La rivoluzione
Introduzione
«Rivoluzione» è termine usato in associazione con altri termini come
«ribellione», «colpo di stato», «insurrezione» oppure per indicare una «rivoluzione
tecnologica, agricola o industriale», spesso senza operare adeguate distinzioni
concettuali tra questi concetti. Comunque è un’assunzione condivisa definire come
rivoluzioni:
Ø
Ø
Ø
Ø
Ø
quella inglese del diciassettesimo secolo (1689);
quella americana del 1774-1789;
quella francese del 1789;
quella russa del 1917;
quella cinese del 1949;
nel senso che hanno comportato il rovesciamento violento di un regime seguito da
significativi cambiamenti sociali e sono proprio questi cambiamenti significativi in
una società che normalmente distinguono le rivoluzioni dalle ribellioni, dai colpi di
stato e dalle insurrezioni.
Esiste anche un particolare uso retorico del termine «rivoluzione» a cui
bisognerebbe prestare attenzione: la rivoluzione come mito necessario nella cultura
politica o nella storia di una società.
Questo si verifica per definizione dove non c’è stata rivoluzione ma chi è al potere ne
rivendica l’esistenza.
L’idea della rivoluzione come mito ha in parte un valore analitico, in quanto
non solo può essere usata per spiegare e giustificare le azioni politiche in senso
positivo, ma la sua assenza serve a spiegare altri fenomeni. Ad esempio è stato
affermato che in Canada, a differenza che negli Stati Uniti, non si è sviluppato un
forte senso di identità nazionale precisamente a causa della mancanza di una
rivoluzione.
Da una rassegna della letteratura risulta un generale consenso sul fatto che la
rivoluzione è caratterizzata dai seguenti sei punti:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
alterazione di valori o miti della società;
alterazione della struttura sociale;
alterazione delle istituzioni;
cambiamenti nella formazione della leadership;
passaggio di poteri non legale o illegale;
presenza o predominanza di comportamenti violenti… negli eventi che portano
al collasso del regime.
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Jaroslav Krejčì sostiene che una rivoluzione deve comportare anche
cambiamenti:
- nell’ideologia;
- nel regime politico;
- nelle strutture socio-economiche della società.
In pratica questo implica che i cambiamenti apportati dalla rivoluzione si verificano
nel corso di un periodo prolungato, e spesso hanno inizio ben prima che scoppi
l’evento comunemente definito coma la rivoluzione. Così Krejčì, dallo studio di sei
rivoluzioni, fa denotare l’inizio e la fine di alcune di esse nel modo seguente:
q
q
q
la rivoluzione «puritana» inglese inizia nel 1628 con la Petition of Right
e termina nel 1689 con l’approvazione del Bill of Rights;
la rivoluzione francese del 1789 inizia nel 1751, quando si cominciò a
lavorare all’Enciclopedia francese che mise in discussione l’ideologia
dominate e termina nel 1884 con la legalizzazione delle associazioni
sindacali;
la rivoluzione russa inizia nel 1818, anno di costituzione della prima
associazione rivoluzionaria segreta e nel momento in cui Krejčì scriveva
(1983) era ancora in corso, quindi si può pensare alla sua fine con il
1989;
Una ragionevole definizione di rivoluzione può essere la seguente: si definisce
rivoluzione il rovesciamento di un regime conseguente alla violenza, alla minaccia o
alla percezione della minaccia della violenza, che comporta cambiamenti
socialmente, economicamente e politicamente rilevanti di una società.
Il concetto marxista di rivoluzione
Nei loro primi scritti, Marx ed Engels sostengono che la rivoluzione è
l’inevitabile conseguenza del conflitto tra differenti modi di produzione e tra le classi
che ne sono il risultato.
Secondo Marx il modo di produzione determina la struttura dei rapporti tra le classi.
In ogni società esistono due classi: una classe dominante e una classe sfruttata. Lo
sfruttamento messo in atto dalla classe dominante conduce la classe sfruttata
all’alienazione da quel modo di produzione. L’alienazione fa sì che la classe
subalterna prenda coscienza del proprio sfruttamento e dunque della propria
posizione di classe, il che porta inevitabilmente alla rivoluzione da parte della classe
sfruttata. Pertanto in termini marxisti le rivoluzioni inglese, americana e francese
sono state rivoluzioni borghesi contro lo sfruttamento aristocratico. Esse sono state
condotte dalla classe media emergente, spinta dalla necessità di espandere il modo
capitalistico di produzione. Questo modo di produzione capitalistico crea una nuova
classe sfruttata, la classe operaia o proletariato, che diventerà a sua volta alienata e
assumerà coscienza di classe e, a tempo debito, rovescerà la classe dominante
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borghese con mezzi rivoluzionari. Dunque la rivoluzione fa parte dell’ordine naturale
delle cose.
In origine Marx ed Engels concepivano la rivoluzione come un cataclisma, un
salto da un’era ad un’altra prodotto dagli inevitabili conflitti interni causati dal modo
di produzione. Marx sostiene che la rivoluzione è inevitabile, ma avrà luogo solo
quando si saranno raggiunte le «condizioni materiali», quando la classe sfruttata sarà
cosciente del suo sfruttamento e la classe dominante sarà incapace di mantenere la
sua posizione dominante. Dunque ci sarà una rivoluzione comunista solo quando la
massa del proletariato sarà pronta per affrontarla.
I fallimenti delle rivoluzioni del 1848, anno di pubblicazione del Manifesto del
Partito comunista, indussero Marx a pensare che la rivoluzione comunista avrebbe
assunto la forma di una lotta lunga, non di un evento improvviso. Sia Marx che
Engels si aspettavano che la rivoluzione avrebbe avuto luogo prima di tutto nelle
società industrialmente più avanzate. Questa era la logica di fondo del modello
marxista di rivoluzione: maggiore il livello di industrializzazione, più grande il livello
di sfruttamento; maggiore il livello di sfruttamento, maggiore il grado di alienazione,
presupposto essenziale per la coscienza di classe.
Marx ed Engels ritenevano che la rivoluzione avrebbe avuto luogo dapprima in Gran
Bretagna, Germania e Francia e poi si sarebbe diffusa repentinamente; Engels
ammetteva anche la possibilità di una rivoluzione comunista in Russia, poiché il
regime zarista era instabile.
Le previsioni di Marx ed Engels non si sono avverate, ma i marxisti che sono
venuti dopo ne hanno dato una spiegazione sostenendo che l’imperialismo, con la
conquista e lo sfruttamento dei territori coloniali da parte delle società
industrializzate, aveva ritardato la rivoluzione che però restava inevitabile.
Lenin, rivoluzionario più attivo rispetto a Marx, metteva in pratica in Russia la sua
teoria dell’«avanguardia del proletariato», cioè di un’«élite» con coscienza di classe
che avrebbe condotto la classe operaia alla rivoluzione. Una volta al potere, Lenin, ha
applicato il concetto marxiano di dittatura del proletariato, che in realtà Marx non
aveva mai definito in modo esatto, tranne quando si riferiva alla Comune di Parigi del
1870 come esempio. Lenin e Trotzkij riponevano la loro fiducia sul fatto che la
rivoluzione russa sarebbe stata una scintilla per l’avvio di altre rivoluzioni in Europa.
In Europa c’era un diffuso malcontento sociale e la possibilità di una rivoluzione
comunista appariva probabile, particolarmente in Ungheria e in Germania: i
bolscevichi tentarono senza successo di esportare la rivoluzione russa occupando il
territorio polacco a seguito del ritiro delle forze e cercando consenso tra i contadini e
gli operai polacchi.
Una parte delle divergenze fra Trotzkij e Stalin dopo la morte di Lenin
derivava dal fatto che Trotzkij considerava la «rivoluzione internazionale», cioè
l’incoraggiamento e il contributo all’attuazione di rivoluzioni comuniste in altri paesi,
come l’unico modo di assicurare la sopravvivenza della rivoluzione russa. Stalin non
era d’accordo e perseguì spietatamente una politica di «socialismo in un solo paese»
per mantenere la spinta rivoluzionaria.
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Mao Tse-tung ha concepito e messo in pratica l’idea di una guerriglia rivoluzionaria
contadina, che si adattava particolarmente alle condizioni della Cina. Il modello
maoista di rivoluzione contadina è stato ripreso da Fidel Castro a Cuba e da Ho Chimin in Vietnam. Anche Mao, come Trotzkij, ha messo l’accento sul concetto di
«rivoluzione permanente», cioè sull’idea che la rivoluzione abbia continuamente
bisogno di rinnovarsi e di rinvigorirsi. In altri termini è stato necessario adattare la
teoria marxista alla realtà e alle sue possibilità.
Tutte le situazioni e gli eventi debbono essere spiegati in termini marxisti, così
il perché la rivoluzione non ha portato tutti i frutti profetizzati dai suoi leader e dalla
teoria marxista, così l’aspra contesa tra Urss e Repubblica Popolare Cinese, così i
partecipanti alle dimostrazioni di piazza Tienanmen, così il crollo dei regimi
comunisti nell’Europa dell’Est e in Unione Sovietica.
Sia i teorici che i politici marxisti hanno dovuto adattare la teoria marxista alle
circostanze che via via si presentavano. Ben a ragione il marxismo pone foretemente
l’accento sui rapporti tra società e politica, e specialmente tra economia e politica,
cercando di comprendere il rapporto esistente tra il corso della storia e il verificarsi
delle rivoluzioni.
Un’interpretazione non-marxista della rivoluzione
Il concetto non-marxista di rivoluzione è più variegato ma tutti gli studiosi di
diverse correnti di pensiero concordano sul fatto che la rivoluzione è una radicale
trasformazione della società che comporta un cambiamento di ideologia, di regime
politico e di strutture economiche. Viene condiviso anche il concetto marxista
secondo cui il conflitto è naturalmente insito nella società, ma c’è dissenso sul fatto
che la rivoluzione sia inevitabile.
Krejčì [1983] nel suo studio su sei rivoluzioni, da quella ceco-ussita del
quindicesimo secolo (1400) alla rivoluzione comunista cinese del ventesimo secolo,
ha elaborato una complessa morfologia della rivoluzione, dai suoi primi segni iniziali
alla conclusione ultima.
Il primo stadio, viene definito come un avvio, cioè «un periodo prolungato di
scelte innovative e riformiste all’interno di una parte dell’élite culturale della
società», e porta alla defezione di un certo numero di intellettuali, che spingono per
un cambiamento. Gli enciclopedisti hanno svolto questo ruolo per la Rivoluzione
francese, i principi calvinisti e presbiteriani per la rivoluzione «puritana».
A questo stadio il processo è più riformista che rivoluzionario e le forze riformiste si
incamminano verso la seconda tappa, cioè l’istituzionalizzazione.
L’istituzionalizzazione comporta l’appropriazione di alcune delle strutture
sociali e politiche esistenti per avere la base di potere necessaria per realizzare le
riforme. Se in questa fase prevale la via riformista e si mette in atto un mutamento
sociale, il processo rivoluzionario si può anche interrompere.
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Invece se il regime cerca di frenare i tentativi riformisti, il processo rivoluzionario
entra nello stadio di compressione, che può trasformare la via riformista in un
processo apertamente rivoluzionario.
La compressione porta alla sollevazione violenta accompagnata da una rivoluzione,
che Krejčì definisce l’esplosione. Esempi: scoppio della guerra civile in Inghilterra
nel 1642 e presa della Pastiglia nel 1789.
Una volta che l’esplosione è avvenuta e ha comportato la caduta del regime, inizia
una nuova fase di oscillazione, in cui diversi gruppi ideologici ingaggiano
un’ulteriore lotta per il potere. Esempi: girondini e giacobini in Francia oppure tra
menscevichi e bolscevichi in Russia.
Nel caso che uno dei gruppi rivoluzionari rivali conquisti il potere si ha
un’interruzione, seguita da un rafforzamento che consente un’ulteriore stretta, di
solito attraverso una dittatura rivoluzionaria. Esempi: il protettorato di Cromwell, il
governo giacobino del 1793-94, il «socialismo in un solo paese» di Stalin.
I «nemici» della rivoluzione vengono eliminati attraverso il ricorso al terrore e il
regime rivoluzionario può tentare di difendersi mediante l’espansione del governo
rivoluzionario all’estero. Esempi: le guerre rivoluzionarie francesi tra il 1795 e il
1799, l’annessione da parte di Stalin delle repubbliche baltiche che facevano parte
della Polonia.
Krejčì sostiene che l’espansione determina delle tensioni che si riflettono sulle
risorse disponibili per il regime rivoluzionario, col risultato che in parte ci si
allontana dagli ideali rivoluzionari, si ha cioè un’inversione.
Questa inversione può poi trasformarsi in quello che Krejčì definisce compromesso di
restaurazione, in cui si assiste ad una parziale restaurazione del regime prerivoluzionario; ma dato che un tale compromesso di solito non è facile da ottenere,
può darsi che i contro-rivoluzionari facciano pressioni di restaurazione.
Il culmine del processo rivoluzionario è definito consolidamento, in cui i
cambiamenti portati avanti dalla rivoluzione vengono confermati e si sono verificate
nette modifiche nell’ideologia, nel regime politico e nelle strutture socio-economiche.
Krejčì sostiene che dove si sono verificate pressioni di restaurazione esse hanno
avuto come conseguenza un rovesciamento del consolidamento, in cui le forze
controrivoluzionarie vengono espulse dal processo di consolidamento.
Krejčì sostiene che non tutte le rivoluzioni seguono esattamente lo stesso processo,
possono verificarsi ricorrenze di alcune fasi, che prolungano il processo
rivoluzionario per un considerevole periodo di tempo.
Krejčì non sostiene che il processo rivoluzionario è irreversibile, ma che lascia
inevitabilmente un segno e che nessuna società tornerà completamente alle sue
condizioni pre-rivoluzionarie.
Il crollo dei regimi comunisti dell’Europa dell’est è stata una rivoluzione? C’è
effettivamente stata una svolta nei valori, nelle ideologie, nelle strutture sociali, le
istituzioni si sono indubbiamente modificate, in particolare quelle politiche. Ma il
passaggio di poteri e la presenza o prevalenza della violenza sono elementi più
problematici da riscontrare; eccetto la Romania, in cui il passaggio dei poteri è stato
apertamente illegale e la violenza ha avuto un ruolo fondamentale.
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Piuttosto che chiedersi se il trasferimento di potere sia stato non-legale o
illegale, potrebbe essere più significativo domandarsi se sia stato normale o anomalo,
una domanda alla quale è facile rispondere nel secondo senso. In altre parole,
nonostante si siano osservate le procedure legali, non c’è stato un normale
trasferimento di potere all’interno di ciascun partito comunista al potere. Il
trasferimento di potere si è verificato con mezzi anomali.
Krejčì traccia una distinzione tra «rivoluzioni verticali» e «rivoluzioni
orizzontali». Le prime sono rivoluzioni che si verificano come risultato di forze
interne ad una determinata società, mentre le altre sono rivoluzioni che si verificano a
causa di forze esterne alla società. Perciò le sei rivoluzioni analizzate da Krejčì, sono
«rivoluzioni verticali», ma la rivolta dell’Olanda contro il potere spagnolo, la
rivoluzione americana e la maggior parte delle rivoluzioni latino-americane del
diciannovesimo secolo sono «rivoluzioni orizzontali». Lo stesso può dirsi per la
maggior parte delle rivoluzioni del Terzo mondo in quanto il fattore causale
determinante nella rivoluzione è la presenza del potere straniero. Gli eventi
nell’Europa dell’Est iniziati nel 1989 possono essere interpretati come esplosioni di
«rivoluzioni orizzontali».
Le cause della rivoluzione
In uno studio sulle rivoluzioni francese, russa e cinese Theda Skocpol sostiene
che ciascuna di queste rivoluzioni è stata causata dalla compresenza di tre condizioni:
- in primo luogo, il collasso o l’incapacità dei meccanismi amministrativi
centrale e di quelli militari;
- in secondo luogo, da una diffusa ribellione contadina;
- infine, da fattori che l’autrice definisce come «movimenti politici di élite
marginali».
In ciascuno di questi casi il collasso amministrativo e militare è stato dovuto in gran
parte a pressioni esterne. Le insurrezioni contadine hanno privato tutte e tre le nazioni
di un fondamentale sostegno economico ed hanno ulteriormente indebolito la
capacità dei governi di mantenere l’ordine.
Le élite marginali alle quali fa riferimento la Skocpol erano costituite da avvocati,
insegnanti, studenti e discendenti di funzionari dello stato, che costituirono
un’avanguardia in grado di promuovere un cambiamento sociale e di conseguenza
rivoluzionario. Tutto ciò si verificò in società agrarie che dovevano fare i conti con
forti pressioni interne ed esterne per modernizzarsi.
È possibile tracciare, sulla base di differenti ricerche e studi sulla rivoluzione,
un elenco di cause generali o di lungo periodo e di cause specifiche o immediate della
rivoluzione.
A) Cause generali
1) Economiche: un cambiamento nel potere economico che comporta
insoddisfazione economica.
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2) Socio-culturali: insoddisfazione su base etnica, linguistica, religiosa o
regionalista.
3) Ideologiche: l’ideologia prevalente è minacciata e messa in discussione e
sorgono ideologie antagoniste.
4) Politiche: perdita di efficienza, capacità di controllo e legittimità da parte
del regime.
Le cause fondamentali sono sociali più che politiche in senso stretto. È probabile
inoltre che esista una diffusa serie di rilevanti insoddisfazioni economiche e socioculturali. Alcuni gruppi sociali si considerano talmente svantaggiati sotto un profilo
economico e sociale da sentirsi discriminati. Dietro questi fenomeni spesso vi è un
sostanziale cambiamento nel potere economico. Tutto ciò tende a minacciare la
capacità del regime o dell’élite dominante di continuare a governare in modo efficace
e in particolare di mantenere l’ordine e rispettare la legge.
È a questo punto che entrano in gioco delle cause specifiche di rivoluzione.
B) Cause specifiche
1) Pressanti richieste di una parte ben organizzata della società che un settore
dell’élite dominante non è in grado di accogliere.
2) Dissenso visibile all’interno della classe dominante tra chi vuole resistere e
chi invece è favorevole alle concessioni.
3) La credibilità dell’ideologia del regime è minacciata dalla sua risposta alle
domande.
4) Diffusa crisi di legittimità da parte dell’élite dominante.
5) Perdita diffusa di controllo politico da parte del regime.
Richieste persistenti da parte di settori ben organizzati della società che si sentono
nettamente svantaggiati portano ad un sempre maggior dissenso, all’interno dell’élite
dominante, tra coloro che sono favorevoli alla repressione ad oltranza e coloro che
propendono invece per le concessioni.
La credibilità ideologica del regime è minacciata dalle sue divisioni interne e dalla
sua apparente incapacità di risolvere la situazione, col risultato di una improvvisa
perdita di legittimità. Questo espone il regime a minacce dirette, con una perdita di
controllo politico che può portare ad un suo rovesciamento, ad una guerra civile o ad
uno stato di guerriglia.
I teorici della società di massa ritengono che la rivoluzione si verifica quando
le strutture sociali si indeboliscono, o laddove esiste uno squilibrio tra differenti
settori della società. Questo, implicitamente, è anche il punto di vista funzionalista,
ma i funzionalismi considerano la rivoluzione come l’eccezione alla regola generale
secondo la quale il mutamento sociale è determinato da meccanismi di autoaggiustamento della società.
Altri autori hanno adottato un punto di vista sostanzialmente psicologico,
sostenendo che una causa primaria delle rivoluzioni è costituita dal rapporto tra le
aspettative della gente (specialmente quelle di tipo economico) e la realtà. Si tratta
della teoria delle aspettative crescenti. Essa è stata avanzata per la prima volta da
Tocqueville nel suo studio sulla Rivoluzione francese, in cui sostiene che la
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rivoluzione si è verificata quando la situazione economica stava migliorando, ma non
abbastanza da soddisfare le aspettative della popolazione.
Il concetto di privazione relativa è importante per la teoria marxista della
rivoluzione proletaria, in quanto una privazione crescente è un fattore determinante
affinché la classe lavoratrice prenda coscienza della sua subalternità e del suo
sfruttamento da parte della classe dominante. Non è tuttavia un fattore determinante
nella rivoluzione borghese, poiché la coscienza di classe della borghesia si sviluppa
in quanto diventa coscienza del miglioramento delle proprie condizioni materiali, non
del loro deterioramento.
Le teorie delle aspettative crescenti e della privazione relativa sono state
soggette a varie critiche. La prima è di tipo metodologico: i dati aggregati e macro
vengono usati per spiegare il comportamento individuale. Ma ancor più importante è
la critica secondo la quale questa teoria non riesce ad identificare in modo chiaro il
momento in cui «la gente ne ha avuto abbastanza» e ricorre alla violenza, né perché
questo momento varia da società a società.
È possibile anche che se si apre un divario sufficientemente ampio tra le
aspettative materiali della gente e la realtà, si raggiunga un punto in cui questo
divario diventa incolmabile coi normali processi sociali e politici e la rivoluzione
diventa inevitabile. Allo stesso modo, quando il divario tra una parte della società e
un’altra diventa incolmabile in termini di richieste da un lato e disponibilità nelle
concessioni dall’altro, allora di nuovo la rivoluzione è inevitabile.
Queste considerazioni ignorano un altro fattore che sembra frequente nella maggior
parte, se non in tutte, le rivoluzioni: quello della leadership. La leadership, come in
altri aspetti della politica, è un fattore chiave nella rivoluzione, specialmente in
termini di capacità organizzativa e ispiratrice sia del rovesciamento iniziale del
vecchio regime, sia nel dare alla rivoluzione una capacità di direzione in grado di
comportare una trasformazione della società.
Rivoluzione e mutamento sociale
La rivoluzione costituisce una delle più importanti forme di mutamento sociale,
ma non tutti i grandi mutamenti sociali possono essere considerati il risultato di una
rivoluzione. È discutibile, ad esempio, che la Germania nazista sia stata il prodotto di
una rivoluzione. Hitler è salito al potere in modo legittimo: come capo del maggior
partito del Reichstag egli è stato incaricato di formare un governo dal presidente
Hindenburg, ma i nazisti hanno fatto ampio uso della violenza.
La vera conquista del potere da parte di Hitler è consistita nel neutralizzare i suoi
oppositori. Una volta al potere Hitler è stato artefice di un considerevole mutamento
sociale, che comprendeva politiche basate su un cambiamento ideologico di ampia
portata ed ha costruito una società totalitaria.
La rivoluzione agricola e industriale hanno di fatto trasformato la società, ma
esse sono considerate più come processi o come conseguenze della rivoluzione
inglese e in questo senso quindi come parte del processo rivoluzionario.
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