© LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato LO SVILUPPO DELLE ABILITÀ DEL PARLATO INTERAZIONALE INDICAZIONI PER UN PERCORSO DIDATTICO DALLA SCUOLA ELEMENTARE AL BIENNIO Mariella Merli Quanta attenzione viene data nella scuola al parlato interazionale? Al parlato cioè che si centra sul destinatario e non sul tema? La scuola italiana si basa sul discorso che pone l’accento sul tema; pochissimo, se non nullo, è lo spazio destinato alla interazione vera, e questo non solo nella lingua straniera, ma nella comunicazione in generale, quindi anche in lingua madre. Se in classe poco spazio è dedicato alla conversazione reale, tanto minore è l’attenzione didattica che le viene destinata. Eppure si dice che si impara a parlare parlando, a scrivere scrivendo e così via; da didatti esperti non possiamo non sapere che sotto ai vecchi detti vive una verità nascosta: imparare è il risultato personale/individuale di una serie di azioni collettive/sociali, messe in comune sicuramente almeno con un’altra persona. Per la conversazione questo è vero al massimo del significato in quanto non esiste conversazione se non si è in più di uno. Pure, uno degli obiettivi dell’apprendimento della lingua straniera conclamati a tutti i livelli di scolarità, è la cosiddetta abilità di produzione orale, obiettivo che, declinato, porta a identificare in prima istanza la capacità di interagire verbalmente con uno o più referenti. Interagire, appunto, e non presentarsi per un discorso a un pubblico o, semplicemente, ripetere, riferire un argomento senza alcuna possibilità di contraddittorio. Raggiungere un obiettivo quale il saper comunicare oralmente richiede, dunque, la messa in atto di varie abilità ad esso sottese che, come tutte le abilità, non sono date all’origine, in quanto necessarie, al parlante né di lingua madre né di lingua straniera. Inutile sottolineare che l’obiettivo di cui si tratta è fondamentale a una vita di relazione. Anche senza scomodare altri detti popolari come «solo chi sa parlare sa vivere», «chi sa parlare ha già in mano il potere», è proprio della vita extra-scolastica di tutti i giorni apprezzare chi sa porsi dialetticamente a confronto verbale con gli altri. E questo, se per la lingua madre può sembrare più facile da raggiungere anche senza un preciso intervento didattico, è, in un ambito di apprendimento della lingua straniera, da un lato più necessario che mai per superare più frequenti e ovvie incertezze e difficoltà di espressione, dall’altro più difficile da apprendere, specie se si vive in un contesto extra 1 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato scolastico in cui la lingua straniera non viene messa in pratica. Ma che cosa significa avere competenza conversativa per un discente di lingua straniera? Come, una volta deciso che questo è un obiettivo praticabile in un curricolo di studi, si possono sviluppare gli aspetti essenziali di questa competenza? Va prima di tutto sottolineato come parlare di competenza conversativa significhi affrontare il processo di sviluppo delle abilità comunicative in un’ottica di integrazione necessaria e non solo affermata teoricamente, almeno delle due abilità orali. Si tende ormai da molto tempo a dire che la lingua è veicolo di comunicazione e quindi che lo studente competente in comunicazione è colui che sa orientare forma e contenuto verso il risultato della comunicazione stessa, verso il raggiungimento cioè dell’obiettivo cui il messaggio, che ha formulato in modo orale o scritto, tende. Questa dichiarazione di intenti ha portato la prassi didattica a dare spesso parecchia attenzione allo sviluppo delle quattro abilità con valide strategie mirate a ottenere competenti scrittori, lettori, ascoltatori e parlanti. Ma in tutti i casi, per ovvia ragione di distanza spazio/temporale nei primi due casi, per il maggior peso assegnato alla comunicazione transazionale negli altri due, lo sviluppo delle abilità ha visto incertezze profonde nella loro integrazione e comunque una sua continua posticipazione a ordini successivi di studi. Se è difficile oggi trovare chi ancora affermi che è necessaria prima una perfetta competenza grammatical-sintattica per dar ragione alla comunicazione, non è inusuale sentire dire che prima di ottenere una effettiva comunicazione è essenziale una lunga fase di addestramento separato delle varie abilità. Così i diversi gradi di scuola rimandano a quello successivo il problema dell’integrazione, quindi della reale comunicazione: «posso partecipare a una conversazione solo se sono sia un efficace parlante sia un efficace ascoltatore». Per affermare che non è possibile uno sviluppo precoce della conversazione, si adducono ragioni di inadeguatezza di competenze da un lato, e di inadeguatezza di condizioni interne al contesto scuola dall’altro. In realtà appare evidente che non siamo ancora giunti a un momento di chiarezza relativamente al significato reale dell’obiettivo che i diversi tipi di scuola si propongono per 1’apprendimento della lingua straniera. E certamente non siamo ancora giunti a declinare in modo chiaro e didatticamente praticabile 1’obiettivo del parlato. Se dunque ci ponessimo in un’ottica di diversificazione della proposta didattica in ambito transazionale e in ambito interazionale dovremmo ipotizzare concretamente quali sono le prestazioni che l’una e l’altra abilità richiedono per essere messe in atto; abilità che non attengono più tanto al mero ambito della lingua quanto, piuttosto, da un lato a un campo di sviluppo di capacità cognitive sottese alla prestazione sia transazionale sia interazionale e, dall’altro, specie per la seconda, a un ambito di competenze socio-culturali. È infatti nel momento conversativo che si mostra in tutta la sua verità l’affermazione ormai comune che il messaggio può non passare e la 2 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato comunicazione quindi può interrompersi più per ragioni legate a differenze socio-culturali espresse dalla lingua che per ragioni di ordine formale – leggi grammatical-sintattiche. Un esempio valga per tutti. Il parlante nativo è quasi sempre in grado di riformulare per sé e quindi decodificare comunque una comunicazione non del tutto corretta e di reagire mantenendo la conversazione, ma rischierà di non avere strumenti per sostenerla là dove interferenze culturali proprie della lingua madre del suo interlocutore e a lui ignote rompano il filo del discorso. Va da sé dunque che se l’obiettivo del parlato è ritenuto ancora significativo nel curricolo di apprendimento della lingua straniera, è necessario a questo punto individuare quali siano gli aspetti essenziali di questa capacità che il discente deve conoscere per mettersi in reale contatto comunicativo in un evento conversativo reale. Le caratteristiche della conversazione sono note, ma esistono al loro interno aspetti essenziali che vanno didatticamente posti in primo piano per lo sviluppo di un curricolo che preveda il raggiungimento di questo obiettivo. Sono aspetti che da un lato attengono alle vere e proprie strategie della conversazione e dall’altro riguardano le caratteristiche culturali proprie di ogni lingua. Il problema del come proporli didatticamente è secondario rispetto a quello della loro identificazione concreta. La difficoltà nasce dal fatto che, sia per quanto riguarda le strategie conversative, sia per quanto attiene agli aspetti connotati culturalmente, non si può parlare di una graduatoria di difficoltà, non ha senso cioè dire che per conversazioni semplici sia di contenuto sia di livello linguistico esistono strategie diverse da quelle necessarie per una conversazione di contenuto profondo e che richiede processi cognitivi elevati e di conseguenza competenze linguistiche raffinate. È evidente che esiste una differenza forse di «quantità» di strategie necessarie nelle due diverse situazioni, ma non certo di qualità. Anche a un minimo livello di interscambio è infatti essenziale che i due comunicanti condividano strategie di apertura e chiusura dell’evento comunicativo, che entrambi concordino sul significato di atti che permettono la chiarificazione dell’ espressione e la richiesta di questa chiarificazione, sull’uso di strategie che consentano la ripresa e la validazione del messaggio che stanno trasmettendosi, oppure sulla abilità di far divergere la conversazione verso un altro tema o un altro livello del discorso, nel caso sia necessario; inoltre a qualunque livello conversativo è indispensabile condividere il significato dei turni di parola, il sistema cioè in base al quale gli interlocutori si avvicendano in uno scambio. Per quanto riguarda invece gli aspetti culturali, la realtà scolastica italiana non offre ancora molte opportunità di confronti culturali tra discenti di lingua madre diversa che usino la lingua straniera appresa a scuola come medium comunicativo (si inizia solamente ora a percepire la presenza di stranieri nelle nostre classi). Non vi è dunque una esperienza diretta delle implicazioni culturali che la comunicazione sottende ed è perciò in certo modo più complesso far percepire il bisogno non certo di conformarsi culturalmente, 3 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato quanto di imparare a veicolare con corretto significato culturale un messaggio, a prefigurare possibili incomprensioni dettate da differenze culturali e a saper mettere in atto strategie che le superino, a saper quindi mediare tra i propri comportamenti connotati culturalmente e quelli dell’eventuale partner conversativo. In questo secondo ambito dunque sarà possibile ipotizzare una certa gradualità di proposta didattica e forse soprattutto lo sviluppo di una abilità di osservazione dei comportamenti dei parlanti della lingua straniera funzionale alla individuazione di eventuali incertezze comunicative e alla messa in atto di ulteriori strategie di riparazione, siano esse di prassi linguistica o di comportamento relazionale. Tornando dunque alla proposta didattica praticabile in un contesto classe di scuola italiana che miri allo sviluppo dell’abilità conversativa appare ovvio che sarà prima di tutto necessario che gli insegnanti adottino e assumano una logica del tutto diversa da quella che fa ancora prevalere situazioni di insegnamento/apprendimento centrate sul docente, per sposare quella di un apprendimento centrato sul discente. Una scelta di questo genere prevede certamente uno spostamento del ruolo del docente sia nella fase di programmazione dell’intervento didattico sia in quella della prassi in classe. Molto si è detto sulla pedagogia centrata sul discente e varie sono state le strategie tentate, ma in realtà scarse sono state le modificazioni pratiche nella realtà classe. Eppure non è possibile accettare ambiguità in questo senso: il docente che mira a far acquisire competenze comunicative deve saper gestire fasi diverse in cui il proprio ruolo e quello del discente mutano a seconda del momento della proposta didattica. Si è detto che anche per imparare a conversare possono esistere fasi di addestramento, ma certamente queste non possono essere identificate con le attività prettamente meccaniche e di memorizzazione proprie di alcuni approcci linguistici. Addestrare all’osservazione di comportamenti comunicativi non significa far memorizzare, bensì far comprendere-interiorizzare i significati di tali comportamenti; così come addestrare a mettere in atto strategie conversative come quelle della riparazione significa da un lato sì «conoscere» la struttura corretta per verbalizzarle, ma soprattutto avere la capacità, la sensibilità per metterle in atto quando servono funzionalmente al procedere della conversazione. E proprio della competenza conversativa la caratteristica di non prevedibilità del tempo e del luogo in cui siano necessarie certe strategie e quindi chi si pone come guida a questo apprendimento deve mettere in grado il discente di farvi ricorso quando e comunque vi sia la necessità in certo modo indipendentemente dal livello di competenza linguistica cui fa riferimento. La coscienza-conoscenza di un repertorio di atti e strategie necessarie alla conversazione è un compito teorico del docente, la messa in atto delle stesse è un compito del parlante sia esso docente o studente in un momento comunicativo altamente imprevedibile. Per il parlante insomma la necessità di una competenza di questo tipo appare chiara solamente nell’attimo in cui solo sapendo mettere in atto queste strategie ha la possibilità di far passar 4 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato comunicazione. Sappiamo tutti che il contesto scolastico è un ambito di alta finzione comunicativa specie per la lingua straniera. Deve essere chiaro a tutti i partecipanti che ci si trova in una situazione di simulazione di comunicazione, ovvero che il bisogno comunicativo, che di fatto esiste sempre e quindi anche in classe, non avrebbe ragione di essere coperto da un medium che non è comune agli attori della comunicazione. Tuttavia si dà per scontato che tra docente e studenti vi sia stata e vi sia costantemente una sorta di contratto in cui le due parti si accordano per sostenere la finzione: la classe come situazione di set teatrale o cinematografico in cui non solo si rappresenta la realtà, ma si usa addirittura un mezzo comunicativo diverso. Una volta accettata la finzione, non sarà difficile far passare la conversazione in lingua straniera come parte della realtà scolastica, fermo restando che questa è una delle fasi del discorso apprendimento-insegnamento. Ciò significa che non si sta proponendo di centrare tutta l’attività didattica sulla conversazione (seppure questo è un approccio che in una logica di apprendimento di una lingua in ottica comunicativa potrebbe essere portato alle sue estreme conseguenze), ma che si può in ogni caso ipotizzare di inserire anche in un iter di apprendimento mirato alle quattro abilità alcuni momenti più strettamente destinati allo sviluppo del parlato conversativo. Quando e come? Abbiamo già detto che non si può definire asetticamente un curricolo graduale di proposte formali per la conversazione e che, se anche è formalizzabile a livello teorico, non è possibile graduare il corredo necessario a conversare in una sequenza di «unità didattiche» mirate di volta in volta all’acquisizione di ciascuna delle sue componenti. Quello che qui si vuol suggerire è «fate conversare i discenti fin dall’inizio, senza tema di inadeguatezze», purché si strutturino situazioni in cui il bisogno conversativo sia stimolato fortemente e l’ambito di conversazione sia dichiarato e chiarito con precisione. Quello che senza dubbio seguirà un processo di gradualità sarà il tempo dedicabile alla conversazione che, se a livello elementare sarà probabilmente di non più di cinque minuti, verrà via via ampliato quando i livelli di competenza linguistica si evolvono, fino ad essere condizionato solo dall’esaurimento dello scopo comunicativo per il quale si conversa. Una volta scelta la strada che prevede lo sviluppo della abilità di conversazione, dunque, al docente restano quattro fasi di progettazioneattuazione dell’approccio: 1. individuare, per propria chiarezza, quali siano le strategie conversative essenziali all’avvio della stessa da parte degli studenti, pur essendo preparato al fatto che questa previsione può essere e facilmente sarà modificata dalla realtà; 2. strutturare situazioni in classe in cui sia necessario mettere in atto un momento conversativo per espletare un compito; 3. organizzare almeno tre momenti legati alla conversazione vera e propria e individuare tecniche funzionali alla messa in pratica di ognuno di essi; 5 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato 4. prevedere strumenti di verifica e strategie di valutazione dell’attività conversativa. 1. La fase di programmazione delle strategie necessarie all’atto conversativo si concretizza nella stesura di un repertorio di comportamenti verbali e non verbali che si reputano essenziali allo scambio conversativo e senza i quali lo stesso scambio non può avvenire. Sarà, dunque, essenziale che gli studenti siano in grado di avviare la conversazione con frasi introduttive, che siano resi consapevoli e «addestrati» all’uso delle formule di discorso necessarie per poter chiedere ripetizioni, chiarimenti, ampliamenti, riformulazioni, esprimere accordo, disaccordo, ecc., ma sarà soprattutto necessario decidere che perché questo apprendimento avvenga, tutto il repertorio sarà sempre messo in atto dal docente nella sua comunicazione alla classe anche in fasi non necessariamente conversative. In ogni caso, come già detto, sarà soprattutto essenziale essere preparati a sostenere gli studenti con comportamenti linguistici e non-linguistici nel momento del bisogno: anche questa del resto è una strategia di conversazione, poiché essa non è altro che la capacità di uno degli attori di chiedere (verbalmente o meno) un’assistenza, una cooperazione a un altro attore o astante e la disponibilità di questo a farsi carico dell’impasse e di risolverla. Già in questa fase tuttavia è chiaro come il ruolo del docente si modifichi almeno parzialmente: se nel momento dell’individuazione del repertorio è certamente colui che detiene il primato del processo di apprendimento, nel momento in cui si rende disponibile a fornire il necessario aiuto agli studenti, il suo ruolo muta da direttore a cogestore del processo, da insegnante a collaboratore di comunicazione. Ma non basta. E in questo primo momento che per l’insegnante di lingua straniera si gioca una rivoluzione copernicana tra la logica dell’ «insegno una lingua» a quella dell’ insegno e collaboro a comunicare in una lingua, rendendomi disponibile a guidare i passi di chi sta imparando a usare un nuovo strumento senza imposizioni a priori, ma con un intento di sostegno in cui si privilegia il fine (quello del raggiungimento della comprensione del messaggio) piuttosto che il mezzo (la perfezione formale della lingua). 2. La fase successiva, ancora in un momento di progettazione, prevede che il docente prepari situazioni in cui sia necessario da parte degli studenti mettersi a conversare. Si tratta qui, prima di tutto, di mettere in conto che la conversazione richiede voce e movimento; che una classe silenziosa e ferma non potrà mai conversare, e quindi di ricorrere alternativamente a strumenti, a trucchi, perché la conversazione si attui, o predisporre condizioni in cui, da una attività didattica non mirata alla conversazione, si giunga a quella conversativa. Può sembrar banale, ma è invece essenziale, accettare la logica secondo cui se si vuole che i discenti imparino a conversare si deve strutturare una situazione in cui la conversazione è accettata e favorita. Si va dal fatto che la struttura logistica della classe deve essere funzionale allo scambio verbale e 6 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato gestuale che la conversazione prevede, al fatto che in una realtà classe di un certo numero di alunni non si può pensare che più voci siano uguali a silenzio. 3. Per quanto riguarda la pratica didattica, si vorrebbero qui suggerire tre diverse strategie utili all’attuazione della conversazione in classe: (palla di neve, acquario e scenari). Se conversare vuol dire esprimere opinioni e essere interessati a quelle degli altri, è ovvio che qualunque attività che implichi processi cognitivi tipo problem so!ving sarà foriera di possibilità conversative. Ma è anche vero che condurre una conversazione in larghi gruppi è molto difficile, è cioè possibile solo a livelli di competenza conversativa piuttosto alta. In questo senso si preferisce privilegiare tecniche tipo quella cosiddetta di brainstorming a palla di neve in cui, per raggiungere un dato comune a tutto il gruppo classe, si prevede la discussione del tema (per quanto semplice esso sia) a coppie che debbono giungere a un accordo da condividere poi con un’altra coppia e quindi via con i gruppi rimasti, fino a un’unica soluzione negoziata. Questa tecnica, che richiede senza dubbio lo scambio conversativo, può essere messa in atto a livelli di competenza linguistica molto diversi, anche elementari: la quantità di lingua necessaria dipende infatti esclusivamente dal tipo di compito e viene lasciata al singolo partecipante (come sempre in queste attività) la possibilità di far ricorso alla lingua che conosce, a integrazioni in lingua madre, o a supporti ricercati all’esterno. Sarà per altro il caso di sottolineare come in una scelta di attività che portino gli studenti all’abitudine e disponibilità a conversare in lingua straniera sia necessario individuare, almeno inizialmente, una serie di attività che prevedano la possibilità di esprimere opinioni, atteggiamenti, posizioni personali senza tema di valutazione negativa e con un occhio al superamento di atteggiamenti psicologicamente inibitori. Vi san pratiche didattiche che mirano a far prendere posizione e a esprimere opinioni anche senza ricorrere, almeno in una prima fase, alla comunicazione verbale, usando bensì prevalentemente quella gestuale o corporea. Si parla di giochi didattici che permettono a tutti gli studenti di dimostrare la propria opinione, palesare i propri pensieri senza correre alti rischi, abituandoli, di conseguenza, al fatto che esprimere se stessi o chiedere agli altri di tarlo non è un fatto psicologicamente pericoloso. Si vedano a proposito tutti quei giochi che, proponendo una scelta, richiedono che gli allievi si confrontino con essa fisicamente: si pongano sotto o di fronte a una immagine, a un disegno, a un colore che preferiscono tra molti e individuino di conseguenza coloro che ne condividono la scelta, imparando poi che si può anche esprimere un dissenso senza incorrere nel pericolo di non essere accettati o si può mostrare titubanza senza con questo essere emarginati dalla comunicazione generale. Ancora in un processo di avvio alla comunicazione interattiva in lingua straniera la tecnica dell’acquario con tutte le sue possibili applicazioni è decisamente positiva. Comunica spontaneamente solo chi ha un background psicologico in cui non teme o è in grado di superare il timore del ridicolo, 7 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato dell’errore, della non accettazione da parte degli altri. In tutte le classi vi sono persone che hanno di per sé caratteristiche di questo genere e possono divenire inizialmente punti di riferimento, attori per primi di momenti comunicativi poi allargabili ad altri. I giochi didattici che mettono al centro del gruppo un personaggio che spontaneamente si sottomette a una forma di intervista più o meno guidata (chi è il personaggio, cosa fa, ecc.), se non intesi solo per verificare la forma della lingua usata, consentono di abilitare via via tutti alle strategie necessarie alla conversazione. Da ultimo, e con particolare attenzione, si può suggerire la tecnica dello scenario. L’insegnante prepara set di azioni, comportamenti, situazioni senza definire o imitare il campo delle possibilità di espressione della propria personalità; attribuisce sì dei ruoli, ma, a differenza del tradizionale role play, attribuisce parti senza che i partecipanti alla rappresentazione siano a conoscenza gli uni del ruolo e delle scelte degli altri. In questo modo nell’interazione esiste information gap reale e l’allievo può mettere in gioco la propria personalità con tutte le sue sfaccettature. La conversazione avverrà nel modo più incontrollato sulla base di ipotesi che solo la realtà del momento conversativo validerà o meno e nei confronti delle quali di volta in volta ognuno degli attori dovrà prendere le relative decisioni di comportamenti verbali e non. Il terzo compito essenziale all’avvio di una pratica conversativa vede l’insegnante, qualunque tecnica egli preveda di proporre alla propria classe, strutturare un momento in cui, una volta suggerito il compito agli allievi, essi siano lasciati, preferibilmente in gruppo, a prefigurare le modalità con cui svolgere il compito stesso. E una fase che potremmo definire di autoaddestramento o di addestramento tra pari. Gli studenti devono essere in grado di ricorrere a qualsiasi strumento disponibile per far fronte alle loro necessità e quelle che prevedono possono esservi nella fase successiva di pratica della conversazione. Si tratta di mettere a disposizione libri di testo o altri materiali, il dizionario e I’insegnante, per la progettazione non certo di un dialogo, per la qual cosa chi progetta ha già in mano anche i ruoli e le funzioni che il partner metterà in atto, ma di una serie di supporti linguistico-razionali che si potranno spendere durante la conversazione. È un momento di grossa sfida non solo linguistica ma anche cognitiva e in questo sta forse l’aspetto più significativo del processo; un processo che, con tempi più dilatati e con supporti più concreti, abitua in vitro gli allievi a evidenziare, prevedere quelle strategie che saranno poi loro necessarie in futuro in situazioni in cui è possibile che gli stessi allievi si confrontino con tempi di reazione assai limitati e con la necessità di trovare sostegno solo nella propria enciclopedia personale o nel proprio partner conversativo. Segue necessariamente la fase di reale conversazione tra i due o più attori dello scenario, fase in cui, a seconda delle situazioni didattiche, del livello della classe in cui si opera, della abitudine o meno all’attività, saranno chiamati a partecipare uno o più attori provenienti da uno, due o più gruppi di preparazione diversi. E il momento, ancora, in cui il docente ha ruolo di 8 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato corresponsabile esperto, nel senso che certo non giudica, ma supporta, non frena, ma sprona perché lo scenario abbia luogo. Ultimato lo scambio conversativo, il docente assumerà il ruolo di guida all’analisi di ciò che è avvenuto. Di nuovo per quanto attento osservatore del processo il docente sia stato, non è prevedibile su che cosa soffermerà la propria attenzione e quella degli allievi perché, se il processo è effettivamente comunicativo, anche gli allievi solleciteranno chiarimenti, supporti, indicazioni per migliorare la comunicazione che è avvenuta e per formalizzare eventualmente, razionalizzare eventi non adeguati, non chiari, carenti. 4. Il quarto e ultimo punto, che concerne la progettazione da parte del docente, deve prevedere la scelta delle verifiche da prendere in considerazione rispetto al processo che si è andato costruendo. È questa la fase che probabilmente farà emergere la necessità da parte dell’insegnante di essere corredato sempre di strumenti atti alla rileva zio ne e osservazione di ciò che è accaduto, per poter, da un lato, intervenire formalmente e dall’altro ipotizzare altre tecniche di avvio alla conversazione che risolvano eventuali difficoltà riscontrate. Per quanto attiene alla valutazione è opportuno sottolineare due aspetti prevalenti: a) Se è vero che la conversazione è un momento di reale comunicazione, e che la comunicazione è valida, ha cioè valore solo se avviene, se non è interrotta, se i partecipanti alla fine condividono lo scopo della stessa, la valutazione da parte del docente sarà centrata più sull’attività, sull’obiettivo che sugli attori. In altre parole di una classe e di un gruppo si potrà dire che sanno o non sanno ancora sostenere una conversazione se mettono in atto strategie conversative in modo più o meno compiuto. Molto più difficile sarà dare una vera e propria valutazione dei singoli attori della conversazione, in quanto la prestazione di uno è fortemente condizionata da quella dell’altro. Si vuole con questo sottolineare che per questa specifica competenza è quasi impensabile dichiarare se il ragazzo X sa o non sa conversare, perché tutto dipende dalla persona con cui conversa e dalla competenza del suo partner. E un campo insomma di valutazione condivisa in cui, anche chi fosse per altro verso assai problematico dal punto di vista della competenza linguistico-comunicativa, può apparire decisamente positivo in quanto capace di sostenere proficuamente il partner in modo da permettere uno scambio conversativo significativo. La valutazione quindi ha come oggetto la conversazione in sé, e gli attori di questa valutazione, oltre che gli insegnanti che di essa sono esperti, sono gli attori stessi della conversazione, ma anche gli astanti, il gruppo di riferimento, la classe in genere. Quest’ultima, in particolare, sicuramente può giungere a dare risalto a determinati comportamenti segnalandoli come funzionali allo scopo, così come può evidenziare invece aspetti interni alla comunicazione messa in atto che possono riguardare la forma della lingua, nel caso in cui questo sia l’ostacolo alla comunicazione, o comportamenti extralinguistici o culturali sentiti come estranei o frenanti la comunicazione. 9 © LEND 2011. Piazza R. (a cura di), Dietro il parlato b) Da un punto di vista pratico è sempre utile quindi dare un momento di valutazione alle tre componenti del processo (preparazione, attuazione, analisi), magari con una griglia di rilevazione che permetta eventualmente al docente, in una fase di riepilogo, di valutare e il processo stesso e gli attori (sé compreso) del processo medesimo. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Abbs B, (1980), Communicating Strategies, London, Longman. Bakhtin M. (1981), The Dialogic Imagination, a cura di M. Holquist, Austin, University of Texas. 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