Diritto Amministrativo a cura di Adolfo Angeletti con Roberto Caranta e Mariano Protto ORDINAMENTO COMUNITARIO Corte di giustizia dell’Unione europea, III Sezione, 21 dicembre 2011 (in causa C-482/10), pag. 1677. Attività amministrativa e principi dell’ordinamento comunitario di Stefano Civitarese Matteucci. PERMESSO DI COSTRUIRE Consiglio di Stato, V Sezione, 2 febbraio 2012, n. 568, pag. 1682. LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI Consiglio di Stato, V Sezione, 29 novembre 2011, n. 6296, pag. 1684. Risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e diligenza del danneggiato di Francesco Bonamassa. CLAUSOLE DI ESCLUSIONE Consiglio di Stato, V Sezione, 19 ottobre 2011, n. 5619, pag. 1689. La controversa interpretazione delle clausole di esclusione dalle gare di appalti pubblici di Francesco Manganaro. ORDINAMENTO COMUNITARIO Corte di giustizia dell’Unione europea, III Sezione, 21 dicembre 2011 (in causa C-482/10) — Lenaerts Presidente — Danwitz Relatore — Teresa - Regione siciliana (avv.ti Farina, Bologna) ed altri. Amministrazione pubblica — Principi dell’ordinamento comunitario — Procedimento amministrativo — Vizi formali (TFUE, art. 296, comma 2; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 41, n. 2, lett. c); L. 7 agosto 1990, n. 241, artt. 1, 21 octies, comma 2). La legge n. 241/1990, all’art. 1, rinvia in modo generale ai «principi dell’ordinamento comunitario», e non specificamente agli artt. 296, comma 2, TFUE, e 41, n. 2, lett. c), della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Pertanto non si può ritenere che queste ultime disposizioni, in quanto tali, siano state rese applicabili in modo diretto dal diritto italiano. La legge n. 241/1990 non apporta indicazioni sufficientemente precise dalle quali potrebbe dedursi che, richiamandosi, all’art. 1 legge n. 241/1990, ai principi del diritto dell’Unione, il legislatore nazionale abbia inteso, con riferimento all’obbligo di motivazione, realizzare un rinvio al contenuto delle disposizioni degli artt. 296, comma 2, TFUE e 41, n. 2, lett. c), della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, i quali sono diretti, peraltro, alla luce della loro formulazione, non già agli Stati membri, bensı̀ unicamente alle istituzioni ed agli organi dell’Unione, o ancora ad altre disposizioni del diritto dell’Unione inerenti all’obbligo di motivazione dei provvedimenti, al fine di applicare un trattamento identico alle situazioni interne e a quelle disciplinate dal diritto dell’Unione (1). Per il testo della sentenza v. www.curia.europa.eu (1) Attività amministrativa e principi dell’ordinamento comunitario Sommario: 1. Atti paritetici e giudizio sul rapporto. — 2. Diritto a una buona amministrazione e obbligo di motivazione. — 3. Sin dove giunge l’“europeizzazione” del diritto amministrativo italiano? — 4. Il modo di operare dei principi e le regole del diritto amministrativo. 1. Atti paritetici e giudizio sul rapporto. Il problema affrontato nella sentenza concerne il significato del rinvio contenuto nell’art. 1 della legge n. 241/1990 ai principi europei. Secondo uno degli enunciati di questo articolo, come noto, l’attività amministrativa è retta, tra l’altro, dai principi dell’ordinamento comunitario. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 DIRITTO AMMINISTRATIVO Per i testi dei provvedimenti del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana e dei Tribunali amministrativi regionali v. www.giustizia-amministrativa.it 1678 Si tratta di un punto oggetto di un vivace dibattito in dottrina e su cui la sentenza annotata offre un significativo contributo anche se, va subito detto, restando ai margini del problema. Parte della vivacità del dibattito è legata alla circostanza che la questione del significato del rinvio ai principi del diritto comunitario è stata spesso affrontata dalla dottrina in riferimento alla disposizione contenuta nell’art. 21 octies della legge n. 241/1990 sulla non annullabilità di un provvedimento amministrativo vincolato per vizi del procedimento o della forma dell’atto e il tema affrontato nella sentenza si riferisce appunto a questa disposizione. Il caso sollevato dalla Corte dei conti siciliana riguardava il difetto di motivazione di un provvedimento in materia pensionistica. Presupposto del rinvio pregiudiziale è la duplice considerazione che si fosse dinanzi a un provvedimento vincolato e che la motivazione costituisse un elemento formale del provvedimento. In proposito è anzitutto interessante esaminare gli argomenti impiegati dalla Sezione della Corte dei conti a fondamento del rinvio. Il giudice italiano pone alla Corte di giustizia due diversi quesiti tra loro collegati. Il primo quesito, di fatto non preso in considerazione dalla Corte di giustizia, è più interno alla logica che, secondo un orientamento che si va facendo strada, è sottesa al processo pensionistico dinanzi alla Corte dei conti. Si tratta dell’idea secondo cui il sindacato nei confronti dei cosiddetti atti paritetici dà un luogo a un giudizio sul rapporto e non sull’atto. Ciò che si pone al centro del giudizio è, infatti, l’accertamento del diritto alla pensione, rispetto al quale gli atti impugnati assumono il ruolo di semplici presupposti processuali. Trattandosi, pertanto, di stabilire se qualcuno in base alla legge ha diritto o meno a un certo trattamento pensionistico, la presenza di vizi formali negli atti amministrativi applicativi diverrebbe irrilevante. Questo modo di impostare il problema (che può riguardare varie altre fattispecie, esemplificativamente: sanzioni amministrative, contenzioso tributario, controversie in materia di provvedimenti vincolati dinanzi al giudice amministrativo) dal lato del privato presenta un vantaggio e uno svantaggio. Consente maggiore tutela nella misura in cui si può direttamente ottenere dal giudice l’utilità sperata, minore tutela nei casi in cui ci si potrebbe ritenere soddisfatti da una semplice misura cassatoria dell’atto 1. Il giudice rinviante ritiene che da questa posizione facente leva sulla tecnica del sindacato giudiziale su diritti, che fronteggerebbero i cosiddetti atti paritetici, derivi la conseguenza che per tali atti non sarebbe necessaria la motivazione. 1 E naturalmente a sua volta questa valutazione varia al variare degli effetti del provvedimento, poiché dinanzi ad esempio a una sanzione la sua rimozione, indipendentemente dal motivo che la giustifica, è il massimo che si può ottenere. 2 Di recente anche la giurisprudenza amministrativa ha accolto questa impostazione, traendone il corollario che un provvedimento sostanzialmente legittimo non escluda l’ingiustizia del danno che sia stato cagionato dal vizio del procedimento (v. T.A.R., Marche, Sez. I, 28 ottobre 2011, n. 813), ove si legge che «l’art. 21 octies legge 241/90, [...] non determina la degradazione di un vizio di legittimità in mera irregolarità, né costituisce Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 Diritto Amministrativo | ORDINAMENTO COMUNITARIO Non è qui necessario indagare quanto quest’ultima posizione è effettivamente diffusa negli orientamenti dei giudici delle pensioni. Quello che invece occorre osservare è che da quella premessa sui caratteri di un giudizio sul rapporto non derivi affatto la conseguenza della non necessarietà della motivazione, come di qualsiasi altro elemento del procedimento amministrativo. Si tratta anzi di una inferenza logicamente non autorizzata. Per stare al diritto positivo, e all’art. 21 octies cit., quello che può affermarsi è soltanto che la assenza di un requisito di forma in certi casi non comporta la annullabilità del provvedimento 2. A parte quindi i casi particolari di certi tipi di giudizi (in cui per ragioni contingenti si ragiona in termini di diritti come di qualcosa essenzialmente diverso dagli interessi legittimi), è piuttosto l’assenza della “sanzione” dell’annullamento che consente di sostenere che il giudizio sull’atto vincolato è in fondo un giudizio su un rapporto, e non viceversa. Se cosı̀ stanno le cose, è difficilmente comprensibile porre la questione in termini di violazione dell’obbligo di motivazione — previsto indubbiamente nell’ordinamento domestico come in quello europeo — che verrebbe consumata dalla su riferita interpretazione del giudizio in materia di pensioni come giudizio sul rapporto. Probabilmente, messo in questi termini, il punto è persino poco comprensibile da parte di un giudice europeo, nel senso che non è chiaro che cosa “aggiungerebbe” il riferimento al diritto europeo alla già evidente sussistenza della regola di un obbligo generale di motivazione presente nell’ordinamento domestico. 2. Diritto a una buona amministrazione e obbligo di motivazione. Il secondo quesito investe, invece, direttamente il rapporto tra art. 21 octies e obbligo di motivazione, riguardando il problema dell’integrazione della motivazione del provvedimento in sede processuale. Anche in questo caso il percorso argomentativo impiegato dal giudice rinviante non brilla per linearità. Più che misurarsi direttamente con il testo dell’art. 21 octies, egli espone dapprima una delle possibili giustificazioni della norma che da esso si ricava — vale a dire la regola del raggiungimento dello scopo — secondo come questa sarebbe deducibile da alcune pronunzie dei giudici amministrativi, per poi sottoporla a critica. Al di là di questo, l’argomento del giudice italiano si risolve nel seguente. Vi sarebbe una palese contraddizione tra l’art. 21 octies della legge sul procedimento amministrativo, cosı̀ come interpretato dalla giurisprudenza nazionale 3, che consente l’integrazione della motivazione in sede processuale, e l’art. 1 della stessa una fattispecie esimente. Semplicemente, pur continuando la violazione ad integrare un vizio di legittimità, viene prevista la non annullabilità dell’atto a causa di valutazioni attinenti al contenuto del provvedimento (Cds Sez. V 23.1.2008 n. 143)». In dottrina v. Ferrara, La partecipazione tra “illegittimità” e “illegalità”. Considerazioni sulla annullabilità non pronunciabile, in Dir. Amm., 2008, 1, 113-115. 3 In realtà, se si assume un orientamento alla certezza (fedeltà al testo), nella prima parte dell’art. 21 octies, comma 2 le controversie interpretative potrebbero riguardare, come si crede di aver dimostrato in altro studio, soltanto: a) il significato da at- Diritto Amministrativo | ORDINAMENTO COMUNITARIO 1679 legge, ove si richiama l’applicazione da parte dell’amministrazione dei principi dell’ordinamento comunitario, tra cui rientrano l’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo e il divieto di integrazione della stessa in sede processuale. Lasciando ora da parte le prospettazioni della Sezione siciliana, conviene rivolgere l’attenzione a una analoga tesi sostenuta in dottrina con maggiore dovizia di argomenti 4. Il punto di partenza è il dichiarato intento di porre rimedio all’errore che il legislatore italiano avrebbe compiuto con la introduzione dell’art. 21 octies nel nostro ordinamento. Grazie a questa disposizione, infatti, il procedimento non potrebbe essere oggi inteso come espressione della “funzione amministrativa”, in quanto avrebbe ormai rilievo soltanto il risultato 5. Le censure proposte sembrano, invero, indirizzate nei confronti della sola parte dell’art. 21 octies che consente all’amministrazione la dimostrazione in giudizio, anche per i provvedimenti a contenuto discrezionale 6, che il provvedimento non avrebbe potuto essere comunque diverso da quello in concreto emanato. Riguardando, però, questa fattispecie soltanto l’omesso avviso dell’avvio del procedimento 7, il vizio di difetto di motivazione non sarebbe interessato. Tuttavia gli argomenti impiegati sono poi di carattere generale e fanno leva tanto sulla giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di motivazione degli atti quanto, soprattutto, sul congiunto operare del rinvio ai principi del diritto comunitario di cui all’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo e del recepimento della Carta dei diritti nel Trattato di Lisbona. Il riferimento è all’art. 41 della Carta di Nizza rubricato “Diritto a una buona amministrazione” che prevede, tra l’altro, «il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudi- 3. Sin dove giunge l’“europeizzazione” del diritto amministrativo italiano? Sui suddetti aspetti la decisione annotata è piuttosto reticente, ma forse sullo sfondo, come si osserverà alla fine, si intuisce l’idea che altro è discorrere di principi, altro è discorrere di regole relative al concreto modo di funzionare degli apparati amministrativi di uno Stato. Quest’ultimo punto conduce al tema principale. Anche ammesso, vale a dire, che il diritto comunitario non potrebbe tollerare, in quanto contrario ai propri prin- tribuire al sintagma «natura vincolata del provvedimento»; b) il novero dei casi riconducibili all’estensione dei sintagmi «violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti» (Civitarese Matteucci, La forma presa sul serio, Torino, 2006, 299-310). Come si è accennato nel testo, entrambi questi presupposti sono positivamente riscontrati dal giudice rinviante, che allora quando si riferisce al significato dell’art. 21 octies, comma 2 come interpretato dalla giurisprudenza nazionale sta, in realtà, raccomandando una qualche “interpretazione” correttiva (teleologica, logico-sistematica ecc.) che conduca a mutare sostanzialmente il significato non controvertibile della disposizione. 4 Galetta, Diritto a una buona amministrazione e ruolo del nostro giudice amministrativo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in Dir. Amm., 2010, 3, 601. 5 Ad avviso di chi scrive questo tipo di impostazioni si presta a un rilievo di fondo proprio in punto di definizione della “funzione” amministrativa, che naturalmente non è affatto concetto neutro, ma invece impregnato di ideali. Proprio perché la funzione esprime in un qualche senso il “dover essere” della pubblica amministrazione nel nostro attuale ordinamento di stampo liberal-democratico, è la stessa irriducibilità del procedimento a espressione di diritti o interessi legittimi dei singoli — sostenuta dalla dottrina in esame (pp. 610-1) — a giustificare misure di attenuazione della astratta e meccanica equazione: vizio uguale cassazione delle decisioni amministrative (per una più comprensiva ambientazione di questo argomento v. Civitarese Matteucci, Funzione amministrativa, potere e discrezionalità in un ordinamento liberal-democratico, in Diritto pubblico, 2009, 3, 774-778). D’altra parte, misure di questo genere sono presenti abbastanza diffusamente nelle “tradizioni” degli ordinamenti liberal-democratici (Sorace, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, ivi, 2007, 2, 408-418). 6 Sul fatto che il secondo alinea del comma 2 dell’art. 21 octies si riferisca, a differenza del primo alinea, anche ai provvedimenti discrezionali v. Cons. di Stato, Sez. VI, 3 marzo 2010, n. 1241. 7 Se è cosı̀ però la carica “eversiva” della disposizione appare alquanto da ridimensionare, poiché dall’esame della casistica emerge un ricorrere statisticamente poco rilevante dell’ipotesi di non annullamento per vizi da difetto di avviso di procedimento relativo a provvedimento discrezionale. 8 In tema v. Scwharze, Judicial Review of Administrative Procedure, in Law and Contemporary Problems, 2004 (68), 91-98. 9 Quello che deriva da questa conclusione è che nell’ordinamento comunitario, laddove esistesse una disposizione simile a quella di cui all’art. 21 octies, comma 2, essa andrebbe interpretata nel senso che il difetto di motivazione non potrebbe essere ricondotto all’interno dell’espressione “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti”. 10 Scwharze, op. cit., 98, che osserva «As for the duty to give reasons, the Courts are fairly strict. They regularly annul decisions whenever this duty is breached, without any further discussion of whether the infringement is essential». V., tuttavia, Corte giust. CE, Sez. I, 12 novembre 1996 (in causa C-294/95), Girish Ojha, in Racc., I-5912, punto 35, secondo cui «una decisione è sufficientemente motivata quando l’atto impugnato è stato emanato in un contesto noto al dipendente interessato, che gli consente di comprendere la portata del provvedimento adottato nei suoi confronti». 11 Scwharze, op. cit, 98. zio» e «l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni». La dottrina in esame illustra il significato di tale diritto e di tale obbligo mediante la ricognizione delle disposizioni dei Trattati e dell’opera ricostruttiva della Corte di giustizia 8. Per entrambi lo standard di protezione è considerato elevato, a quanto sembra più elevato che nell’ordinamento italiano. Per quanto riguarda in particolare l’obbligo di motivazione, la conclusione è che in ambito comunitario la motivazione non sarebbe mai un vizio formale, ma sempre sostanziale 9. A parte la definizione come vizio di forma o sostanza, è vero che sul requisito della motivazione la Corte di giustizia si mostri generalmente esigente 10. Quanto al diritto di essere ascoltati, è ancor più difficile stabilire, in base agli orientamenti delle Corti europee, se esso debba valere incondizionatamente. Si è osservato in generale che l’essenzialità della violazione che conduce all’annullamento dell’atto dipende dall’impatto che essa ha sull’esito dell’azione amministrativa e sui diritti individuali e che, per esempio, la mancata effettuazione di audizioni preliminari può dirsi non avere impatto sulla decisione solo se all’amministrazione non sia conferito un potere discrezionale 11. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 1680 Diritto Amministrativo | ORDINAMENTO COMUNITARIO cipi, qualcosa come la disciplina dell’art. 21 octies, comma 2, il problema è se questo si estenda al diritto amministrativo italiano per effetto di quanto prevede l’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo. Un primo problema riguarda l’effettivo ambito di estensione soggettiva dell’art. 41 della Carta, il quale si riferisce espressamente, quanto alla sua applicazione, alle «istituzioni, organi e organismi dell’Unione». Un ampio orientamento della dottrina propende, però, per una interpretazione correttiva che porti a includere nell’ambito di applicazione delle disposizioni sul diritto a una buona amministrazione almeno l’amministrazione comunitaria indiretta, ciò anche sulla base dell’art. 51 della Carta secondo cui «le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, cosı̀ come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione». Si potrebbe dubitarne ricorrendo al criterio di risoluzione delle antinomie della specialità, considerando che nell’art. 41 si specifica una modalità applicativa in deroga a quella generale prevista dal ricordato art. 51 12. A ogni modo, la conclusione cui giunge la dottrina considerata nel paragrafo precedente è che nei casi di amministrazione comunitaria indiretta dovrebbe scattare l’obbligo di disapplicazione del diritto interno (l’art. 21 octies, comma 2, cit. sulla non annullabilità) per contrasto con le «garanzie procedimentali connesse al diritto ad una buona amministrazione (art. 41 della Carta di Nizza) in base al principio del primato del diritto UE» 13. La mossa successiva è quella di estendere tale conclusione anche all’attività amministrativa semplicemente interna. Questo esito sarebbe prodotto da un effetto di spill over «dei principi del diritto UE cristallizzati nell’art. 41 della Carta dei diritti e la loro applicazione anche alle fattispecie non rilevanti ai fini del diritto UE» 14. Nel contesto italiano tale effetto sarebbe stato ormai formalizzato dall’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo. Un orientamento dottrinale ha enfatizzato la portata dell’enunciato sui principi del diritto comunitario contenuta nell’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo, affermando che, grazie a un rinvio che sem- bra da intendersi come formale 15, tutta la «materia amministrativa è oggi, nel nostro ordinamento, materia “europeizzata”, anche al di là dei settori materiali di attività che sono oggetto delle competenze comunitarie...» 16. Vi sono, peraltro, buone ragioni per sostenere il contrario, vale a dire che quell’enunciato sia riferito esclusivamente all’amministrazione indiretta comunitaria e sia ricettizio. Derivando, infatti, i “principi del diritto comunitario” in buona parte da un’opera di “comparazione valutativa” 17 dei principi praticati negli Stati membri, il rinvio mobile produrrebbe una sorta di circolo vizioso, «cioè la connessione di due circuiti che debbono restare separati se si vuole che il sistema continui a funzionare» 18. Il giudice amministrativo, dal canto suo, sembra utilizzare quel richiamo in modo semplicemente retoricopersuasivo. In un caso recente, per esempio, si osserva che «l’amministrazione è tenuta a privilegiare l’applicazione dei principi — di derivazione comunitaria e costantemente applicati dalla Corte di giustizia europea — di concorrenza, di parità di trattamento, di trasparenza, di non discriminazione, di mutuo riconoscimento e proporzionalità. Tali principi, anche in virtù dell’articolo 1 della legge n. 241 del 1990, non solo si applicano direttamente nel nostro ordinamento, ma debbono informare il comportamento dell’amministrazione, anche quando non è tenuta ad azionare formalmente la procedura dell’evidenza pubblica». Ma subito dopo nella sentenza si legge, come argomento rafforzativo del passo ora citato, che il Consiglio di Stato aveva già ritenuto applicabili detti principi alle concessioni di beni pubblici — ricavandone la regola della necessità di una procedura competitiva — almeno sin dal 2002, quando vale a dire l’enunciato in parola non era presente nell’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo. 12 La Corte nella sentenza in esame propende, peraltro, per la soluzione restrittiva quando afferma che gli artt. 296, comma 2, TFUE e 41, n. 2, lett. c), della Carta «sono diretti, peraltro, alla luce della loro formulazione, non già agli Stati membri, bensı̀ unicamente alle istituzioni ed agli organi dell’Unione» (par. 28). 13 Galetta, op. cit., 630. 14 Galetta, op. cit., 633. 15 Sia ricettizio sia formale secondo Chiti, Introduzione, in I principi generali dell’azione amministrativa a cura di Chiti, Palma, Napoli, 2006, 14. 16 Massera, I principi generali dell’azione amministrativa, in La disciplina generale dell’azione amministrativa a cura di Cerulli Irelli, Napoli, 2006, 44. Analogamente Chiti, op. cit., 16, il quale tuttavia precisa che «l’ampliamento dell’ambito oggettivo di applicazione dei principi generali del diritto comunitario non significa però estendere anche la portata di tutta la disciplina comunitaria» (17). 17 Sulla tecnica di selezione dei principi mediante una comparazione valutativa tra ordinamenti nazionali v. di recente De Pretis, I principi del diritto amministrativo europeo, in Renna, Saitta, Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 50-52. Per una analisi delle origini di questa tecnica di comparazione dei diritti degli (allora sei) Stati membri al fine di riempire le lacune del diritto dei Trattati originali v. Lorenz, General Principles of Law: Their Elaboration in the Court of Justice of the European Communities, in The American Journal of Comparative Law, 1964 (13), 1, 1-29. 18 Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche. Una introduzione, Bologna, 2010, 51. 19 Se, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 241/1990 e dell’art. 3 della L.R. Sicilia n. 10/1991, in relazione all’art. 1 della legge n. 241/1990, che obbliga l’amministrazione italiana ad applicare i principi dell’ordinamento dell’Unione europea, in coerenza con l’obbligo di motivazione degli atti della pubblica amministrazione previsto dall’art. 296, comma 2, TFUE e dall’art. 41 comma 2 lett. c), della Carta sui diritti fondamentali dell’Unione europea, sia compatibile con il diritto dell’Unione europea l’interpretazione e l’applicazione delle predette norme nazionali, secondo la quale gli atti paritetici, ossia inerenti diritti soggettivi, comunque vincolati, in materia pensionistica, possano sfuggire Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 4. Il modo di operare dei principi e le regole del diritto amministrativo. La Corte di giustizia, nel rispondere ai quesiti postile 19, ricorda anzitutto la propria posizione concernente la competenza a pronunciarsi in situazioni puramente interne in sede di rinvio pregiudiziale quando si tratti, però, di disposizioni del diritto dell’Unione che Diritto Amministrativo | ORDINAMENTO COMUNITARIO siano state rese applicabili dal diritto nazionale in modo diretto e incondizionato 20. Ciò non solo al fine di assicurare un trattamento identico alle situazioni interne e a quelle disciplinate dal diritto dell’Unione, ma soprattutto di evitare future divergenze interpretative. La Corte ritiene, però, che nel caso in esame non si verta in una situazione di questo tipo, perché «la legge n. 241/1990 all’art. 1 rinvia in modo generale ai “principi dell’ordinamento comunitario”, e non specificamente agli artt. 296, secondo comma, TFUE e 41, n. 2, lett. c), della Carta». Soltanto, in altre parole, ove si dimostrasse che il rinvio ai principi comunitari comporti l’esclusione delle norme nazionali in tema di motivazione dei provvedimenti in favore delle disposizioni europee appena citate, si potrebbe porre il problema di una interpretazione uniforme di tali disposizioni. La decisione è apparentemente in rito, la conclusione è infatti quella secondo cui la Corte «non è competente a risolvere le questioni proposte [...] in considerazione dell’oggetto di tali questioni», ma si colgono delle assunzioni non del tutto esplicitate nell’argomentazione della Corte che è invece opportuno portare alla luce. Quello che la Sezione della Corte dei conti (e la dottrina sopra richiamata) chiedeva alla Corte di giustizia era di aderire a una inferenza del seguente tipo: a) l’art. 1 legge n. 241/1990 stabilisce che l’attività amministrativa è retta, tra l’altro, dai principi dell’ordinamento comunitario; b) è necessario/possibile dedurre da disposizioni del diritto europeo primario un “principio” inerente l’obbligo di motivazione degli atti pubblici (al tempo stesso previsto come diritto delle persone); c) pertanto disposizioni del diritto interno da cui consegua che l’obbligo di motivazione può in determinati casi non determinare l’annullamento dell’atto sono contrarie al diritto dell’Unione e quindi da disapplicare. Ora, al di là del fatto che per il passaggio da b) a c) sarebbero necessarie una serie di altre congetture — grazie alle quali si assume che predicare la sostanza di “principio” per l’obbligo di fornire le ragioni di una decisione pubblica implichi la necessaria annullabilità giudiziale della decisione non motivata — il punto è che la Corte di giustizia non è disponibile a impostare il problema in questi termini. Non si presta, vale a dire, a utilizzare il ruolo di interprete autentico delle disposizioni dei Trattati al fine di estrarre da tali disposizioni “principi” da far valere nei diritti amministrativi degli Stati membri. Questo è del resto coerente con la logica, ricordata al paragrafo precedente, che regge i rapporti all’obbligo di motivazione, e se questo caso si configuri come violazione di una forma sostanziale del provvedimento amministrativo. 20 V., in tal senso, sent. 28 marzo 1995 (in causa C-346/93), Kleinwort Benson, in Racc., I-615, punto 16, nonché 11 dicembre 2007 (in causa C-280/06), ETI e a., ivi, I-10893, punto 25. 21 Principles e dispositions nel testo in lingua inglese della sentenza. 22 Al livello degli enunciati “costituzionali”, come sono sostanzialmente quelli contenuti nella Carta di Nizza, oggi parte dei Trattati UE, le norme sui “diritti” non sono realmente espresse in termini di posizioni giuridiche in senso stretto (regole di condotta), ma, appunto, in termini di principi, ciò che comporta che la “teoria dei diritti” sia una “teoria dell’argomentazione”. In tal senso Bin, Diritti e argomenti, Milano, 1992, 11-52. 1681 tra i due sistemi giuridici e che consente di evitare i ricordati “circoli viziosi”. Non può essere casuale, in altre parole, che la Corte (a differenza del giudice rinviante) faccia attenzione a utilizzare il sintagma “principi dell’ordinamento comunitario” riguardo all’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo e invece sempre l’espressione “disposizioni” 21 quando si riferisce all’obbligo di motivazione nell’ordinamento comunitario. Probabilmente dovremmo essere più cauti quando con una certa disinvoltura siamo pronti a vedere un principio dietro a ogni disposizione in materia di procedimento amministrativo nella legge n. 241/1990 o altrove. Da altro punto di vista occorre soffermarsi proprio sulla tecnica “per principi”. Se l’art. 41, diversamente da quanto sembra ritenere la Corte di giustizia nella sentenza annotata, contiene principi 22, allora questi, in quanto principi, non possono esprimere conseguenze inesorabili, soluzioni incondizionate. I principi, normalmente intesi come un quid qualitativamente diverso dalle regole, ossia come norme prive di fattispecie, consentono ai loro utilizzatori (i giudici) di modellare la soluzione in base al caso di specie, in particolare ricorrendo alla tecnica del bilanciamento. Il diritto europeo è in effetti largamente basato — per quanto riguarda il diritto amministrativo almeno — su principi non seguiti da disposizioni di legislazione ordinaria. In altre parole, non vi è, per esempio, come negli Stati membri, una legge sul procedimento amministrativo e il diritto e i “diritti” sono sostanzialmente amministrati dalle Corti, con i criteri e le logiche del diritto giurisprudenziale. Ricorrendo, tuttavia, a un esperimento mentale, dovremmo chiederci se il legislatore europeo non potrebbe (per quanto è scritto nell’art. 41 della Carta?) approvare una “legge” sul procedimento amministrativo 23 contenente disposizioni simili a quelle contenute nell’art. 21 octies, comma 2 o a quelle analoghe che si trovano nelle leggi spagnola o tedesca sul procedimento amministrativo 24. Dinanzi a un “principio contrario” — come il diritto di essere ascoltati — si potrebbero invocare gli stessi argomenti che all’interno degli Stati membri, che pure conoscono il principio del “giusto procedimento”, portano a ritenere più o meno giustificata una disposizione come la suddetta. Tra questi argomenti vi è, per esempio, il fatto che nell’art. 21 octies, comma 2 non si dica che nel procedimento sia possibile omettere le garanzie partecipative. 23 Sulla ipotizzabilità di una tale normazione da parte dell’unione v. Sorace, Una nuova base costituzionale per la pubblica amministrazione europea, in Lo spazio amministrativo europeo. Le pubbliche amministrazioni dopo il Trattato di Lisbona a cura di Chiti, Natalini, Bologna, 2012, par. 3.2.5, il quale osserva che «in quanto “diritto” e non solo “principio”, la “buona amministrazione” può essere oggetto di una autonoma specifica attuazione normativa e quindi di una eventuale legge generale riguardante i procedimenti amministrativi condotti da istituzioni, organi ed organismi dell’Unione o dagli Stati membri (naturalmente solo se concernenti il diritto dell’Unione...)». 24 Rispettivamente all’art. 63 della Legge spagnola sul procedimento amministrativo n. 30 del 1992 e all’art. 46 della legge tedesca sul procedimento amministrativo del 1976 modificato nel 1996. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 1682 E allora, in base a quale opzione metodologica o teorica il confronto tra un diritto giurisprudenziale e uno (oggi in larga parte) legislativo (quale quello dell’ordinamento italiano in materia di procedimento amministrativo) dovrebbe essere necessariamente condotto trattando i cosiddetti principi enucleati dalle decisioni della Corte di giustizia — e qualche volta riadattati alle esigenze domestiche dei vari Stati membri — come fossero blocchi di granito? 25 L’impressione è che in tutto il non detto della sentenza in esame vi siano anche preoccupazioni del genere appena esposto. La soluzione offerta dalla Corte in fondo conferma indirettamente quanto si era osservato in dottrina a proposito dell’indifferenza, dinanzi a regole dettate dai legislatori statali per il funzionamento dell’amministrazione, del considerare l’enunciato dell’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo relativo o meno all’attività amministrativa nel suo complesso. Infatti, pure allorquando l’enunciato in questione «si ritenesse riferito anche all’amministrazione autonoma italiana, eventuali norme dettate dalla legge n. 241/1990 che fossero in contrasto con i principi comunitari dovrebbero considerarsi prevalenti in quanto speciali» 26. Vale a dire che quando i principi comunitari incorporati progressivamente nell’ordinamento italiano vengono chiamati in causa per le questioni puramente interne, essi non possono che essere trattati come principi dell’ordinamento interno ed essere quindi impiegati 27 solo ove si parta dal presupposto che lo stesso ordinamento interno presenti lacune da colmare ricorrendo ai principi stessi 28. Al di là del problema del bilanciamento tra dirittiprincipi, infatti, il modo di operare in concreto dei principi è sempre riferito a una o più regole. In particolare è stato autorevolmente spiegato come vi siano cinque scopi per cui i principi vengono utilizzati dai giuristi: come strumenti di interpretazione del materiale giuridico, come strumenti di modificazione del diritto, come strumenti per giustificare eccezioni in certe circostanze all’applicazione del diritto, come strumenti per creare diritto in caso di lacune, o infine come le sole fonti di disciplina giuridica di certi ambiti di attività 29. Uno dei campi in cui quest’ultima ipotesi storicamente si verifica maggiormente è proprio quello dell’attività amministrativa, specialmente nel caso dell’esercizio di poteri discrezionali 30. 25 Sul carattere fluido dei principi del diritto europeo come elemento connotativo della loro “fortuna” v. le osservazioni di De Pretis, op. cit., 49. 26 Sorace, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, cit., 419 in nota. 27 Secondo il significato che la Corte di giustizia abbia eventualmente precisato. 28 Né per sostenere l’argomento della illegittimità della disciplina ex art. 21 octies, comma 2, legge n. 241/1990 è possibile ricorrere al principio di eguaglianza. Galetta, op. cit., 636 e seg., cerca di ovviare alla «facile obiezione» che «il meccanismo descritto (che deriva dalla combinazione fra l’art. 41 della Carta di Nizza, il meccanismo dell’interpretazione uniforme accentrata da parte Corte di giustizia, e l’art. 1 comma 1 della l. n. 241/1990) non attiva queste garanzie nelle fattispecie che concernono una “situazione puramente interna” come “diritti”, ma solo come “principi”. [...]», osservando che nella «noGiurisprudenza Italiana - Luglio 2012 Diritto Amministrativo | PERMESSO DI COSTRUIRE Nelle moderne democrazie liberali, tuttavia, si assiste anche alla tendenza a impadronirsi della disciplina dell’azione amministrativa da parte dei legislatori e non è né scontato né soprattutto desiderabile assumere un orientamento che di fatto sia teso a rintuzzare questa tendenza riconsegnando tale disciplina al diritto giurisprudenziale, vale a dire al circuito Corti europee-Corti amministrative nazionali. Stefano Civitarese Matteucci PERMESSO DI COSTRUIRE Consiglio di Stato, V Sezione, 2 febbraio 2012, n. 568 — Trovato Presidente — Durante Estensore — Scudellari (avv.ti Manzi, Scaglia, Sardos Albertini) Lucchi (avv.ti Gobbi, Clarich) ed altro. Edilizia e urbanistica — Permesso di costruire — Rilascio — Soggetti aventi titolo — Accertamento dell’amministrazione comunale (L. 28 gennaio 1977, n. 10, art. 4). L’art. 4 L. 28 gennaio 1977, n. 10 deve essere interpretato nel senso che ha titolo al rilascio della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) non solo il titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale sul bene immobile, ma anche colui che sia titolare di un diritto personale. Gli accertamenti che deve compiere l’amministrazione comunale in vista dell’emanazione del provvedimento abilitativo concernono la sola valutazione del titolo formale di disponibilità dell’area e con salvezza dei diritti dei terzi (1). (1) La ricorrente, proprietaria di un appartamento e dei relativi diritti pro quota relativi alle parti comuni di un edificio, propone appello avverso la sentenza del T.A.R. Veneto, la quale, rigettando il ricorso avverso il permesso di costruire rilasciato al controinteressato per la realizzazione di interventi funzionali all’esercizio del distributore di carburante dallo stesso condotto, aveva affermato che il contratto di locazione a detenere il piazzale destinato alla distribuzione di prodotti petroliferi costituisce titolo legittimo per il rilascio dell’autorizzazione edilizia oggetto della controversia. stra Costituzione nazionale, esiste un art. 3 inteso a sancire il principio generale di eguaglianza. E questa previsione si oppone certamente ad una discriminazione fra cittadini basata unicamente sul fatto che si sia o meno in presenza di attività amministrativa delle p.a. nazionali intesa ad attuare il diritto UE». Il problema è che la Corte di giustizia non è titolata a pronunciarsi su quest’ultimo punto, né la Corte costituzionale è giunta ancora al punto di ritenersi competente a stabilire il contrasto di norme interne con il diritto UE al fine di desumerne l’incostituzionalità delle prime. Sarebbe comunque da dimostrare che le situazioni di amministrazione comunitaria indiretta (nelle quali in ipotesi l’art. 21 octies, comma 2, legge n. 241/1990 non dovrebbe operare) siano uguali a quelle di amministrazione domestica. 29 Raz, Legal Principles and the Limits of Law, in The Yale Law Journal, 1972, 81, (5), 839-841. 30 Raz, op cit., 841. Diritto Amministrativo | PERMESSO DI COSTRUIRE 1683 Il Consiglio di Stato analizza, in primo luogo, le opere oggetto dell’autorizzazione edilizia, osservando che esse consistono nella realizzazione di una siepe e di un accesso carrabile, senza quindi incidere in alcun modo sul diritto di proprietà della ricorrente. Di conseguenza, il giudice di appello ritiene l’infondatezza delle censure dedotte dalla ricorrente per violazione dell’art. 4 legge n. 10/1977 1 e, confermando quanto stabilito dal T.A.R., afferma che il titolo idoneo per il rilascio della concessione edilizia può consistere non solo in un diritto reale, ma anche in un diritto personale di godimento, qual è quello derivante dal contratto di locazione. La questione nasce con l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto della “concessione edilizia”, ad opera dell’art. 1 legge n. 10/1977, in ragione del quale si è verificata la scissione definitiva dello jus aedificandi dal diritto di proprietà, trasformando cosı̀ la precedente licenza edilizia, da autorizzazione rilasciata come riconoscimento dell’esercizio di un diritto del proprietario del suolo, in concessione del diritto di operare le trasformazioni richieste. Peraltro, la Corte costituzionale, pochi anni dopo l’introduzione dell’istituto, replicò che «il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà» 2 e che, anche se il sistema normativo demandava all’amministrazione ogni determinazione sul rilascio della concessione edilizia, quest’ultima presupponeva facoltà preesistenti. Il D.P.R. n. 380/2001 ha poi sostituito la concessione edilizia con il permesso di costruire, facendo di esso il momento di accertamento in concreto del potere edificatorio e di uso del territorio. Caratteristica del permesso di costruire è la sua realità, nel senso che suo presupposto è una situazione soggettiva attiva del richiedente in relazione ad un bene; tuttavia, il problema si pone riguardo alla natura della suddetta situazione soggettiva del richiedente. Nonostante la già menzionata abrogazione dell’art. 4 legge n. 10/1977, la questione non si è sopita, in quanto il contenuto della predetta disposizione è stato trasposto, come già ricordato, nell’art. 11, comma 1 del D.P.R. n. 380/2001, il quale come la precedente normativa, stabilisce che «il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo». Anzi, il dibattito giurisprudenziale è piuttosto acceso. In particolare, si fronteggiano due opposte soluzioni interpretative: da una parte l’orientamento secondo cui anche il mero diritto obbligatorio sarebbe titolo sufficiente per la richiesta di concessione edilizia e, dall’altra parte, l’orientamento contrario, secondo cui solo la sussistenza di un diritto reale legittimerebbe il richiedente ad ottenere il titolo autorizzatorio 3. Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ha aderito al primo orientamento, che è ormai venuto consolidandosi negli ultimi anni nella giurisprudenza amministrativa, secondo il quale, ai sensi dell’art. 4 legge n. 10/1977, la domanda volta al rilascio della concessione edilizia può essere presentata anche da persona diversa dal proprietario, purché il richiedente abbia titolo a disporre del suolo. Risultano cosı̀ legittimati a richiedere la concessione edilizia quei soggetti che, seppur diversi dal proprietario, si trovano in relazione qualificata rispetto al bene immobile, siano essi titolari di un qualsiasi diritto reale — la proprietà, il diritto di superficie, la concessione di beni demaniali, l’usufrutto, l’enfiteusi, il diritto reale di abitazione ecc. —, o personale, qual è la locazione 4. Per converso, non pare tale da conferire il diritto al rilascio del titolo autorizzatorio una semplice relazione di fatto, quale a titolo esemplificativo quella legata al mero possesso del bene 5 o quella propria del promissario acquirente del bene 6. Un ulteriore problema si è posto in sede di interpretazione del suddetto art. 4 legge n. 10/1977, nonché dell’art. 11 del T.U. edilizia, con riguardo all’estensione degli accertamenti relativi al titolo che deve compiere l’amministrazione comunale in sede di rilascio della concessione edilizia (oggi permesso di costruire). Tale questione è stata affrontata dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, dalla quale emerge che non incombe all’amministrazione comunale una particolare indagine sul titolo che legittima l’interessato al rilascio della concessione, in quanto essa rilascia il titolo facendo salvi i diritti dei terzi perché è estraneo al suo potere l’accertamento di eventuali limiti del richiedente all’esercizio dell’attività edificatoria. Il giudice amministrativo fa qui riferimento a quanto disposto dall’art. 11, comma 3 del D.P.R. 380/2001, secondo il quale «il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazioni dei diritti dei terzi». Dalla lettera della norma, si desume che gli effetti dell’atto abilitativo edilizio si esauriscono nell’ambito del rapporto bilaterale che si sostanzia nel diritto del 1 A mente del quale «la concessione è data dal sindaco al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla con le modalità, con la procedura e con gli effetti di cui all’articolo 31 legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e, nei comuni sprovvisti di detti strumenti, a norma dell’articolo 41 quinquies, primo e terzo comma, della legge medesima, nonché delle ulteriori norme regionali» (comma 1). Si rammenta che la citata disposizione è stata abrogata dall’art. 136 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, mentre il relativo contenuto è stato riprodotto nell’art. 11, D.P.R. n. 380/2001. 2 Corte cost., 30 gennaio 1980, n. 5, in Giur. It., 1981, I, 1, 208. 3 Cons. di Stato, Sez. IV, 8 giugno 2007, n. 3027, in Foro Amm. CdS, 2007, 1777, secondo cui l’esegesi della norma «im- plica una relazione qualificata a contenuto reale con il bene (come proprietario, superficiario, affittuario di fondi rustici, usufruttuario), anche se in formazione, non essendo sufficiente il solo rapporto obbligatorio, in quanto il diritto a costruire è una proiezione del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento che autorizzi a disporre con un intervento costruttivo». 4 Cons. di Stato, Sez. VI, 15 luglio 2010, n. 4557, in Riv. Giur. Edilizia, 2010, I, 2044. Conformi: T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 12 dicembre 2007, n. 16213, ivi, 2008, I, 620; Cons. di Stato, Sez. V, 4 novembre 1997, n. 1227, in Comuni d’Italia, 1998, 589. 5 Cons. di Stato, Sez. V, 28 maggio 2001, n. 2882, in Foro Amm., 1222. 6 Cass., Sez. III, 15 marzo 2007, n. 6005, in Foro Amm. CdS, 2007, 1391. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 1684 soggetto richiedente di realizzare l’opera e nel corrispondente potere/dovere dell’amministrazione comunale di controllo dei presupposti necessari al rilascio dell’autorizzazione. La disposizione in esame ha dato luogo a notevoli difficoltà ermeneutiche, rappresentate dalla sussistenza di tre indirizzi giurisprudenziali che si sono formati sul punto, al minoritario dei quali appartiene la pronuncia in epigrafe. Se la giurisprudenza 7 è unanime nell’escludere l’esistenza di un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile, un primo orientamento 8 ritiene che sull’amministrazione comunale incomba solo l’onere della relativa verifica dei presupposti per l’adozione del provvedimento finale; altra parte della giurisprudenza afferma che l’amministrazione abbia il potere/dovere di verificare l’esistenza in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, non potendosi invece limitare alla mera valutazione circa la conformità dell’opera alla disciplina pubblicistica che ne regola la realizzazione, salvi i diritti dei terzi 9; altre sentenze ancora si discostano da queste due posizioni, che riconoscono comunque un dovere di verifica in capo all’amministrazione comunale, affermando che non sussiste alcun obbligo per l’amministrazione né di far luogo ex officio ad un’indagine circa la sussistenza dei diritti dei terzi, né comunque di tener conto di eventuali possibili limitazioni negoziali al diritto a costruire di colui che richiede il permesso 10. Emerge, cosı̀, che, ad un primo orientamento più risalente che propende per il principio di separazione degli aspetti pubblicistici da quelli civilistici connessi all’attività edificatoria e che, in generale, sostiene l’estraneità delle questioni attinenti alla proprietà o al godimento del bene immobile oggetto dell’intervento rispetto al giudizio di compatibilità urbanistica del medesimo intervento, se ne contrappone un secondo, il quale rinviene tra i due diversi ambiti — quello privatistico e quello pubblicistico —, degli ineliminabili punti di contatto 11. Secondo quest’ultima corrente di pensiero — oggi predominante in giurisprudenza —, l’autorizzazione edilizia sarebbe rilasciabile solo a coloro che dimostrino di possedere un idoneo titolo di godimento dell’area assoggettata all’intervento; l’amministrazione dunque in questo caso sarebbe tenuta a considerare e a porre a fondamento della sua decisione la situazione sostanziale esistente. Tuttavia, anche in quest’ultima ipotesi sono stati individuati dei limiti alla verifica dei presupposti civilistici effettuata dall’amministrazione, essendosi stabilito che si tratta di un accertamento “sommario” basato 7 Cons. di Stato, Sez. IV, 8 giugno 2011, n. 3508, in Foro Amm. CdS, 2011, 1898. Conformi: Id., Sez. V, 7 settembre 2009, n. 5223, ivi, 2009, 2009; Id., Sez. V, 7 settembre 2007, n. 4703, ivi, 2007, 2475; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 15 settembre 2011, n. 2220, in Foro Amm. TAR, 2011, 2888; Id. Sicilia, Palermo, Sez. I, 23 marzo 2011, n. 544, ivi, 2008. 8 Cons. di Stato, Sez. IV, 23 febbraio 2012, n. 983, in www. giustizia-amministrativa.it. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 Diritto Amministrativo | LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI essenzialmente sui dati e documenti messi a disposizione dalle parti. A fronte degli orientamenti sopra riportati, il Consiglio di Stato nella pronuncia in esame sposa la tesi per cui, in sede di rilascio di permesso di costruire, l’amministrazione comunale non è tenuta ad accertare l’assenso dei terzi all’attività del richiedente, ma emana il provvedimento autorizzatorio sulla base della sola valutazione del titolo formale di disponibilità dell’area edificabile, affermando altresı̀ che non incombe sull’amministrazione una particolare indagine sul titolo che legittima l’interessato in quanto è estraneo al suo potere l’accertamento di eventuali limiti all’esercizio dell’attività edificatoria del richiedente. LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI Consiglio di Stato, V Sezione, 29 novembre 2011, n. 6296 — Baccarini Presidente — Quadri Relatore — Antonini (avv.ti Relleva) - Comune di Oria (avv. Massari). Riforma T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, n. 1596/2006. Giustizia amministrativa — Lesione di interessi legittimi — Risarcimento dei danni — Comportamento diligente del creditore per evitare l’aggravarsi del danno — Previo annullamento dell’atto ed istanza di autotutela — Equivalenza (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 30, comma 3). La notifica all’amministrazione di un’istanza di autotutela con indicazione del danno patrimoniale equivale alla proposizione dell’azione di annullamento ai fini dell’adempimento degli oneri di diligenza imputabili al soggetto danneggiato da un provvedimento illegittimo (1). (1) Risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e diligenza del danneggiato Sommario: 1. Premessa. — 2. Le vicende oggetto della sentenza. — 3. Le argomentazioni del Consiglio di Stato. — 4. Natura del potere di autotutela e comportamento diligente del danneggiato. — 5. Osservazioni sul nesso di causalità. — 6. Conclusioni. 1. Premessa. Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato include anche l’istanza di riesame del provvedimento tra gli «strumenti di tutela» contemplati all’art. 30, comma 3, D.Lgs. n. 104/2010 (di seguito, per brevità: c.p.a.), inquadrandola nel novero dei comportamenti che il danneggiato è tenuto ad adottare ai fini del risarcimento del danno derivante da lesione di interessi legittimi. 9 T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 8 novembre 2011, n. 525, in Foro Amm. TAR, 2011, 3539; Id. Emilia Romagna, Sez. I, 10 gennaio 2007, n. 7, in www.giustizia-amministrativa.it. 10 Cons. di Stato, Sez. IV, 25 maggio 2011, n. 3134, in Foro Amm. CdS, 2011, 1524; Id., Sez. IV, 10 dicembre 2007, n. 6332, in Riv. Giur. Edilizia, 2008, I, 513. 11 Gaffuri, Il Permesso di costruire e i diritti dei terzi, in Urbanistica e Appalti, 2012, 150. Diritto Amministrativo | LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI I principi affermati nella sentenza pongono alcuni interrogativi. Da un lato, sembra affermarsi l’idea che il comportamento diligente richiesto al danneggiato debba considerarsi atipico, non predeterminabile ex ante, in quanto “naturalmente” connesso alle modalità con cui si è realizzato l’illecito e agli effetti che questo produce. Inoltre, l’equivalenza tra rimedio giurisdizionale e presentazione di un’istanza di autotutela, ai fini della valutazione del comportamento del danneggiato, suggerisce alcune riflessioni: a) sulla natura e sul regime giuridico del potere di autotutela; b) sul rapporto di causalità giuridica che caratterizza i danni cagionati dall’amministrazione nell’esercizio di attività autoritativa. 2. Le vicende oggetto della sentenza. Le vicende oggetto del procedimento possono cosı̀ essere sintetizzate. Il ricorrente ha presentato domanda di concessione edilizia (sostituita dal permesso di costruire con D.P.R. n. 380/2001) per realizzare un centro congressuale e alberghiero. Il Comune rilascia la concessione edilizia, condizionandola però a numerose prescrizioni, alcune delle quali considerate dal ricorrente in contrasto con gli strumenti di pianificazione in vigore. L’illegittimità delle condizioni viene rappresentata all’amministrazione mediante un primo atto in cui, da un lato, si segnalano i vizi che inficiano il provvedimento e l’ingente danno economico causato, dall’altro, si chiede l’emanazione di una nuova concessione edilizia priva di condizioni. Successivamente, il ricorrente notifica un ulteriore atto stragiudiziale con cui intima all’Ente di revocare le prescrizioni contenute nel provvedimento. A seguito dell’inerzia dell’amministrazione, il ricorrente ha agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale dinnanzi al T.A.R. Puglia, che ha dichiarato la domanda inammissibile a causa dell’omessa presentazione dell’azione di annullamento, argomentando ulteriormente che l’accoglimento della domanda risarcitoria presupporrebbe la disapplicazione dell’atto inoppugnabile. La sentenza del T.A.R. è stata impugnata dal ricorrente facendo valere l’ammissibilità dell’azione risarcitoria autonoma proposta dinnanzi al giudice amministrativo. 3. Le argomentazioni del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato accoglie l’appello, respingendo l’eccezione di inammissibilità fondata sulla tesi della pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione di risarcimento del danno. 1 Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3, punti 4 e 5, in Foro Amm. CdS, 2011, 3, 826, con note di Gallo, Le azioni ammissibili nel processo amministrativo ed il superamento della pregiudizialità anche per le controversie ante codice, in Urbanistica e Appalti, 2011, 6, 694 e segg.; Cortese, L’Adunanza plenaria e il risarcimento degli interessi legittimi, in Giorn. Dir. Amm., 2011, 9, 962 e segg. Ex multis, T.A.R. Lazio, Roma, Sez..III, 25 agosto 2011, n. 7089, in Foro Amm. TAR, 2011, 7-8, 2357; Cons. di Stato, Sez. V, 16 settembre 2011, n. 5173, in Foro Amm. CdS, 2011, 9, 2785. Il rapporto tra azione di annullamento e azione risarcitoria era già stata inquadrato come questione valutabile alla stregua del- 1685 Sotto questo profilo, la sentenza non presenta contenuti innovativi rispettivo alla pronuncia n. 3 del 2011 dell’Adunanza plenaria, limitandosi a confermare che la regola dell’autonomia dell’azione risarcitoria stabilita all’art. 30 c.p.a. — norma quest’ultima ricognitiva di principi evincibili dal sistema normativo antecedente all’entrata in vigore del codice — si applica anche ai giudizi precedentemente instaurati, a condizione che la domanda risarcitoria sia stata proposta entro il termine quinquennale di prescrizione 1. Coerente con queste premesse, il giudice di appello respinge l’ulteriore eccezione di inammissibilità per mancata proposizione della domanda di accertamento dell’illegittimità dell’atto. Sul punto, la sentenza dà atto che il ricorso contiene un’analitica esposizione dei vizi — e cioè della condotta antigiuridica dell’amministrazione —, aderendo (implicitamente) alla tesi secondo cui è l’illegittimità in sé considerata che consente di qualificare l’atto e la relativa attività esecutiva in termini di illecito 2. Per quanto attiene al merito, interpretando l’art. 1227, comma 2, c.c., il Consiglio di Stato accoglie la domanda risarcitoria sostenendo che il mancato previo esperimento dell’azione di annullamento non esclude di per sé il nesso di causalità tra la condotta dell’amministrazione ed il danno cagionato. Sotto un primo profilo, il giudice di appello sostiene che una differente soluzione sarebbe in contrasto con il principio di autonomia delle azioni stabilito dal codice del processo amministrativo. A ciò aggiunge che il riferimento agli «strumenti di tutela» e non già alla tutela giurisdizionale, contenuto all’art. 30, comma 3, c.p.a., induce a ritenere che l’onere di diligenza che grava sul danneggiato possa ritenersi assolto, come nel caso di specie, mediante la presentazione all’amministrazione di una istanza di autotutela con indicazione del (pericolo) danno patrimoniale cagionato dal provvedimento. 4. Natura del potere di autotutela e comportamento diligente del danneggiato. La sentenza in esame pone il seguente interrogativo: sulla scorta di quali argomentazioni si può affermare che la presentazione di un’istanza di autotutela equivale, ai fini della valutazione della diligenza del danneggiato, alla proposizione di un’azione di annullamento? Che l’esercizio del potere di autotutela — attivato su istanza di parte — non sia questione estranea agli obblighi che incombono sul danneggiato (e sul danneggiante) lo dimostra già un primo elemento. A prescindere dalle differenti nozioni di autotutela proposte, la dottrina concorda nell’assumere tale potere come strul’art. 1227, comma 2, c.c.: Cons. giust. amm. sic., 18 maggio 2007, n. 386, in Foro Amm. CdS, 2007, 1635; Cons. di Stato, Sez. V, 3 febbraio 2009, n. 578, ivi, 2010, 170, con nota di Feliziani, La pregiudiziale amministrativa come regola iuris del rapporto tra azione di annullamento e azione risarcitoria: una questione interna alla giurisdizione amministrativa. 2 Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500; Id., 13 giugno 2006, nn. 13659 e 13660; Id., 23 dicembre 2008, n. 30254; Id., 6 settembre 2010, n. 19048; Id., 16 dicembre 2010, n. 23595; Id., 11 gennaio 2011, n. 405. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 1686 Diritto Amministrativo | LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI mento con cui l’amministrazione adatta la propria azione (autoritativa) al mutamento delle esigenze amministrative 3. Tuttavia, il riferimento al mutare delle esigenze amministrative non è null’altro che un richiamo all’interesse pubblico, attuale e concreto 4, che l’amministrazione deve perseguire. Ed è proprio il riferimento all’interesse pubblico — rectius: all’interesse attuale e concreto a sostenere minori oneri finanziari, ad esempio derivanti dal risarcimento del danno — che consente di instaurare una relazione tra la “natura” del potere di autotutela e, quantomeno ai fini dell’art. 30, comma 3, c.p.a., il regime di equivalenza tra proposizione dell’azione di annullamento ed istanza di ritiro dell’atto. Ciò premesso, sulla potestà di autotutela — pur con i limiti della presente trattazione — appaiono necessarie alcune considerazioni. Com’è noto, la legge n. 15/2005 ha inserito gli articoli 21 quinquies e 21 nonies, che codificano, rispettivamente, la revoca e l’annullamento d’ufficio. Se questo intervento normativo ha risolto il problema del fondamento normativo di tali poteri e, quindi, del rispetto del principio di legalità 5, viceversa non ha fornito soluzione alle questioni che ruotano attorno alla natura del potere di ritiro ed alle conseguenze che ne derivano. Secondo una prima tesi 6, proposta anteriormente alla codificazione del 2005, i provvedimenti di secondo grado costituiscono manifestazione del potere primo grado (esercitato in senso opposto). Ne consegue che l’interesse pubblico tutelato da tali provvedimenti sarebbe lo stesso salvaguardato dalla norma che ha attribuito il potere di emanare l’atto oggetto di riesame. Viceversa, può evidenziarsi che la novella del 2005, nel codificare i poteri di annullamento, revoca e convalida, si riferisce ad essi qualificandoli come «determinazioni in via di autotutela» 7. Argomento letterale a parte, non convince che operazioni logicamente opposte — emanare un atto e ritirarlo —, realizzate in tempi diversi, in presenza di diverse situazioni di fatto e di possibili affidamenti, siano sempre finalizzate a tutelare un medesimo interesse pubblico. Rimanendo aderenti al dato positivo, inoltre, può ricordarsi la formulazione dell’art. 21 quinquies, che tra i presupposti della revoca individua i «sopravvenuti» — e quindi diversi da quello originario — motivi di pubblico interesse. Alla luce di queste premesse, se l’annullamento e la revoca fossero finalizzati al perseguimento dello stesso interesse pubblico tutelato dalla norma attributiva del potere primario, l’amministrazione, a pena di eccesso di potere, non potrebbe ritirare un proprio atto per evitare il risarcimento di un danno patrimoniale: interesse pubblico, quest’ultimo, senz’altro coerente con il principio di economicità che informa l’azione amministrativa, ma comunque differente da quello salvaguardato dall’atto oggetto di riesame. Ciò precisato, si può anticipare che il regime di equivalenza affermato dalla sentenza in esame può giustificarsi solo se ed in quanto si riesca ad individuare una nozione di autotutela finalizzata alla tutela di interessi pubblici determinabili ex post, ossia in forza degli effetti che il provvedimento illegittimo produce e di ogni possibile altra sopravvenienza, inclusa la presentazione della domanda risarcitoria e dell’istanza di ritiro. In questa diversa prospettiva, rispetto alla tesi del riesercizio del potere primario appare quanto mai attuale il contributo di Feliciano Benvenuti alla studio del potere di autotutela, che l’illustre Autore ricostruisce come «quella parte di attività amministrativa con la quale l’amministrazione provvede a «risolvere i conflitti, attuali o potenziali, insorgenti con altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti o alle sue pretese» 8 e, comunque, come una potestà autonoma rispetto al potere primario. L’aspetto della tesi del Benvenuti che si intende sottolineare consiste nel fatto che l’esercizio del potere di ritiro, con cui l’amministrazione risolve il conflitto, è funzionale alla tutela di un interesse pubblico diverso sia dal mero ripristino della legalità violata (dal provvedimento illegittimo) sia da quello protetto dall’atto di primo grado 9. Un interesse pubblico, quello perseguito dal provvedimento di secondo grado, attuale e concreto, che l’amministrazione verifica caso per caso, e che può quindi consistere nell’evitare il risarcimento del danno. L’amministrazione, quindi, dovrà valutare, facendo uso dei principi che regolano l’esercizio della discrezionalità, se attribuire prevalenza agli interessi soddisfatti dall’atto illegittimo o se, viceversa, privilegiare l’interesse a non risarcire il danno patrimoniale, provvedendo allora in autotutela. Quello che segue, per sintetizzare, è uno schema — rectius: la premessa — per giustificare il regime di equivalenza tra previo annullamento dell’atto ed istan- 3 Cfr. Immordino, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino, 1999, 90 e segg. 4 Si tratta di un orientamento dominante in dottrina. Ex multis: M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939, 73-75; Id., Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, 90-92; Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1952, 128-129; Pastori, Interesse pubblico e interessi privati fra procedimento, accordo e autoamministrazione, in AA.VV., Studi in onore di Pietro Virga, II, Milano, 1994, 1305 e segg.; Scoca, Il coordinamento e la comparazione degli interessi nel procedimento amministrativo, in AA.VV, Studi in onore di Giuseppe Abbamonte, II, Napoli, 1999, 1261 e segg. Recentemente, Figorilli, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo (dal processo al procedimento con pluralità di parti), Napoli, 1996, 195 e segg.; Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative, Napoli, 1997, 116-134; Torchia, La scienza del diritto amministrativo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2001, 1112. 5 Mattarella, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2007, 6, 1223 e segg. 6 In tal senso, Contieri, Il riesame del provvedimento amministrativo, Napoli, 1991, passim; Immordino, op. cit., passim. Cfr. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001, 360 e segg. 7 Artt. 19 e 20 legge n. 241/1990. Contra, Contieri, Il riesame del provvedimento amministrativo alla luce della legge n. 15 del 2005. Prime riflessioni in La nuova disciplina dell’attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento a cura di Clemente di San Luca, Torino, 2005, 215 e segg.; Immordino, Revoca del provvedimento, in La Pubblica amministrazione e la sua legge. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalla legge n. 15/2005 e n. 80/2005 a cura di Paolantonio, Police, Zito, Torino, 2005, 487. 8 Benvenuti, voce “Autotutela. (dir. amm.)”, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 539. 9 Benvenuti, op. ult. cit., 544. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 Diritto Amministrativo | LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI 1687 za di autotutela: a) il danno cagionato da un provvedimento illegittimo si qualifica come situazione di conflitto potenziale (nell’accezione benvenutiana) tra privato e amministrazione (che diviene attuale con l’instaurazione del giudizio risarcitorio); b) il privato intima l’amministrazione, informandola dell’esistenza del conflitto e chiedendo l’emanazione di un atto idoneo ad evitare un pregiudizio per l’interesse pubblico; c) l’amministrazione compie una valutazione discrezionale ai fini del riesame del provvedimento, salvaguardando quello che in concreto appare essere l’interesse pubblico prevalente. Né a confutazione dello schema proposto può obbiettarsi che i poteri di ritiro sono caratterizzati da discrezionalità nell’an e nel quid. In primo luogo, rilevano le disposizioni dell’art. 1, comma 136, legge n. 311/2004, secondo cui «al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi» non «oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento». L’introduzione di questa norma dimostra, inequivocabilmente, che il conseguimento di minori oneri costituisce un interesse pubblico “privilegiato”. Si potrebbe inquadrare tale ipotesi tra i casi di annullamento c.d. doveroso in cui l’interesse al riesame non deve essere individuato in concreto ma sussiste(rebbe) in re ipsa: all’accertamento di un pregiudizio per l’interesse privilegiato dovrebbe quindi conseguire il ritiro dell’atto, secondo lo schema dell’attività vincolata. Il richiamo alla doverosità, tuttavia, non sembra appropriato. Non si contesta che il legislatore possa attribuire un potere di annullamento sui generis, vincolato nell’an e nel quid, a tutela di interessi rilevanti 10; non convince, invece, che tale doverosità possa essere ricostruita in via interpretativa, anche a fronte dell’art. 21 nonies che subordina l’annullamento d’ufficio all’esistenza di un interesse pubblico attuale 11. È preferibile, allora, “circoscrivere” l’esigenza di conseguire minori oneri finanziari — anche dovuti al risarcimento del danno — tra le norme che regolano l’esercizio della discrezionalità amministrativa in sede di riesame, senza necessariamente consumarla. In questa prospettiva, quindi, alla disciplina stabilita alla legge n. 311/2004 può attribuirsi la funzione di aver introdotto una “presunzione relativa” circa la rilevanza di un determinato interesse pubblico, che può essere superata all’esito del giudizio discrezionale 12. Del resto, l’interpretazione della legge n. 311/2004 proposta è confermata da ulteriori elementi. Da un lato, il legislatore utilizza la forma ipotetica («può»); dall’altro, l’individuazione di un termine finale entro cui esercitare l’annullamento dimostra che la norma introduce una presunzione di prevalenza dell’interesse alla riduzione della spesa pubblica rispetto agli affidamenti ingenerati dal provvedimento illegittimo. In conclusione, rifacendosi alla teoria dell’autotutela del Benvenuti come potestà autonoma finalizzata alla tutela di un interesse differente da quello salvaguardato dal provvedimento di primo grado, è legittimo ritenere che tale potere possa essere esercitato anche per evitare il risarcimento del danno. Anzi, soprattutto alla luce della legge n. 311/2004, che reputa prevalente l’interesse al contenimento degli oneri finanziari, la presentazione di un’istanza di autotutela con avviso di danno risarcibile deve ritenersi comportamento diligente ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a. Peraltro, come ulteriore argomento a sostegno della tesi dell’equivalenza, si può aderire all’interpretazione che l’Adunanza plenaria dà dell’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici, come modificato dal D.Lgs. 104/2010, secondo cui «nel disciplinare l’istituto dell’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso giurisdizionale, stabilisce, al comma 5, che l’omissione della comunicazione di cui al comma 1, finalizzata alla stimolazione dell’autotutela, costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art. 1227 del codice civile» 13. Infine, a supporto dei principi affermati dalla sentenza può richiamarsi l’art. 34, comma 5, c.p.a. 14, che sostituisce l’art. 23, comma 7, legge n. 1034/1971, in forza del quale l’emanazione di un provvedimento di autotutela in corso di giudizio determina la cessazione della materia del contendere. In altri termini, intervenendo in autotutela in senso conforme all’istanza del ricorrente, l’amministrazione soddisfa l’interesse del ricorrente in modo equivalente alla pronuncia giurisdizionale di annullamento dell’atto impugnato. Del resto, se è vero che l’annullamento giurisdizionale e quello in autotutela sono espressione di funzioni differenti, è altrettanto vero che identico ne è il presupposto essenziale, ossia l’illegittimità dell’atto, e l’efficacia retroattiva. Elementi comuni, questi richiamati, che non solo sono valorizzati dalle tesi che inquadrano l’annullamento d’ufficio nell’ambito delle funzioni di controllo 15, ma che ricorrono anche volgendo l’attenzione ad alcune esperienze comparate 16. 10 Corte cost., 22 marzo 2000, n. 75 in Giur. Cost., 2000, 824 e segg., con i rilievi critici di F.G. Scoca, Una ipotesi di autotutela amministrativa impropria. 11 Senza considerare che l’individuazione di un interesse in re ipsa all’annullamento, infatti, si riflettere sulla stessa configurazione dell’annullamento: il ripristino della (mera) legalità violata a tutela di interessi ex lege garantiti si riconduce più agevolmente all’esercizio di funzioni di controllo o paragiurisdizionale che non all’esercizio di poteri di amministrazione attiva. 12 Circa i rapporti tra l’interesse pubblico in re ipsa all’annullamento e la nozione di presunzione sia consentito il rinvio alle considerazioni critiche di Bonamassa, Brevi riflessioni sulla natura discrezionale del potere di annullamento d’ufficio, in La legge sul procedimento amministrativo vent’anni dopo a cura di Sandulli, Piperata, Napoli, 2011, 370-371, secondo cui nei casi di annullamento doveroso non sarebbe possibile individuare una presunzione iuris et de iure. 13 Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3, punto 3.2. 14 «Qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta, il giudice dichiara cessata la materia del contendere». 15 Cosı̀ Codacci Pisanelli, L’annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939, 39 e segg.; Romanelli, L’annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939, 214 e segg. 16 Cosı̀, specie in relazione all’ordinamento tedesco e francese, Cassatella, L’annullamento d’ufficio. Modelli in comparazione, in Diritto e Formazione, 2004, 1, 66 e segg. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 1688 Diritto Amministrativo | LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI totutela e ricorsi amministrativi 19 debbono considerarsi equivalenti all’instaurazione di un giudizio per l’annullamento dell’atto. Con la precisazione essenziale che, assodata l’idoneità di tali strumenti di tutela ad incidere sul provvedimento illegittimo con efficacia demolitoria, la scelta del rimedio non può che essere esclusivamente rimessa alla convenienza personale del danneggiato 20. Questa soluzione, peraltro, sembra essere l’unica forma di compromesso accettabile con l’orientamento maggioritario in giurisprudenza, recepito anche dalla Corte costituzionale 21, che esclude l’obbligo di agire in giudizio per evitare l’aggravarsi del danno 22. Sulla scorta di queste osservazioni sia consentita qualche conclusione di carattere generale sul principio di equivalenza tra proposizione dell’azione di annullamento ed istanza di ritiro dell’atto. In sintesi, la presentazione dell’istanza di autotutela può ritenersi conforme alla diligenza richiesta al danneggiato poiché con essa il privato instaura un rapporto con l’amministrazione improntato a logiche di buona fede: con la notifica dell’istanza, infatti, si apre un procedimento in cui l’amministrazione viene “informata” dell’illegittimità del provvedimento, del danno da questo cagionato, del pericolo di doverlo risarcire e della possibilità di risolvere il conflitto provvedendo in autotutela. L’attenzione, cosı̀, si sposta dal provvedimento di annullamento, sia esso giurisdizionale o amministrativo, al «farsi dei rapporti giuridici o, meglio, al farsi delle posizioni e delle situazioni in esse comprese» 17, secondo una logica che valorizza la fase procedimentale dell’azione amministrativa. Anche quando tale fase procedimentale si colloca nel contesto di un illecito imputabile all’amministrazione. Non rileva, inoltre, a confutazione del regime di equivalenza sostenuto nella sentenza, che l’amministrazione conserva discrezionalità nell’an e nel quid a fronte dell’istanza. Non si discute infatti, nel caso di specie, né dell’obbligo di provvedere né della legittimità del rigetto, nè, più in generale, dei doveri che gravano sull’amministrazione stessa nell’ambito del procedimento instaurato con l’istanza di autotutela. Ciò che deve considerarsi, quindi, è l’idoneità dell’atto di impulso del procedimento — l’istanza — a sollecitare l’esercizio di poteri autoritativi funzionali ed evitare il danno patrimoniale. In altri termini, con l’introduzione di un sistema fondato sull’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento, l’onere di diligenza che il danneggiato è tenuto ad adempiere consiste nell’esperimento di uno tra gli strumenti di tutela che l’ordinamento gli attribuisce per evitare il pregiudizio, siano essi processuali o amministravi, nessuno escluso. A meno, come sembra trasparire dai richiami della Plenaria (non sempre pertinenti 18) all’abuso del diritto, all’exceptio doli e ai doveri costituzionali di solidarietà, di voler attribuire al privato l’onere — addirittura in sede processuale — di concorrere alla realizzazione dell’interesse pubblico: perché è in questo, fondamentalmente, che si risolverebbe il recupero della tesi della (necessaria) pregiudizialità sul profilo sostanziale. Sulla scorta di queste premesse si può concludere che, ai fini dell’art. 30, comma 3, c.p.a., istanze di au- 5. Osservazioni sul nesso di causalità. Il regime di equivalenza riconosciuto dalla sentenza suggerisce alcune riflessioni sul rapporto di causalità e, più esattamente, sul rilievo eziologico che assume il mancato esperimento dei mezzi di tutela. Sul punto sembra necessaria una breve premessa, da un lato, sulla struttura dell’art. 1227 c.c., dall’altro, sui doveri che gravano sull’amministrazione a fronte di un atto illegittimo. L’art. 1227 c.c. si compone di due regole differenti 23. Al comma 1 disciplina l’ipotesi in cui, senza il concorso del danneggiato il danno non si sarebbe verificato: si tratta di un caso di c.d. causalità addizionale, in cui l’evento è cagionato dal collegamento necessario tra da due o più condotte causalmente efficienti. Tale fattispecie non sembra adattarsi al danno cagionato da provvedimento illegittimo, considerato che la lesione è imputabile esclusivamente all’atto in forza del suo carattere imperativo ed unilaterale. Il comma 2, viceversa, attiene al danno esclusivamente ascrivibile al danneggiante, ma le cui conseguenze pregiudizievoli potrebbero essere evitate con l’adempimento di condotte diligenti da parte del danneggiato. Deve osservarsi, tuttavia, che il risarcimento deve escludersi solo se «la produzione del danno ricada interamente nella sfera di controllo del danneggiato, e l’omissione divenga allora causa prossima e assorbente del danno interrompendo il nesso eziologico» 24. Ed è proprio il tema della sfera di controllo nella produzione del danno — rectius: dei soggetti che con una condotta attiva possono evitare l’aggravarsi delle conseguenze del danno — che consente di rinviare al potere di autotutela e, più in generale, ai doveri che gravano sull’amministrazione dopo l’emanazione dei suoi atti. Nella dottrina prevalente si sottolinea che l’amministrazione a cui è stata attribuita una funzione ha il 17 Benvenuti, Disegno dell’amministrazione italiana. Linee positive e prospettive, Padova, 1996, 234. 18 Verde, Sguardo panoramico al libro primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice, in Dir. Proc. Amm., 2010, 3, 795 e segg. 19 Non a caso il termine per la proposizione dell’azione risarcitoria, 120 giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento, coincide con quello per la proposizione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. 20 Si vedano comunque i dubbi di costituzionalità sull’art. 30 c.p.a. di Clarich, Le azioni, in Giorn. Dir. Amm., 2010, 11, 1127-1128. In questo contesto, l’Adunanza plenaria “stempera” il principio della pregiudiziale sostanziale collegato all’art. 1227 c.c., riconoscendo che il comportamento del danneggiato non viola i canoni di diligenza quando «la decisione di non fare leva sullo strumento impugnatorio sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione». 21 Corte cost., 4 luglio 1999, n. 308, in Ragiusan, 1999, 183, 337. 22 Recentemente, Cass., Sez. III, 2 novembre 2010, n. 22267, in Foro It., 2011, I, 86. 23 Rossetti, in Dei fatti illeciti a cura di Carnevali, Torino, 2011, 478 e segg.; Franzoni, L’illecito, Milano, 2010, 103 e segg. 24 Bianca, Diritto civile, V, Milano, 1994, 143. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 Diritto Amministrativo | CLAUSOLE DI ESCLUSIONE dovere di esercitarla “continuativamente”, e comunque nella misura in cui ciò si renda necessario per la tutela degli interessi pubblici che alla funzione stessa si collegano. Questa considerazione induce ad inquadrare gli atti di riesame nel principio di inesauribilità del potere amministrativo 25 o, preferibilmente, in quello di continuità nell’esercizio delle funzioni 26. L’amministrazione, quindi, anche a seguito dell’emanazione di un provvedimento, deve costantemente verificare se gli effetti dell’atto, oltre che idonei a soddisfare l’interesse pubblico perseguito, non abbiano determinato una situazione di conflitto attuale o potenziale con altri interessi pubblici e privati. Dovere, questo, che presuppone uno scrutinio ex post dell’atto sotto il profilo sia dell’opportunità che della legittimità. L’amministrazione, nell’esercizio continuativo delle funzioni conferite, deve verificare la legittimità dei provvedimenti emanati: ciò, in conformità al canone di buona fede, specie quando il privato abbia denunciato la presenza di potenziali vizi mediante memorie acquisite al procedimento 27. Accertata l’illegittimità, sempre che non sia decorso il termine per presentare domanda autonoma di risarcimento del danno, l’ente è a conoscenza di una situazione di conflitto potenziale che l’instaurazione del giudizio risarcitorio renderebbe attuale. Non interessa in questa sede approfondire ulteriormente il giudizio discrezionale che conduce l’amministrazione ad annullare in autotutela o a restare inerte: ciò che preme rilevare è che l’amministrazione ha il dovere di rilevare quel conflitto ed è titolare di poteri per rimuoverlo. Rileva, cioè, sottolineare che la produzione del danno da provvedimento illegittimo, anche dopo l’emanazione dell’atto, continua a rientrare nella sfera di controllo del danneggiante poiché l’amministrazione ha il compito istituzionale di «agire per (l’eventuale) esercizio del potere» 28. Applicando queste premesse al caso di specie si possono rassegnare le seguenti conclusioni in tema di causalità. Aderendo all’impostazione che riconduce all’art. 1227, comma 2, c.c. l’omessa attivazione degli strumenti di tutela da parte del danneggiato, può osservarsi che il provvedimento cagiona il danno non solo in forza del comportamento colpevole del danneggiato, ma soprattutto a causa dell’inadempimento da parte dell’amministrazione dei suoi doveri istituzionali, tra cui rileva quello di risolvere i conflitti individuati nell’esercizio continuativo delle funzioni, anche quando ciò comporti lo scrutinio costante dell’opportunità e della legittimità degli atti emanati. Anzi, potrebbe concludersi che il danno riconducibile al provvedimento produce le sue conseguenze in ragione di due serie causali equivalenti, entrambe originate da una condotta omissiva: quella del danneggiante, che consiste nel non esperire alcuna forma di tutela, sia essa giurisdizionale o meno; quella dell’amministrazione, che si rea25 Sulla nozione di inesauribilità del potere, per tutti, Cannada Bartoli, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 95; Romano, Poteri potestà, in Id., Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1953, 172 e segg. 26 La letteratura sul punto è vastissima: Cassese, Inerzia e silenzio della pubblica amministrazione, in Foro amm., 1963, I, 30 e segg.; Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, 1689 lizza nel mancato esercizio del potere di autotutela decisoria. Ne consegue che, a fronte dell’instaurazione di un giudizio risarcitorio non preceduto dall’esperimento di alcun mezzo di tutela da parte del danneggiato, il giudice non dovrebbe escludere il risarcimento ma ridurlo equitativamente ex art. 1226 c.c. 6. Conclusioni. L’introduzione degli artt. 21 quinquies e 21 nonies della legge n. 241/1990 ha determinato la codificazione di un potere diverso da quello posto a fondamento dell’atto oggetto di riesame, dotato di autonomia funzionale e finalizzato alla rimozione di una situazione di conflitto riconducibile al provvedimento emanato. Con tale potere l’amministrazione scrutina la legittimità e l’opportunità dei suoi atti, rimuovendoli per soddisfare un interesse pubblico attuale, non determinabile a priori, che può consistere anche nel risparmio degli oneri finanziari derivanti dal risarcimento del danno. Anzi, a conferma di questa impostazione è possibile richiamare anche la natura privilegiata che la legge n. 311/2004 assegna all’interesse de quo. Mediante l’istanza di autotutela, quindi, il danneggiato instaura un rapporto (procedimentale) in cui informa l’amministrazione del danno potenziale e delle sue cause, chiedendo, diligentemente, di rimuoverlo. Ne consegue che il danno cagionato dal provvedimento non può più considerarsi “assorbito” nella serie causale originata dalla mancata proposizione dell’azione di annullamento, ma dovrà essere ascritto alla sfera di controllo dell’amministrazione e quindi a questa integralmente imputato: da ciò le ragioni per affermare l’equivalenza tra strumento impugnatorio ed istanza di autotutela ai fini dell’art. 30, comma 3 c.p.a. Peraltro, ammettendosi che l’amministrazione deve verificare costantemente gli effetti dei provvedimenti emanati — e i pregiudizi che questi possono arrecare ad altri interessi affidati alla sua cura —, considerata anche la rilevanza che assume il contenimento degli oneri finanziari, è difficile sostenere che il danno cagionato dall’atto illegittimo sia estraneo alla sfera di controllo dell’amministrazione. Al punto che non sembra possibile inquadrare l’omessa attivazione dei mezzi di tutela da parte del danneggiato come causa da sola idonea a determinare l’evento (art. 41 c.p.), ma semmai come elemento da considerare in sede di quantificazione del danno. Francesco Bonamassa CLAUSOLE DI ESCLUSIONE Consiglio di Stato, V Sezione, 19 ottobre 2011, n. 5619 — Piscitello Presidente — Quadri EstenTorino, 1964, 58-59 e 80 e segg.; F.G. Scoca, Il silenzio della Pubblica amministrazione, Milano, 1971, 22 e segg. Cfr., Vaiano, La riserva di funzione amministrativa, Milano, 1996, 277 e segg. 27 Specie se formulate come osservazioni a seguito della comunicazione del preavviso di rigetto. 28 Ledda, op. cit., 79. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 1690 Diritto Amministrativo | CLAUSOLE DI ESCLUSIONE sore — Avvenire s.r.l. (avv.ti Orofino) - Comune di Ginosa (avv. Lofoco) e altra. Conferma T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. III, n. 01273/2011. Pubblica amministrazione — Contratti della pubblica amministrazione — Esclusione dalla gara — Per mancata sottoscrizione di alcune pagine dell’offerta tecnica — Non equivalenza dell’apposizione del timbro — Legittimità (D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 46). Pubblica amministrazione — Contratti della pubblica amministrazione — Bando — Previsione a pena di esclusione della sottoscrizione di ogni pagina dell’offerta tecnica — Ragionevolezza — Garanzia della provenienza dell’offerta — Legittimità (D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 46; L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 2). La mancata apposizione della firma o della sigla su due pagine dell’offerta economica, come previsto dal bando di gara di un appalto pubblico di servizi, è motivo di legittima esclusione della ditta partecipante, non solo perché tale obbligo era previsto espressamente a pena di esclusione nel bando, ma anche perché si tratta di una previsione che garantisce l’autenticità dell’offerta. Tale adempimento non può essere neppure sostituito, in una visione sostanzialistica del diritto, dall’apposizione del timbro, come avvenuto nel caso in specie (1). La sottoscrizione integrale dell’offerta economica non può essere considerata un aggravamento procedimentale, vietato dall’art. 2 della legge sul procedimento, poiché si tratta di un adempimento assai poco oneroso. L’art. 46, comma 1 bis, D.Lgs. n. 163/2006, codice degli appalti, aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), D.L. 13 maggio 2011, n. 70, seppure non applicabile al caso in specie ratione temporis, prevede tra le ipotesi tassative di esclusione dalle gare di appalti pubblici, l’assoluta incertezza sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, come nella fattispecie in questione (2). (1-2) La controversa interpretazione delle clausole di esclusione dalle gare di appalti pubblici Sommario: 1. Il caso specifico. — 2. I contrastanti principi in materia di evidenza pubblica — 3. L’art. 46 del codice degli appalti. — 4. I vizi formali nelle gare ad evidenza pubblica. — 5. La modifica dell’art. 46 nel c.d. decreto sviluppo. — 6. La giurisprudenza successiva alla novella dell’art. 46 del codice degli appalti. 1. Il caso specifico. La sentenza esamina una fattispecie peculiare nell’ambito del più ampio problema della eventuale integrazione o regolarizzazione degli atti di una gara ad evidenza pubblica. L’esclusione dalla gara di un appalto di servizi della ditta ricorrente (e di tutte le altre imprese partecipanti) era avvenuta per la mancata sottoscrizione di due pagine dell’offerta tecnica, sulle quali era stato apposto 1 Ampiamente spiegata di recente da S.S. Scoca, I principi dell’evidenza pubblica, in I contratti di appalto pubblico a cura di Franchini, Torino, 2010, 289 e segg. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 solo il timbro dell’impresa, quando il bando prevedeva espressamente, a pena di esclusione, la sottoscrizione integrale con la firma o la sigla del rappresentante legale. La V Sezione del Consiglio di Stato conferma la sentenza di primo grado della Sezione di Lecce del T.A.R. Puglia, che ha ritenuto legittima l’esclusione dalla gara per tale vizio. I giudici di Palazzo Spada non si limitano ad osservare che la mancata sottoscrizione era espressamente prevista come causa di esclusione, ma chiariscono che tale adempimento non può essere ritenuto una formalità superabile in una visione sostanzialistica del diritto. La sottoscrizione, infatti, serve a rendere certa la manifestazione di volontà dell’impresa contenuta nell’offerta economica e garantisce dell’effettiva provenienza. Né si può affermare che l’adempimento richiesto costituisca un eccessivo onere per le imprese o un aggravamento procedimentale, limitativo dell’efficacia dell’azione amministrativa. Dunque, non solo la clausola di esclusione era chiara, ma non sussisterebbe alcuna ragione per un’interpretazione che ne attenui la portata precettiva o che consenta, in via interpretativa, di ritenere che l’apposizione del timbro equivalga a sottoscrizione. La rilevanza della sentenza è data dal fatto che essa si pronuncia anche sull’interpretazione dell’art. 46 del codice degli appalti, nella forma attuale, modificata dal D.L. 13 maggio 2011, n. 70, seppure ritenuto inapplicabile al caso in questione ratione temporis. Ad avviso del Consiglio di Stato, nel caso in specie, l’offerta sarebbe stata comunque illegittima, poiché la mancata sottoscrizione non avrebbe consentito di attribuire con certezza l’offerta alla ditta proponente. La sentenza in oggetto si segnala non solo per la particolarità della fattispecie specifica, cioè la mancata sottoscrizione parziale dell’offerta tecnica, ma soprattutto perché costituisce una delle prime pronunce sul novellato art. 46 codice degli appalti e, quindi, sulla controversa questione circa l’ammissibilità dell’integrazione degli atti di gara. 2. I contrastanti principi in materia di evidenza pubblica La sentenza ripropone il dibattito tra due differenti e spesso antitetici principi in materia di contratti pubblici: par condicio e favor partecipationis. Il primo si fa generalmente risalire al fondamentale dovere di imparzialità, costituzionalmente previsto dall’art. 97 Cost., poi ribadito dalla disciplina comunitaria della concorrenza; il secondo trova, invece, la sua fonte originaria nella stessa normativa comunitaria, anche se non manca chi lo collega alla tutela costituzionale dell’iniziativa economica privata, prevista dall’art. 41 Cost. La ponderazione tra i due principi non è facile, tanto che l’orientamento del legislatore e della giurisprudenza è mutevole. Secondo una prima interpretazione 1, nel possibile contrasto tra i due principi il favor partecipationis è recessivo. Infatti, nell’ambito del procedimento concorsuale, le regole della par condicio andrebbero rigorosamente rispettate a garanzia delle situazioni giuridiche soggettive dei partecipanti e, nell’even- Diritto Amministrativo | CLAUSOLE DI ESCLUSIONE tuale conflitto, il principio del favor partecipationis sarebbe soccombente. In questa opinione, prevale una concezione garantistica delle situazioni giuridiche soggettive rispetto ad un ampliamento della platea dei partecipanti per una più ampia valutazione delle offerte. Se nelle vetuste norme sulla contabilità pubblica, le rigide regole sull’aggiudicazione erano volte a garantire l’interesse pubblico, oggi il principio della par condicio tutela le imprese concorrenti, seppure sempre allo scopo di non falsare le regole del mercato, quindi, ancora una volta, seppure indirettamente, a tutela dell’interesse pubblico. Secondo una diversa opinione 2, l’evoluzione legislativa avrebbe indicato all’interprete una maggiore attenzione al favor partecipationis, limitando i casi di esclusione dalla gara, in un’ottica, tipica dell’ordinamento europeo della concorrenza, volta a favorire un più ampio confronto tra imprese per una migliore qualità del prodotto richiesto dalle amministrazioni. Queste diverse opinioni, da tempo manifestate, vanno ora confrontate con il dato normativo vigente. 3. L’art. 46 del codice degli appalti. L’art. 46 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, codice degli appalti pubblici, nella sua formulazione originaria, introduceva il c.d. diritto di soccorso. Sulla scorta di quanto già previsto dall’art. 16 del D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 157 per i servizi pubblici e dall’art. 15 del D.Lgs. 24 luglio 1992, n. 358 per le forniture di beni, l’art. 46 del codice dei contratti prevedeva che le stazioni appaltanti potessero chiedere ai concorrenti di “completare” o “fornire chiarimenti” su certificati, documenti e dichiarazioni presentate. Già su questa formula normativa si erano confrontate più tesi interpretative, nel solco delle ipotesi in precedenza indicate. In particolare, tenendo conto del dato normativo letterale, la giurisprudenza distingueva tra integrazione e regolarizzazione degli atti di gara, in quanto non sarebbe stato possibile introdurre nuova documentazione rispetto a quella presentata, ma solo “completarla”. Peraltro, l’art. 46 del codice limitava l’ambito di applicazione della regolarizzazione, stabilendo che l’integrazione documentale potesse riguardare solo i casi previsti dagli artt. 38 a 45 del codice appalti, cioè i requisiti di ordine generale, i requisiti di idoneità professionale, i requisiti di qualificazione relativi agli appalti di lavori pubblici, la capacità economica e tecnica dei fornitori e prestatori di servizi, il rispetto delle norme di garanzia della qualità e delle norme di gestione ambientale, l’iscrizione negli elenchi ufficiali di fornitori o prestatori di servizi. Come si vede, l’integrazione non sarebbe stata possibile per il contenuto essenziale dell’offerta, ma solo quando non fosse stato allegato qualche documento o certificato che attestasse requisiti o iscrizioni in albi, 2 V. per tutti, ora, Ponzio, I limiti all’esclusione dalle gare pubbliche e la regolarizzazione documentale (nota a Cons. di Stato, Sez. V, 15 novembre 2010, n. 8042), in Foro Amm. CdS, 2011, 2464. 3 Cons. di Stato, Sez. V, 30 maggio 2006, n. 3280, in Urbanistica e Appalti, 2006, 1185, con nota di Pagani. 1691 che, comunque, certificassero situazioni già esistenti al momento dello svolgimento della gara. La giurisprudenza interpretava tale disposizione nel senso che, innanzitutto, non si potesse procedere a nessuna produzione documentale successiva di un atto richiesto dal bando a pena di esclusione 3. Ma ove anche non fosse prevista un’esplicita esclusione, non si sarebbe comunque potuto modificare il contenuto dell’offerta 4. In fondo, l’unico caso in cui la regolarizzazione sarebbe stata consentita si configurava nella mancanza di un elemento (non richiesto a pena di esclusione dal bando) che specificasse i requisiti di partecipazione già in parte dedotti nella documentazione tempestivamente prodotta. 4. I vizi formali nelle gare ad evidenza pubblica. In quest’ottica va inquadrata la questione dei vizi formali nelle gare di appalto pubblico. Anche la materia de qua ha subito l’influsso di una generale tendenza antiformalistica del diritto, affermatasi esemplarmente nell’art. 21 octies della legge sul procedimento amministrativo, che tende a dequotare i vizi di legittimità in mere irregolarità, allo scopo di evitare che eccessivi formalismi aggravino inutilmente il procedimento, imbrigliando, senza un’effettiva ragione, l’attività amministrativa. In sostanza, l’ordinamento compie una precisa scelta a favore di un’amministrazione in cui le forme procedimentali non impediscano la realizzazione di opere in un’amministrazione per obiettivi, che intende garantire risultati, nell’ambito di un principio di legalità inteso in senso sostanziale. Questa dequotazione delle forme non aveva, invero, attinto il settore degli appalti pubblici, regolato da un rigido formalismo a tutela della par condicio tra i concorrenti, tanto che, nei casi in cui si è voluto semplificare il relativo procedimento, si è fatto ricorso ad una legislazione speciale, derogatoria rispetto alle norme ordinarie (si pensi alla disciplina in materia di grandi opere o ai commissariamenti per il completamento delle opere pubbliche). La tesi della prevalenza del favor partecipationis rispetto alla tutela della par condicio era del tutto minoritaria 5, mentre dominante era il principio generale secondo cui «la mancata sottoscrizione di un atto che costituisce uno dei documenti integranti la domanda di partecipazione alla gara da parte di un concorrente non può essere considerata in via di principio una irregolarità formale sanabile nel corso del procedimento perché fa venire meno la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso» 6. La disciplina ordinaria sugli appalti pubblici di derivazione comunitaria non aveva, perciò, seguito l’orientamento nazionale di una dequotazione dei vizi formali né si può dire che le norme sulla semplificazione di questi ultimi anni avessero realmente modificato il quadro in materia di appalti pubblici. 4 Cons. di Stato, Sez. V, 6 marzo 2006, n. 1068, in www.lexitalia.it. 5 T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 24 settembre 2009, n. 673. 6 Cons. di Stato, Sez. IV, 31 marzo 2010, n. 1832. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 1692 Infatti, nell’aggiudicazione di appalti pubblici, la giurisprudenza continuava a distinguere tra regolarizzazione o integrazione di un documento già in atti e allegazione di ulteriori documenti. Il primo caso veniva ammesso 7, il secondo no. La casistica giurisprudenziale, almeno del giudice d’appello, appariva abbastanza uniforme. Inammissibile era l’offerta quando la relazione tecnica e il capitolato speciale di appalto venivano firmati sul frontespizio dal rappresentante dell’impresa e dal professionista, ma in calce solo dal progettista; la tabella riassuntiva firmata in calce solo dal progettista, il computo metrico e l’elenco descrittivo firmati sul frontespizio da entrambi e in calce da nessuno 8, perché, in questo caso, mancava la certezza della provenienza dell’atto e della forza vincolante nei confronti di chi lo aveva sottoscritto. L’applicazione di tale regola era assolutamente rigida, tanto che veniva considerato motivo di legittima esclusione anche la mancata sottoscrizione, richiesta dal bando, degli allegati al capitolato speciale, in quanto tale sottoscrizione serviva a confermare i requisiti dell’offerta 9. Alla stessa stregua, veniva considerata fondata l’esclusione dalla gara di un costituendo raggruppamento di imprese, quando la sottoscrizione delle singole pagine del capitolato speciale era stata effettuata esclusivamente dall’impresa capogruppo, mentre le mandanti avevano provveduto alle sole sottoscrizioni in calce 10. Né l’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006, nella sua formulazione originaria, avrebbe consentito, a maggior ragione, l’integrazione della mancata sottoscrizione del disciplinare o di parte di esso, in quanto, anche secondo il parere dell’Autorità sui lavori pubblici, si sarebbe verificata una palese violazione della par condicio tra i concorrenti 11. Nel medesimo parere, l’Autorità ribadiva che la disposizione di cui all’art. 46 andava intesa come possibilità di regolarizzare atti carenti dal punto di vista formale per errori materiali, ma non come occasione per produrre documenti richiesti dal bando a pena di esclusione. 5. La modifica dell’art. 46 nel c.d. decreto sviluppo. Ora, con il dichiarato scopo di limitare i casi di esclusione dalle gare, al fine di favorire lo sviluppo economico, l’art. 4, comma 2, lett. d) del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in L. 12 luglio 2011, n. 106, aggiunge all’art. 46 il comma 1 bis, secondo cui «la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti 7 Anche di recente, Cons. di Stato, Sez. V, 5 settembre 2011, n. 4981. 8 Cons. di Stato, Sez. V, 7 novembre 2008, n. 5547; nello stesso senso, T.A.R. Liguria, Genova, Sez. II, 18 febbraio 2010, n. 630, e Id. Sicilia, Palermo, Sez. III, 19 aprile 2010, n. 5498. 9 Cons. di Stato, Sez. V, 20 marzo 2006, n. 1448. 10 Cons. di Stato, Sez. V, 7 ottobre 2008, n. 4862. 11 Il parere dell’Autorità di vigilanza n. 68 del 25 marzo 2010 richiama Cons. di Stato, Sez. V, 17 settembre 2008, n. 4397; Id., 16 luglio 2007, n. 4027; Id., 6 marzo 2006, n. 1068; T.R.G.A., Bolzano, 4 settembre 2009, n. 309; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 23 aprile 2009, n. 2146 e n. 2148; Id. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 11 settembre 2008, n. 3967; Id. Toscana, Firenze, Sez. II, 7 marzo 2008, n. 272. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 Diritto Amministrativo | CLAUSOLE DI ESCLUSIONE in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle». La norma è particolarmente significativa più che per le singole cause di esclusione, per il divieto, sancito a pena di nullità, di introdurne diverse e nuove nei bandi e nelle lettere invito. Infatti, leggendo i casi di esclusione esplicitamente previsti si comprende bene quanto sia difficile tipizzarli esattamente, tanto più che a questa innegabile difficoltà si aggiunge una infelice scrittura normativa. Quando, ad esempio, si consente l’esclusione «in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti», si lascia all’amministrazione un’ampia discrezionalità nell’individuare — e sanzionare con l’esclusione — obblighi procedimentali e requisiti dell’offerta tra le numerose prescrizioni previste dalla legge e dal regolamento sugli appalti pubblici. Né viene esclusa la possibilità che le stazioni appaltanti introducano legittimamente nel bando nuove cause di esclusione attraverso i requisiti di ammissione. Se si analizzano, in sintesi, le singole cause di esclusione espressamente previste dal nuovo comma 1 bis dell’art. 46 codice appalti, si possono individuare tre tipologie fondamentali: una sanzione che deriva direttamente dalla legge; l’incertezza assoluta sull’offerta; la non integrità del plico con conseguente violazione della segretezza 12. È evidente che la genericità delle singole fattispecie lasci ampi spazi esegetici all’interprete giudiziale. Quanto alla prima ipotesi, non è chiaro se le esclusioni previste da «altre disposizioni di leggi vigenti» (“altre” rispetto a quelle indicate dal codice e regolamento appalti) debbano prevedere l’esclusione in maniera esplicita o la si possa desumere del testo normativo; quanto alla seconda ipotesi, si dovrà dare significato alla «incertezza assoluta dell’offerta», poiché la si potrebbe intendere (come proprio nel caso della sentenza qui annotata) anche come la mancata sottoscrizione di solo 12 Per un’approfondita analisi dei singoli casi di esclusione: De Nictolis, Le novità dell’estate 2011 in materia di pubblici appalti, in Urbanistica e Appalti, 2011, 1012 e segg.; R. Giani, Le cause di esclusione dalle gare tra tipizzazione legislativa, bandi standard e dequotazione del ruolo della singola stazione appaltante (commento a T.A.R. Veneto, Sez. I, 13 settembre 2011, n. 1376), in Urbanistica e Appalti, 2012, 94 e segg.; Lacava, La richiesta di integrazioni e chiarimenti documentali da parte della stazione appaltante, in Il nuovo Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture a cura di F. Saitta, 2008, 393 e segg. e ora in corso di pubblicazione nella nuova edizione del codice. Diritto Amministrativo | CLAUSOLE DI ESCLUSIONE due pagine dell’offerta economica; infine, neanche la terza fattispecie è di automatica applicazione, poiché la mancata integrità del plico comporta l’esclusione solo ove l’amministrazione valuti che, nel singolo caso, abbia subito un pregiudizio la segretezza dell’offerta. Molto più significativo appare il divieto, anch’esso sancito dal nuovo comma 1 bis dell’art. 46 codice appalti, di introdurre nei bandi cause di esclusione diverse da quelle previste dalla legge, soprattutto ove questa disposizione venga letta in collegamento con la norma sui bandi-tipo, ora introdotta al comma 4 bis dell’art. 64 del codice degli appalti, dall’art. 4, comma 2, lett. h), del D.L. 13 maggio 2011, n. 70. Secondo tale nuova disposizione, le stazioni appaltanti utilizzano banditipo approvati dall’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, che prevedono le cause tassative di esclusione di cui all’art. 46, comma 1 bis, codice appalti; ove le amministrazioni vogliano derogare da questi modelli, inserendo nuove cause di esclusione, sono tenute a motivarle esplicitamente 13. L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, in un primo documento di consultazione dell’Ufficio studi sul punto “Prime indicazioni sui bandi tipo: tassatività delle cause di esclusione e costo del lavoro”, afferma che la peculiarità del nuovo sistema di esclusione dalle gare è connessa ad una lettura combinata dell’art. 46 codice appalti e del novellato art. 64 codice appalti. La difficile individuazione delle cause tassative di esclusione viene cosı̀, secondo l’Autorità, attenuata dalla necessità che le stazioni appaltanti utilizzino i bandi-tipo, che tipizzano i casi di esclusione, con obbligo di motivare eventuali deroghe. Insomma, utilizzando i bandi-tipo formulati dall’Autorità ai sensi del comma 4 bis dell’art. 64 del codice degli appalti, verrebbe colmata l’incertezza interpretativa dei casi di esclusione previsti dal novellato art. 46. Nonostante le difficoltà interpretative dell’art. 46 codice appalti, non si può ignorare la portata innovativa della nuova formula normativa, che dequota la rilevanza del bando, limitando la sua forza di lex specialis della gara e sottoponendolo in maniera più rigida alla fonte normativa, con una sanzione che arriva a comminare la nullità delle clausole difformi. Viene ampiamente limitata l’autonomia normativa del bando, con una palese riduzione della discrezionalità dell’amministrazione, seppure nei limiti prima indicati. 6. La giurisprudenza successiva alla novella dell’art. 46 del codice degli appalti. A seguito della novella dell’art. 46 codice appalti, la casistica giurisprudenziale si fa molto più complessa, riportando alla luce un conflitto tra tesi differenti. Da una parte si conferma l’opinione consolidata sotto il precedente regime normativo, secondo cui biso13 La modifica prevede che «4 bis. I bandi sono predisposti dalle stazioni appaltanti sulla base di modelli (bandi-tipo) approvati dall’Autorità, previo parere del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sentite le categorie professionali interessate, con l’indicazione delle cause tassative di esclusione di cui all’articolo 46, comma 1 bis. Le stazioni appaltanti nella delibera a contrarre motivano espressamente in ordine alle deroghe al bando-tipo». 1693 gna evitare che un’eccessiva discrezionalità nell’ammettere integrazioni delle offerte costituisca un pericolo per la par condicio. Cosı̀ la compilazione dell’offerta in maniera non conforme al bando è una mancanza insanabile, pur quando il capitolato sia stato sottoscritto, poiché l’offerta presentata potrebbe essere difforme da quanto previsto nel capitolato stesso 14. D’altra parte, si comincia a consolidare una giurisprudenza che, riconoscendo portata innovativa alla modifica dell’art. 46 codice appalti, restringe l’area dei vizi invalidanti. È considerato legittimo riammettere alla gara un raggruppamento di imprese, anche quando una di esse non abbia firmato una parte della domanda di partecipazione, ove la domanda stessa contenga comunque gli elementi essenziali per identificare il candidato e, in particolare, vi sia la sottoscrizione del legale rappresentante 15. Di particolare rilievo la sentenza secondo cui è una mera irregolarità formale l’omessa dichiarazione circa il possesso dei requisiti ex art. 38 codice appalti in capo agli amministratori cessati nel triennio, quando questi facciano parte di una impresa distinta dalla concorrente, che abbia ceduto a quest’ultima l’azienda o un ramo di essa. A partire dal caso specifico, la sentenza si sofferma più in generale sul significato della modifica dell’art. 46 codice appalti. Secondo il giudice amministrativo, la modifica dell’art. 46 codice appalti, volendo ridurre i casi di illegittimità caducanti le gare, stabilisce «la nullità di quelle previsioni dei bandi ad oggetto omnicomprensivo, che rendono obbligatoria la presentazione di tutta la documentazione richiesta e nelle forme indicate, riconnettendo automaticamente l’esclusione della concorrente al generico difetto di una qualsiasi parte della documentazione stessa» 16. La citata sentenza richiama una cospicua tendenza giurisprudenziale che si sta sempre più orientando verso una visione restrittiva dei casi di esclusione dalla gara per vizi formali 17. Ad esempio, non costituisce motivo di esclusione dalla gara la mancanza della fotocopia del documento di identità del rappresentante legale della ditta in una delle due buste dell’offerta, ove sia presente nell’altra 18. In questo senso si orienta anche una parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui «la necessità di evitare inutili appesantimenti nonché di garantire in massimo grado la partecipazione dei concorrenti, nel rispetto della par condicio, costituisce metodo operativo ed interpretativo irrinunciabile, sicché deve respingersi un’interpretazione della clausola del bando impositiva, a pena di esclusione, di una duplicazione di documenti descrittivi attinenti ai medesimi elementi (nella specie, due relazioni aventi in comune informazioni sull’esecuzione del progetto; una relazio14 T.A.R. Umbria, Perugia, Sez. I, 22 dicembre 2011. T.A.R. Valle d’Aosta, Sez. I, 15 marzo 2012, n. 38. 16 T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 22 marzo 2012, n. 245. 17 Cons. di Stato, Sez. V, 24 novembre 2011, n. 6240; Id., Sez. V, 24 marzo 2011, n. 1795; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 12 agosto 2011, n. 671; Id. Puglia, Lecce, Sez. III, 15 dicembre 2011, n. 2169; Id. Lazio, Sez. III, 12 dicembre 2011, n. 9696. 18 T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 26 marzo 2012, n. 530. 15 Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 1694 Diritto Amministrativo | CLAUSOLE DI ESCLUSIONE ne e le schede tecniche sui medesimi profili qualitativi)» 19. Parzialmente difforme l’opinione secondo cui, a differenza della sentenza annotata, si ritiene equipollente l’apposizione della sola sigla in calce all’offerta, unitamente al timbro dell’impresa ed alle generalità del legale rappresentante, seppure, nella stessa fattispecie, l’offerta viene esclusa perché non comporta riferibilità dell’offerta all’impresa la sola apposizione della firma sul frontespizio o “in testa” o sulla prima pagina 20. Questo nuovo e diverso orientamento che tende a limitare le cause di esclusione — piaccia o no — appare più conforme alla modifica voluta dal legislatore dell’art. 46 codice appalti. Le differenti soluzioni giurisprudenziali avevano già richiesto l’intervento dell’Adunanza plenaria, che con la decisione n. 10/2012 si era pronunciata sull’originario testo dell’art. 38 codice appalti, secondo cui il cessionario di azienda o di un ramo di essa doveva presentare la dichiarazione di insussistenza di condanne per reati anche con riferimento agli amministratori che avevano lavorato presso la cedente nell’ultimo triennio. Pur affermando la tassatività delle cause di esclusione, L’Adunanza plenaria aveva tuttavia ritenuto che tale dichiarazione fosse necessaria nel caso in specie, perché si trattava di un caso di un’evidente elusione fraudolenta, in quanto un amministratore della ditta cedente aveva precedenti penali. Ancora più di recente, a dimostrazione dell’attualità della vicenda in questione, l’Adunanza plenaria n. 12/ 2012 si è pronunciata nuovamente sulla necessità della succitata dichiarazione prevista dall’art. 38 codice appalti, questa volta in caso di fusione o incorporazione tra due ditte. 19 Cons. di Stato, Sez. V, 21 febbraio 2012, n. 933. Giurisprudenza Italiana - Luglio 2012 La decisione ribadisce la tassatività delle ipotesi di esclusione previste dall’art. 38 del codice, a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 46 del codice introdotta dal D.L. n. 70/2011, seppure ritenga che la formula normativa consenta l’esclusione per qualsiasi obbligo fissato da norme vigenti, ove anche queste non prevedano una espressa sanzione di esclusione. Analizzando il caso in specie, l’Adunanza plenaria osserva che, a differenza del caso oggetto della plenaria n. 10/2012, la ditta partecipante non ha reso la dichiarazione necessaria, ma senza alcun effetto elusivo, poiché l’amministratore cessato era incensurato. In questi casi, secondo l’Adunanza plenaria «le stazioni appaltanti sono tenute ad esercitare un potere di soccorso nei confronti dei concorrenti, ammettendoli a fornire la dichiarazione mancante». Per questo, la sentenza annotata, sebbene antecedente alle due decisioni dell’Adunanza plenaria, appare ancora eccessivamente legata ad una giurisprudenza troppo formalistica, ove per tale si intende il rispetto pedissequo della lettera della legge e non del suo contenuto sostanziale. Senza scomodare teorie sul formalismo giuridico, nel caso in specie, bisogna chiedersi se la mancata sottoscrizione (peraltro sostituita dal timbro) di due sole pagine di una più ampia offerta economica regolarmente sottoscritta possa rendere incerta l’attribuzione alla ditta dell’offerta stessa. A noi sembra proprio di no, a maggior ragione dopo le ulteriori argomentazioni addotte dalla giurisprudenza dell’Adunanza plenaria. Francesco Manganaro 20 T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. III, 7 aprile 2011, n. 625.