7 - La pertinenza nell’arte del Novecento a) All’arte moderna è capitato ciò che è accaduto all’epistemologia del Novecento, divisa in due scuole principali. Per una, la scienza scopre via via le leggi di natura; per l’altra, pur variamente divisa al suo interno, la scienza o, meglio, gli scienziati ricreano periodicamente i paradigmi interpretativi della realtà, sulla cui base stabiliscono provvisorie e soggettive leggi di natura. Le varianti emersero essenzialmente, con qualche anticipazione nei decenni precedenti, negli anni Venti e Trenta, in un crescendo tra Neo-empirismo logico, Popper e il secondo Wittgenstein, fino a Feyerabend, Goodman, Gleick. La rivoluzione relativistica dell’epistemologia corrisponde alla rivoluzione antiformalistica nella sfera dell’arte. Come i teorici della conoscenza scientifica negarono l’esistenza delle oggettive leggi di natura, così gli artisti rifiutarono di credere nelle strutture oggettive delle cose e quindi di rappresentarne le forme ritenute obsolete. A coloro che innovano senza tagliare i ponti con il passato, alla maniera del cubismo e dell’espressionismo tedesco, si contrappongono coloro che propongono con frequenza assai rapida sempre nuovi modi di fare arte, sempre nuovi paradigmi con lo scopo di negare il formalismo della tradizione. Come fu possibile immaginare infinite geometrie a partire da fondamenti diversi dello spazio o infiniti possibili paradigmi in logica, così fu possibile ipotizzare nuovi tipi di arte, attraverso cui ogni individuo o gruppo inaugurò un nuovo percorso espressivo uniti solo dalla rinuncia ai moduli della tradizione millenaria (1). 1 - È comprensibile, anche se non condivisibile, la posizione di coloro che, sulla scia delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, sostennero l’indefinibilità dell’arte dovuta al rinnovamento continuo delle poetiche (Morris Weitz, The Role of Theory in Aesthetics, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 1956, 15, 1, pp. 27-35; trad. it., Il ruolo della teoria estetica, in Estetica e filosofia analitica, cit.). Una posizione simile raggiunse anche Anceschi, attribuendo il fenomeno a quel clima dissacratore dell’epoca che moltiplicava le estetiche come moltiplicava le logiche (L. Anceschi, Progetto di una sistematica dell’arte, Mursia, Milano 1964). Anche A. Banfi (I problemi di una estetica filosofica, Parenti, Firenze 1961) e D. Formaggio (Arte, Mondadori, Milano 1981) ebbero questo senso del continuo flire delle forme d’arte. La molteplicità delle forme d’arte induce Pareyson ad introdurre il concetto di formatività di husserliana ispirazione. Nell’arte il fare è assoluto, creativo, intensivo, essendo produzione di organismi nuovi, in una sorta di innovazione ontologica. L’arte per l’arte è formatività per se stessa e non per altri fini, fare una cosa che prima non c’era, unica nel suo genere: è “fare arte” e non “fare con arte” (L. Pareyson, I problemi dell’estetica, Marzorati, Milano 1966, p. 34). Pareyson attribuisce bellezza non solo all’arte, ma a tutta la produzione umana, in quanto “è proprio il carattere formativo dell’intera operosità umana che spiega come si possa parlare di bellezza a proposito di qualsiasi opera: se non c’è opera che non sia insieme forma, si intende come ogni opera riuscita sia sempre anche bella”… “Come la realizzazione di qualsiasi valore è impossibile senza la realizzazione di un valore artistico, così la valutazione di qualsiasi opera è impossibile senza un apprezzamento estetico. Quando si dice, ad esempio, che un'azione morale, una virtù, un carattere, oppure un ragionamento, una dimostrazione, un'opera di pensiero, sono belli, si può pensare che in questi casi la predicazione della bellezza abbia un carattere esclusivamente metaforico e sia destituita di significato proprio. D'un'azione che abbia un chiaro valore morale si dice spesso che si tratta d'una bella azione, e parlando di anime buone si suol dire che sono ornate dalle loro virtù, e d'una persona disposta alla benevolenza, alla cordialità e alla giovialità si dice che ha un bel carattere; e spesso si parla di bei ragionamenti, e d'una dimostrazione singolarmente riuscita, condotta con una linearità di sviluppo e una dovizia di argomentazione che conciliano in sapiente equilibrio la semplicità e la completezza, si dice che ha pregi d'eleganza, e in un'opera di pensiero si può ammirare l'armonia della costruzione in cui circola, con sagace duttilità, il pensiero, a penetrare e sviscerare l'argomento e insieme a stringere il tutto con salda e indivisibile coesione” (Luigi Pareyson, Estetica, teoria della formatività, Bompiani, Milano 1988, p. 19-20). Ciò non esclude che vi sia una speciale intenzionalità formativa dell’arte rispetto alle altre produzioni (ivi, p. 23). Interessante mi sembra il concetto di riuscita dell’opera, che è diversa nell’arte e nelle scienze, ove è controllabile attraverso le leggi di natura (ivi, p. 63); il discorso tuttavia si avvita su se stesso quando prova a stabilire la peculiarità della riuscita dell’opera d’arte: “Nell’arte non c’è altra legge generale se non quella stessa regola individuale dell’opera che deve essere inventata nel corso dell’operazione: la riuscita è criterio a se stessa, sì che non solo la regola, ma l’opera stessa dev’essere inventata nel corso dell’esecuzione, la quale perciò non può avere altra legge che il suo stesso risultato” (ivi, p. 66). Senza il concetto di pertinenza, non riesco a capire come si possa decidere sulla validità di un’opera se non attraverso un rinnovato generico gusto di derivazione crociana. Mi sembra utile il contributo di Pareyson sul concetto di recezione per l’insistenza sul ruolo ineliminabile di entrambi i poli: “nel senso che sia il soggetto che l’oggetto dell’interpretazione devono essere esistenze singolarissime, in sé Nella pittura postclassica alcuni hanno continuato fino ad oggi a rappresentare l’uomo e la natura alla vecchia maniera, entro uno spazio inteso come vuoto; alcuni hanno stravolto le figure, collocandole in uno spazio pieno e materiale, corpo tra corpi, a partire da Cézanne (2); altri infine hanno negato integralmente il passato, rifiutando qualsiasi traccia della figura e dello spazio. La prospettiva, la corporeità, l’impressione, il colore, l’espressione, la spazialità sono valori nati dalla logica stessa delle cose e non dalla volontà di gioco di alcuni attori, così come nella storia economico-politica sono nati da una oggettiva dinamica la mondializzazione, il mercato unico, l’antimperialismo, l’eguaglianza tra gli uomini, il punto di vista ecologico. Credo che si possa valutare la nascita delle scuole artistiche alla stessa stregua della nascita delle nuove teorie delle società e della natura: sono valide quelle correnti nate dalle reali dinamiche sociali e scientifiche. Lukàcs ha tacciato di irrazionalità la concezione borghese della realtà, riservando la razionalità alle scienze della natura e alla teoria proletaria della società, traendone la conseguenza che solo l’arte razional-progressista fosse vera arte. Adorno, pur partendo da premesse simili, arriva ad una conclusione opposta: siccome la società borghese è irrazionale, l’arte deve anch’essa diventare irrazionale per rappresentarla e denunciarla. L’arte delle avanguardie ha seguito Adorno e rifiutato Lukàcs. Il linguaggio artistico ha perduto la comprensibilità universale del passato, assumendo un connotato del tutto privato che ha dovuto ogni volta essere spiegato al pubblico. Una gran parte degli artisti contemporanei ha ritenuto fallita la lingua tradizionale, la semantica e la sintassi degli avi, inventando nuovi mezzi espressivi, uno per ogni corrente e, a volte, uno per ogni artista. Dopo l’impressionismo i concetti di bellezza, di forma, di spazio euclideo, di prospettiva entrarono in crisi e tutti i paradigmi dell’arte furono messi in discussione e attaccati duramente. I Dada e il Surrealismo hanno avuto un ruolo rilevante nel processo di dissoluzione che si compie nelle varianti dell’arte informale. Nell’arte classica – riunisco in questo termine tutta la storia dell’arte fino all’espressionismo – si è rappresentata la crisi sociale, il dolore, il presentimento di morte, il peccato, la felicità borghese, la sessualità e le varie sensualità, la bellezza, il vizio, la natura nelle sue tante forme. In una parte dell’arte contemporanea, ci si libera dai contenuti antropomorfici e naturalistici per rappresentare con tutti i materiali possibili la sensazione dello spazio, il libero gioco dei colori, la pura energia, gli effetti materici, senza che a volte sia chiara la strada intrapresa. Il quadro, la scultura, l’assemblaggio di oggetti di vario genere spesso non intendono rappresentare una realtà, ma essere una realtà. Rosemberg, dopo aver coniato il termine “action painting” a proposito delle opere di Pollock, scrive che “bisogna tenere per certo che l’impressione finalmente ottenuta, l’immagine, quale che sia il contenuto, sarà una tensione”. Una tensione, non una rappresentazione di qualcosa (3). Per raggiungere questo scopo, l’arte in molti casi si presenta come esibizione di una azione, la performance (vari tipi di istallazioni, video), o come trasgressione e scandalo, talvolta l’oggetto artistico richiede di essere toccato. Pittura e scultura hanno avuto come contenuti i grandi temi umani, almeno fino a che hanno dominato la cultura e la scienza classiche. I contenuti del poema, del dramma, dell’arte sacra e profana – sebbene in una concluse, dotate di vita propria, indipendenti, irripetibili e inconfondibili (ivi, p. 186). Anche Paci ritiene che ogni forma sia una decisione, un principio di selezione. 2 - “Fare l’atmosfera in luogo della figura, significa concepire i corpi non isolati nello spazio, ma come nuclei più o meno compatti di una stessa realtà. Poiché bisogna tenere a mente che le distanze tra un oggetto e l’altro non sono degli spazi vuoti, ma delle continuità di materie di diversa intensità che noi riveliamo con forme e direzioni che non corrispondono alla verità fotografica, né alla fredda realtà analitica, le quali restano esperienze tradizionali” (U. Boccioni, Pittura scultura futuriste, Ed. futuriste di poesia, Milano 1914, citato da G. Bruno (a cura di), Boccioni, Classici dell’arte, Rizzoli, Milano 1969, p. 111). 3 - H. Rosenberg, The American Action Painters, “Art News”, dic. 1952, 51/8, p. 22. variante aggiornata ai tempi - si ritrovano attualmente nella letteratura e nel cinema, ancora incentrati sull’uomo e sulla natura. La pittura, la scultura e le nuove arti moderne hanno invece gridato a gran voce il rifiuto sprezzante di questi antichi oggetti dell’arte. Esse intendono occuparsi di percezioni, di echi stravolti che l’orecchio, l’occhio, il sesso, la pelle, il sogno, la mente possono provare di fronte al mondo. L’artista deve convertire il reale in una percezione allusiva, filtrando la realtà attraverso un commutatore personale ed esibire questo soggettivo deposito di percezioni, di tensioni, di immaginazioni, in cui l’oggetto, quando c’è, quando non è un puro gioco di colori e di volumi, si nasconde dietro una serie di maschere deformanti. L’arte moderna è tutta in questo gioco del rinvio, dell’allusione, della metafora, dell’accenno, del tratto caratterizzante. Ciò dipende dal fatto che non vuole rappresentare le cose, ma le astrazioni. Burri non intende dipingere una porzione dello spazio empirico, ma la spazialità. Pollock, in una fase della sua vita, per dipingere la liberazione dai valori politici, estetici, morali, utilizzò caotiche scolature di colore. Crea qualche sospetto il fatto che la stragrande maggioranza del pubblico provi a volte imbarazzo di fronte ad alcune opere dell’arte moderna. L’arte, che per millenni ha parlato ai popoli, oggi sembra essersi chiusa entro ristrette cerchie di praticanti, diventando esoterica. b) Come la reazione dello spettatore di fronte ad opere di arte informale è diversa rispetto alla reazione di fronte ad opere di arte classica, così il giudizio critico deve percorrere vie analitiche diverse rispetto alla pertinenza di cui ho trattato in riferimento alla vecchia arte. Lo studio dell’adeguatezza della testa o del braccio della Stiratrice di Degas non serve ad analizzare le scolature di colore di un quadro di Pollock. L’arte informale non risponde alle stesse regole dell’arte formale; la corrispondenza segnosignificato è diversa. Il dolore di una Madonna sul corpo del Cristo morto passa per ogni particolare delle posture di tutte le parti del suo corpo, passa per i colori che non possono essere quelli di una serena Madonna col bambino. Il critico, in questi casi, può discutere ogni particolare significativo, così come può fare per una scultura, per una poesia, per un romanzo di stile classico. Non è altrettanto agevole entrare nel merito di una singola macchia di colore nella Composizione VII di Kandisnky (1950) o nella Number 18 di Pollock (1950), o del Concetto spaziale, Venezia d’argento di Fontana (1961), o delle parole di Sanguinetti in Laborintus (dal 1951): sembra che si debba accettare tutto o niente. È come se il rapporto analitico tra segno e significato, tra prodotto ed intenzione, abbia mutato registro. Mentre è comprensibile il progetto rivoluzionario di molte di queste correnti, non è altrettanto comprensibile il modo in cui sia possibile entrare nel merito delle singole parti di un’opera. Non è quindi agevole delimitare il ruolo della critica d’arte nei confronti di una parte della produzione artistica dell’ultimo secolo. La discussione critica tra “pudica” e “pensosa” nel testo leopardiano presenta una precisa razionalità, non è invece altrettanto razionale la discussione sulla lunghezza del taglio su una tela di Fontana o sulla collocazione più a destra o più a sinistra di una serie di puntini in un suo quadro spaziale. La critica perde in questo settore la sua capacità analitica, la sua capacità di entrare nel merito di ogni particolare forma, parola, colore, suono. Con l’arte informale, venendo a mancare il riferimento ad una realtà particolare, con caratteristiche oggettive decifrabili, in quanto indipendenti da noi, si passa ad un giudizio generale di pertinenza non più analitica, ma sintetica. Il giudizio sintetico è possibile tuttavia per una parte delle opere informali, quando emerge un senso di qualche tipo. A volte si rimane sconcertati di fronte all’incomprensibile, quando non riusciamo a capire di che si tratti, quando il nesso tra il quadro e il suo titolo è misterico. Il culmine della difficoltà si raggiunge quando lo stesso autore intitola il quadro “senza titolo” o con un semplice numero. Si ha l’impressione che l’irrazionalismo dadaista non sia finito nel 1923, quando la scuola si è sciolta. Né è facile capire cosa divide nettamente alcuni quadri, anche significativi, di F. Picabia (Edtaonisl, 1913) da altri di J. Dubuffet (Site à l’oiseau, 1974), di J. Pollock (Sentieri ondulati, 1947), di U. Boccioni (Stati d’animo, gli addii, 1911), di R. Delaunay (Le finestre, 1912), di M. Rothko (Untitled red, 1964), di A. Gorky (Acqua del mulino fiorito, 1944), di G. Balla (Velocità d’automobile, luci, rumore, 1913), di M. Larionov (Dominio di rosso, 1911), di A. Soffici (Linee e volumi di una strada, 1912), di W. Kandinsky (Improvvisazione V, 1911), di F. Kupka (Sequenza grigio e oro, 1919), di J. Villon (Ragazzina, 1912), di A. Masson (Il rapimento, 1921) - appartenenti a scuole anche diverse ed opposte - più di quanto un quadro di Picabia (Udnie, 1913) non si distingua da un altro quadro di Picabia (Voilà la femme, 1915). Né dobbiamo sottovalutare il fenomeno del repentino e ripetuto cambiamento di stile e di poetica della maggior parte degli artisti più famosi, primo tra tutti Picasso. Picabia all’inizio del Novecento si ispira all’impressionismo, dopo il 1908 passa al cubismo, ma subito dopo si sposta sull’astrattismo. Dal 1915 è già proto-dadaista, per passare nel 1921 al surrealismo. Nel 1925 torna all’arte figurativa. A cavallo degli anni ‘30-‘40 si occupa di fotografia di nudi femminili, ma conclude la carriera tornando all’astrattismo. È indispensabile comunque fare una netta distinzione tra arte astratta e arte informale, ovvero tra arte che esprime ancora la natura e l’uomo, seppure in modo assai indiretto, e arte che programmaticamente intende rompere qualsiasi riferimento con la realtà per divenire puro gioco di colori e forme. Nel caso dell’arte astratta, la mente dell’artista è una sorta di trasformatore delle percezioni quotidiane, degli input ricevuti dai sensi, che riconsegna nell’opera d’arte sotto nuova forma. Come il musicista trasforma la natura e la vita in suoni, così il pittore astratto utilizza i colori e le forme attraverso una metafora che conserva il significato delle percezioni ricevute, ovvero attraverso un equivalente figurativo di comportamenti, di esistenzialità, di voci del mondo e della coscienza moderna. Nel caso dell’arte informale, gli artisti inventano un gioco con regole che nulla hanno a che fare con l’esperienza quotidiana, avendo come scopo quello di creare mondi paralleli, alla maniera delle tante geometrie non euclidee, ove l’intuizione perde ogni ruolo. Haftmann ha colto con grande finezza il senso di quel primo tipo di arte che, sebbene astratto, intenda mantenere un legame strettissimo con il mondo oggettivo. Interpretando l’opera di Klee, ci mostra, attraverso l’analisi sintetica di alcuni suoi quadri, questo nesso indissolubile: “Un quadro ad olio del 1929, Strada principale e strade secondarie, ci permette di gettare uno sguardo sui modi di vedere e sentire dell’artista. È un quadro che sembra una antica strana tappezzeria, con strisce e campi sottili, fitti, in cui ogni centimetro è lavorato, picchiettato, cardato come se da una grande lontananza si volesse ricostruire un quadro topografico preciso. Alcune precise linee direzionali attraversano il quadro, strade che si aprono alla nostra vista. E se noi lasciamo che il nostro sguardo segua questi cammini, vediamo che questa sensazione della topografia è restituita attraverso una larga arteria che si va assottigliando, secondo il criterio prospettico, e che attraversa il centro del quadro. L’insieme sembra visto con una prospettiva a volo di uccello, insomma come se si trattasse di una vasta pianura, intelaiata da linee trasversali che suggerisce l’immagine di un paesaggio fluviale, i margini di una larga valle di un antichissimo fiume. Ed è proprio così: si tratta di una immagine sintetica che riproduce il ricordo delle grandi e fertili pianure dell’Egitto”. “Solo nel momento della creazione...in quel lavoro dimentico di se stesso e non volto ad alcunché di oggettivo, l’immagine sprofondata riaffiora, completamente astratta, mai vista 4 in quella forma e tuttavia restituente la totalità di quel paesaggio in una immagine tipica” ( ). 4 - W. Haftmann, Paul Klee, Prestel, München 1950; trad. it., P. Klee, Fabbri Editore, Milano 1966. Diversa è la poetica di Kandinsky, anche se il riferimento al mondo fuori di noi in qualche modo rimane. Lui stesso scrive che: “La natura e l’arte hanno finalità (e dunque anche mezzi) essenzialmente, organicamente e storicamente diversi”. Il punto di incontro tra l’opera d’arte e la natura non avviene, come in Klee, in una sorta di semplificazione della natura, quanto piuttosto nell’evocazione delle grandi forze cosmiche, nel viverle dall’interno e comunicarle attraverso una semantica inventata dall’artista, che fa coincidere la linea con un elemento di tensione, distinguendo tra linea verticale e linea orizzontale, calda la prima e fredda la seconda. Anche i colori per lui hanno un valore espressivo, tanto che la somma di linee e colori significativi esprimono le forze della natura. Klee narra ancora la natura, Kandinsky le forze che si agitano in essa. Il primo, a suo modo, è ancora pittore “classico”. Tassi scrive a proposito di G. Sutherland: “Il metodo è quello indiretto dell’arte del nostro secolo e nel caso specifico quello di creare «parafrasi emotive della realtà»; cogliere cioè nella realtà l’essenza dei fenomeni e darne figurazioni sorte dal corrispettivo interiore, dar vita cioè a nuove forme che siano simboliche della corrispondenza che si stabilisce emotivamente tra l’essenza delle cose e la 5 profondità dell’uomo” ( ). L’analisi dell’adeguatezza analitica, ad esempio nella pittura figurativa, si basa sulla corrispondenza tra caratteri somatici, da una parte, e caratteri psicologici, esistenziali, sociali, culturali, dall’altra. Il linguaggio del corpo permette di individuare la corrispondenza, o meno, tra le sue posture e il significato che esse trasmettono. I corpi esprimono sempre qualcosa, hanno sempre un messaggio da rappresentare. Come una persona che finga di provare dolore o sdegno e non riesca ad adeguare perfettamente i suoi atteggiamenti a ciò che vorrebbe esprimere, così l’artista fallisce quando non riesce ad adeguare la cosa rappresentata all’intenzione, al progetto, all’invenzione, quando non finge alla perfezione: grande attore è colui che sa fingere, che sa replicare una condizione umana, che non ci fa percepire la finzione. La pertinenza analitica è una sorta di adaequatio intellectus et rei, che si ottiene quando la rappresentazione riesce a cogliere un aspetto oggettivo della realtà. La pertinenza nella critica d’arte deve analizzare l’adaequatio tra il pensiero dell’artista (il progetto) e il manufatto realizzato, per verificare che la finzione sia riuscita, che il gioco non sia scoperto. Nell’arte moderna l’adaequatio non è più diretta – o analitica - perché si cela dietro qualche forma simbolica della realtà, che riesce ad esprimere le cose solo nell’impressione generale - o sintetica - che suscita in noi (6). Mi sembra particolarmente significativo capire il rapporto molto stretto che si può verificare tra la riuscita nelle opere musicali e quella delle arti informali. Lo stesso Kandinskij scrive che la musica è l’arte per eccellenza, giacché non riproduce fenomeni naturali, essendo diretta espressione dell’animo dell’artista, similmente alla pittura informale che lui stesso aveva creato nel 1912. Famosa è la sua teoria sull’identificazione di colori, suoni ed emozioni, ovvero di pittura e musica. Sulla scia di altri musicisti, si sbizzarrì a trovare corrispondenze tra colori, note musicali, stati d’animo e strumenti musicali. Kandinskij aveva comunque capito, al di là dell’opinabilità di molte sue teorie, che il registro interpretativo dell’arte inoggettuale era simile a quello musicale più che a quello della pittura tradizionale (7). 5 - R. Tassi, Dal surrealismo alle correnti più recenti, Fabbri Editore, Milano 1966. - Sarebbe utile per lo spettatore che l’autore comunicasse al pubblico ciò che aveva inteso rappresentare: in questo modo crescerebbe la possibilità per un più ampio pubblico di formarsi un giudizio ragionato, che non si limitasse all’impressione immediata “mi piace - non mi piace”. 7 - V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte (1911), Bompiani, Milano 1997. L’autore ritorna su questi temi nell’Almanacco (1912) del Blau Reiter, in particolare nel saggio Sulla questione della forma. Sull’espressionismo astratto di Kandinskij si posson consultare in italiano Gli espressoionisti 1905-1920, a cura di M. M. Moeller, Mazzotta, Milano 2002, Catalogo della mostra tenutasi a Roma, Complesso del 6 Va comunque osservato che fra le due arti vi è una differenza di fondo: la musica nasce informale, né poteva essere altrimenti. I suoni cercano di evocare qualcosa: stanno per qualcos’altro. L’uomo ha cercato da tempo immemorabile – ben prima della sua evoluzione in Homo sapiens - di esprimere i propri stati d’animo con i suoni. In qualche modo è stato preceduto dagli animali che manifestano gioia o terrore con sonorità di vario tipo. La pittura informale nasce dopo trentamila anni dalla nascita nelle grotte del paleolitico della pittura formale, quando l’uomo ha iniziato a disegnare e dipingere, rappresentando la natura, la caccia, la sessualità. Kandinskij ha preteso di trasferire le caratteristiche della musica nel modo d’essere della pittura, credendo di poter esprimere direttamente con i colori ciò che la musica esprime con i suoni, senza rendersi conto che con il mutare del mezzo espressivo mutava il campo delle cose esprimibili. Con colori e forme si possono esprimere alcune cose; con i colori senza le forme se ne possono esprimere altre. Ogni mezzo espressivo è in grado di narrare particolari realtà e non altre. Pittura formale, pittura informale, musica, scultura, poesia, letteratura non possono dire la stessa cosa. Al mutare del mezzo, muta insieme il messaggio. Ogni contenuto ha la sua forma ed è intraducibile in ogni altra. Non può essere messo in dubbio che i colori non formati possano esprimere qualche aspetto della complessa realtà, anche se colori e suoni non possono esprimere la stessa cosa: la pretesa di Kandinskij di cogliere in modo puntuale le corrispondenze tra particolari suoni, particolari colori e particolari significati era destinata al fallimento. Chi cerca nella musica o nella pittura informale significati impossibili gioca con le parole, asserendo di vedere cose che altri non vedono e non possono vedere, perché non ci sono. Per questo peccato originale una parte consistente della critica d’arte non è stata in grado di capire la specificità della pittura informale. Vittoriano, 4 ottobre 2002 - 2 febbraio 2003; W-D Dube, The Expressionists, Thames and Hudson, London 1972; trad. it., Espressionismo, Rusconi, Milano 1990. Come dicevo sopra, la musica per Kandinskij è pura espressione della nostra interiorità e non imita la natura: è astratta. Anche la pittura, se vuole cogliere la pura spiritualità, deve essere, a suo parere, astratta, libera da ogni riferimento alla natura, al mondo degli oggetti. Non bisogna dimenticare che la “spiritualità” del nostro pittore si era formata entro le teorie teosofiche e le scienze occulte. Andrebbe scandagliato più a fondo il rapporto tra Composizione V – tanto per fare un esempio – e le confuse credenze dell’autore.