerne tra fatti volontari o non
volontari. Nell’ambito dei fatti volontari, in relazione alla diversa entità o direzione della volontà, si differenziano gli in atti in
senso stretto dai negozi. In base alla struttura, si distingue a seconda che si tratti di un fatto unitario o di una pluralità di
elementi o eventi. Una differenziazione viene operata anche rispetto all’ efficacia che può essere sostitutiva modificativa o
estintiva, o anche dichiarativa o presuntiva di preesistenti situazioni giuridiche [Scognamiglio].
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L’applicazione del diritto avviene secondo un «ritmo sillogistico»: ricostruito il
fatto, si riconduce la fattispecie concreta ad una fattispecie astratta, mediante un
procedimento meccanico di sussunzione. L’evento è sussunto nello schema astratto di
una determinata fattispecie legislativa, attraverso un processo di semplificazione che
porta a non considerare gli elementi «minori» ma solo quelli «salienti».
2. Considerazioni critiche sulla teoria della fattispecie.
L’elaborazione sopra esposta presuppone che un fatto sia giuridicamente rilevante
soltanto nel caso in cui sia possibile riconnettere ad esso un effetto, sulla base di una
disposizione normativa. Secondo questa teorica, dunque, i due profili della rilevanza
e dell’efficacia finiscono col coincidere, divengono sinonimi. Tale assunto è stato
avversato. Correttivi, quindi, sono stati apportati alla teoria della fattispecie. Un fatto,
è stato osservato, può essere rilevante per l’ordinamento, pur a prescindere dalla
produzione di un effetto. In questo senso, un fatto può essere rilevante, ma non
ancora efficace, seppure, in ogni caso, idoneo a produrre effetti (si pensi, a titolo
esemplificativo, al contratto sottoposto a condizione). Si parla, in proposito, di
rilevanza preordinata all’efficacia [A. FALZEA, 1939, p. 24 ss.]. La teoria in questione,
sebbene riconosca l’autonomia della rilevanza rispetto all’efficacia, non si spinge fino
a postulare la totale autonomia dei concetti, giacché un fatto sarebbe rilevante pur
sempre in quanto idoneo a produrre effetti.
Secondo una parte della dottrina, la necessità di una distinzione tra i due piani della
rilevanza e dell’efficacia, ai fini della giuridicità, non si avvertirebbe, in relazione alla
maggioranza delle fattispecie giuridiche. Tuttavia, la considerazione della rilevanza
giuridica rivestirebbe un interesse notevole nei confronti di taluni fenomeni giuridici.
I quali, per la peculiare essenza e funzione che già essi assumono nell’ambito delle
relazioni sociali, costituiscono oggetto di una qualificazione altrettanto peculiare da
parte dell’ordinamento giuridico che ne prevede una conseguente disciplina. Si
allude, in sostanza, a quegli atti e/o comportamenti in cui si manifestano la volontà e
la libertà dell’uomo. Rispetto ad essi, l’ordinamento giuridico sarebbe chiamato ad
esprimere un apprezzamento positivo ovvero negativo di vario contenuto [R.
SCOGNAMIGLIO, 1989, p. 6]. Tali fatti, quindi, sarebbero rilevanti, ma non preordinati
all’efficacia. Essi riceverebbero una valutazione da parte dell’ordinamento, e tuttavia
non sarebbero necessariamente destinati a produrre effetti (si pensi, ad esempio, ad
un soggetto che passeggi per il proprio fondo: si tratta, in questo caso, di un fatto
rilevante in quanto esercizio di una situazione soggettiva).
Un ulteriore tentativo è stato fatto in dottrina per spiegare la dinamica degli effetti
senza passare per la categoria della fattispecie. Ne risulta una tesi, secondo la quale, il
criterio per enucleare dalla massa dei fatti quelli ai quali si può attribuire un ruolo nel
mondo del diritto, risiederebbe nell’esistenza di una valutazione all’interno
dell’ordinamento. Nella nozione di fatto giuridico, di conseguenza, rientrerebbero
tutte le circostanze che formano oggetto di valutazione da parte dell’ordinamento [A.
CATAUDELLA, 1967, p. 935 ss.]. La valutazione, però, non si risolverebbe in un
giudizio di approvazione o di riprovazione, bensì, in un senso più ampio, nella
considerazione che del fatto l’ordinamento fa per decidere (in relazione ai suoi fini
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propri) l’atteggiamento da assumere nei confronti del medesimo. Si può dire dunque
che, in quest’ottica, è vero che una valutazione appare necessaria perché si producano
gli effetti giuridici (non ci può essere efficacia senza rilevanza), ma non è vero anche
il contrario (e cioè, non si può dire che non ci può essere rilevanza senza efficacia),
poiché non sempre alla valutazione conseguono effetti. Difatti, secondo questa tesi, la
presa di posizione dell’ordinamento potrebbe manifestarsi anche nel rifiuto di
collegare effetti giuridici alla fattispecie. Si adducono, in proposito, le categorie del
negozio nullo e dei negozi ad effetti differiti [A. CATAUDELLA, 1967, p. 936].
3. La questione dei rapporti «di fatto».
La teoria della fattispecie, pur con i correttivi esaminati, incontra un limite. Difatti,
allorché un elemento della serie difetti nel tempo richiesto ovvero sia dato di
riscontrare irregolarità, anomalie o, ad ogni modo, variazioni rilevanti, sul piano
logico e strettamente formale la fattispecie verrebbe meno, giacché essa richiede la
totalità degli elementi previsti. Di conseguenza, dovrebbe difettare anche la giuridica
rilevanza e, per tramite di ciò, l’efficacia del fatto. Tuttavia, nell’osservare la reale
disciplina giuridica di qualsiasi fattispecie importante – negozio o sentenza,
provvedimento amministrativo o legislativo, procedure elettorali, attività processuali
e via dicendo – ci si avvede di come un principio del genere, rigido e anelastico, sia
insostenibile sul piano pratico [A. FALZEA, 1965]. Vi sono fattispecie di notevole
complessità, rispetto alle quali è difficile riscontrare un concorso assolutamente
regolare di tutti gli elementi richiesti. Se alla minima deviazione dal modello legale
dovesse in ogni caso seguire una totale nullità o mancanza di effetti, vi sarebbe una
notevole dissipazione di energie spese a vuoto, che nessun ordinamento giuridico
potrebbe tollerare [A. FALZEA, 1965].
Nell’ambito del diritto penale, che della fattispecie è il terreno d’elezione, nel caso
in cui un contegno non possa essere assimilato a quello descritto da una norma
incriminatrice, l’imputato è mandato esente da sanzione. Lo stesso non avviene
nell’ambito del diritto civile, là dove il giurista non può esimersi dal dare risposta ad
un fatto in cerca di sistemazione giuridica. In questo contesto, dunque, si pone la
necessità di verificare come incida sul valore complessivo del risultato la deviazione
occorsa in un dato elemento, ossia, si deve riscontrare in che misura questa
deviazione alteri i termini del problema d’origine e reclami una nuova soluzione
giuridica [A. FALZEA, 1965].
Significativa, al riguardo, è la questione dei rapporti di fatto. Con
quest’espressione si allude a una serie di fenomeni, di situazioni, di rapporti che non
sono espressamente regolati da una norma giuridica, e perciò, non costituiscono una
“fattispecie” tipica, ma si mostrano produttivi di effetti giuridici. Dunque, al termine
che designa determinati istituti si aggiunge la locuzione «di fatto» per designare
fenomeni che ricordano la fattispecie richiamata, e tuttavia, non si identificano con
essa, poiché manca un elemento costitutivo oppure si riscontra un vizio genetico o
funzionale.
In sostanza, in queste ipotesi appare chiaro che la fattispecie tipica non ricorre; ciò
nonostante, se ne evoca egualmente il nome, con l’aggiunta della qualifica «di fatto»,
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quasi a voler puntualizzare che la rievocazione del rapporto «di diritto» debba
risolversi in un mero richiamo. Il che non vale a escludere che il fenomeno abbia una
rilevanza per il diritto, ma richiede di determinare la portata che le alterazioni
assumono rispetto all’istituto tipico richiamato [V. FRANCESCHELLI, 1984].
4. La dissociazione tra fonte ed effetto, in particolare, i rapporti contrattuali di
fatto.
Un tema esemplificativo, in relazione alla problematica in esame, è quello dei
rapporti contrattuali di fatto.
La civilistica moderna designa con tale qualifica situazioni assimilabili di fatto a
fattispecie contrattuali, rispetto alle quali esse si differenziano per mancanza di
presupposti di validità o per riduzione di elementi costitutivi [E. BETTI, 1955, p. 117].
Il termine «rapporti contrattuali di fatto» è stato bollato come infelice e
contraddittorio [L. RICCA, p. 30]. In ragione della «non felice» designazione, al fine
di prevenire l’equivoco cui essa può dar luogo, è stato necessario puntualizzare che le
situazioni cui tali rapporti si ricollegano, sono pur sempre fattispecie dotate di
rilevanza giuridica [E. BETTI, 1955, p. 128].
Sul piano teorico la ricostruzione viene elaborata per ovviare ad alcuni
inconvenienti che si sono originati a causa dell’evoluzione del contesto sociale ed
economico, in particolare rispetto al fiorire della contrattazione di massa. Casi che
difficilmente potevano essere ricondotti alla fattispecie contrattuale, difatti, venivano
risolti mediante il ricorso ad una finzione di volontà: a tale modo di procedere la
dottrina dei rapporti contrattuali di fatto ha inteso offrire un’alternativa. Difatti, è
stato osservato in dottrina come la teorica in esame, in verità, sia frutto del timore
della dottrina di condurre il discorso inerente all'autonomia negoziale alle sue logiche
e necessarie conseguenze. Al fine di evitare una revisione della categoria contrattuale,
così da estenderne i confini al punto da ricomprendere figure non idonee a rientrare
nella nozione tralatizia, è stata creata una categoria a sé, capace di accogliere le
ipotesi in questione [G. STELLA RICHTER, 1977, p. 187 ss.].
La valorizzazione dei profili oggettivi del contratto ha consentito un superamento
della concezione tradizionale, incentrata sull’elemento volontaristico. L’evoluzione in
tema di autonomia negoziale ha permesso di fronteggiare la problematica della
finzione di volontà, che, come si è visto, ha offerto una prima giustificazione alla
teoria dei rapporti contrattuali di fatto. Quest’ultima, dunque, conteneva già in sé le
ragioni del proprio declino.
Ad essa, tuttavia, si riconosce il merito di aver tentato l'individuazione, per alcuni
casi particolari, di una diversa e più realistica fonte di obbligazioni, oltre il
tradizionale binomio contratto-atto illecito [G. STELLA RICHTER, 1977]. Gli studiosi, a
proposito delle fattispecie in questione, hanno rilevato una dissociazione tra la
fattispecie e gli effetti, nell’ambito delle fonti delle obbligazioni. Ciò in quanto, nei
rapporti contrattuali di fatto l’obbligazione può sottostare alle regole proprie di quella
contrattuale, benché un contratto manchi o sia nullo [P. RESCIGNO, 1979, p. 156].
Quando si discorre di «rapporti contrattuali di fatto» si richiamano figure assai
diverse tra loro, ma affini, in quanto esse si costituiscono poiché accadono fatti, non
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già perché si conclude un contratto. L’elenco include le trattative contrattuali, il
trasporto di cortesia, la locazione nulla o proseguita di fatto dopo la scadenza, il
rapporto di lavoro a cui fondamento sia un atto nullo, la società il cui atto costitutivo
si riveli successivamente invalido, la fornitura di acqua, luce, gas, pubblico trasporto
(ci si riferisce, in buona sostanza, alla prestazione dei servizi di pubblica utilità). Il
novero testé riprodotto può essere raggruppato due grandi classi: nella prima,
rientrano le ipotesi caratterizzate dalla mancanza della conclusione di un contratto
tramite scambio di dichiarazioni di volontà; nella seconda, si ritrovano ipotesi
accomunate dall’esistenza di una volontà congiunta, alla quale, tuttavia, non sia
possibile attribuire valore costitutivo, ad esempio perché essa si presenta inficiata da
profili di invalidità.
Le prime riflessioni intorno alla categoria sono frutto dell’esperienza giuridica
tedesca. Risale al 1941 la celebre prolusione «sui rapporti contrattuali di fatto» [G.
HAUPT, ed. it. G. VARANESE, 2012]. Il contesto storico, politico e ideologico che fa da
sfondo alla teorica considerata non deve essere trascurato. La teoria affonda le radici
in pieno nazionalsocialismo, là dove la volontà dello Stato e delle comunità, che del
primo rappresentano la proiezione, prevale sul volere del singolo. In quest’ottica,
vincoli possono essere imposti a ciascuno a prescindere dalla propria volontà.
La teoria analizzata distribuisce le ipotesi considerate all’interno di tre gruppi: i
rapporti derivanti da contatto sociale, i rapporti derivanti dall’inserzione in
un’organizzazione comunitaria, i rapporti derivanti da un obbligo sociale di
prestazione.
I rapporti contrattuali di fatto, quindi, possono trovare la propria fonte in un fatto
diverso dal contratto. Tale fatto, a sua volta, può essere un contatto sociale (come
avviene nelle trattative contrattuali; lo stesso dicasi per il trasporto di cortesia e per la
locazione nulla o proseguita di fatto dopo la scadenza), l’inserzione in
un’organizzazione comunitaria (è il caso del rapporto di lavoro a cui fondamento sia
un atto nullo e della società il cui atto costitutivo si riveli successivamente invalido),
l’esistenza di un obbligo sociale di prestazione (come accade nella fornitura di acqua,
luce, gas, pubblico trasporto).
L’influsso esercitato dal contesto politico e ideologico si avverte con maggiore
intensità rispetto ai rapporti derivanti dall’inserzione in una comunità. Il contratto di
lavoro, visto da questa prospettiva, si presenta caratterizzato da una duplice fonte: il
contratto, da un lato, l’inserzione in una comunità, dall’altro lato; sicché, venuto
meno il primo (ad esempio perché invalido) il rapporto continua a trovare
giustificazione in virtù dell’altra fonte (l’inserimento in una comunità di vita
organizzata).
Gli sviluppi successivi hanno condotto ad una progressiva valorizzazione dei
rapporti derivanti da un obbligo sociale di prestazione. L’esperienza giuridica
tedesca, ancora una volta, si rivela essere un terreno fertile. Si giunge a teorizzare,
così, l’esistenza di rapporti obbligatori da comportamento sociale tipico [K. LARENZ,
v. A. DI MAJO, 1988, pp. 196 ss.]. La tesi richiamata induce a enucleare obblighi
sociali di prestazione, a prescindere dalla volontà dell’agente, ma in forza del
significato che la condotta da costui posta in essere assume alla luce degli usi dei
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traffici. Si giunge ad affermare, per questa via, l’impossibilità di sottrarsi alle
conseguenze giuridiche di un proprio atto.
Si segnala, sul punto, il celebre caso del parcheggio di Amburgo. Di seguito, la
questione portata all’attenzione della Corte federale di giustizia tedesca. Un comune
aveva affidato a una società la gestione di un parcheggio riservato in uno spazio
pubblico e lo aveva incaricato di sorvegliarlo nonché di riscuotere il pedaggio in
alcune ore della giornata. Una signora si era introdotta nell’area in questione e aveva
lasciato in sosta la propria vettura, ma aveva dichiarato di rifiutare la sorveglianza e
di non voler pagare il pedaggio.
Il giudice avrebbe potuto seguire vie diverse. Avrebbe potuto, per esempio,
ricondurre la fattispecie all’indebito o all’illecito. Avrebbe potuto, ancora, ricorrere
ad una finzione di volontà. La Corte, invece, in quell’occasione, ha condannato la
conducente del veicolo, poiché ha ritenuto che il suo comportamento avesse un
significato sociale tipico e fosse, pertanto, vincolante, indipendentemente da una sua
eventuale volontà in tal senso.
5. Il ruolo della norma sulle fonti delle obbligazioni: il fatto idoneo e il rinnovato
interesse verso l’art. 1173 c.c.
La realtà sembra foggiare molteplici relazioni vincolanti per le parti, senza che la
loro volontà al riguardo possa rilevare. Ciò in quanto, rispetto a taluni tipici rapporti
della vita sociale non si può parlare di una naturale coesistenza di semplici terzi. In
relazione ad essi, l’applicazione delle norme che regolano i contratti appare più
consona. Nel trasporto di cortesia, per esempio, la costruzione di un rapporto
contrattuale di fatto consente di attenuare la più lata responsabilità aquiliana che
graverebbe altrimenti sul vettore, in caso di infortunio.
Le considerazioni appena svolte consegnano un dato: l’indagine sulla giuridicità
dei rapporti di fatto richiede di essere condotta, altresì, nella prospettiva dell’intento
dei soggetti. Difatti, nelle ipotesi in esame, il rapporto produce effetti in sé,
indipendentemente da un eventuale intento negativo dei soggetti coinvolti, ossia, a
prescindere dalla sussistenza di una volontà diretta a non assumere obbligazioni. Il
problema, quindi, dev’essere affrontato nella prospettiva della teoria delle fonti
dell’obbligazione [V. FRANCESCHELLI, 1984].
L’elencazione delle fonti delle obbligazioni, appunto, è volta a consentire
l’individuazione di quei fatti che nell’ambito di un dato ordinamento sono idonei a far
nascere un vincolo obbligatorio.
Una disposizione in tema di fonti era contenuta nel codice abrogato. L’art. 1097,
infatti, dedicato alle «cause» delle obbligazioni, annoverava tra esse la legge, il
contratto o quasi contratto, il delitto o quasi delitto. Il riferimento alla legge si spiega
alla luce del contesto ideologico dell’epoca [P. RESCIGNO, 1979, P. 151]. Il codice del
1865, infatti, si colloca in un periodo dominato dall’ideologia liberale. La volontà
individuale era centrale: nessun vincolo poteva derivare alla libertà di ciascun
individuo se non in forza della propria volontà. Qualsiasi vincolo proveniente da
fonte diversa doveva essere considerato eccezionale ed era affidato, pertanto, ad una
previsione generale ed astratta. Il rinvio alla legge, quindi, viene letto nell’ottica di
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una concezione «garantista» della volontà privata. Quanto al contratto, esso era
concepito come scambio di dichiarazioni di volontà. Il quasi contratto, invece, era
definito come un «fatto volontario e lecito, dal quale risulta un’obbligazione verso un
terzo o un’obbligazione reciproca tra le parti» (art. 1140 cod. abr.). La categoria
contemplava le figure dell’indebito e della gestione di affari, disciplinate negli
articoli successivi, e in esse si esauriva. Il delitto comprendeva le sole ipotesi di
responsabilità diretta. Rimanevano scoperti, quindi, i casi, in cui fosse stato chiamato
a rispondere del danno un soggetto diverso dall’agente. Tali eventualità ricadevano
nell’ambito del quasi delitto.
L’art. 1173 del codice vigente si discosta in maniera notevole dalla formulazione
appena descritta. Il raffronto tra le rubriche delle due disposizione suggerisce un
primo dato: non si parla più di «cause» bensì di «fonti». Il legislatore adopera il
medesimo vocabolo nell’art. 1 disp. prel., a proposito delle fonti del diritto. L'uso di
questo termine, quindi, attribuisce un particolare rilievo ai fatti produttivi di
obbligazioni: si assiste ad una sorta di «promozione». Il novero delle fonti
comprende: il fatto illecito, il contratto, ogni altro atto o fatto idonee a produrle in
conformità all’ordinamento giuridico. Manca, come è facile notare, il riferimento alla
legge. Le figure del quasi contratto e del quasi delitto non sono più menzionate: la
prima, in quanto relativa a fatti diversi, non suscettibili di classificazione unitaria
(secondo quanto si legge nella relazione al codice); la seconda, poiché la categoria
dei fatti illeciti è stata ampliata fino a ricomprendere al proprio interno ipotesi, in cui
la responsabilità viene attribuita anche a soggetti diversi dagli autori materiali.
Il rinvio, in chiusura, agli altri atti o fatti idonei è stato inizialmente interpretato
come un riferimento a fonti «nominate». Il legislatore, in quest’ottica, avrebbe inteso
rinviare soltanto a quelle ipotesi espressamente disciplinate, ossia: le promesse
unilaterali, i titoli di credito, la gestione di affari, il pagamento dell’indebito,
l’arricchimento senza causa.
Tale ricostruzione, con evidenza, appare come un retaggio del principio di tipicità
di ogni singola fonte [A. DI MAJO, 1990, p. 14]. Secondo questo principio, in ossequio
all’esigenza di certezza del diritto, ogni rapporto obbligatorio troverebbe la sua fonte
in una fattispecie tipica, espressamente contemplata dal legislatore e delineata in ogni
singolo elemento.
Siffatto principio è stato messo in discussione, stante la possibilità riconosciuta ai
privati di concludere contratti atipici. Anche la tipicità dell’illecito è stata contestata.
Si è giunti, così, a rimeditare la tipicità della terza categoria di fonti
dell’obbligazione; il che ha autorizzato a conferire un carattere elastico alle stesse [M.
GIORGIANNI, 1968, p. 604; P. RESCIGNO, 1979, p. 151; A. DI MAJO, 1990, p. 171]. Di
modo che, si ritiene ormai quasi pacificamente che il riferimento agli altri atti o fatti
consenta di considerare idonee a produrre obbligazioni tanto fattispecie
espressamente disciplinate, quanto fattispecie non individuate.
Tale acquisizione ha portato ad una rinnovata attenzione verso l’art. 1173 c.c., sia
da parte della dottrina sia ad opera della giurisprudenza. A partire dalla fine degli
anni Novanta del secolo scorso, il ricorso alla norma in esame è divenuto sempre più
frequente, per risolvere le questioni più disparate. Rappresentativi, sul punto, sono
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alcuni passaggi della storica sentenza che ricostruisce la responsabilità del medico
dipendente in termini di responsabilità contrattuale da «contatto sociale qualificato»2.
L'attrazione nello schema e nella disciplina del contratto, soprattutto per ciò che
riguarda la responsabilità per inadempimento, si manifesta altresì per i doveri che
insorgono nella fase formativa del contratto e nelle ipotesi di efficacia del contratto
successiva o persistente al di là del momento finale. Esemplificativi, in proposito,
sono gli obblighi che prendono vita al momento della cessazione, come nel caso
dell'art. 2124 c.c., e quelli che si protraggono al di là dal contratto, come nell’ipotesi
di ritardata restituzione della casa locata (art. 1591 c.c.). Rispetto alla responsabilità
precontrattuale, la dottrina, seguita solo in tempi recentissimi dalla giurisprudenza3, si
mostra incline a situare la fattispecie nel territorio della responsabilità contrattuale.
Ciò in quanto, si reputa che il «contatto sociale» istituito con altri soggetti del traffico
negoziale sia già per sé idoneo ad attivare meccanismi e tutele dell'autonomia
negoziale e degli affidamenti che l'esercizio dell'autonomia determina.
Di contatto sociale come fonte di obbligazioni ex art. 1173 c.c. si discorre anche
rispetto alla responsabilità della banca girataria per l'incasso4, dell’insegnate, del
2 Cass. 22 gennaio 1999, n. 589: «Va subito rilevato che non si può criticare la definizione come "contrattuale" della
responsabilità del medico dipendente di struttura sanitaria, limitandosi ad invocare la rigidità del catalogo delle fonti ex art.
1173 c.c., che non consentirebbe obbligazioni contrattuali in assenza di contratto.
Infatti la più recente ed autorevole dottrina ha rilevato che l'art. 1173 c.c., stabilendo che le obbligazioni derivano da
contratto, da fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico, consente di
inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale ( tra cui, con specifico riguardo alla fattispecie, Può
annoverarsi il diritto alla salute), Che trascendono singole proposizioni legislative.
Suggerita dall'ipotesi legislativamente prevista di efficacia di taluni contratti nulli (art. 2126, c.1, 2332, c.2 e 3, c.c., art. 3 c.
2 l. n. 756-1964), ma allargata altresì a comprendere i casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale
e tuttavia in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al semplice "contatto sociale" (secondo
un'espressione che risale agli scrittori tedeschi), si fa riferimento, in questi casi al "rapporto contrattuale di fatto o da
contatto sociale".
Con questa espressione si riassume una duplice veduta del fenomeno, riguardato sia in ragione della fonte (il fatto idoneo
a produrre l'obbligazione in conformità dell'ordinamento - art. 1173 c.c.-) sia in ragione del rapporto che ne scaturisce (e
diviene allora assorbente la considerazione del rapporto, che si atteggia ed è disciplinato secondo lo schema dell'obbligazione
da contratto).
La categoria mette in luce una possibile dissociazione tra la fonte - individuata secondo lo schema dell'art. 1173 - e
l'obbligazione che ne scaturisce. Quest'ultima può essere sottoposta alle regole proprie dell'obbligazione contrattuale, pur se
il fatto generatore non è il contratto.
In questa prospettiva, quindi, si ammette che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in
cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si
ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o
sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso.
In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma
dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell'ambito dell'art. 2043 c.c., l'ingiustizia
non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente
contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris,
secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale»
3 Cass. 12 luglio 2016, n. 14188
4 Cass. 6 ottobre 2005, n. 19512: «Promanando direttamente dalla legge, la responsabilità della banca girataria per
l'incasso non si configura come obbligazione ex delicto, ma, per l'appunto, come obbligazione ex lege, riconducibile, in base
all'art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico.
Trattasi, in fin dei conti, di fattispecie tipica di obbligazione che, pur non avendo natura contrattuale, non può per ciò solo
essere ricondotta nello schema generale dell'art. 2043 c.c., trovando invece il suo archetipo nell'art. 1173 c.c. Il fondamento
della correlativa azione risarcitoria è unico e non vi è bisogno di diversificarne il titolo (contrattuale, extracontrattuale,
cartolare) a seconda del soggetto che si ritiene danneggiato. Il criterio per individuare il soggetto titolare della pretesa dovrà
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mediatore e, da ultimo, in merito alla questione della validità del contratto
preliminare del preliminare5.
Si è parlato, in proposito, di un superamento del sistema per fonti [A. DI MAJO,
1990, p. 13], poiché, dato un fatto, occorrerebbe valutare in ogni caso la sua attitudine
ad essere fonte di obbligazione, alla luce di un raffronto, in termini di conformità, con
l’intero ordinamento. La disposizione sulle fonti, a questo punto, potrebbe apparire
superflua. Un’elencazione delle fonti, del resto, manca in diverse esperienze
giuridiche. Il BGB, ad esempio, ne ha fatto a meno. L’importanza della norma sulle
fonti, però, appare subito allorquando si consideri la sua capacità di chiarire alcuni
aspetti fondamentali della dinamica del diritto. Essa consente di «trasfondere»,
all’interno delle fonti, principi, soprattutto di rango costituzionale, che non
esauriscono le singole proposizioni legislative, ma, anzi, le trascendono. L’operatore
del diritto, allora, è chiamato a verificare se attraverso le indicazioni fornite
dall’ordinamento giuridico nel suo complesso possano filtrare valori tutelabili tramite
situazioni giuridiche soggettive, ossia, in questo caso, mediante situazioni creditorie e
debitorie. Indispensabile è la mediazione di fatti o atti di cui all’art. 1173 c.c.
La norma sulle fonti, dunque, svela il meccanismo che opera ogniqualvolta un
evento, un accadimento, si presenti al cospetto del diritto e ne chieda una
sistemazione giuridica, al fine di ricevere un’adeguata risposta in termini di tutela.
Il legislatore del ’42, probabilmente, non poteva immaginare la portata dirompente
della disposizione normativa in esame. La conformità all’ordinamento, in quel
contesto, era indice di una visione del diritto tendenzialmente statalista e di
ispirazione autoritaria: l’ordinamento giuridico, con funzione prevalente rispetto alla
volontà individuale, racchiudeva il complesso di principi desumibili dalla normativa
statale. Il mutamento dell’assetto politico e ideologico, l’introduzione della Carta
costituzionale consegnano una visione dell’ordinamento quale complesso di criteri e
principi desumibili dall’intero corpus della normativa e in particolare da quella di
rango costituzionale. Ad esso l’interprete deve attingere per trovare risposta al
conflitto prospettato da un fatto il quale, non più mera ipotesi da sussumere in una
fattispecie espressamente consegnata, diviene oggetto di valutazione in quanto
richiami l’idea della convivenza e della relazionalità. Il sillogismo giudiziale non
necessariamente è costretto ad uscire di scena. Importante, piuttosto, è la scelta delle
premesse da ricercare all’interno del complesso ordinamentale: da esse dipende la
congruità della conclusione e, dunque, della soluzione. Da ciò dipende l’attuazione
del diritto.
essere fondato sull'individuazione della sfera giuridica patrimoniale sulla quale è in concreto caduto il danno. In linea
generale, il pregiudizio derivante dal pagamento dell'assegno circolare a soggetto diverso dal prenditore potrebbe
ripercuotersi sul richiedente, ovvero sul prenditore, ovvero infine sulla stessa banca emittente se nella negoziazione si sia
inserita una banca girataria per l'incasso».
5 Cass. 6 marzo 2015, n. 4628: «All'interno di una gamma di situazioni che ricevono risposte diverse, quelle
contrassegnate sotto la lettera b sono riconducibili a una fase sostanzialmente precontrattuale, in cui la formazione del
vincolo è limitata a una parte del regolamento. La violazione di queste intese, perpetrata in una fase successiva rimettendo in
discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, da luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di
un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate
nell'art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento
giuridico».
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6. Considerazioni conclusive.
L’analisi che precede sembra autorizzare alcune conclusioni. La risposta ad un
fatto in cerca di sistemazione giuridica è un punto di approdo, al quale si può
giungere mediante percorsi differenti. Una prima via, porta ad avvicinare il fatto al
modello, ad uno schema predeterminato e consegnato all’operatore giuridico. Tale
operazione, spesso, implica un intervento sul fatto. Quest’ultimo viene modificato o,
comunque, adattato al modello, con conseguente sacrificio delle peculiarità del caso
concreto.
Una seconda via, animata dal medesimo intento di avvicinare fatto e modello,
induce ad intervenire sul modello stesso, tramite un ampliamento dell’ambito della
norma: di essa viene fornita una nuova interpretazione che aggiorni il suo significato
alle mutate situazioni di fatto, in assenza di modifiche al testo. La disposizione,
insomma, rimane invariata. Muta, invece, il giudizio di valore che da essa si ricava:
diversa, dunque, è la norma. Per tornare al caso del parcheggio, si pensi al differente
inquadramento consentito dall’evoluzione in materia di contratto. Una terza strada,
tramite procedimenti analogici, conduce ad una formulazione normativa nuova, nella
quale la situazione di fatto possa trovare adeguata sistemazione.
L’incertezza e la fragilità di queste costruzioni, talvolta, forniscono un input al
legislatore il quale interviene per dare una riposta alla problematica posta dal fatto. Si
pensi a quanto avvenuto in tema di contratto di lavoro nullo e di società il cui atto
costitutivo si riveli successivamente invalido. Le questioni erano avvertite già prima
dell’emanazione del codice. L’elaborazione della teoria dei rapporti contrattuali di
fatto, di poco precedente, ne dà testimonianza. Si tratta, infatti, di quelle ipotesi che
vengono ricondotte alla categoria dei rapporti derivanti dall’inserzione in
un’organizzazione comunitaria. Il legislatore italiano del 1942, appunto, ha dedicato
un’apposita disposizione normativa tanto al problema del contratto di lavoro nullo,
quanto a quello relativo alla società. La rubrica dell’art. 2126 c.c., in tema di contratto
di lavoro nullo, è indicativa. Si discorre, infatti, di «prestazione di fatto», con
terminologia che riecheggia la teorica esaminata. Il legislatore, così, ha dedicato
un’apposita disposizione al fine di risolvere una questione prospettata da un fatto, in
mancanza della quale l’operatore giuridico avrebbe incontrato particolari difficoltà.
Non sempre, tuttavia, ciò accade, né è possibile attendere che il legislatore
intervenga, poiché il diritto civile è chiamato a dare delle risposte, continuamente in
bilico tra esigenze di certezza ed esigenze di giustizia.
Altri e più familiari esempi, ancora, possono essere portati all’attenzione. Si allude
alle questioni poste da quelle ipotesi che sono state collocate «ai confini tra contratto
e torto». Si tratta di casi che possono essere ricondotti, talvolta con evidenti forzature,
al fatto illecito con esiti, però, poco soddisfacenti in termini di tutela del soggetto
danneggiato. È possibile, insomma, in questi casi, un’applicazione del diritto. Altra
cosa, tuttavia, è verificare se si possa discorrere anche di attuazione dello stesso.
La soluzione, infatti, può risultare non congrua rispetto ad esigenze di giustizia.
Dottrina e giurisprudenza, nel tentativo di dare una risposta alle questioni riferite,
hanno percorso vie diverse. La riconduzione di queste ipotesi all’illecito dà saggio di
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come un fatto possa essere avvicinato al modello, con conseguente sacrificio delle
peculiarità del fatto stesso. In questi casi, ad esempio, non si considera la circostanza
che i soggetti interessati non siano «estranei». La questione, quindi, può essere risolta
mediante il ricorso alla categoria del contatto sociale qualificato come fonte
dell’obbligazione, tramite il rinvio dell’art. 1173 agli altri atti o fatti idonei a produrre
obbligazioni. La scelta di questa soluzione conduce ad una diversa interpretazione
della disposizione, che attribuisca un carattere elastico all’ultimo inciso dell’articolo
richiamato.
Questa soluzione dimostra come, talvolta, la risposta ad un fatto in cerca di
sistemazione giuridica debba passare attraverso una nuova interpretazione della
norma, senza che ciò implichi un intervento sull’enunciato linguistico contenuto nella
fonte.
L’esigenza di certezza lascia spazio a quella di giustizia, ma non sembra
soccombere definitivamente. L’elaborazione della categoria del contatto sociale, da
tale angolo visuale, può essere intesa come il tentativo di porre un argine al carattere
elastico riconosciuto alla norma sulle fonti delle obbligazioni. Ciò spiegherebbe
l’eterogeneità che connota le ipotesi ad essa ricondotte, talvolta a costo di qualche
forzatura (significativa, al riguardo, è la vicenda della responsabilità dell’istituto di
credito).
Al di là di tale ultima osservazione incidentale, ad ogni modo, gli esempi fin qui
proposti consegnano un dato: il fatto e la norma non sono entità tra loro antitetiche e
separate. Si registra, invece, una continua interazione tra i due termini, sicché
difficilmente si può ancora negare che il fatto abbia un ruolo nell’individuazione
della disciplina applicabile al caso concreto.
Attraverso le indicazioni fornite dall’ordinamento giuridico nel suo complesso,
dunque, possono filtrare valori tutelabili tramite la nascita di situazioni giuridiche
soggettive, ma sempre con la mediazione di fatti.
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