la cartella clinica tra storia e antropologia

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LA CARTELLA CLINICA TRA STORIA
E ANTROPOLOGIA
Federica Micucci
Secondo una prospettiva antropologica molto diffusa e dibattuta, ogni cultura produce esseri umani specifici per mezzo della loro affiliazione a luoghi, gruppi, oggetti e sistemi di pensiero1. Allo stesso tempo, ognuna fabbrica un sapere e un saper-fare aventi per oggetto la distinzione tra normale e anormale e, all’interno di quest’ultima categoria, ordina (nel duplice
senso del vocabolo: categorizza e impone) le diverse forme morbose.
Attorno a questo sapere, e assieme ad esso, viene spesso costruito un sistema costituito da terapeuti, apparati concettuali e strumentali, nosografie,
terapie e “pazienti”2.
Quando i rappresentanti di diverse culture (ovvero, di diversi modi di
stare nel mondo) s’incontrano, il rischio di fraintendimento rispetto al “normale” e al “patologico” si fa assai alto; inoltre, l’approccio decisamente
universalizzante e naturalizzante del sistema occidentale – e quindi anche
della sua medicina – rischiano di nascondere le logiche, a volte radicalmente differenti dalla nostra, che soggiacciono ai diversi fenomeni. È quanto si è visto e si vede, ad esempio, nel contesto del fenomeno migratorio
posto in relazione all’accesso ai servizi sanitari, frequentemente concepiti
in epoca pre-migratoria secondo la logica locale occidentale che, giocoforza, i migranti non condividono (o condividono solo parzialmente).
All’interno della cornice epistemologico-disciplinare di riferimento,
oggi, non è sempre possibile trovare le risorse necessarie per affrontare le
questioni sollevate dal fenomeno massivo dell’immigrazione e dalle pro1
2
«I
Remotti 2005, p. 21-22.
Devereux 2007, p.101.
FOGLI DI ORISS»,
n. 31/32, 2009, pp. 184 - 195
LA CARTELLA CLINICA TRA STORIA E ANTROPOLOGIA
blematicità legate all’incontro con l’altro, lo straniero portatore di prassi
comunicative differenti. Questa situazione di inceppamento del dispositivo psichiatrico ha portato ad un nuovo avvicinamento degli operatori alle
discipline antropologiche, alle quali si chiede di intervenire per contribuire a individuare nuove risorse.
NASCITA DI UN PROGETTO DI RICERCA
Con il presente contributo intendo esporre alcune delle considerazioni che
ho maturato durante lo stage svolto presso un Centro di Salute Mentale
genovese3, a partire dalle quali ho elaborato un progetto di ricerca più articolato dal titolo L’antropopoiesi dell’immigrato in Occidente letta nelle
cartelle cliniche dei centri di salute mentale e archivi storici genovesi, che
oggi porto avanti all’interno di una scuola di dottorato presso l’Università
di Genova4.
Questa esperienza è stata l’occasione ideale per poter fare emergere la
criticità dei problemi che l’incontro con l’altro innesca e la potenziale utilità di uno sguardo incrociato e complementare con discipline quali
l’antropologia medica e culturale.
I primi incontri con la tutor aziendale hanno messo in luce l’interesse
e l’urgenza di riuscire a rispondere ad interrogativi inquadrabili in due
macro categorie: quella dei caratteri “etnospecifici” dei pazienti in cura,
e quello della rilettura dei dati clinici prodotti e accumulati nelle cartelle
cliniche.
Per quanto concerne il primo gruppo, sono stati messi in luce in pazienti provenienti da uno stesso contesto culturale o accomunati da esperienze di vita traumatiche, aspetti e caratteristiche che li accomunano. In tema
di ricongiungimento familiare molti dubbi venivano avvertiti nell’ambiguità delle relazioni tra madre e figli negli utenti peruviani. Gli operatori
sanno che in Perù spesso accade che siano le donne ad abbandonare il
paese natale alla ricerca di lavoro, lasciando i figli, anche per lunghi perio3
Esperienza svolta a Genova, tra gennaio e giugno 2008, presso il Centro di Salute Mentale di Via Peschiera 10, della Asl 3, a completamento del percorso formativo del Master
in Etnomedicina e Etnopsichiatria.
4
Scuola di Dottorato “Società, culture, territorio”, Università degli Studi di Genova,
XXIV ciclo di dottorato. Il mio progetto è consultabile sul sito internet
www.dismec.unige.it/index.php?section=104 alla voce Federica Micucci.
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FEDERICA MICUCCI
di, alle cure dei parenti, spesso i nonni, e senza la figura del padre come
riferimento5. In occasione di ricongiungimento familiare succede con una
certa frequenza che i figli di queste donne si ritrovino a frequentare i centri di salute mentale per problemi legati all’abuso di alcool e sostanze stupefacenti, identificando la causa di tali situazioni nei rapporti di conflittualità intrattenuti con la propria madre, colpevole di averli forzati a trasferirsi lontano da casa.
Un’incognita è rappresentata dalla scarsa affluenza alla struttura sanitaria degli ecuadoriani. Gli operatori, consapevoli che questo gruppo rappresenta la comunità più numerosa di tutta la Liguria, sono curiosi di sapere per quali ragioni i loro rappresentanti non si presentino al servizio se
non in numeri esigui.
Anche i contenuti dei deliri di alcuni pazienti colgono l’attenzione
degli operatori. In questo caso desidererebbero poter capire se tali contenuti possono essere in qualche modo contestualizzati e letti alla luce di
conoscenze antropologiche specifiche. Un esempio rappresentativo è stato
riportato durante i colloqui ed ha visto protagonisti due pazienti, uno russo
“giovane” e adottato da una famiglia italiana, l’altro un uomo più anziano
definito genericamente “slavo”. Entrambi i pazienti riportavano ai loro
terapeuti di sentire una voce femminile che diceva loro la parola “uccidi”.
Sono anche stati rilevati molti casi di utenti sudamericani nei quali la
religiosità sembrava essere vissuta in modo conflittuale, soprattutto in
relazione alla chiesa Evangelica.
Evidentemente, lo spazio di incontro e la modalità di lavoro concepiti
dal Sistema Sanitario Italiano nell’incontro con l’altro migrante divengono terreno sul quale affiorano numerose problematicità sia a livello teorico che operativo. Diviene perciò necessaria una cornice di riferimento teorico che sia sufficientemente elastica da potersi espandere e contrarre a
seconda dei nuovi incontri, siano essi di tipo concettuale o reale. Quella
offerta dall’approccio etnopsichiatrico rappresenta un perfetto punto di
partenza per condurre una ricerca che porti ad affrontare situazioni di lavoro che spesso si svolgono in modalità emergenziale e che pongono sotto
forte stress tutti i protagonisti.
5
In questo caso ci si riferisce al padre biologico, poiché figure di riferimento maschili
sembrano essere quasi sempre presenti.
186
LA CARTELLA CLINICA TRA STORIA E ANTROPOLOGIA
Per quanto riguarda la mia esperienza personale questo riferimento
teorico, arrivato in aiuto dopo un primo impatto traumatico con la realtà di
lavoro all’interno del Sistema sanitario nazionale, è stato rappresentato
dalla prospettiva etnopsichiatrica applicata alla ricerca e non alla terapia.
L’etnopsichiatria ricerca e interviene affrontando la questione della
multiculturalità con metodo complementarista, interpellando ambiti
disciplinari quali la psicologia, la psichiatria, l’antropologia e la storia per
cercare di far dialogare le logiche che soggiacciono alle diverse visioni
del mondo6.
Per quanto concerne la rilettura dei dati clinici, l’“urgenza” è rappresentata dalla necessità di organizzazione e inquadramento del materiale
che la pratica clinica produce alla luce di una prospettiva teorica antropologica. Questa richiesta ha evidenziato la difficoltà che gli operatori trovano nel riuscire a leggere le informazione che portano i pazienti, e nel trovare spazi di riflessione in altre discipline non mediche.
Cercando di guardare l’incontro interculturale in ambito sanitario con
gli occhi e soprattutto gli strumenti di cui dispongono i medici per poter
affrontare il loro lavoro, ci si rende immediatamente conto che un’attività
importante, anzi fondamentale, quale la redazione della cartella clinica,
rappresenta già un momento di incontro/scontro tra la nostra modalità
categorizzatrice e l’eterogeneità delle informazioni da annotare a colloquio. Proprio da questa ultima constatazione è nato un progetto di ricerca
che prosegue l’esperienza di tirocinio ponendosi di fronte alla problematicità rilevata circa la modalità con la quale gestire e organizzare i dati
oggettivi e i problemi legati all’incontro con l’altro.
ANALISI DELLE FONTI
L’avvicinamento alla pratica psichiatrica è avvenuto attraverso l’analisi di
cartelle cliniche.
La cartella clinica in psichiatria rappresenta una fonte di particolare
rilievo storico. Documento che rappresenta un aspetto della “costruzione”
dell’umano in Occidente e «luogo d’incontro tra una dottrina e le pratiche
che la rendono operante, essa rappresenta, anche se non da sola, il rilievo
6
Bastide in G. Devereux, 2007, p. 13-15; Coppo 2003, p. 72-73; Nathan 2003, p. 67.
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FEDERICA MICUCCI
topografico in miniatura di un paesaggio»7 mutevole e ricco di fatti, avvenimenti e storie di vita. La cartella clinica permette di collegare la storia
delle idee scientifiche alla storia dei comportamenti umani, alla storia
sociale, politica ed economica8. Questo documento risulta di enorme interesse poiché, oltre ad essere una fonte primaria dell’osservazione clinica,
esso è stato concepito proprio per dare origine a studi e ricerche concernenti i suoi contenuti.
La ricerca storico-antropologica della fonte “cartella clinica”,
nell’ambito delle problematiche legate all’incontro tra culture in ambito
psichiatrico, è assai scarsa. Gli studi svolti che hanno utilizzato la cartella
come fonte primaria sono stati fortemente incentrati sulla raccolta e contestualizzazione delle storie di vita dei pazienti residenti in strutture manicomiali. Il mio intento è quello di sviluppare un discorso intorno alla
modalità con cui l’operatore sanitario costruisce e interpreta il caso clinico all’interno della sua cornice epistemologico-disciplinare di riferimento
e indagare le problematicità che emergono in occasione dell’accesso a servizi sanitari nazionali di utenti immigrati definiti “psichiatrici”.
La conduzione di ulteriori indagini su questa categoria di documenti
d’archivio rappresenta una occasione per studiare da vicino la delicata e
complessa relazione tra storie di vita e dottrina, tra frammenti di vissuto e
assetti istituzionali.
Per rintracciare e analizzare il momento di incontro tra la psichiatria e
il migrante, sto conducendo un’analisi sistematica negli archivi storici
delle strutture pubbliche e private afferenti alla Salute Mentale genovese9.
Affrontare la questione della creazione della cartella clinica e della sua
compilazione diviene un punto nodale, poiché questo strumento per primo
può rivelare le eventuali lacune nei campi dato che possono non essere
aggiornati rispetto alle esigenze dei nuovi bacini di utenza. A questo scopo
intendo confrontarlo con gli analoghi documenti derivanti dall’elaborazione delle cartelle che per una maggiore rispondenza alle esigenze
7
Galzigna 1988, p. 25.
Galzigna 1988, p. 21-25.
9
Strutture ex manicomiali quali l’ex Ospedale Psichiatrico provinciale di Quarto dei
Mille (Genova), l’ex Ospedale psichiatrico provinciale di Cogoleto (Genova), centri di
salute mentale e reparti psichiatrici afferenti al sistema sanitario nazionale presenti sul territorio genovese.
8
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LA CARTELLA CLINICA TRA STORIA E ANTROPOLOGIA
dell’operatore e dell’utente siano stati adeguati alle linee guida adottate
nei diversi centri di aiuto psicologico per immigrati (pubblici e privati)10.
Per riuscire nell’intento sarà fondamentale lo studio e analisi delle correnti e degli approcci antropologici che negli anni si sono susseguiti, aventi come scopo la collaborazione o affiancamento alle materie psichiatriche
e psicologiche in grado di contribuire alla “risoluzione” delle problematicità emergenti in contesti di cura tra il paziente straniero e l’operatore indigeno. Alcuni esempi possono essere rappresentati dagli approcci crossculturale, trans-culturale e etnopsichiatrico, attraverso i quali si evince la
richiesta da parte della psichiatria di contributi etnografici per una più efficace attività clinica e l’avvicinamento dell’antropologia a concetti propri
dell’ambito psichiatrico per analizzare i dati raccolti sul campo.
Sarà interessante a questo punto della ricerca verificare come i centri di
salute mentale e di consulenza italiani ed esteri, afferenti ad alcune delle
scuole di pensiero di approccio complementare alla psichiatria sopra citate, abbiano elaborato tale supporto in modo affine alle loro necessità di
indagine.
LA CARTELLA CLINICA
Il materiale da analizzare in sede di tirocinio era rappresentato della cartelle cliniche attive nell’anno 2007 di tutti i pazienti del servizio nati fuori
dai confini italiani, per un totale di 86 fascicoli, un lavoro finalizzato a
individuare le caratteristiche di questi utenti del servizio e i percorsi terapeutici di cui sono protagonisti.
Contestualmente alla sistematizzazione del materiale d’archivio è iniziata, e sta proseguendo, una ricerca di tipo bibliografico, per poter comprendere in modo più specifico le qualità del tipo di documento sotto
esame.
Ad una prima analisi degli studi condotti su questa fonte si deduce
molto chiaramente quale sia l’attuale posizione della cartella nel panorama ospedaliero-sanitario. Essa è documento di archivio con finalità amministrative e di ricerca clinica tarato sulla visione medica Occidentale di
10
Mi riferisco a centri italiani ed esteri, tra i quali il Centro Mamre di Torino, il Centre
Georges Devereux di Parigi e Oriss, nei quali si organizzano cartelle cliniche con campi
dato adeguati ai criteri di osservazione applicati.
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FEDERICA MICUCCI
epoca pre-migratoria, che oggi si trova a dover ospitare e raccogliere i dati,
le anamnesi e le storie di vita di un bacino di utenza caratterizzato a partire dagli anni ’80 da una massiccia presenza di immigrati e migranti.
Stiamo parlando di un documento sanitario fondamentale per ogni attività medica ospedaliera: la cartella è costituita da un insieme di documenti nei quali viene registrato, dal personale medico o infermieristico, un
complesso eterogeneo di informazioni riguardanti un paziente: sanitarie,
anagrafiche, sociali, ambientali, giuridiche ecc. Tali informazioni sono
raccolte al fine di «predisporre gli opportuni interventi medici e poterne
usufruire anche per le più varie indagini di natura scientifica, statistica,
medico legale e per l’insegnamento»11.
Oggi la questione delle cartelle cliniche è strettamente connessa con
una serie di leggi e certificazioni alle quali tutte le strutture sanitarie sono
sottoposte12. La necessità di ottenere certificazioni di qualità e di tutelare
l’operato dei medici e del personale sanitario pone nuove questioni di
ordine amministrativo e legale all’interno delle quali la legislazione si è
espressa in modo estremamente chiaro e comprensivo di ogni aspetto del
documento in questione.
Per quanto concerne i requisiti formali e il valore documentario, la cartella clinica è un documento che possiede tutti i requisiti propri dell’atto pubblico, così come viene ribadito dalla Cassazione Penale (art. 221 C.p.): «è un
atto pubblico di fede privilegiata il cui contenuto è confutabile solo con la
prova contraria». Tale definizione implica l’applicazione degli artt. 479 e
476 del Codice Penale per il falso ideologico e materiale nella previsione
della pena più grave, e l’eventuale responsabilità per omissione o rifiuto di
atti d’ufficio. Nonostante questo, la dottrina sembra tuttavia orientata nel
senso di riconoscere alla cartella clinica la natura di atto pubblico «inidoneo
a produrre piena certezza legale, non risultando dotato di tutti i requisiti
richiesti dall’art. 2699 CC e facente quindi fede fino a prova contraria»13.
11
Gattai 1979, p. 12.
Per quanto riguarda la ricostruzione storica della comparsa ed evoluzione della cartella clinica così come oggi si presenta è in atto una fase di studio che compara le fonti
bibliografiche italiane e straniere con i documenti d’archivio reperibili sul territorio genovese e gli studi svolti in alti contesti regionali.
13
http://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=profdocgen&Chiave=3&RicProgetto=carte, voce Cartella clinica.
12
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LA CARTELLA CLINICA TRA STORIA E ANTROPOLOGIA
Nella compilazione debbono risultare per ogni paziente le generalità
complete, la diagnosi di entrata, l’anamnesi familiare e personale,
l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la
terapia, gli esiti e i postumi (DPCM 27 giugno 1986). Le cartelle cliniche, firmate dal medico curante e sottoscritte dal medico responsabile
di raggruppamento, devono portare un numero progressivo ed essere
conservate a cura della direzione sanitaria. La cartella deve essere completa di tutti i dati significativi relativi alla degenza del paziente e deve
riflettere quanto effettivamente è stato per lui fatto.
Ulteriore valore ricostruttivo del significato contenutistico della cartella clinica è fornito dalla Suprema Corte quando ribadisce che tale
documento è un «diario diagnostico-terapeutico, nel quale vanno annotati fatti di giuridica rilevanza quali i dati anagrafici ed anamnestici del
paziente, gli esami obiettivi, di laboratorio e specialistici, le terapie praticate, nonché l’andamento, gli esiti e gli eventuali postumi della malattia» (Cass. Pen. Sez. Un., 27 marzo 1992)14.
Oltre che nei requisiti formali la funzione certificatoria è da considerare anche nella sua parte sostanziale, componendosi in essa i requisiti di veridicità, di completezza, di correttezza formale e di chiarezza.
Viene anche sempre sottolineata l’importanza da consegnare al tempo
di redazione della cartella clinica, che per «sua natura è un acclaramento storico contemporaneo». Le annotazioni vanno pertanto fatte contemporaneamente all’evento descritto.
Nonostante l’importanza data ai contenuti della cartella clinica, per
la quale si richiede fondamentalmente chiarezza e completezza nella
compilazione, i problemi immediatamente rilevabili dall’approccio alla
fonte sono molteplici. Le criticità sono rappresentate dalla grafia dei
compilatori, spesso di difficile decifrazione e con l’utilizzo di molte
abbreviazioni; dalla frammentarietà delle notizie contenute; dall’ordine
cronologico in cui i dati e i documenti allegati sono conservati.
Ogni operatore, infatti, scrive con uno stile proprio, non solo grafico, le notizie ricevute dal paziente ed eventualmente le annotazioni per14
http://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=profdocgen&Chiave=3&RicProgetto=carte, voce Cartelle cliniche.
191
FEDERICA MICUCCI
sonali. Spesso manca omogeneità stilistica nella forma di stesura della
relazione dei colloqui, non ci sono molte formule ricorrenti ad eccezione delle prescrizioni farmacologiche.
Tra le questioni più rilevanti da porsi vi sono quelle legate alla
responsabilità dell’operatore nel tenere in modo curato il resoconto
della propria attività e dei dati della persona che ha preso in carico, non
solo dal punto di vista legale ma anche etico; alla considerazione in cui
il medico tiene la storia del paziente e il suo attuale iter terapeutico; ed
anche ai rischi che corre l’operatore a contravvenire alle norme prescritte sia a livello ministeriale che aziendale. Di estrema rilevanza è
anche la questione della comunicazione interna tra colleghi. I pazienti
possono cambiare medico, nonché struttura di riferimento, nel corso del
loro percorso di cura; in queste situazioni, in teoria, la lettura della cartella clinica dovrebbe agevolare la presa in carico del paziente al fine di
poter mettere a punto il progetto terapeutico. Di fatto questo non sembra essere sempre possibile.
Sembra quasi non essere necessaria una comunicazione interna,
quasi come se ogni operatore ricostruisse, rimettesse “in forma” il
paziente secondo i propri criteri disciplinari e specialistici. Questa
situazione sembra essere molto chiara agli operatori del servizio, e pare
rispecchiarsi proprio in quella disomogeneità che caratterizza molte
cartelle. In occasione dell’incontro con l’utenza migrante tale disomogeneità aumenta anche a causa delle ulteriori variabili “culturali” di cui
alcuni operatori avvertono la presenza.
CONCLUSIONI
I risultati di questo tirocinio e il progetto ricerca che da questa esperienza è nato mi hanno convinta dell’utilità di contestualizzare sempre
meglio l’utilizzo di uno strumento polivalente come la cartella clinica,
cercando di evidenziarne le possibilità di evoluzione a fronte delle problematicità legate all’accesso ai servizi sanitari di utenti con caratteristiche non conformate ai criteri del Servizio Sanitario. Il tessuto sociale da tempo si sta arricchendo della presenza di stranieri i quali portano
con sé, nell’incontro con il personale medico, variabili che mettono a
dura prova la strutturazione del nostro pensiero medico. Infine sarà
utile cercare di studiare una modalità per comprendere come, all’inter192
LA CARTELLA CLINICA TRA STORIA E ANTROPOLOGIA
no del documento che certifica la presenza e lo stato di salute di un individuo, si possano articolare diversi livelli di conoscenza relativi ai vari
generi di utenza.
Il percorso di ricerca vorrebbe avere delle ricadute sull’ambito lavorativo in cui il personale medico trova un ostacolo costituito dalla percezione di elementi costitutivi della storia di vita del paziente connotabili come
“culturali” o “etnospecifici”, riconosciuti come “materiale” di lavoro afferente ad un contesto disciplinare altro, quale l’antropologia o la mediazione culturale. A livello antropologico questa potrebbe essere l’occasione
per studiare da vicino la modalità di “costruzione” del paziente da parte
dell’operatore, in modo da sviscerare ulteriormente le questioni che si
aprono nei contesti di incontro interculturale.
L’approccio complementarista della prospettiva etnopsichiatrica, unito
all’importanza che la stessa riconosce alla teoria degli “attaccamenti” ai
quale ogni uomo, proveniente da qualunque luogo della terra, è sottoposto
per entrare a fare parte di un gruppo, creano il sostrato per una prospettiva che «decide di considerare le persone a partire dai loro attaccamenti
multipli a lingue, luoghi, divinità, antenati, modi di fare»15. Valorizzando
la collaborazione tra esponenti e prospettive teoriche afferenti a più ambiti disciplinari come importante risorsa attivabile di fronte alle criticità del
lavoro clinico, la prospettiva etnopsichiatrica sembra ideale per affrontare il contesto descritto, anche perché pone come centrale il tema della
responsabilità dell’azione e aiuta l’antropologo a non cadere nell’errore di
fornire “manuali di istruzioni” utili a stabilire un codice operativo in ambito medico, poiché tale richiesta sottintende da parte dell’operatore il “desiderio” di essere mallevato dal fare scelte politiche personali. L’incontro
con l’altro, sia esso un paziente “psichiatrico” o un migrante, è invece un
luogo di scelte, azioni e negoziazione, nel quale il concetto di responsabilità è centrale per orientarsi al suo interno.
15
Intervento di Catherine Gransard, co-direttrice del Centre G. Devereux di Parigi al
Master in Etnomedicina e Etnopsichiatria dell’Università degli Studi di Genova.
193
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