LA DESINENZA FA LA DIFFERENZA (?) Magistrate ed Avvocate alla sfida del linguaggio di genere Il mio contributo all’interessante dibattito non può che partire dal mio specifico professionale. Come è noto, la storia delle donne in magistratura è relativamente recente. L'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva infatti le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 della Legge sull'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’ Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura (la cui ricostruzione si trova negli interessanti articoli della dott.ssa Gabriella Luccioli) fu molto vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatrice delle ancestrali paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate le dichiarazioni dell’on. Leone (futuro Presidente della Repubblica), il quale ebbe a dichiarare: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; alle donne pertanto poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, che garantiva l’espressione di un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. La premessa storica è utile per delineare un quadro d’ambiente: e, tornando al nostro tema, per comprendere senza difficoltà come potesse essere difficile di lì a pochi anni, nella società italiana dei primi anni ’60, per le neoassunte in magistratura, sentirsi libere di esprimere la propria differenza anche attraverso la femminilizzazione della loro qualifica. La pretesa di essere riconosciute ed individuate rispettivamente come la giudice, la sostituta, la consigliera era destinata a soccombere di fronte alla tentazione – del tutto comprensibile – di dare di sé un’immagine quanto più conforme, conformista, uniformata al modello già affermato: ovviamente, quello maschile. E’ indubbio che la successiva esplosione numerica della presenza delle donne in magistratura è stata molto più rapida della presa di consapevolezza del cambiamento che la stessa comportava. Ed è fuor di dubbio che, per prime, sono state le donne in stragrande maggioranza a non voler ammettere questo cambiamento. Ma può facilmente comprendersene il motivo. Colpevolizzate a priori per una presunta incapacità a decidere, e, come diceva l’on. Leone, a librarsi verso le altitudini della rarefazione del tecnicismo, è ovvio che le magistrate abbiano cercato in certo senso di passare inosservate, di adeguarsi al modello professionale ritenuto migliore, il più credibile, quello capace di trovare una legittimazione universale, senza sesso e senza colore. Senza tacere che in gran parte, l’iniziale orientamento della componente femminile, anche per non smentire le autorevoli opinioni dei costituenti, si è diretto verso le materie ritenute più consone (la famiglia, i minori…): una specie di “riserva” nella quale addestrare il proprio specifico, senza andare ad invadere terreni considerati “non adatti”. Oggi le percentuali parlano di un numero crescente di ingressi femminili, ormai ovviamente distribuiti tra tutte le funzioni e tutti i ruoli. Nonostante un costante aumento delle presenze femminili (nettamente maggioritario negli ultimi concorsi, in cui le percentuali superano il 60%), nella magistratura del 2014, quindi ad oltre cinquant’anni dal primo concorso aperto, resta evidente la divaricazione tra i sessi per ciò che riguarda la copertura dei ruoli direttivi e semidirettivi. Né questo fatto deve considerarsi come privo di ricadute sull’intera organizzazione della magistratura, se è vero che, in particolar modo dopo le riforme del 2007, il dirigente è quello che informa di sé l’ufficio, compie scelte organizzative decisive, imponendo obbiettivi e spesso operando scelte anche nell’individuazione delle priorità. Inutile da un lato negare al sistema una connotazione ben più marcatamente verticistica, dall’altro tacere che il sistema delle valutazioni di professionalità – grazie anche a letture propagandistiche interessate – può essere vissuto come un monito permanente a conformarsi, un invito tacito ma ficcante a sottomettersi. Occorrerebbe rovesciare completamente l’ottica ed imporre la figura del/della dirigente soprattutto secondo una chiave di responsabilità, sì da assoggettarlo/a alla valutazione dei e delle componenti dell’ufficio che ha diretto, sì da ristabilire il presupposto per cui la figura direttiva deve rispondere ad una esigenza di servizio, e non assolvere ad una ambizione di carriera. Sarà forse anche per questo modello dominante, che il “soffitto di cristallo” sembra ancora insuperabile? Intanto, nessuno di noi può essere autorizzato a credere che il divario sia destinato ad essere annullato con il tempo, in base ad un fisiologico aggiustamento per cui l’onda degli ingressi andrà finalmente ad infrangersi sulla riva delle posizioni apicali. Nella sua bella indagine, Sognando parità, Rossella Palomba, una demografa, ha proceduto ad un esercizio teorico, la compilazione del calendario della parità, che si basa sull’immaginare che il numero di dirigenti, professori universitari, manager o altre figure al vertice di una determinata professione rimanga bloccato a quello attuale, calcolando per ogni settore quanto tempo trascorrerà secondo i ritmi sin qui registrati perchè le donne raggiungano il 50%. Per le magistrate, l’anno della parità per i ruoli direttivi (attualmente ricoperti da donne in non più del 15% dei posti) è destinato ad arrivare nel 2425. E’ certo che, nell’attesa, questa (ancora sparuta) minoranza avrà difficoltà a caratterizzarsi per il proprio genere, e ad affermarsi come portatrice di una diversa visione dei ruoli. Il problema numerico si traduce sempre, almeno nella mia esperienza, in una oggettiva difficoltà nel far valere modelli alternativi, nell’innovare i linguaggi e nell’introdurre e far crescere differenti culture. E’ ora di tornare al tema più strettamente oggetto della discussione. Il linguaggio, è vero, è importante in quanto esso costituisce in realtà, “una visione del mondo”. Invito a leggere uno studio che uscì nel 1987, Il sessismo nella lingua italiana, che affrontò in quegli anni il tema dello stretto legame tra discriminazioni culturali e discriminazioni semantiche, fornendo utili dati di conoscenza e di riflessione a proposito delle implicazioni dell’uso di un determinato linguaggio. E’ vero che certe desinenze, in particolare quella in – essa, hanno origine chiaramente derivativa, ed anche un’intrinseca valenza spregiativa, ridicolizzante, sminuente senz’altro. Ormai si sono affermati, dato il largo uso che tradizionalmente e comunemente se ne fa, i termini “professoressa”, e “dottoressa”, ma riflettendo, mi accorgo sempre più che la battaglia per imporre “avvocata” invece di “avvocatessa” è giusta e va coltivata. Nel corso di una conversazione conviviale a cui ho preso parte poco tempo fa, esponendo il tema della relazione, uno dei commensali mostratosi particolarmente scettico a proposito della correttezza – non solo linguistica - del termine avvocata, ad un certo punto non poté trattenersi dall’ammettere che in effetti, non avrebbe mai potuto interpellare Bianca Guidetti Serra come “avvocatessa”. Per la sua autorevolezza, e in ragione di quella, avrebbe meritato invece di essere chiamata “avvocato”. E questo aneddoto mi dà l’occasione di richiamare un altro dei passaggi dello studio che vi ho citato, quello per cui il maschile neutro a cui spesso facciamo ricorso (sbagliando), in realtà serve ad occultare la presenza delle donne, tanto quanto serve ad occultarne l’assenza. Il titolo al maschile, per la donna (senatore, ministro, direttore, avvocato), serve intanto di perenne memento che la carica ≪spetta all’uomo≫. E poi, come cercavo di esprimere prima, serve a dare il riferimento a quale deve essere il modello, il paradigma; verso quale direzione deve rivolgersi per riuscire ad adempiere al suo compito. Anche in questo caso, si conferma che il linguaggio esprime una visione del mondo: e che se tale visione vogliamo mutare, dobbiamo cambiare le parole con cui lo descriviamo: rendendo così peraltro, come ci insegnano le linguiste, un ottimo servizio alla lingua italiana ed alle sue regole grammaticali. Non devo spiegare perché “giudicessa” è un termine sminuente e ridicolizzante in sé: allora adottiamo con serenità “la giudice”, e, speriamo sempre di più, “la presidente”. Confesso di non aver mai visto utilizzare da nessuno “la sostituta procuratrice” che pure sarebbe termine corretto (né ci deve turbare che pubblico ministero non possa essere declinato al femminile, posto che riguarda la funzione e non la persona che la svolge): fatto che la dice lunga sulla forte resistenza a farsi accettare come tali dalle donne in un mondo che poggia su una simbologia – e su una concezione della funzione - ancora prevalentemente maschili. Seguendo la scia, ben venga “la consigliera”, d’appello e di cassazione, anche se ho difficoltà a trovare il femminile dell’attributo che più esprime la funzione, quotidianamente da me svolta di “estensore” delle sentenze e dei provvedimenti: forse occorrerebbe un guizzo di fantasia per risolvere il dubbio, e attribuire alla magistrata che scrive la sentenza l’attributo di “autrice” o “redattrice”. Basta volerlo. Ma veniamo alla conclusione di questo discorso: l’automatico processo di sostituzione di desinenze non è il fine reale di questo ragionamento. Ci riporta ad un più corretto uso della nostra lingua – checché da molte parti anche autorevoli ancora si pensi –, e all’adozione di una terminologia più specifica, capace di esprimere una differenza di genere: ma se riflettiamo, lo scopo di una nuova attenzione ai termini linguistici che usiamo è ben più ambizioso, e riguarda la qualità stessa del nostro lavoro. La desinenza fa la differenza, ma non è e non deve essere una differenza solo formale. Certo, dall’uso (corretto) del linguaggio di genere noi donne operatrici di giustizia perseguiamo un riconoscimento della nostra specificità, dopo averne preso consapevolezza secondo le sue varie connotazioni ed implicazioni, anche per quel che concerne l’evolversi della nostra vita professionale. Ma credo che non possiamo perdere di vista un obbiettivo più alto ed ambizioso. Attraverso l’adozione di un linguaggio che sappia cogliere e rimarcare le differenze (anche di genere) noi affiniamo la nostra capacità di fare del processo (di cui siamo protagoniste, e protagonisti), un luogo in cui si dà della realtà una visione non stereotipata, non appiattita sui luoghi comuni e sulle visioni preordinate ed imposte. Non appiattita sul pregiudizio, in altri termini. Il bel libro di Paola de Nicola, “La giudice” traccia un percorso di crescita, di assunzione di consapevolezza, che partendo dalla riflessione sul nostro ruolo di giudici, si sposta poi a quella sulla funzione essenziale, e nobile, del processo, come strumento per l’affermazione di diritti violati. Ma questo fine non è sempre fisiologico, ed alla portata di tutti, e di tutte, perché dipende in larga misura dalla libertà di giudizio dei suoi protagonisti, primo fra tutti il/la giudice Perché questa funzione si possa realizzare appieno, occorre – tra le altre cose – che ogni stereotipo culturale, ogni pregiudizio dal processo siano banditi, innanzitutto perché nel processo si pervenga ad una raffigurazione specifica, ed autentica, della realtà che deve essere oggetto di giudizio, e rispetto alla quale poi possano trovare affermazione i diritti di cui si reclama l’attuazione. Ed è in questa ottica che, tornando allo specifico tema, anche il pregiudizio di genere – con l’effetto distorsivo che ne deriva, capace di comportare la stessa conseguente perdita di credibilità della stessa istituzione giudiziaria, che non riesce nemmeno a parlare correttamente di se stessa – deve essere snidato e rimosso. Vogliamo fare alcuni esempi? Che cos’è se non un esempio di visione al di sopra dello stereotipo quella che ha ispirato la sentenza (peraltro scritta da un uomo) in cui si afferma che è frutto di mero pregiudizio la prospettazione di un danno per la crescita serena ed equilibrata del minore l’affido ad una coppia omosessuale? E allo stesso positivo impulso ad andare oltre gli schemi di una concezione burocratica e funzionariale risponde il lungo impegno dei magistrati e delle magistrate contro le storture della legge n.40 del 2004 sulla fecondazione assistita che a dieci anni dal suo sciagurato varo, può dirsi ormai affondata dai molteplici interventi giurisprudenziali nazionali e sovranazionali (da ultimo, quello della Corte costituzionale contro il divieto di fecondazione eterologa). Ma molto lavoro deve essere ancora compiuto: perché non trova se non una sporadica applicazione la pur ricca normativa contro le discriminazioni (di genere ma non solo), che pure dovrebbe fornire alle vittime strumenti processuali agevolati e tempestivi per porre rimedio ai trattamenti deteriori sofferti in ragione delle caratteristiche personali? Pensiamo forse che ciò stia a significare che le discriminazioni non esistono e che la parità (in particolare, quella fra uomo e donna) è raggiunta, soprattutto negli ambienti di lavoro? Basta leggere un qualsiasi studio statistico per accorgersi che siamo ben lontani dall’obbiettivo. Forse le vittime di discriminazioni diffidano di poter trovare soddisfazione da parte di giudici che non mostrano grande sensibilità sul tema (sì da negare a partire da sé, che una tale differenza esista?) E’ evidente che il tema è ben più vasto, e dovrebbe essere esplorato sotto diversi profili e secondo prospettive diverse. E non riguarda solo le donne, perché coinvolge il concetto stesso di giustizia. Ma spetta alle donne prima pretendere un cambiamento del linguaggio, per favorire poi, anche attraverso questo, il disvelamento prima, e l’abbandono poi, dello stereotipo e del pregiudizio. In fondo, ci insegnano le nostre amiche studiose, cambiare linguaggio vuol dire cambiare la visione del mondo che ad esso è sottostante: un processo non semplice e un percorso non lineare, ma su cui bisogna scommettere.