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LO SVILUPPO DELLE ABILITÀ DEL
PARLATO INTERAZIONALE
INDICAZIONI PER UN PERCORSO DIDATTICO
DALLA SCUOLA ELEMENTARE AL BIENNIO
Mariella Merli
Quanta attenzione viene data nella scuola al parlato interazionale? Al parlato
cioè che si centra sul destinatario e non sul tema?
La scuola italiana si basa sul discorso che pone l’accento sul tema;
pochissimo, se non nullo, è lo spazio destinato alla interazione vera, e questo
non solo nella lingua straniera, ma nella comunicazione in generale, quindi
anche in lingua madre. Se in classe poco spazio è dedicato alla conversazione
reale, tanto minore è l’attenzione didattica che le viene destinata. Eppure si
dice che si impara a parlare parlando, a scrivere scrivendo e così via; da didatti
esperti non possiamo non sapere che sotto ai vecchi detti vive una verità
nascosta: imparare è il risultato personale/individuale di una serie di azioni
collettive/sociali, messe in comune sicuramente almeno con un’altra persona.
Per la conversazione questo è vero al massimo del significato in quanto non
esiste conversazione se non si è in più di uno. Pure, uno degli obiettivi
dell’apprendimento della lingua straniera conclamati a tutti i livelli di scolarità,
è la cosiddetta abilità di produzione orale, obiettivo che, declinato, porta a
identificare in prima istanza la capacità di interagire verbalmente con uno o più
referenti.
Interagire, appunto, e non presentarsi per un discorso a un pubblico o,
semplicemente, ripetere, riferire un argomento senza alcuna possibilità di
contraddittorio. Raggiungere un obiettivo quale il saper comunicare oralmente
richiede, dunque, la messa in atto di varie abilità ad esso sottese che, come tutte
le abilità, non sono date all’origine, in quanto necessarie, al parlante né di
lingua madre né di lingua straniera.
Inutile sottolineare che l’obiettivo di cui si tratta è fondamentale a una vita
di relazione. Anche senza scomodare altri detti popolari come «solo chi sa
parlare sa vivere», «chi sa parlare ha già in mano il potere», è proprio della vita
extra-scolastica di tutti i giorni apprezzare chi sa porsi dialetticamente a
confronto verbale con gli altri. E questo, se per la lingua madre può sembrare
più facile da raggiungere anche senza un preciso intervento didattico, è, in un
ambito di apprendimento della lingua straniera, da un lato più necessario che
mai per superare più frequenti e ovvie incertezze e difficoltà di espressione,
dall’altro più difficile da apprendere, specie se si vive in un contesto extra
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scolastico in cui la lingua straniera non viene messa in pratica.
Ma che cosa significa avere competenza conversativa per un discente di
lingua straniera?
Come, una volta deciso che questo è un obiettivo praticabile in un curricolo
di studi, si possono sviluppare gli aspetti essenziali di questa competenza?
Va prima di tutto sottolineato come parlare di competenza conversativa
significhi affrontare il processo di sviluppo delle abilità comunicative in
un’ottica di integrazione necessaria e non solo affermata teoricamente, almeno
delle due abilità orali.
Si tende ormai da molto tempo a dire che la lingua è veicolo di
comunicazione e quindi che lo studente competente in comunicazione è colui
che sa orientare forma e contenuto verso il risultato della comunicazione stessa,
verso il raggiungimento cioè dell’obiettivo cui il messaggio, che ha formulato
in modo orale o scritto, tende.
Questa dichiarazione di intenti ha portato la prassi didattica a dare spesso
parecchia attenzione allo sviluppo delle quattro abilità con valide strategie
mirate a ottenere competenti scrittori, lettori, ascoltatori e parlanti. Ma in tutti i
casi, per ovvia ragione di distanza spazio/temporale nei primi due casi, per il
maggior peso assegnato alla comunicazione transazionale negli altri due, lo
sviluppo delle abilità ha visto incertezze profonde nella loro integrazione e
comunque una sua continua posticipazione a ordini successivi di studi.
Se è difficile oggi trovare chi ancora affermi che è necessaria prima una
perfetta competenza grammatical-sintattica per dar ragione alla comunicazione,
non è inusuale sentire dire che prima di ottenere una effettiva comunicazione è
essenziale una lunga fase di addestramento separato delle varie abilità. Così i
diversi gradi di scuola rimandano a quello successivo il problema
dell’integrazione, quindi della reale comunicazione: «posso partecipare a una
conversazione solo se sono sia un efficace parlante sia un efficace ascoltatore».
Per affermare che non è possibile uno sviluppo precoce della conversazione, si
adducono ragioni di inadeguatezza di competenze da un lato, e di
inadeguatezza di condizioni interne al contesto scuola dall’altro. In realtà
appare evidente che non siamo ancora giunti a un momento di chiarezza
relativamente al significato reale dell’obiettivo che i diversi tipi di scuola si
propongono per 1’apprendimento della lingua straniera.
E certamente non siamo ancora giunti a declinare in modo chiaro e
didatticamente praticabile 1’obiettivo del parlato.
Se dunque ci ponessimo in un’ottica di diversificazione della proposta
didattica in ambito transazionale e in ambito interazionale dovremmo
ipotizzare concretamente quali sono le prestazioni che l’una e l’altra abilità
richiedono per essere messe in atto; abilità che non attengono più tanto al mero
ambito della lingua quanto, piuttosto, da un lato a un campo di sviluppo di
capacità cognitive sottese alla prestazione sia transazionale sia interazionale e,
dall’altro, specie per la seconda, a un ambito di competenze socio-culturali.
È infatti nel momento conversativo che si mostra in tutta la sua verità
l’affermazione ormai comune che il messaggio può non passare e la
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comunicazione quindi può interrompersi più per ragioni legate a differenze
socio-culturali espresse dalla lingua che per ragioni di ordine formale – leggi
grammatical-sintattiche.
Un esempio valga per tutti. Il parlante nativo è quasi sempre in grado di
riformulare per sé e quindi decodificare comunque una comunicazione non del
tutto corretta e di reagire mantenendo la conversazione, ma rischierà di non
avere strumenti per sostenerla là dove interferenze culturali proprie della lingua
madre del suo interlocutore e a lui ignote rompano il filo del discorso. Va da sé
dunque che se l’obiettivo del parlato è ritenuto ancora significativo nel
curricolo di apprendimento della lingua straniera, è necessario a questo punto
individuare quali siano gli aspetti essenziali di questa capacità che il discente
deve conoscere per mettersi in reale contatto comunicativo in un evento
conversativo reale. Le caratteristiche della conversazione sono note, ma
esistono al loro interno aspetti essenziali che vanno didatticamente posti in
primo piano per lo sviluppo di un curricolo che preveda il raggiungimento di
questo obiettivo.
Sono aspetti che da un lato attengono alle vere e proprie strategie della
conversazione e dall’altro riguardano le caratteristiche culturali proprie di ogni
lingua.
Il problema del come proporli didatticamente è secondario rispetto a quello
della loro identificazione concreta. La difficoltà nasce dal fatto che, sia per
quanto riguarda le strategie conversative, sia per quanto attiene agli aspetti
connotati culturalmente, non si può parlare di una graduatoria di difficoltà, non
ha senso cioè dire che per conversazioni semplici sia di contenuto sia di livello
linguistico esistono strategie diverse da quelle necessarie per una
conversazione di contenuto profondo e che richiede processi cognitivi elevati e
di conseguenza competenze linguistiche raffinate.
È evidente che esiste una differenza forse di «quantità» di strategie
necessarie nelle due diverse situazioni, ma non certo di qualità. Anche a un
minimo livello di interscambio è infatti essenziale che i due comunicanti
condividano strategie di apertura e chiusura dell’evento comunicativo, che
entrambi concordino sul significato di atti che permettono la chiarificazione
dell’ espressione e la richiesta di questa chiarificazione, sull’uso di strategie
che consentano la ripresa e la validazione del messaggio che stanno
trasmettendosi, oppure sulla abilità di far divergere la conversazione verso un
altro tema o un altro livello del discorso, nel caso sia necessario; inoltre a
qualunque livello conversativo è indispensabile condividere il significato dei
turni di parola, il sistema cioè in base al quale gli interlocutori si avvicendano
in uno scambio. Per quanto riguarda invece gli aspetti culturali, la realtà
scolastica italiana non offre ancora molte opportunità di confronti culturali tra
discenti di lingua madre diversa che usino la lingua straniera appresa a scuola
come medium comunicativo (si inizia solamente ora a percepire la presenza di
stranieri nelle nostre classi). Non vi è dunque una esperienza diretta delle
implicazioni culturali che la comunicazione sottende ed è perciò in certo modo
più complesso far percepire il bisogno non certo di conformarsi culturalmente,
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quanto di imparare a veicolare con corretto significato culturale un messaggio,
a prefigurare possibili incomprensioni dettate da differenze culturali e a saper
mettere in atto strategie che le superino, a saper quindi mediare tra i propri
comportamenti connotati culturalmente e quelli dell’eventuale partner
conversativo.
In questo secondo ambito dunque sarà possibile ipotizzare una certa
gradualità di proposta didattica e forse soprattutto lo sviluppo di una abilità di
osservazione dei comportamenti dei parlanti della lingua straniera funzionale
alla individuazione di eventuali incertezze comunicative e alla messa in atto di
ulteriori strategie di riparazione, siano esse di prassi linguistica o di
comportamento relazionale.
Tornando dunque alla proposta didattica praticabile in un contesto classe di
scuola italiana che miri allo sviluppo dell’abilità conversativa appare ovvio che
sarà prima di tutto necessario che gli insegnanti adottino e assumano una logica
del tutto diversa da quella che fa ancora prevalere situazioni di
insegnamento/apprendimento centrate sul docente, per sposare quella di un
apprendimento centrato sul discente.
Una scelta di questo genere prevede certamente uno spostamento del ruolo
del docente sia nella fase di programmazione dell’intervento didattico sia in
quella della prassi in classe. Molto si è detto sulla pedagogia centrata sul
discente e varie sono state le strategie tentate, ma in realtà scarse sono state le
modificazioni pratiche nella realtà classe. Eppure non è possibile accettare
ambiguità in questo senso: il docente che mira a far acquisire competenze
comunicative deve saper gestire fasi diverse in cui il proprio ruolo e quello del
discente mutano a seconda del momento della proposta didattica. Si è detto che
anche per imparare a conversare possono esistere fasi di addestramento, ma
certamente queste non possono essere identificate con le attività prettamente
meccaniche e di memorizzazione proprie di alcuni approcci linguistici.
Addestrare all’osservazione di comportamenti comunicativi non significa far
memorizzare, bensì far comprendere-interiorizzare i significati di tali
comportamenti; così come addestrare a mettere in atto strategie conversative
come quelle della riparazione significa da un lato sì «conoscere» la struttura
corretta per verbalizzarle, ma soprattutto avere la capacità, la sensibilità per
metterle in atto quando servono funzionalmente al procedere della
conversazione. E proprio della competenza conversativa la caratteristica di non
prevedibilità del tempo e del luogo in cui siano necessarie certe strategie e
quindi chi si pone come guida a questo apprendimento deve mettere in grado il
discente di farvi ricorso quando e comunque vi sia la necessità in certo modo
indipendentemente dal livello di competenza linguistica cui fa riferimento.
La coscienza-conoscenza di un repertorio di atti e strategie necessarie alla
conversazione è un compito teorico del docente, la messa in atto delle stesse è
un compito del parlante sia esso docente o studente in un momento
comunicativo altamente imprevedibile. Per il parlante insomma la necessità di
una competenza di questo tipo appare chiara solamente nell’attimo in cui solo
sapendo mettere in atto queste strategie ha la possibilità di far passar
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comunicazione.
Sappiamo tutti che il contesto scolastico è un ambito di alta finzione
comunicativa specie per la lingua straniera. Deve essere chiaro a tutti i
partecipanti che ci si trova in una situazione di simulazione di comunicazione,
ovvero che il bisogno comunicativo, che di fatto esiste sempre e quindi anche
in classe, non avrebbe ragione di essere coperto da un medium che non è
comune agli attori della comunicazione. Tuttavia si dà per scontato che tra
docente e studenti vi sia stata e vi sia costantemente una sorta di contratto in
cui le due parti si accordano per sostenere la finzione: la classe come situazione
di set teatrale o cinematografico in cui non solo si rappresenta la realtà, ma si
usa addirittura un mezzo comunicativo diverso.
Una volta accettata la finzione, non sarà difficile far passare la
conversazione in lingua straniera come parte della realtà scolastica, fermo
restando che questa è una delle fasi del discorso apprendimento-insegnamento.
Ciò significa che non si sta proponendo di centrare tutta l’attività didattica sulla
conversazione (seppure questo è un approccio che in una logica di
apprendimento di una lingua in ottica comunicativa potrebbe essere portato alle
sue estreme conseguenze), ma che si può in ogni caso ipotizzare di inserire
anche in un iter di apprendimento mirato alle quattro abilità alcuni momenti più
strettamente destinati allo sviluppo del parlato conversativo.
Quando e come? Abbiamo già detto che non si può definire asetticamente
un curricolo graduale di proposte formali per la conversazione e che, se anche è
formalizzabile a livello teorico, non è possibile graduare il corredo necessario a
conversare in una sequenza di «unità didattiche» mirate di volta in volta
all’acquisizione di ciascuna delle sue componenti.
Quello che qui si vuol suggerire è «fate conversare i discenti fin dall’inizio,
senza tema di inadeguatezze», purché si strutturino situazioni in cui il bisogno
conversativo sia stimolato fortemente e l’ambito di conversazione sia
dichiarato e chiarito con precisione. Quello che senza dubbio seguirà un
processo di gradualità sarà il tempo dedicabile alla conversazione che, se a
livello elementare sarà probabilmente di non più di cinque minuti, verrà via via
ampliato quando i livelli di competenza linguistica si evolvono, fino ad essere
condizionato solo dall’esaurimento dello scopo comunicativo per il quale si
conversa.
Una volta scelta la strada che prevede lo sviluppo della abilità di
conversazione, dunque, al docente restano quattro fasi di progettazioneattuazione dell’approccio:
1. individuare, per propria chiarezza, quali siano le strategie conversative
essenziali all’avvio della stessa da parte degli studenti, pur essendo
preparato al fatto che questa previsione può essere e facilmente sarà
modificata dalla realtà;
2. strutturare situazioni in classe in cui sia necessario mettere in atto un
momento conversativo per espletare un compito;
3. organizzare almeno tre momenti legati alla conversazione vera e propria e
individuare tecniche funzionali alla messa in pratica di ognuno di essi;
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4. prevedere strumenti di verifica e strategie di valutazione dell’attività
conversativa.
1. La fase di programmazione delle strategie necessarie all’atto conversativo si
concretizza nella stesura di un repertorio di comportamenti verbali e non
verbali che si reputano essenziali allo scambio conversativo e senza i quali lo
stesso scambio non può avvenire.
Sarà, dunque, essenziale che gli studenti siano in grado di avviare la
conversazione con frasi introduttive, che siano resi consapevoli e «addestrati»
all’uso delle formule di discorso necessarie per poter chiedere ripetizioni,
chiarimenti, ampliamenti, riformulazioni, esprimere accordo, disaccordo, ecc.,
ma sarà soprattutto necessario decidere che perché questo apprendimento
avvenga, tutto il repertorio sarà sempre messo in atto dal docente nella sua
comunicazione alla classe anche in fasi non necessariamente conversative. In
ogni caso, come già detto, sarà soprattutto essenziale essere preparati a
sostenere gli studenti con comportamenti linguistici e non-linguistici nel
momento del bisogno: anche questa del resto è una strategia di conversazione,
poiché essa non è altro che la capacità di uno degli attori di chiedere
(verbalmente o meno) un’assistenza, una cooperazione a un altro attore o
astante e la disponibilità di questo a farsi carico dell’impasse e di risolverla.
Già in questa fase tuttavia è chiaro come il ruolo del docente si modifichi
almeno parzialmente: se nel momento dell’individuazione del repertorio è
certamente colui che detiene il primato del processo di apprendimento, nel
momento in cui si rende disponibile a fornire il necessario aiuto agli studenti, il
suo ruolo muta da direttore a cogestore del processo, da insegnante a
collaboratore di comunicazione. Ma non basta. E in questo primo momento che
per l’insegnante di lingua straniera si gioca una rivoluzione copernicana tra la
logica dell’ «insegno una lingua» a quella dell’ insegno e collaboro a
comunicare in una lingua, rendendomi disponibile a guidare i passi di chi sta
imparando a usare un nuovo strumento senza imposizioni a priori, ma con un
intento di sostegno in cui si privilegia il fine (quello del raggiungimento della
comprensione del messaggio) piuttosto che il mezzo (la perfezione formale
della lingua).
2. La fase successiva, ancora in un momento di progettazione, prevede che il
docente prepari situazioni in cui sia necessario da parte degli studenti mettersi a
conversare. Si tratta qui, prima di tutto, di mettere in conto che la
conversazione richiede voce e movimento; che una classe silenziosa e ferma
non potrà mai conversare, e quindi di ricorrere alternativamente a strumenti, a
trucchi, perché la conversazione si attui, o predisporre condizioni in cui, da una
attività didattica non mirata alla conversazione, si giunga a quella conversativa.
Può sembrar banale, ma è invece essenziale, accettare la logica secondo cui
se si vuole che i discenti imparino a conversare si deve strutturare una
situazione in cui la conversazione è accettata e favorita. Si va dal fatto che la
struttura logistica della classe deve essere funzionale allo scambio verbale e
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gestuale che la conversazione prevede, al fatto che in una realtà classe di un
certo numero di alunni non si può pensare che più voci siano uguali a silenzio.
3. Per quanto riguarda la pratica didattica, si vorrebbero qui suggerire tre
diverse strategie utili all’attuazione della conversazione in classe: (palla di
neve, acquario e scenari).
Se conversare vuol dire esprimere opinioni e essere interessati a quelle degli
altri, è ovvio che qualunque attività che implichi processi cognitivi tipo
problem so!ving sarà foriera di possibilità conversative. Ma è anche vero che
condurre una conversazione in larghi gruppi è molto difficile, è cioè possibile
solo a livelli di competenza conversativa piuttosto alta. In questo senso si
preferisce privilegiare tecniche tipo quella cosiddetta di brainstorming a palla
di neve in cui, per raggiungere un dato comune a tutto il gruppo classe, si
prevede la discussione del tema (per quanto semplice esso sia) a coppie che
debbono giungere a un accordo da condividere poi con un’altra coppia e quindi
via con i gruppi rimasti, fino a un’unica soluzione negoziata.
Questa tecnica, che richiede senza dubbio lo scambio conversativo, può
essere messa in atto a livelli di competenza linguistica molto diversi, anche
elementari: la quantità di lingua necessaria dipende infatti esclusivamente dal
tipo di compito e viene lasciata al singolo partecipante (come sempre in queste
attività) la possibilità di far ricorso alla lingua che conosce, a integrazioni in
lingua madre, o a supporti ricercati all’esterno. Sarà per altro il caso di
sottolineare come in una scelta di attività che portino gli studenti all’abitudine e
disponibilità a conversare in lingua straniera sia necessario individuare, almeno
inizialmente, una serie di attività che prevedano la possibilità di esprimere
opinioni, atteggiamenti, posizioni personali senza tema di valutazione negativa
e con un occhio al superamento di atteggiamenti psicologicamente inibitori.
Vi san pratiche didattiche che mirano a far prendere posizione e a esprimere
opinioni anche senza ricorrere, almeno in una prima fase, alla comunicazione
verbale, usando bensì prevalentemente quella gestuale o corporea.
Si parla di giochi didattici che permettono a tutti gli studenti di dimostrare la
propria opinione, palesare i propri pensieri senza correre alti rischi, abituandoli,
di conseguenza, al fatto che esprimere se stessi o chiedere agli altri di tarlo non
è un fatto psicologicamente pericoloso.
Si vedano a proposito tutti quei giochi che, proponendo una scelta,
richiedono che gli allievi si confrontino con essa fisicamente: si pongano sotto
o di fronte a una immagine, a un disegno, a un colore che preferiscono tra molti
e individuino di conseguenza coloro che ne condividono la scelta, imparando
poi che si può anche esprimere un dissenso senza incorrere nel pericolo di non
essere accettati o si può mostrare titubanza senza con questo essere emarginati
dalla comunicazione generale.
Ancora in un processo di avvio alla comunicazione interattiva in lingua
straniera la tecnica dell’acquario con tutte le sue possibili applicazioni è
decisamente positiva. Comunica spontaneamente solo chi ha un background
psicologico in cui non teme o è in grado di superare il timore del ridicolo,
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dell’errore, della non accettazione da parte degli altri. In tutte le classi vi sono
persone che hanno di per sé caratteristiche di questo genere e possono divenire
inizialmente punti di riferimento, attori per primi di momenti comunicativi poi
allargabili ad altri. I giochi didattici che mettono al centro del gruppo un
personaggio che spontaneamente si sottomette a una forma di intervista più o
meno guidata (chi è il personaggio, cosa fa, ecc.), se non intesi solo per
verificare la forma della lingua usata, consentono di abilitare via via tutti alle
strategie necessarie alla conversazione.
Da ultimo, e con particolare attenzione, si può suggerire la tecnica dello
scenario. L’insegnante prepara set di azioni, comportamenti, situazioni senza
definire o imitare il campo delle possibilità di espressione della propria
personalità; attribuisce sì dei ruoli, ma, a differenza del tradizionale role play,
attribuisce parti senza che i partecipanti alla rappresentazione siano a
conoscenza gli uni del ruolo e delle scelte degli altri. In questo modo
nell’interazione esiste information gap reale e l’allievo può mettere in gioco la
propria personalità con tutte le sue sfaccettature. La conversazione avverrà nel
modo più incontrollato sulla base di ipotesi che solo la realtà del momento
conversativo validerà o meno e nei confronti delle quali di volta in volta
ognuno degli attori dovrà prendere le relative decisioni di comportamenti
verbali e non.
Il terzo compito essenziale all’avvio di una pratica conversativa vede
l’insegnante, qualunque tecnica egli preveda di proporre alla propria classe,
strutturare un momento in cui, una volta suggerito il compito agli allievi, essi
siano lasciati, preferibilmente in gruppo, a prefigurare le modalità con cui
svolgere il compito stesso. E una fase che potremmo definire di
autoaddestramento o di addestramento tra pari. Gli studenti devono essere in
grado di ricorrere a qualsiasi strumento disponibile per far fronte alle loro
necessità e quelle che prevedono possono esservi nella fase successiva di
pratica della conversazione. Si tratta di mettere a disposizione libri di testo o
altri materiali, il dizionario e I’insegnante, per la progettazione non certo di un
dialogo, per la qual cosa chi progetta ha già in mano anche i ruoli e le funzioni
che il partner metterà in atto, ma di una serie di supporti linguistico-razionali
che si potranno spendere durante la conversazione. È un momento di grossa
sfida non solo linguistica ma anche cognitiva e in questo sta forse l’aspetto più
significativo del processo; un processo che, con tempi più dilatati e con
supporti più concreti, abitua in vitro gli allievi a evidenziare, prevedere quelle
strategie che saranno poi loro necessarie in futuro in situazioni in cui è
possibile che gli stessi allievi si confrontino con tempi di reazione assai limitati
e con la necessità di trovare sostegno solo nella propria enciclopedia personale
o nel proprio partner conversativo.
Segue necessariamente la fase di reale conversazione tra i due o più attori
dello scenario, fase in cui, a seconda delle situazioni didattiche, del livello della
classe in cui si opera, della abitudine o meno all’attività, saranno chiamati a
partecipare uno o più attori provenienti da uno, due o più gruppi di
preparazione diversi. E il momento, ancora, in cui il docente ha ruolo di
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corresponsabile esperto, nel senso che certo non giudica, ma supporta, non
frena, ma sprona perché lo scenario abbia luogo.
Ultimato lo scambio conversativo, il docente assumerà il ruolo di guida
all’analisi di ciò che è avvenuto. Di nuovo per quanto attento osservatore del
processo il docente sia stato, non è prevedibile su che cosa soffermerà la
propria attenzione e quella degli allievi perché, se il processo è effettivamente
comunicativo, anche gli allievi solleciteranno chiarimenti, supporti, indicazioni
per migliorare la comunicazione che è avvenuta e per formalizzare
eventualmente, razionalizzare eventi non adeguati, non chiari, carenti.
4. Il quarto e ultimo punto, che concerne la progettazione da parte del docente,
deve prevedere la scelta delle verifiche da prendere in considerazione rispetto
al processo che si è andato costruendo.
È questa la fase che probabilmente farà emergere la necessità da parte
dell’insegnante di essere corredato sempre di strumenti atti alla rileva zio ne e
osservazione di ciò che è accaduto, per poter, da un lato, intervenire
formalmente e dall’altro ipotizzare altre tecniche di avvio alla conversazione
che risolvano eventuali difficoltà riscontrate.
Per quanto attiene alla valutazione è opportuno sottolineare due aspetti
prevalenti:
a) Se è vero che la conversazione è un momento di reale comunicazione, e che
la comunicazione è valida, ha cioè valore solo se avviene, se non è interrotta,
se i partecipanti alla fine condividono lo scopo della stessa, la valutazione da
parte del docente sarà centrata più sull’attività, sull’obiettivo che sugli attori. In
altre parole di una classe e di un gruppo si potrà dire che sanno o non sanno
ancora sostenere una conversazione se mettono in atto strategie conversative in
modo più o meno compiuto. Molto più difficile sarà dare una vera e propria
valutazione dei singoli attori della conversazione, in quanto la prestazione di
uno è fortemente condizionata da quella dell’altro. Si vuole con questo
sottolineare che per questa specifica competenza è quasi impensabile dichiarare
se il ragazzo X sa o non sa conversare, perché tutto dipende dalla persona con
cui conversa e dalla competenza del suo partner. E un campo insomma di
valutazione condivisa in cui, anche chi fosse per altro verso assai problematico
dal punto di vista della competenza linguistico-comunicativa, può apparire
decisamente positivo in quanto capace di sostenere proficuamente il partner in
modo da permettere uno scambio conversativo significativo. La valutazione
quindi ha come oggetto la conversazione in sé, e gli attori di questa
valutazione, oltre che gli insegnanti che di essa sono esperti, sono gli attori
stessi della conversazione, ma anche gli astanti, il gruppo di riferimento, la
classe in genere. Quest’ultima, in particolare, sicuramente può giungere a dare
risalto a determinati comportamenti segnalandoli come funzionali allo scopo,
così come può evidenziare invece aspetti interni alla comunicazione messa in
atto che possono riguardare la forma della lingua, nel caso in cui questo sia
l’ostacolo alla comunicazione, o comportamenti extralinguistici o culturali
sentiti come estranei o frenanti la comunicazione.
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b) Da un punto di vista pratico è sempre utile quindi dare un momento di
valutazione alle tre componenti del processo (preparazione, attuazione, analisi),
magari con una griglia di rilevazione che permetta eventualmente al docente, in
una fase di riepilogo, di valutare e il processo stesso e gli attori (sé compreso)
del processo medesimo.
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