GIUDIZI DI OTTEMPERANZA EX LEGGE PINTO: QUESTIONI VECCHIE E NUOVE, COMPRESA QUELLA DELLE SPESE E DEL COMMISSARIO AD ACTA. (Nota a sentenza 9 luglio 2014, n. 279, T.R.G.A. Trentino Alto Adige, sede di Trento) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La legge n. 89 del 2001, c.d. “legge Pinto”, come strumento attuativo delle decisioni della Corte EDU. - 3. Le novità apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012. - 4. Il giudizio d’ottemperanza ex art. 112 c.p.a. e le domande connesse. - 4.1. Segue: la condanna alle spese, agli interessi e alla rivalutazione . - 5. La condanna all’«astreinte». - 6. La procedura del pagamento in conto sospeso e l’inescusabilità dell’inadempimento. – 6.1 Conto sospeso e responsabilità del dirigente. - 6.2 La situazione reale che emerge dalle statistiche giudiziarie. - 7. Il tema delle spese del giudizio di ottemperanza. - 8. La soluzione creativa del T.R.G.A. Trento. - 9. Conclusioni. 1. Premessa. Con sentenza 9 luglio 2014, n. 279, il T.R.G.A. di Trento, in sede di giudizio di ottemperanza, ha condannato il Ministero della Giustizia al pagamento di una somma di denaro per l’esecuzione di un decreto della Corte d’Appello ex legge Pinto, nominando come commissario ad acta, per il caso di mancata esecuzione, il Ragioniere Generale dello Stato, senza tuttavia concedere la facoltà di subdelegare gli atti esecutivi ad altro funzionario, come invece solitamente usano fare i giudici dell’ottemperanza. Tale decisione non è isolata, ma frutto di una risalente (all’insediamento del Presidente Pozzi nel 2010) «strategia processuale» complessiva dei giudici del T.R.G.A. Trentino, i quali, mossi dallo «spirito di leale collaborazione istituzionale tra Organi dello Stato», si pongono da tempo – come meglio si vedrà SUB § 8 e 9 - l’obiettivo di «sensibilizzare i vertici dello Stato-Apparato» (tramite l’investitura, in via esclusiva, della figura di apice dell’Amministrazione finanziaria), sui «gravissimi problemi di ordine patrimoniale, funzionale e di immagine connessi alla lentezza dei processi e alla inesecuzione dei decreti delle Corti d’Appello»; tutto ciò al dichiarato fine di «migliorare il servizio giustizia». 2. La legge n. 89 del 2001, c.d. “legge Pinto”, come strumento attuativo delle decisioni della Corte EDU. Per meglio comprendere la predetta strategia processuale vale ricordare, brevemente, che la c.d. legge Pinto, n. 89 del 2001, , ha introdotto nel nostro ordinamento lo strumento per ottenere un’equa riparazione a favore di chi sia stato parte di procedimenti giudiziari che abbiano superato il «termine ragionevole di durata del processo»: diritto garantito dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali e dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione. La legge ha così disciplinato un meccanismo in base al quale il 1 superamento del termine di ragionevole durata del processo rivela un «inadempimento dello Stato nei confronti del cittadino»1, dal quale emerge non tanto un diritto al risarcimento del danno ingiusto, quanto, piuttosto, il potere di agire in giudizio per vedersi riconosciuto un indennizzo a parziale compensazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla durata del processo. L’adozione di tale strumento normativo è stato imposto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ha obbligato lo Stato italiano ad adottare un sistema interno idoneo a fornire ai privati misure riparatorie necessarie per il caso dei ritardi irragionevoli nella definizione dei giudizi2. È noto come il percorso storico della vincolatività delle pronunce della Corte EDU3 sia stato caratterizzato da un sempre più importante e penetrante riconoscimento anche da parte delle Corti interne, culminato negli ultimi anni - dopo la modifica del titolo V della Costituzione4 - in un riconoscimento diffuso delle decisioni dei giudici europei, la cui opera interpretativa e applicativa dei precetti della Convenzione ha avuto ed ha un ruolo fondamentale nel caratterizzare precisamente le norme della stessa Convenzione espressamente qualificate dalla Corte come «norme interposte di valore sub-costituzionale»5. L’art. 117, comma 1, Cost., nella formulazione successiva alla riforma costituzionale del 2001, condiziona infatti l’esercizio della potestà legislativa, tanto dello Stato quanto delle Regioni, al rispetto degli obblighi internazionali, facendo si che si debbano considerare “interposti” nei giudizi di costituzionalità delle leggi tutti i trattati internazionali, tra cui la CEDU. L’art. 46 della Convenzione prevede, inoltre, che le parti abbiano l’onere di conformarsi «alle sentenze definitive della Corte». 1 CONSOLO C., NEGRI M., Ipoteche di costituzionalità sulle ultime modifiche alla legge Pinto: varie aporie dell’indennizzo municipale per durata irragionevole del processo (all’epoca della – supposta – spending review), in Corriere giuridico, vol. 11, 2013, p. 1420. 2 PELLEGRINELLI P., Giusto processo (civile), in Digesto civ., UTET, Torino, tomo I, 2007, p. 644 3 Per un approfondimento si veda: TEGA D., L’ordinamento costituzionale italiano e il “sistema” CEDU: accordi e disaccordi, in MANES V., ZAGREBELSKY V. (a cura di), La convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 201 e 202; SIMEOLI D., La tutela dei diritti e delle libertà nella cedu, Giuffrè, Milano, 2008, p. 16 e s.; ancora VILLANI U., Sull’efficacia della convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano dopo il trattato di Lisbona, in L. PANNELLA, E. SPATAFORA (a cura di), Studi in onore di Claudio Zanghì, Vol. II, Diritti umani, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 661 e ss.; CONTI R., La convenzione europea dei diritti dell’uomo, Aracne, Roma, 2011, p. 96; PARODI G., “Le sentenze della corte edu come fonte di diritto”. La giurisprudenza costituzionale successiva alle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in Diritto pubblico comparato ed europeo, vol. IV, 2012; DE SIERVO U., Recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte costituzionale in relazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, intervento in incontro di studio «Problemi per le Corti nazionali a seguito degli ulteriori sviluppi dell'Unione Europea ed in relazione alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo», atti di convegno, Karlsruhe, 19 - 21 novembre 2009, in cortecostituzionale.it. 4 Per un approfondimento si veda: BUTTURINI D., I differenti livelli di garanzia (tra Costituzione e CEDU) dei diritti fondamentali, in PEDRAZZA GORLERO M. (a cura di), Corti Costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2010. 5 GRECO G., Argomenti di diritto amministrativo, Giuffrè, 2008, p. 271. 2 La Corte Costituzionale, con le famose sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, è intervenuta su questo punto, affermando che la Convenzione costituisce fonte di rango «subcostituzionale», subordinata quindi alla Costituzione, ma allo stesso tempo sovraordinata alla legge; ha poi puntualizzato che le stesse norme si devono leggere alla luce dell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, in quanto la Convenzione stessa vive di tale interpretazione. La Corte EDU, infatti, applica la Convenzione attraverso una «interpretazione dinamica ed evolutiva», con il risultato che quest’opera di interpretazione si esplicita in un arricchimento del contenuto della Convenzione stessa e degli obblighi assunti dagli Stati. Quindi, per effetto della vincolatività delle pronunce della Corte EDU il legislatore italiano si è visto costretto a dare esecuzione alle molteplici pronunce che impegnavano lo Stato a porre in essere strumenti per risarcire coloro che avessero affrontato processi con una durata protrattasi oltre il termine ragionevole, individuando inoltre un sistema che prevedesse la possibilità di richiedere la tutela del diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione, all’art 6, § 1, direttamente innanzi alle Corti nazionali senza la necessità di adire la Corte di Strasburgo6. Il legislatore nazionale è, così, dovuto intervenire con la legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. «legge Pinto». 3. Le novità apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012. La disciplina della legge Pinto – forse anche per effetto dei martellanti messaggi di attenzione rivolti dal TRGA di Trento alle massime cariche dello Stato cui ha ripetutamente inviato le proprie sentenze di ottemperanza - è stata recentemente oggetto di una significativa (seppur non radicale) revisione in base alla quale7: a) la domanda di equa riparazione deve essere proposta, ai sensi dell’art. 3, comma 1, mediante ricorso al Presidente della Corte d’Appello, individuata ai sensi del combinato disposto dell’art. 11 c.p.p. e della “tabella A” allegata alle norme di attuazione al c.p.p., di cui al d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271; b) il ricorso va promosso contro il Ministero della Giustizia quando il processo a quo si è svolto davanti al giudice ordinario; contro il Ministero della Difesa nel caso di giudizio svolto innanzi al giudice militare; contro il Ministero dell’Economia negli altri casi (giudice tributario, T.A.R., ecc.); c) la notifica del ricorso deve essere effettuata presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede il giudice dell’ottemperanza, nella persona del Ministro competente, come individuato nel decreto della Corte di Appello (art. 11, R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, così come modificato dall'art. 1, L. 25 marzo 1958, n. 260)8. 6 Cfr. Corte EDU, 25.6.1987 Capuano c. Italia; 26.11.1992 Francesco Lombardo c. Italia; 2.9.1997, Nicodemo c. Italia; 5.10.2000, Mennito c. Italia. 7 Art. 55, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. 8 C.d.S., sez. IV, 14.4.2014, n. 1804. 3 Si è detto che si tratta di novella non radicalmente innovativa: le modifiche più interessanti, infatti, hanno solo recepito in buona parte le indicazioni giurisprudenziali, tanto della Corte di Cassazione quanto della Corte di Strasburgo9. In particolare, si è introdotta la definizione di ragionevolezza, stabilendo al novellato art. 2, comma 2-bis, che sia “ragionevole” la durata del processo che si concluda entro un triennio per il primo grado di giudizio, entro un biennio per l’eventuale grado di appello ed in un anno per il giudizio di legittimità. Inoltre, al successivo comma 2-ter si è introdotta una norma di chiusura la quale dispone che si deve considerare comunque rispettato il termine ragionevole quando il giudizio si concluda nel termine di sei anni. Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità tale disposto va interpretato alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte EDU ed in continuità con le norme precedenti, nel senso che la norma, «lungi dall’allungare a sei anni il periodo di definizione di un processo che si sia esaurito in un unico grado di giudizio», si limita ad escludere la configurabilità del superamento del termine di durata ragionevole quando la durata dell’intero giudizio, nei suoi tre gradi, sia contenuta nel parametro complessivo di sei anni «trascurandone il superamento in un grado quando esso sia compensato da un iter più celere rispetto allo standard nel grado precedente o successivo»10. Perciò, laddove il processo si sia definito in un unico grado resta salvo il limite triennale di ragionevolezza del termine, così come previsto dal novellato art. 2, comma 2bis. Il d.l. n. 83/2012 ha inoltre stabilito la misura dell’indennizzo, compreso tra i 500 ed i 1.500 euro per ogni anno o frazione di anno superiore al semestre di ritardo, il quale dovrà essere liquidato ai sensi dell’art. 2056 cod. civ., tenendo conto dell’esito del giudizio, del comportamento processuale delle parti, del valore della causa e della natura degli interessi coinvolti11. La novella ha anche provveduto alla modifica dell’art. 4, escludendo ora la possibilità (prima riconosciuta) di richiedere il risarcimento per giudizi non ancora conclusi. Su tale modifica legislativa è recentemente intervenuta la Corte Costituzionale, adita da un giudice remittente secondo cui il divieto di proponibilità della domanda di equa riparazione prima dell’esito definitivo del giudizio avrebbe costituito un’ingiustificata discriminazione di colui che stia tutt’ora subendo la durata eccessiva di un processo non concluso12. La Corte, con la sentenza n. 30 del 2014, ha tuttavia dichiarato l’inammissibilità della questione in quanto, da una lettura combinata dei disposti normativi, si evince che non si possa prescindere dalla conclusione della controversia per la richiesta di risarcimento. Ciò in funzione di molteplici indicatori: in primo luogo la legge medesima, all’art. 2, comma 2-bis, prevede che si consideri comunque rispettato il termine ragionevole qualora il processo si concluda entro un termine di 6 anni; questo fa si che la conclusione del procedimento sia un presupposto imprescindibile per la 9 Ex multis: Corte EDU, Grande Camera, 29 marzo 2006, Cocchiarello c. Italia. Così Corte Cass., sez. II, 6.11.2014, n. 23745. 11 OCCHIPINTI E., Il danno da irragionevole durata del processo, in Danno e Resp., vol. 12, 2013, p. 1214. 12 Corte d’Appello, Bari, sez. I, ordinanza 18.3.2013; VANZ C., Equo indennizzo per irragionevole durata del processo: un faticoso dialogo tra Corti, in Giur. It., n. 7, 2014, p. 1631. 10 4 valutazione dell’entità del danno. Ancora, l’art. 2, comma 2-quinquies, prevede che non sia riconoscibile alcun indennizzo qualora: il soccombente sia stato condannato ex art. 96 c.p.c., per “lite temeraria”; nel caso in cui la domanda sia stata accolta nella misura non superiore alla proposta conciliativa; ancora, nel caso in cui il provvedimento definitorio corrisponda interamente al contenuto della proposta di mediazione. Inoltre, l’art. 2-bis, comma 2, lett. a), prevede che nella liquidazione dell’indennizzo il giudice debba tenere in considerazione l’esito del processo e, in ogni caso, che l’entità dell’indennizzo non possa mai essere superiore al valore della causa o al diritto accertato dal giudice. In definitiva, l’insieme di queste nuove disposizioni fa sì che si debba considerare imprescindibile la previa conclusione del processo per la proposizione della domanda indennitaria13. Ancora è da ricordare, sul piano della novella normativa, che il Presidente della Corte d’Appello, od un magistrato delegato, provvede sulla domanda entro trenta giorni dal deposito del ricorso. Il decreto di condanna può essere opposto entro trenta giorni dalla sua comunicazione mediante ricorso alla medesima Corte d’Appello, la quale si pronuncia collegialmente in camera di consiglio entro quattro mesi. La decisione può essere comunque impugnata in Cassazione per motivi di legittimità. Il nuovo art. 5-quater ha inserito una norma volta a scoraggiare domande pretestuose, prevedendo la possibilità per il giudice di condannare la parte ricorrente al pagamento di una somma da euro 1.000 a euro 10.000, ove la domanda sia inammissibile o manifestamente infondata. Una volta ottenuto il decreto di condanna della Corte d’Appello, questo, unitamente al ricorso, deve essere notificato, entro trenta giorni, presso la sede dell’Amministrazione nei confronti della quale è stato instaurato il giudizio. Tale adempimento è previsto dall’art. 5, comma 1, quale presupposto per adire il giudice dell’ottemperanza, necessario ai sensi dell’art. 14, d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito con legge 28 febbraio 1997, n. 30. La notifica del decreto potrà, e non dovrà, essere effettuata anche presso l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'Autorità giudiziaria che lo ha emanato 14. In questo caso, la notifica rileva ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione15. È da aggiungere che il novellato comma 7 dell’art. 3 della l. Pinto ha introdotto una barriera al funzionamento del meccanismo indennitario, prevedendo che «l’erogazione degli indennizzi agli 13 Corte Cost., 25.2.2014, n. 30. Art. 11, periodo secondo, R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611. 15 Infatti la notifica del decreto presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato è utile ai fini del passaggio in giudicato, ai sensi dell’art. 11, primo comma, del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 (che si riferisce – come detto – agli atti processuali e, per la decorrenza del termine breve di impugnazione, ai provvedimenti che definiscono il giudizio), mentre il titolo esecutivo ai fini dell’adempimento, quale atto stragiudiziale necessario ai sensi dell’art. 14 del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito con legge 28 febbraio 1997, n. 30, non rientra nell’ambito degli atti soggetti alla disciplina del citato art. 11 e deve pertanto essere notificato all’Amministrazione nella sua sede reale. Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, 21.3.2013, n. 629. 14 5 aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili». Tale tranciante disposizione normativa potrebbe trasformare in lettera morta la tutela indennitaria in oggetto, semplicemente destinando fondi insufficienti a copertura dei risarcimenti16. Tuttavia la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, a partire dalla ormai famosa sentenza Cocchiarella c. Italia, ha più volte sancito il principio secondo il quale la mancanza di risorse finanziarie non può costituire un pretesto per non onorare un debito riconosciuto giudizialmente17. Il Consiglio di Stato nell’ottobre 2013 non ha potuto che ribadire il principio sancito dalla Corte EDU, così pronunciandosi, attraverso una interpretazione “convenzionalmente orientata”, per la disapplicazione dell’art. 3, comma 7, così come modificato dalla riforma del 2012, osservando che: «deve essere interpretato restrittivamente, e in definitiva disapplicato, l'art. 3 comma 7 della L. n. 89 del 2001 […], che pone il vincolo delle risorse disponibili: l'amministrazione è in realtà obbligata a operare le necessarie variazioni di bilancio per reperire fondi sufficienti al pagamento degli indennizzi»18. 4. Il giudizio d’ottemperanza ex art. 112 c.p.a. e le domande connesse. Attualmente, la gran parte del debito scaturente dai decreti delle Corti d’Appello con i quali si stabilisce la misura del risarcimento ex l. Pinto non viene tempestivamente liquidato dalle Amministrazioni condannate, nemmeno entro il termine dilatorio di 120 giorni concesso dall’art. 14, comma 1, d.l. 31 dicembre 1996, n. 669. Pertanto, i soggetti interessati si vedono costretti (fors’anche sollecitati da studi professionali fungenti da centri di raccolta dati) ad adire il giudice amministrativo chiedendo l’ottemperanza al decreto di Corte d’Appello al fine di vedersi riconosciuto in pieno il diritto all’indennizzo, il quale rimarrebbe “virtuale” se si permettesse che una decisione irrevocabile ed esecutiva rimanesse inoperante. Tanto è vero che la Corte Europea, con l’informalità che le è propria, si è espressa affermando che anche l’esecuzione delle sentenze del giudice emesse ai sensi della legge Pinto debba essere considerata parte integrante del procedimento giudiziario di cui all’art. 6 della Convenzione. La Corte ritiene, infatti, che il giusto processo debba considerarsi concluso non con il mero 16 Il C.d.S., sez. IV, attraverso l’ordinanza 17.2.2014, n. 754, ha sollevato la questione di legittimità innanzi alla Corte Costituzionale con riferimento a questo comma per violazione dell’art. 117, comma 1 Cost., per tramite della norma interposta di cui all’art. 6, § 1, CEDU. Il Consiglio di Stato nell’ordinanza di remissione chiede alla Corte Costituzionale di fare chiarezza su un ulteriore punto controverso. Si chiede infatti, nel caso di accoglimento della questione, anche alla luce del valore «sub-costituzionale» assunto dalle norme CEDU, di pronunciarsi sulla compatibilità della norma con riferimento al novellato art. 81 Cost., che ha inserito il vincolo del pareggio di bilancio. 17 Corte EDU, 29.3.2006, Cocchiarella c. Italia, § 90; così anche Corte EDU, 21.12.2010, Gaglione c. Italia, § 35. 18 C.d.S., sez. IV, 28.10.2013, n. 5182. 6 riconoscimento giuridico del diritto, ma con la completa esecuzione del giudicato, a nulla rilevando il riconoscimento di interessi in caso di ritardo19. Pure la Corte di Cassazione, in ragione del rango «sub-costituzionale» della predetta Convenzione e della sua interpretazione a cura dei Giudici della stessa convenzione, in una recente pronuncia a Sezioni Unite ha fatto proprio il disposto delle pronunce della Corte di Strasburgo, sancendo che la tutela giurisdizionale non si limita al diritto di accesso al giudice, «ma comprend[e] qualsiasi attività processuale prevista dall'ordinamento, anche successiva alla proposizione della domanda, volta a rendere effettiva e concreta, appunto, la tutela giurisdizionale dei diritti…» 20. Il giudice di legittimità ritiene, condivisibilmente, che il procedimento giurisdizionale «ha inizio con l'accesso al giudice e fine con l'esecuzione della decisione». Secondo la stessa Corte di Strasburgo, inoltre, il pagamento dell’indennizzo, previsto per rimediare alle conseguenze dei procedimenti eccessivamente lunghi, «non dovrebbe generalmente superare i sei mesi» dalla data in cui la decisione diviene esecutiva21. Per ottenere, quindi, una reale tutela del bene protetto attraverso l’adempimento dell’obbligo dell’Amministrazione di conformarsi al giudicato, in termini concreti per ottenere il pagamento, occorre affidarsi al giudice amministrativo attraverso il giudizio di ottemperanza previsto dagli artt. 112 e ss. cod. proc. amm. Il T.A.R. è legittimato, attraverso tale mezzo, a condannare l’Amministrazione inadempiente a conformarsi al giudicato e, ove la parte lo richieda, a nominare un commissario ad acta, il quale si sostituirà all’Amministrazione nell’esecuzione della pronuncia della Corte di Appello22. 19 Corte EDU, 29 marzo 2006, Cocchiarella c. Italia: «87. [...] la Corte rammenta la propria giurisprudenza secondo la quale il diritto di accesso a un tribunale, garantito dall'articolo 6, p.1, della Convenzione, sarebbe illusorio se l'ordinamento giuridico interno di uno Stato Contraente consentisse a una decisione giudiziaria irrevocabile e vincolante di rimanere inoperante a detrimento di una parte. L'esecuzione della sentenza resa dal giudice deve pertanto essere considerata come parte integrante del processo ai fini dell'articolo 6» Così anche: Corte EDU, 19.03.1997, Hornsby c. Grecia; Corte EDU, 27.05.2004, Metaras c. Grecia. 20 Cass. S.U., 19 marzo 2014, n. 6312: «Il rispetto di tale principio esige che la "tutela giurisdizionale" non si esaurisca nel diritto di accesso al giudice, a tutti garantito, ma comprenda qualsiasi attività processuale prevista dall'ordinamento, anche successiva alla proposizione della domanda, volta a rendere effettiva e concreta, appunto, la tutela giurisdizionale dei diritti e, più in generale, delle situazioni giuridiche soggettive sostanziali, individuali o collettive, di vantaggio, ed esige perciò che tali situazioni giuridiche soggettive, fatte valere e definitivamente riconosciute in sede giurisdizionale, siano "realizzate" in favore del suo titolare, secondo adeguati strumenti predisposti dall'ordinamento, con l'ottenimento del "bene della vita" che ne costituisce l'oggetto, ovviamente fin dove giuridicamente possibile…(…) secondo una ricostruzione costituzionalmente e "convenzionalmente" orientata, rispettosa cioè sia delle citate norme costituzionali sia dell'art. 6, prf. 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo - per processo "giusto" (art. 111, primo comma, Cost.) ed "equo" (rubrica dell'art. 6 della CEDU) deve anche intendersi il procedimento giurisdizionale considerato come procedimento unico che, cioè, ha inizio con l'accesso al giudice e fine con l'esecuzione della decisione, definitiva ed obbligatoria, dallo stesso pronunciata in favore del soggetto riconosciuto titolare della situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio fatta valere nel processo medesimo.». 21 Corte EDU, 29.3.2006, Cocchiarella c. Italia, § 89; nello stesso senso anche Corte EDU, 21.12.2010, Gaglione c. Italia, § 34. 22 Art. 114, comma 4, lett. d), d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104. 7 Come detto, il giudizio di ottemperanza si propone con ricorso avverso il Ministero condannato nel decreto ottemperando23, notificato presso la sede dell’Avvocatura dello Stato competente territorialmente, e successivamente depositato entro trenta giorni presso il Tribunale Amministrativo Regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento di cui si chiede l’ottemperanza (art. 113, comma 2, c.p.a.). Unitamente al ricorso deve essere depositata la copia autentica del decreto della Corte d’Appello e la prova del suo passaggio in giudicato (art. 114, comma 2, c.p.a.). 4.1. Segue: la condanna alle spese, agli interessi e alla rivalutazione. Ove il suddetto decreto abbia provveduto a liquidare spese nei confronti del difensore dichiaratosi antistatario, anch’egli dovrà figurare come ricorrente in proprio, pena la inammissibilità della domanda della parte anche al pagamento di suddette spese. A tale riguardo, alcuni Tribunali hanno rilevato un difetto di legittimazione attiva in capo alla parte che chiedeva spese in realtà liquidate al suo difensore, specificando che il meccanismo della distrazione previsto dall’art. 93 cod. proc. civ. fa sorgere un diritto di credito direttamente in capo al difensore 24. Ne consegue che il distrattario diventa «titolare di un rapporto autonomo e diretto» con la parte soccombente25. Per quanto riguarda le spese di precetto, la giurisprudenza di merito è consolidata nel ritenere che le stesse riguardino solo il procedimento di esecuzione forzata disciplinato dagli artt. 474 e ss. c.p.c., procedimento liberamente scelto dal creditore, quindi non siano strettamente funzionali all’introduzione del giudizio di ottemperanza e, pertanto, non possano essere riconosciute dal giudice amministrativo26. Il ricorrente può richiedere, invece, la liquidazione degli interessi legali maturati sull’importo liquidato con il decreto della Corte d’Appello. È utile precisare che, trattandosi di un debito di valuta, tali interessi sono dovuti a titolo corrispettivo, con dies a quo dal momento in cui il credito diventa liquido, certo ed esigibile27; quindi fin dalla data del passaggio in giudicato del 23 Come ha avuto modo di chiarire recentemente il Consiglio di Stato, sez. IV, 14.4.2014, n. 1804, il fatto che l’art. 1, comma 1225, della l. 27 dicembre 2006, n. 296, abbia previsto che, «al fine di razionalizzare le procedure di spesa ed evitare maggiori oneri finanziari conseguenti alla violazione di obblighi internazionali, al pagamento degli indennizzi procede, comunque, il Ministero dell'economia e delle finanze», unitamente al fatto che la l. 28 febbraio 2012, n. 55, abbia previsto, all’art. 55, comma 2-bis, che: «L'articolo 1, comma 1225, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si interpreta nel senso che il Ministero dell'economia e delle finanze procede comunque ai pagamenti degli indennizzi in caso di pronunce emesse nei suoi confronti e nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri», non muta le regole di legittimazione passiva relative al giudizio di ottemperanza, nel quale «la parte pubblica deve ritenersi soggettivamente intesa, secondo l'ordinaria disciplina di rappresentanza in giudizio delle Amministrazioni statali, come parte necessariamente presente nel giudizio di cognizione a quo», pena la lesione del contraddittorio. 24 T.R.G.A. Trento, 8.9.2014, n. 347; Corte Cass., sez. III, 1.10.2009, n. 21070; sez. III, 12.11.2008, n. 27041; sez. III, 21.5.2007, n. 11804 25 BONGIORNO V., Spese giudiziali, in EGT, XXX, Roma, 1993, p. 6. 26 T.R.G.A. Trento, 29.9.2014, n. 332; 12.2.2014, n. 47; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 06.6.2014, n. 874; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 04.4.2014, n. 3735; T.A.R. Basilicata, Potenza, Sez. I, 11.5.2011, n. 295. 27 CARLEO M., Note in tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie e decorrenza degli interessi moratori, in Rivista di Diritto Civile, 1997, p. 654. 8 decreto. Come la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha più volte avuto modo di precisare, laddove vi sia stata formale messa in mora da parte del creditore ex art. 1219 cod. civ., gli interessi corrispettivi tramutano la loro qualifica giuridica in interessi moratori28. Altre considerazioni devono essere fatte, invece, per la domanda di rivalutazione monetaria degli importi liquidati dal giudice nel decreto di condanna. Trattandosi di un debito di valuta, la rivalutazione può rilevare, ai sensi del comma 2 dell’art. 1224, cod. civ., solo sotto l’eventuale profilo del “maggior danno”, quindi nella sola eventualità che la somma rivalutata ecceda la somma comprensiva di interessi legali, senza possibilità di cumulo29: la liquidazione infatti, può tradursi esclusivamente nel «differenziale» tra la prima e la seconda misura, poiché la rivalutazione è volta al ristoro del danno in eccesso rispetto a quello già coperto dall’interesse legale30. La giurisprudenza della Cassazione è, inoltre, intervenuta sul tutt’altro che secondario tema della prova del c.d. “maggior danno”, statuendo che la parte che lo richiede debba darne specifica prova attraverso idonea produzione documentale31. 5. La condanna all’«astreinte». La pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 25 giugno 2014, n. 15, sembra aver risolto il contrasto giurisprudenziale circa l’ammissibilità della condanna alla penalità di mora (c.d. «astreinte»), ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., anche per le sentenze di condanna aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria32. L’Ad. Plen., infatti, si è pronunciata anche per tali ipotesi a favore della compatibilità della misura dell’astreinte senza tuttavia nulla dire con specifico riferimento alle condanne ex l. Pinto: ciò nonostante l’ordinanza di remissione avesse in tal proposito formulato un distinto quesito33. 28 Corte Cass., 22.12.2011, n. 28204; 5.11.2004, n. 21195; 16.7.2003, n. 11151; 9.2.1993, n. 1561. Non mancano isolate voci della giurisprudenza di merito contrarie a tale orientamento. Ex multis T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 04.9.2014, n. 1409. 30 Corte Cass., Sezioni Unite, 1.12.1989, n. 5299; sez. I, 23.9.2011, n. 19437; sez. II, 3.6.2009, n. 12828; 1.7.1997, n. 5845; 28.3.1997, n. 2780. 31 Corte Cass., Sezioni Unite, 16.7.2008, n. 19499. Nello stesso senso: T.R.G.A. Trento, 29.9.2014, n. 332; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 26.3.2013, n. 1079; Corte Cass., sez. III, 28.3.2012, n. 4959. 32 A favore dell’ammissibilità della misura dell’astreinte: ex multis C.d.S., sez. IV, 29.4.2014, n. 462, sez. V, 15.7.2013, n. 3781; sez. V, 19.6.2013, nn. 3339, 3340, 3341 e 3342; sez. III, 30.5.2013, n. 2933; C.G.A.R.S., 30.4.2013, n. 424; C.d.S., sez. IV, 31.5.2012, n. 3272; sez. V, 14.5.2012, n. 2744; sez. V, 20.12.2011 n. 6688; sez. IV, 21.8.2013, n. 4216; C.G.A.R.S., 22.1.2013, n. 26; C.d.S., sez. VI, 6.8.2012, n. 4523, sez. VI, 4.9.2012, n. 4685; T.A.R. Basilicata, sez. I, 22.4.2014, n. 277; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 2.11.2012, n. 9003; contra: C.d.S., sez. IV, 13.6.2013 n. 3293; sez. III, 06.12.2013, n. 5819; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 23.7.2014, n. 8091; sez. III, 21.7.2014, n. 7786; sez. II, 4.11.2013, n. 9362; sez. II 23.12.2013, n. 11118; T.R.G.A. Trento, 12.3.2014, n. 79, e 17.3.2014, n. 101. 33 Con l’ordinanza di rimessione (18.4.2014, n. 14) la Sezione IV del Consiglio di Stato aveva chiesto all’Adunanza Plenaria di dirimere il contrasto giurisprudenziale registrato in merito alle questioni relative alla: «a) alla natura ed all'ammissibilità in generale dell'astreinte di cui all'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. nel caso in cui l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro; b) alla sua applicabilità, in particolare, all'equa riparazione di cui alla c.d. legge Pinto, per l'indebita "automaticità" della condanna dell'Amministrazione fatta in assenza della previa verifica dei presupposti indicati dal c.p.a.». 29 9 In detta pronuncia si precisa, dunque, che la penalità di mora assolve ad una funzione «coercitivosanzionatoria» e non riparatoria, integrando una pena e non un risarcimento in senso tecnico. Non sussiste, perciò, alcun pericolo di locupletazione, vista la sostanziale diversità di natura tra la misura risarcitoria dell’indennizzo e quella sanzionatoria della astreinte. In ogni caso, in base al dettato normativo (che menziona espressamente la «istanza di parte»), per infliggere la predetta sanzione occorre una domanda espressa dell’interessato formulata nel ricorso introduttivo, ovvero in un atto successivo dello stesso giudizio. Tale richiesta assume l’ulteriore funzione di evidenziare all’Amministrazione la persistenza del proprio inadempimento, il quale «costituisce l’elemento soggettivo, almeno colposo, richiesto per l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria» ex art. 3, l. 24 novembre 1981, n. 68934. In base al predetto criterio, l’astreinte va riconosciuta a far tempo dalla notificazione del ricorso per ottemperanza: ciò comporta il superamento di ogni possibile questione sulla rilevanza delle condotte della parte creditrice, la quale - tenuto conto che il giudizio di ottemperanza è soggetto al termine prescrizionale decennale di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a. - potrebbe anche indugiare nell’attivare il rimedio processuale innanzi al T.A.R. per lucrare una penalità di mora decorrente, in quel caso, da una remota data ben antecedente la proposizione del ricorso giurisdizionale, “in tal modo slealmente ed iniquamente aggravando la posizione del debitore”35. Per quanto riguarda invece il dies ad quem, la giurisprudenza ritiene che esso coincida con il momento in cui l’Amministrazione intimata perde il potere di attivarsi, ovvero quando tale potere passa, di fatto, nelle mani del commissario ad acta. L’Amministrazione, infatti, è legittimata ad adempiere anche in un momento successivo alla scadenza del termine fissato dal giudice nella sentenza di ottemperanza, non perdendo tale potere con la richiesta dell’interessato di intervento volta al commissario ad acta. Il potere di adempimento decade, invece, nel momento stesso in cui il commissario dà concreto avvio al «procedimento per l’individuazione delle risorse necessarie al pagamento», momento che segna il limite ultimo entro il quale l’Amministrazione può legittimamente adempiere. Ne consegue la nullità degli atti compiuti dall’Amministrazione in un momento successivo36. Quanto alla quantificazione della penalità, le prime pronunce dei giudici di merito sembrano essersi attestate, condivisibilmente, su un parametro percentuale rispetto agli importi liquidati dal decreto di Corte d’Appello, con riferimento però al solo capitale e spese (escludendo quindi interessi, I.V.A. e C.N.P.A.)37. Detta percentuale viene calcolata utilizzando il parametro 34 T.R.G.A. Trento, 29.9.2014, n. 331; nello stesso senso anche: T.R.G.A. Trento, 29 .9.2014, n. 332; 29.9.2014, n. 329; 9.10.2014, n. 349. 35 Nello stesso senso si veda: T.R.G.A. Trento, 24.06.2014, n. 249; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 22.7.2013, n. 7473; 22.7.2013, n. 7459; 22.07.2013, n. 7468; 11.07.2013, n. 6886. 36 T.R.G.A. Trento, 29 settembre 2014, n. 332; nello stesso senso: C.d.S., sez. V, 16.4.2014, n. 1975; 27.3.2013, n. 1678; sez. IV, 10.5.2011, n. 2764; sez. V, 21.5.2010, n. 3214. 37 Una minoranza delle pronunce di merito sulla questione quantifica la penalità di mora in una misura fissa per giorno di ritardo. Per esempio T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 1.9.2014, n. 2281, che quantifica l’entità della penale in € 10 individuato dalla Corte di Strasburgo, consistente nel tasso d’interesse per le operazioni di rifinanziamento marginale della Banca Centrale Europea (attualmente pari allo 0,30%), maggiorato di tre punti percentuali, nella misura vigente al momento della notifica della domanda di astreinte38. Tale misura rimane invariata fino all’integrale versamento della somma dovuta39. Nonostante la citata pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 15/2014, parte della giurisprudenza di merito, anche recentissima, continua – non irragionevolmente - a rimanere di parere contrario alla concessione dell’astreinte specificatamente per i giudizi ex l. Pinto. I tribunali amministrativi che sostengono l’inammissibilità della misura sanzionatoria in esame fanno leva sul dettato letterale della norma di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), il quale esclude l’applicabilità della penalità quando essa risulti manifestamente iniqua, ovvero sussistano ragioni ostative40. In tal senso, è stato ritenuto che l’attuale situazione di crisi della finanza pubblica e l’esigenza del contenimento della spesa costituiscano elementi tali da far ritenere che l’astreinte, laddove concessa, risulterebbe manifestamente iniqua. Secondo questi giudici, tale interpretazione troverebbe forza anche in un passaggio della stessa pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 15/2014, ove si afferma che la particolare situazione del debitore pubblico deve essere oggetto di considerazione in sede di verifica non astratta, ma concreta, della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura de qua41. Pronunce isolate di altri Tribunali hanno sostenuto, invece, l’inammissibilità della penalità di mora ritenendo che la sua concessione, oltre all’interesse legale, configurerebbe per il ricorrente un’eccessiva locupletazione42. 6. La procedura del pagamento in conto sospeso e l’inescusabilità dell’inadempimento. Per assicurare tutela piena ed effettiva al diritto all’indennizzo riconosciuto dalla Corte d’Appello va esclusa ogni rilevanza all’eventuale mancanza di fondi sull’apposito capitolo di spesa. 30,00 per giorno di ritardo; ancora T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, 8.8.2014, n. 1263 che quantifica l’entità della penale in € 200,00 per mese di ritardo. 38 Da ultimo: Corte EDU, 22 luglio 2014, Bifulco e altri c. Italia; Corte EDU, 15 aprile 2014, Stefanetti e altri c. Italia; Corte EDU, 26 novembre 2013, Maffei e De Nigris c. Italia; Corte EDU, 8 novembre 2012, Ambrosini e altri c. Italia. 39 T.R.G.A. Trento, 29.9.2014, n. 332; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 22.7.2013, n. 7474; 2.11.2012, n. 8998. 40 T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 2.10.2014, n. 5135; 2.10.2014, n. 5134; 18.9.2014, n. 4975; 9.9.2014, n. 4843; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 29.7.2014, n. 426; T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 24.7.2014, n. 643; T.A.R. Sicilia, Catania, 25.9.2014, n. 2487; T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 22.09.2014, n. 724; 22.09.2014, n. 670. 41 C.d.S., Ad. Pl., 25 giugno 2014, n. 15, § 6.5.1 «Si deve, infine, osservare che la considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari dell'esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive, costituiscono fattori da valutare non ai fini di un'astratta inammissibilità della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica concreta della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della misura nonché al momento dell'esercizio del potere discrezionale di graduazione dell'importo». 42 T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 24.7.2014, n. 643 «[…] ritiene il Tribunale che la domanda formulata dalla parte ricorrente, relativamente alla condanna al pagamento della penalità di mora, vada rigettata, risultando sufficienti ragioni ostative al suo accoglimento, anche per evitare locupletazioni eccessive della ricorrente e sanzioni troppo afflittive per l'Amministrazione». 11 Il già citato art. 14 del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, disciplina l’istituto dell’“ordine di pagamento in conto sospeso”. Attraverso tale procedura si permette alle Amministrazioni dello Stato debitrici di effettuare pagamenti di debiti scaturenti da provvedimenti giurisdizionali (o da lodi arbitrali), aventi efficacia esecutiva, anche qualora non sussista disponibilità di bilancio nello stesso capitolo di pertinenza dell’Amministrazione stessa. Questa procedura rappresenta, per i funzionari preposti al pagamento, un’ulteriore via per dare comunque ossequio al giudicato e dunque per pagare le somme stabilite nei decreti esecutivi ex l. Pinto anche in assenza temporanea di fondi. La procedura viene attuata attraverso un «ordine di pagamento da regolare in conto sospeso», attraverso il quale il Dirigente responsabile della spesa dispone il pagamento delle somme dovute emettendo uno speciale ordine di pagamento rivolto all'Istituto tesoriere (Banca d’Italia), da regolare in conto sospeso con successiva reintegrazione43. Si tratta, quindi, di un metodo che consente una «forma di anticipazione che la Banca d’Italia fornisce all’Amministrazione dello Stato»44 per dar seguito ai pagamenti urgenti senza necessità di individuare una copertura negli stanziamenti di competenza. Tale procedura deve però essere utilizzata come extrema ratio, da attuarsi solo nel caso in cui il procedimento ordinario di pagamento dei debiti non sia giunto a buon fine anche a causa di impedimenti materiali (qual è, per l’appunto, l’assenza di fondi in bilancio). Per procedere al pagamento l’Amministrazione debitrice – come già ricordato - ha comunque a disposizione il termine dilatorio di 120 giorni (art. 14 del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, cit.). Quando l’Amministrazione si renda conto di non riuscire ad adempiere attraverso il mezzo ordinario nel predetto termine di 120 giorni, allora dovrebbe immediatamente provvedere ad adottare la procedura del pagamento in conto sospeso, poiché anch’essa è, comunque, da intendersi quale strumento generale di pagamento. Essa, infatti, è applicabile - a prescindere da una specifica richiesta di parte - anche entro il termine ordinario di pagamento. 6.1 Conto sospeso e responsabilità del dirigente. Il ricorso alla menzionata procedura contabile deve considerarsi come atto dovuto del Dirigente responsabile. Ove egli non agisse in siffatta maniera, a suo carico potrebbero scaturire responsabilità, tanto penali ex. art. 328 c.p. per omissione di atti d’ufficio 45, quanto contabili46, in 43 Da emettersi con le modalità previste dal decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, 1 ottobre 2002, pubblicato in G.U., 23 novembre 2002, n. 275 pubblicato in G.U., Serie Generale n. 275 del 23.11.2002 e titolato: «Modalità di emissione, nonché caratteristiche dello speciale ordine di pagamento rivolto al tesoriere per il pagamento di somme dovute in applicazione di provvedimenti giurisdizionali e di lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva»; e secondo quanto previsto dalla Circolare del 4 dicembre 2002 n. 44 del Ministero dell’Economia e delle Finanze. 44 BUSCEMA A., Gestione contabile del conto sospesi collettivi, in www.corteconti.it. 45 Così anche LA ROCCA S., Il giudizio di ottemperanza alla luce della circolare n. 5/E del 2003 dell'Agenzia delle Entrate quale concreto strumento di esecuzione delle sentenze di condanna al rimborso dell'Amministrazione finanziaria 12 relazione ai maggiori oneri dovuti per interessi da ritardo, con relativo obbligo di segnalazione del fatto al Giudice contabile per l’accertamento dell’eventuale responsabilità amministrativa. Nello stesso senso si è espresso anche il Ministero della Giustizia il quale, con una nota (di risposta ad un quesito posto dal Ministero dell’Economia in materia di pagamenti in conto sospeso) del 16 maggio 2013, facendo proprio quanto affermato nella circolare n. 20, del 6 maggio 2004 del MEF, ha sottolineato che il mancato esperimento della procedura in conto sospeso nel termine dei 120 giorni «configura una omissione di atti dovuti e determina - oltre ad un ingiustificato aggravio del procedimento amministrativo - un danno all'Erario riferibile al dirigente responsabile, per i maggiori oneri dovuti per interessi e spese legali, da segnalare alla competente procura regionale della Corte dei Conti». Peraltro, è lo stesso Ministero della Giustizia, all’interno della sua «Relazione […] per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014», a “lamentarsi” per il mancato ricorso da parte delle Corti d’Appello allo speciale ordine di pagamento in conto sospeso, riconoscendo espressamente che «l’incapienza del capitolo di bilancio dedicato a tale legge non costituisce motivo per bloccare i pagamenti»47. In conclusione, si ritiene che l’ordine di pagamento in conto sospeso, nato come procedimento residuale ed eccezionale, alla luce della situazione attuale sui pagamenti ex l. Pinto dovrebbe oggi avere una maggiore diffusione presso le Corti d’Appello. 6.2 La situazione che emerge dalle statistiche giudiziarie. Dalle statistiche giudiziarie emerge che la situazione reale non rispecchia quella teorica e che si assiste ad una sorta di gioco delle parti fra le varie Amministrazioni coinvolte dal fenomeno abnorme della legge Pinto. Infatti, presso il solo T.R.G.A. di Trento, competente all’ottemperanza ai decreti della Corte d’Appello di Trento (la quale, a sua volta, è competente per i giudizi di (con accenni all'esecuzione forzata di cui agli artt. 474 e seguenti del codice di procedura civile e al pagamento "in conto sospeso"), in Fisco 2003, vol. 12. Nello stesso senso: BUSCEMA A. E SANTILLI D., in Diritto & Diritti, giugno 2002. 46 Riguardo alla responsabilità contabile, essa è ritenuta sussistente dallo stesso Ministero dell’Economia e delle finanze il quale, nella circolare 15 dicembre 2006, n. 2/2006/Strategie/UD; Disposizioni sul processo tributario (D. Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546), sostiene che: «il dirigente responsabile della spesa può effettuare il pagamento delle somme dovute, emettendo uno speciale ordine di pagamento rivolto all'istituto tesoriere, da regolare in conto sospeso con successiva reintegrazione. In tal modo, si ha una tempestiva esecuzione della sentenza anche in assenza di fondi; il ricorso a tale procedura è da considerarsi un atto dovuto anche al fine di evitare l'insorgere di una responsabilità per danno erariale a carico del dirigente preposto». 47 Si aggiunge nella stessa relazione: «Peraltro, il mancato ricorso allo speciale ordine di pagamento in conto sospeso, l’alto numero di condanne ed i limitati stanziamenti sul relativo capitolo di bilancio hanno comportato un forte accumulo di arretrato del debito Pinto ancora da pagare che ad ottobre 2013 ammontava ad oltre 387 mil. di euro. Dallo scorso anno, grazie anche ad un parere positivo della Ragioneria generale dello Stato sulla possibilità di ricorso allo speciale ordine di pagamento in conto sospeso anche per il debito Pinto, l’incapienza del capitolo di bilancio dedicato a tale legge non costituisce motivo per bloccare i pagamenti» (Relazione del Ministero della Giustizia, inaugurazione dell’anno giudiziario 2014). 13 eccessiva durata ex legge Pinto promossi nel limitrofo distretto della Corte d’Appello di Venezia) sono pervenuti, solo per l’anno 2013, 106 ricorsi per l’ottemperanza di decreti ex l. Pinto e, nell’anno 2014, già più di 250 alla data del 17 dicembre. Ciò evidenzia come la procedura del pagamento in conto sospeso non sia utilizzata correttamente dalla Corte d’Appello di Trento. Tale situazione, comunque, è analoga anche presso altre Corti d’Appello (delegate, sin dall’aprile 2005, al pagamento dei decreti ex l. Pinto), in base alla quale l’ordine di pagamento giudiziale esecutivo viene disatteso adducendo sia (invero anche comprensibili) carenze di personale sia, molto spesso, carenza di fondi sul capitolo di spesa previsto per gli indennizzi ex l. Pinto (prima cap. 282948, ed ora cap. 126449 dello stato di previsione del Ministero della Giustizia); a tale riguardo rileva che il testo dell’art. 3, comma 7, l. n. 89/2001, così come modificato dal d.l. n. 83/2012, stabilisce che «l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili». Le risorse destinate a tale capitolo di spesa, seppur siano state aumentate nell’anno 2013 raggiungendo quota 50 milioni di euro, e 55 milioni nell’anno 201450, risultano ancora di gran lunga insufficienti rispetto all’entità del debito che, per il solo anno 2013, ammontava a 340 milioni di euro51. Tali risorse totali vengono distribuite tra le diverse Corti d’Appello con cadenze irregolari. Alla Corte d’Appello di Trento, per esempio, sono stati assegnati 4,5 milioni di euro per il 2013 e 4,47 milioni per l’anno 2014. Questa cifra è non idonea a fronteggiare l’arretrato che, per la sola sede trentina, ammonta a 22 milioni di euro. Conseguentemente, le Corti d’Appello liquidano l’arretrato in ordine cronologico. Alla data odierna, presso la sede trentina, si è arrivati a pagare i decreti risalenti all’anno 2009 oltre a quelli oggetto di ricorsi per l’ottemperanza, così introducendo un criterio forzoso per evitare, almeno, il pagamento delle eventuali spese di lite oltre al compenso per il commissario ad acta. In realtà, anche se al momento della decisione del ricorso per ottemperanza la domanda della parte risulta soddisfatta perché nelle more del giudizio è intervenuto l’integrale pagamento, le spese di lite vengono egualmente liquidate dai Tribunali Amministrativi attualmente, seppure in misura minima (anzi per il T.R.G.A. Trento quasi simbolica: 300 euro attualmente), in base al principio della soccombenza virtuale. Il pagamento ritardato, ma comunque anteriore alla decisione di ottemperanza, consente, in realtà, di risparmiare il compenso per il commissario ad acta per cui si sono registrati episodi non proprio commendevoli. A tal proposito un’inchiesta giornalistica ha fatto emergere come alcuni TT.AA.RR. usavano nominare come commissario ad acta addirittura gli stessi propri 48 Titolato «Fondo da ripartire per far fronte alle spese derivanti dai ricorsi di equa riparazione» Titolato «Somma occorrente per far fronte alle spese derivanti dai ricorsi proporsi dagli aventi diritto ai fini dell’equa riparazione dei danni subiti in caso di violazione del termine ragionevole del processo» 50 Risultanti dallo stato di previsione del Ministero della Giustizia al capitolo 1264 (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit-/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2014/DisegnodiBilancio/AllegatoaldisegnodiBilancio/05Allegato_tecni co-MG.pdf) 51 Nota 11 luglio 2013, Direttore Generale del Ministero della Giustizia, in www.giustizia.it. 49 14 dipendenti, i quali chiedevano laute ricompense per il servizio svolto52. Non mancano, però, anche casi di buona amministrazione nelle realtà dove i commissari ad acta richiedono compensi contenuti. Presso il T.R.G.A. Trento, per esempio, dal 2011 è stata liquidata la complessiva cifra di euro 4.100,00 a titolo di compensi per commissari ad acta, a fronte di oltre 350 ricorsi e più di 4,5 milioni di euro liquidati. In sede di prima conclusione pare importante ricordare comunque che, a prescindere dalle modalità attraverso le quali viene effettuato il pagamento, la Corte di Strasburgo si è più volte pronunciata a garanzia del principio di effettività della tutela giurisdizionale, stabilendo che, per il pagamento dei decreti ricognitivi dell’indennizzo, non possano intervenire, normalmente, più di 6 mesi e che, in ogni caso, «la carenza di fondi da parte dello stato non può giustificare la violazione di un diritto fondamentale»53. È quindi necessario che il pubblico funzionario chiamato a dar corso ad una decisione giudiziale esecutiva vi adempia spontaneamente e prontamente, dando corso al pagamento dapprima attraverso il mezzo ordinario, e, in caso di esito negativo, con quello “straordinario” dell’ordine di pagamento in conto sospeso. Il funzionario non dovrebbe quindi attenersi a direttive interne, più o meno palesate, volte alla posposizione dei pagamenti, salvo l’attivazione del giudizio di ottemperanza o dell’esecuzione forzata: il bravo funzionario dovrebbe contrastare tali prassi ostruzionistiche, facendo valere il proprio diritto-dovere di rimostranza, il quale però a sua volta richiede una buona dose di coraggio anticonformista. Rimane quindi il fatto che, allo stato, i cittadini già vittime della violazione del diritto fondamentale alla ragionevolezza del termine di conclusione di un processo, sono costretti (ma anche sollecitati da studi legali/centri di raccolta) ad intraprendere un ulteriore processo, quello amministrativo per l’ottemperanza, che, sebbene sia sprovvisto di costi palesi di accesso (è infatti esente dal contributo unificato), presenta comunque costi di patrocinio, senza considerare il tema della tempistica della sua definizione. A favore vi è il fatto che l’azione innanzi al T.A.R. è dotata di un’aleatorietà quasi nulla. Infatti, il tribunale, ordinariamente, non potrà far altro che accogliere il ricorso, assegnando un termine all’Amministrazione (presso la Corte d’Appello54) per ottemperare spontaneamente e, ove richiesto, nominando un commissario ad acta per il caso di persistenza nell’inadempimento. 7. Il tema delle spese del giudizio di ottemperanza. 52 Corriere della Sera, 3.7.2014, «Commissario ad acta» per eseguire le sentenze? Il TAR nomina il suo autista, di Sergio Rizzo. 53 Ex multis: Corte EDU, 29.3.2006, Cocchiarella c. Italia. 54 Le Corti d’Appello sono state delegate al pagamento anche delle sentenze per l’ottemperanza relative ai risarcimenti ex l. 89/2001 con circolare del Ministero della Giustizia dd. 16 settembre 2013, a partire dal 30 settembre 2013. 15 Oltre a quanto già accennato al § 4.1 sul tema delle spese, vale rimarcare come dal mondo degli avvocati sono state sollevate alcune critiche in ordine alla misura delle spese di lite conseguenti al giudizio di ottemperanza dei decreti ex l. Pinto, in quanto i diversi Tribunali Amministrativi liquidano, in media, circa euro 50055. I giudici amministrativi, infatti, dimostrano di tenere conto – ai fini della liquidazione - della serialità del contenzioso nella materia e del conseguente minimo impegno professionale richiesto al professionista, liquidando le spese nella misura conseguente. Tale prassi giudiziaria denota una certa sensibilità dell’organo giudicante per la cosa pubblica, poiché si cerca di fare in modo che le spese a carico dello Stato non lievitino ulteriormente. I giudici cercano quindi, di contenere il più possibile i costi dell’inefficienza del sistema giudiziario, coscienti del fatto che essi sono destinati a ripercuotersi sull’intera collettività. Tuttavia, tale orientamento, pur mosso da finalità coerenti con il principio di parsimonia e con il già ricordato abuso che gli stessi avvocati spesso fanno della legge Pinto, chiamando a raccolta folle di ricorrenti altrimenti indifferenti o dimentichi della possibilità di intascare poche migliaia di euro, sembrerebbe non condivisibile56, se non altro tenendo conto dell’ultimo dettato normativo. 55 Si va dai € 300 liquidati da T.A.R. come il Lazio (sede di Roma), Trentino Alto Adige (sede di Trento), agli € 500 liquidati dai TT.AA.RR. Campania, Salerno e Piemonte, Torino, agli € 1000 di Catania e Catanzaro, fino agli € 1.500 di Genova. 56 L’uso d’ora in poi della forma dubitativa è d’obbligo alla luce della recente entrata in vigore della nuova disciplina e del dibatto sviluppatosi sul punto. In generale, infatti, tra gli addetti ai lavori si discute se il D.M. n. 55/2014 (che parrebbe non aver disciplinato esaustivamente tutti i compensi previsti per la professione forense: mancano, ad esempio, disposizioni riguardanti il patrocinio a spese dello Stato, le cause per indennizzo da irragionevole durata del processo, ecc.), abbia implicitamente abrogato il precedente D.M. n. 140/2012 (e, quindi, quelle presunte lacune siano volute, per cui il D.M. 140 resterebbe in vita per tutte le professioni sottoposte alla vigilanza del Ministero della giustizia ad eccezione degli avvocati), oppure se sia tutt’ora in vigore la disposizione fondamentale dettata dall’art. 1 del D.M. n. 140/2012, secondo cui i parametri indicati nelle tabelle non sono vincolanti per il Giudice. Tuttavia, alcuni Tribunali si sono già pronunciati su questo argomento. Si veda per una primissima decisione favorevole abrogazione implicita dei parametri precedenti ad opera del D.M. n. 55/2014: Tribunale di Milano, 9.4.2014 secondo il quale gli artt. 13, comma 6, e 1, comma 3, della legge n. 247/2012 configurano un sistema biennale di regolamentazione nella materia dei compensi forensi, profilando una ipotesi esplicita di successione normativa in cui i nuovi parametri sono abrogativi dei precedenti. Secondo il Tribunale infatti, «Le nuove tariffe introdotte dal D.M. n. 55/2014 hanno sostituito le precedenti (di cui al D.M. n. 140/2012), che devono intendersi integralmente abrogate in quanto: 1) gli artt. 13 comma VI, I comma III, L. n. 247/2012 configurano un sistema biennale di regolamentazione nella materia dei compensi forensi profilando una ipotesi esplicita di successione normativa in cui i nuovi parametri sono abrogativi dei precedenti; 2) il D.M. n. 55/2014 prevede una specifica disciplina di diritto intertemporale (art. 28) e copre con il sistema dell'applicazione analogica (art. 3) i casi non espressamente regolati, così configurando un regime giuridico "chiuso" che non lascia spazio al D.M. n. 140/2012. Il D.M. n. 140/12, comunque, è da intendersi abrogato in quanto il D.M. n. 55/2014 regolamenta ex novo l'intera materia dei compensi forensi con una disciplina di nuovo conio (cd. abrogazione implicita) e, là dove non conferma disposizioni che erano presenti nel D.M. del 2012, mette mano ad una precisa scelta legislativa che prevale sulla precedente (abrogazione tacita)». Per una pronuncia contraria si veda: Tribunale di Alessandria, Magistrato di sorveglianza, Decreto 15.5.2014 secondo il quale le disposizioni del nuovo D.M. 55/2014 si vanno semplicemente a sovrapporre con quelle del precedente D.M. 140/2012. In tal senso, le norme che il nuovo D.M. non ha provveduto a revisionare sarebbero 16 L’art. 13, comma 6, della l. 31 dicembre 2012, n. 247, prevede che l’organo giurisdizionale liquidi il compenso del professionista con riferimento «ai parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della Giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni». La norma secondaria in questione attualmente vigente è il D.M. 10 marzo 2014, n. 55, rubricato «Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell'articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247», il quale sembrerebbe aver abrogato tacitamente il precedente D.M. 20 luglio 2012, n. 140. Il D.M. 55/2014 stabilisce che nella liquidazione delle spese si debba tenere conto della natura e della complessità della controversia57, ma anche che l’importo liquidato debba essere rapportato al valore della controversia calcolato ai sensi del c.p.c., e comunque, in caso di risarcimento, in rapporto alla somma attribuita dal giudice58. È scomparsa la riduzione del compenso prevista dal precedente D.M. n. 140/2012, il quale disponeva una diminuzione del 50 percento in presenza di «controversie per l’indennizzo da irragionevole durata del processo» (art. 9, comma 1, D.M. 20 luglio 2012, n. 140)59. Calcolatrice alla mano e tenendo conto dei parametri ministeriali, pare potersi dire che le spese di lite per i ricorsi giurisdizionali per l’ottemperanza ex l. Pinto, ai sensi della normativa vigente, dovrebbero essere liquidate dal giudice, pur tenendo conto della relativa semplicità e serialità di questo tipo di ricorsi, nella misura minima che segue: per i ricorsi che liquidano un indennizzo complessivo compreso tra 0 e 1.100 euro, un minimo di euro 435; per indennizzi compresi tra 1.100 e 5.200 euro, un minimo di euro 1.529; per indennizzi tra i 5.200 e i 26.000 euro, un minimo di euro 2.676; per indennizzi compresi tra 26.000 e 52.000 euro, un minimo di euro 4.680. Oltre a tali importi, andrebbero calcolati compensi per spese forfettarie dall’1% al 15% dell’importo totale60. Non è stata riproposta nel D.M. del 2014 la disposizione che prevedeva che tanto le soglie minime, quanto quelle massime, non costituivano, in nessun caso, limiti vincolanti per il giudice. A ancora efficaci. Tale ragionamento porta alla opposta conclusione secondo la quale la norma che prevedeva che i limiti non fossero vincolanti per il giudice, sia tutt’ora vigente. 57 Art. 4, comma 1, D.M. 10 marzo 2014, n. 55: «ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell'affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate». 58 Così art. 5, comma 1, D.M. 10 marzo 2014, n. 55. 59 Scompare, inoltre, la disposizione prevista dal previgente art. 18, comma 2, D.M. 20 luglio 2012, n. 140, il quale disponeva che «Nel caso in cui la prestazione può essere eseguita in modo spedito e non implica la soluzione di questioni rilevanti, al compenso del professionista può essere applicata una riduzione fino al 50 per cento rispetto a quello altrimenti liquidabile», il quale, si riteneva, potesse andare ulteriormente a ridurre l’importo già ristretto dal precedente art. 9. 60 Secondo il combinato disposto dell’art. 13, comma 10 della L. 31 dicembre 2012, n. 247, e dall’art. 2, comma 2, D.M. 10 marzo 2014, n. 55. 17 ciò sembra consegua che dall’entrata in vigore del nuovo decreto, sostitutivo del precedente, il giudice non abbia più la possibilità di disporre una liquidazione per spese legali al di sotto dei minimi stabiliti dal nuovo D.M. 55/2014. 8. La soluzione creativa del T.R.G.A. Trento. Già si è accennato al fatto che il T.R.G.A. di Trento, cosciente della gravità della situazione – sia sotto l’aspetto finanziario che sotto quello dell’ingolfamento della pur gravata Giustizia Amministrativa - già in tempi non sospetti tentò di accendere un faro sulla questione. Fin dalle sue prime pronunce sulla l. Pinto quel Tribunale cercò di percorrere strade creative. Nell’anno 2011, infatti, i giudici tentarono la via dell’inoltro delle sentenze d’ottemperanza alla Procura della Corte dei Conti, al fine dell’accertamento di eventuali responsabilità da parte dei funzionari della Corte d’Appello che non avevano provveduto a dare esecuzione ai decreti oggetto di giudizio. L’istruttoria contabile si è conclusa con un giudizio di disorganizzazione da imputare a «disfunzioni organizzative a livello centrale»61. Nel 2012 gli stessi giudici trentini provarono la strada della trasmissione delle sentenze di condanna al Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché ai Capi di Gabinetto del Ministero della Giustizia e dell’Economia e delle Finanze, quale contributo istituzionale per la valutazione di misure idonee ad evitare ulteriori aggravi di spesa per le finanze pubbliche. Non venne esclusa nemmeno la segnalazione al C.S.M. per i casi in cui fossero emerse violazioni di diligenza da parte di magistrati che avessero innescato con colpevoli ritardi il meccanismo della Pinto. Dal 2013 si sperimentò un’ulteriore strategia processuale: si cominciò a nominare – conformemente ad altri Organi di giustizia amministrativa - come commissario ad acta il Ragioniere Generale dello Stato, con la particolarità che il giudice trentino scelse fin da subito di non concedergli la facoltà di delegare gli adempimenti esecutivi ad altro funzionario. Questa via fu scelta e poi mantenuta dal Tribunale con il dichiarato intento, nello spirito della collaborazione istituzionale, di scuotere e sollecitare i massimi organi dello Stato nella presa di coscienza del problema e che gli stessi potessero arrivare, anche attraverso scelte politiche idonee, ad adottare soluzioni più consone tenuto conto della gravità e, soprattutto, della rilevanza del diritto in questione. L’investitura in via esclusiva dell’Organo di vertice dell’Amministrazione finanziaria dello Stato-apparato è vista dai giudici amministrativi di Trento come mezzo per dare immediata ed anche personale contezza della gravità e complessità della situazione legata alla c.d. l. Pinto ed alla mancata esecuzione dei decreti di Corte d’Appello che ne scaturiscono, per far si che tale Organo possa agire in maniera propositiva attraverso iniziative anche di carattere legislativo volte a dar 61 Nota del 22 novembre 2012 del Procuratore regionale della Corte dei Conti, Trentino Alto Adige. 18 corso ai pagamenti, i quali, ricorda il Tribunale, «dovrebbero, invece, essere oggetto di uno spontaneo e immediato adempimento», così da evitare almeno gli interessi legali, per le spese di lite e, ora, anche l’astreinte. Il Tribunale, in tal senso, ritiene che il Ragioniere Generale possa «fattivamente contribuire a contenere, se non a eliminare, l’ulteriore spendita di denaro pubblico – per interessi moratori, spese di lite, compensi per commissari ad acta» che derivano dalla mancata liquidazione tempestiva dei decreti di Corte d’Appello. Il tema è divenuto più scottante anche alla luce del recente, e già menzionato, intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato a favore dell’ammissibilità della possibilità di condanna alla astreinte anche nei giudizi di ottemperanza relativi a pagamenti di somme di denaro. A seguito di tale pronuncia, aumenteranno le entità delle somme da liquidare in caso di mancata esecuzione dei giudicati, causando così non solo ulteriori danni patrimoniali alla collettività ma, anche e soprattutto, una maggiore e generale sfiducia dei cittadini verso il sistema giustizia. Il cittadino, infatti, già sfiancato da un processo che ha oltrepassato il termine ragionevole, pur vedendosi riconoscere giudizialmente il diritto all’indennizzo da un decreto esecutivo, non trova però soddisfazione spontanea dall’Amministrazione, la quale lo costringe così ad iniziare un nuovo giudizio per ottemperanza, al fine di vedere, finalmente, soddisfatto con pienezza il suo diritto. La suesposta «strategia processuale» sembrerebbe aver già in qualche modo contribuito a sortire alcuni effetti: in primo luogo dal 2013, per la prima volta, sono stati assegnati 50 milioni di euro a copertura del fondo dedicato al pagamento dei decreti “Pinto”, che, seppure del tutto insufficienti a fronte del debito arretrato di 340 milioni di euro, costituiscono una presa d’atto del problema da parte dell’Amministrazione Centrale e, comunque, un primo punto d’inizio; dal settembre 2013, per snellire la procedura, il Ministero della Giustizia ha delegato alle Corti d’Appello anche l’esecuzione in via amministrativa delle sentenze emesse dai TT.AA.RR. per l’ottemperanza dei provvedimenti decisori; inoltre, il Ragioniere Generale dello Stato, con nota del 6 febbraio 2014, ha invitato fermamente il Dipartimento del Ministero della Giustizia competente a dare, con urgenza, esecuzione alle sentenze amministrative di condanna in materia di legge Pinto nei termini prescritti dalle sentenze. 9. Conclusioni. La linea proposta dal T.R.G.A. Trento dimostra come la concreta sensibilità al problema del mancato pagamento dei decreti ex l. Pinto possa dare utili risultati. I magistrati, infatti, volendosi fare carico della questione hanno cercato - attraverso quella che viene definita una «strategia processuale» scelta nell’ambito dei poteri discrezionali attribuiti dal c.p.a. - di coinvolgere i 19 massimi organi dello Stato per far si che essi contribuiscano, ciascuno per la propria parte, a trovare una soluzione per migliorare, ma soprattutto risolvere una situazione che ha oggi raggiunto livelli non più sostenibili per le casse dello Stato e per l’immagine stessa del nostro Paese. È quindi apprezzabile lo sforzo del Tribunale Amministrativo il quale, non volendo rimanere burocratico spettatore degli accadimenti, dimostra, tentando diverse strade, di voler contribuire a mitigare gli effetti della situazione. Se non è dato sapere se, ed in quale misura, le diverse tattiche poste in essere negli anni dal T.R.G.A. di Trento abbiano contribuito alle ultime scelte dell’Amministrazione Centrale, quale quella, indubbiamente permeata di intenti di semplificazione e di velocizzazione, di delegare il pagamento alle Cancellerie delle Corti d’Appello, resta comunque il fatto che non deve essere sottovalutato lo sforzo dei Giudici trentini, che hanno sfruttato tutti gli strumenti che la legge affida loro per raggiungere il risultato non solo della decisione del caso specifico ma anche del miglioramento del servizio giustizia in generale attraverso la collaborazione istituzionale tra organi dello Stato. Resta il fatto che il sistema introdotto dalla L. Pinto, costituendo una mera misura indennitaria, non rimuove il problema di fondo della lentezza dei processi, non prevedendo alcuna misura efficacemente acceleratoria che solo gli ultimi interventi normativi sembrano perseguire (si vedano in particolare alcuni strumenti di semplificazione previsti dal recente d.l. n. 133 del 12 settembre 2014 in materia di infrastrutture e trasporti, di edilizia, di ambiente, della gestione dei rifiuti, ecc.). I meccanismi indennitari, infatti, non stimolano gli Apparati a risolvere i problemi strutturali dei ritardi nel sistema giustizia, non contribuiscono a diminuire i casi di violazione dell'art. 6 della Convenzione, ma si limitano a riconoscere all'interessato un’equa soddisfazione pecuniaria la quale, oltre ad essere inidonea alla tutela effettiva del diritto umano del cittadino, appare irragionevolmente dispendiosa per le finanze pubbliche. Tutto ciò con l’aggravante che l’aumento incontrollato dei giudizi ex l. Pinto intasa ulteriormente i già soffocati uffici giudiziari delle Corti d’Appello e dei TT.AA.RR., con la conseguenza di innescare spirali perverse, come la c.d. «Pinto sulla Pinto». Questo sistema, dunque, non migliora, anzi aggrava la condizione di violazione dell’art. 6, comma 1 della CEDU. La questione della tutela dei diritti fondamentali e, in particolare della ragionevolezza del termine di conclusione del processo ha assunto, dunque, una rilevanza drammaticamente primaria, tanto che anche il Presidente della Repubblica, in qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha in più occasioni posto l’attenzione sulla questione. Già dal suo primo incontro al C.S.M., nel 2006, egli ha sostenuto che: «La eccessiva lunghezza dei processi non è soltanto un grave problema di collocazione internazionale dell’Italia, ma è, prima di tutto, una gravissima anomalia del nostro ordinamento interno»62. Nel 2008, tornando sul problema e dimostrando così una crescente preoccupazione, ha affermato che l’eccessiva lunghezza dei 62 NAPOLITANO G., intervento presso il Consiglio Superiore della Magistratura, 8.6.2006. 20 processi «[…]rappresenta la più grave anomalia del nostro ordinamento interno, indebolisce seriamente la fiducia dei cittadini nella effettiva tutela dei propri diritti, ci espone a censure in sede europea»63. In questo quadro, le iniziative giudiziarie del T.R.G.A. di Trento vanno davvero apprezzate e non lette, come invece qualcuno ha tentato di fare, in chiave di polemica contrapposizione tra Magistratura, Politica e Amministrazione. dott. Antonio Fusco Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali delle Università di Trento e Verona 63 NAPOLITANO G., discorso ai nuovi magistrati, 12.5.2008. 21