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LIBERA UNIVERSITÀ MARIA SS. ASSUNTA
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DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN
PROGRAMMAZIONE E GESTIONE DELLE POLITICHE E DEI SERVIZI SOCIALI
CLASSE LM - 87
CATTEDRA DI SISTEMI COMPARATI DI WELFARE
LA LIBERA PROFESSIONE:
NUOVA FRONTIERA DEL LAVORO SOCIALE
THE LIBERAL PROFESSION:
A NEW FRONTIER OF SOCIAL WORK
RELATORE
Prof. Massimo Rizzuto
CORRELATORE
Dott.ssa Eleonora Caruso
CANDIDATO
Chiara Salvaggio
Matricola SS 17700/402
ANNO ACCADEMICO 2014 –2015
INDICE
Introduzione
>> 3
I. Gli sviluppi della libera professione dell’Assistente Sociale >> 9
L’evoluzione della libera professione: riferimenti normativi e welfare mix
Definizione della figura di Assistente Sociale libero professionista
II.
Compiti
e
competenze
dell’Assistente
professionista
Sociale
libero
>> 16
Breve storia del servizio sociale, chi è e di cosa si occupa l’Assistente Sociale
Principi e valori della professione
Le specificità del libero professionista
I bisogni del professionista e la distinzione fra professione e semi-professione
III. Profili lavorativi e adempimenti burocratici
>> 40
Parametri per la liquidazione
IV. I servizi offerti e la tipologia di utenza
Area consulenziale
Area comunicativa
Area formativa
Area giuridica
1
>> 48
INDICE
Introduzione
>> 3
I. Gli sviluppi della libera professione dell’Assistente Sociale >> 9
L’evoluzione della libera professione: riferimenti normativi e welfare mix
Definizione della figura di Assistente Sociale libero professionista
II.
Compiti
e
competenze
dell’Assistente
professionista
Sociale
libero
>> 16
Breve storia del servizio sociale, chi è e di cosa si occupa l’Assistente Sociale
Principi e valori della professione
Le specificità del libero professionista
I bisogni del professionista e la distinzione fra professione e semi-professione
III. Profili lavorativi e adempimenti burocratici
>> 40
Parametri per la liquidazione
IV. I servizi offerti e la tipologia di utenza
Area consulenziale
Area comunicativa
Area formativa
Area giuridica
1
>> 48
Assistenti Sociali senza frontiere
V. Punti di forza e criticità della libera professione
>> 86
VI. Dieci domande agli Assistenti Sociali liberi professionisti >> 93
Dottoressa Desiré Longo
Dottoressa Francesca Pirilli
Dottoressa Marta Ienzi
Dottor Giacomo Sansica
VII. Conclusione: perché la libera professione è la nuova frontiera
del lavoro sociale
>> 119
Bibliografia
>> 124
Sitografia
>> 127
2
INTRODUZIONE
Questo elaborato vuole affrontare il tema della libera professione
dell’Assistente Sociale intesa come nuova frontiera del lavoro sociale
al fine di esaminare un ambito lavorativo tanto emergente quanto
innovativo che è divenuto piuttosto esteso negli ultimi anni.
Tale settore, che negli anni addietro non era solamente poco
sviluppato ma anche poco conosciuto, ha saputo ritagliarsi sempre più
spazio e continua a espandersi anche come una forma di
contrapposizione alla crisi degli ultimi anni e al blocco delle
assunzioni. Il professionista può ripensare il suo ruolo, bypassando le
negatività e facendosi imprenditore del sociale. L’Assistente Sociale
deve saper porsi come un coordinatore fra le istanze del singolo utente
e la comunità, fungendo da collante fra gli attori, fra le istituzioni e le
risorse presenti nel territorio. Deve possedere la capacità di promuovere
la partecipazione della comunità per l’attivazione di risposte funzionali
ai nuovi bisogni emergenti e farsi, poi, portavoce delle istanze degli
3
utenti, divenendo un ponte fra il territorio e la politica. Solo grazie al
contributo di chi ha esperienza, di chi è portatore di un bisogno, si
possono creare delle azioni utili e dei servizi veramente rispondenti alle
esigenze del territorio.
Se è vero che l’Assistente Sociale - come si evince nella sezione
riguardante l’evoluzione della libera professione nel primo capitolo nasce come dipendente pubblico e tale ambito tutt’oggi risulta
prevalente, è anche vero che la crisi del welfare, che non è più riuscito
a soddisfare i bisogni del cittadino, ha sviluppato un approccio
multistakeholder, reticolare in cui l’offerta pubblica viene affiancata da
alternative professionali operative di tipo privato. Nello stesso capitolo
si darà una definizione della figura dell’Assistente Sociale libero
professionista.
Il
Codice
Civile
classifica
l’attività
sotto
la
denominazione di “professione intellettuale”, ossia il lavoro svolto per
conto di svariati committenti, senza vincolo di subordinazione,
attraverso una propria organizzazione di mezzi e del lavoro e in modo
abituale. La libera professione è, quindi, esercitata dal professionista,
rigorosamente iscritto all’albo, che la svolge in maniera autonoma,
scevro da rapporti di dipendenza. È, quindi, un’attività lavorativa che
richiede competenze tecnico-scientifiche e che crea un rapporto diretto
con l’utente, il quale paga la prestazione secondo un compenso pattuito
a priori.
È doveroso far riferimento alla cornice normativa che orienta l’agire
professionale, all’articolo 52 del codice
4
deontologico
e
in
particolare alla legge 328 del 2000 “Legge quadro per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, la quale rivoluziona
l’ambito dei servizi sociali e dà spazio alla sussidiarietà orizzontale a
garanzia di una libera scelta e di una presa in carico globale dei bisogni
e della domanda sociosanitaria, attuando servizi che rispondano
realmente alle esigenze della comunità, con tempestività e qualità. Non
si può, inoltre, non parlare dell’importanza che ricopre il concetto di
rete su diversi piani: nell’interesse generale della comunità, in un’ottica
di percorsi alternativi e interdisciplinari, in risposta ai multiformi
bisogni sociali della comunità odierna. Proprio per questo nel secondo
capitolo, intitolato “Compiti e competenze dell’Assistente Sociale
libero professionista” si delineeranno, attraverso un piccolo excursus
normativo, sia i cambiamenti avvenuti nel settore sociale, ma anche la
metamorfosi che ha vissuto la figura dell’Assistente Sociale, nonché i
principi e i valori della professione. Si traccerà, la differenza fra il
concetto di professione e quello di semi-professione, passando in
rassegna anche i bisogni, materiali e immateriali, che riguardano
l’Assistente Sociale nel passaggio dalla dipendenza al lavoro
autonomo.
Ma quali step bisogna seguire per esercitare la libera professione?
Quali cavilli normativi bisogna rispettare? Basti pensare che, a volte, i
fattori burocratici rappresentano un disincentivo all’autoimprenditoria.
Nel terzo capitolo, con il proposito di fare maggiore chiarezza, si
inquadreranno i profili lavorativi, differenziando le forme di lavoro
autonomo individuale, come le varie forme di collaborazione, da
5
quelle a carattere collettivo, quali forme d’imprese monoprofessionale
o pluriprofessionali. Per di più, saranno spiegati alcuni adempimenti
burocratici da compiere per poter esercitare correttamente la libera
professione e verrà dedicata una parte al tariffario e ai parametri per la
corresponsione del compenso.
Successivamente,
si
esporranno
dettagliatamente
i
campi
d’intervento, i servizi che un Assistente sociale può offrire non
esercitando un lavoro dipendente e gli utenti interessati da tali
prestazioni. Si è preferito raggruppare le attività in cinque diverse aree
operative. All’interno dell’area a tema consulenziale si troverà illustrata
la mediazione spiegata e diversificata per ambiti, la supervisione, la
creazione di servizi, la consulenza sociale e la selezione del personale.
L’area comunicativa, invece, si snoda in giornalismo sociale e
consulenza comunicativa. Un’altra area veramente interessante è quella
formativa in cui si analizzerà la formazione professionale, che si è
sviluppata a partire dall’introduzione dell’obbligo di formazione
continua, e la docenza, a sua volta differenziando l’ambiente
universitario dalla scuola secondaria superiore. La quarta area, ovvero
quella giuridica vede come figure prevalenti il giudice onorario e il
consulente tecnico giuridico. L’ultima area descritta riguarda
l’esperienza di “Assistenti Sociali Senza Frontiere”, una ONLUS che
mira a promuovere la cooperazione internazionale nel campo
dell’assistenza sociale allargando il raggio d’azione degli Assistenti
Sociale e portandoli ad operare anche fuori dall’Italia, spesso in Paesi
6
in via di sviluppo.
Nel quinto capitolo, partendo da un’analisi della dottoressa Elena
Giudice, Assistente Sociale libero professionista milanese, si procederà
a una disamina dei pregi e dei difetti che la professione svolta in
maniera autonoma ha insiti, annoverando fra i primi l’autonomia e la
creatività che un professionista può concedersi e contrapponendo i
rischi legati a una mancanza di tutele lavorative, anche sul versante
pensionistico.
Per dare maggiore rilevanza e significatività scientifica al lavoro, si
è deciso di contattare alcuni Assistenti Sociali che svolgono la libera
professione e sottoporli ad un’intervista composta da una batteria di
dieci domande, di cui alcune inerenti l’esperienza personale e
l’approccio alla libera professione, altre, poi, concernenti la loro idea di
libera professione e gli sviluppi futuri della professione.
Infine, dopo il prezioso contributo fornito dal dalla dottoressa Longo
(operativo a Roma), dalla dottoressa Pirilli (Roma), dalla dottoressa
Ienzi (Palermo) e dal dottor Sansica (Trapani), si cercherà di
concludere, esaminando e sintetizzando quali sono le motivazioni per
cui si ritiene che la libera professione rappresenta oggi, e costituirà
anche in futuro, la nuova frontiera del lavoro sociale. Perché può essere
un orientamento utile alle nuove generazioni di Assistenti Sociali ai
quali il “posto fisso” sta stretto, a coloro che cercano un’esperienza
stimolante.
L’obiettivo di questa tesi è quello di essere una cassetta degli
7
attrezzi per chi vuole intraprendere la libera professione, di chiarire e
sviluppare il concetto di empowerment anche negli operatori del
sociale, di innescare una miccia che faccia cambiare prospettiva:
bisogna concentrarsi sulle risorse, guardare ciò che c’è e che si può
migliorare e sviluppare, non solo le negatività. La libera professione
può potenziare e correggere alcuni aspetti poco funzionanti del settore
sociale e, al contempo, fornire a molti professionisti l’opportunità di
trovare la loro strada.
8
I. GLI SVILUPPI DELLA LIBERA PROFESSIONE
DELL’ASSISTENTE SOCIALE
Nonostante la professione dell’Assistente Sociale sia svolta quasi
totalmente come lavoro dipendente, negli ultimi anni sta trovando
spazio una nuova forma lavorativa che interessa questa figura: la libera
professione.
Fino agli anni ’90, il binomio Assistente Sociale - libero mercato era
improponibile, soprattutto per il fatto che, pressoché la totalità degli
operatori che terminava il percorso di studi, trovava lavoro quasi
immediatamente come dipendente pubblico. Chi sceglieva di
approcciarsi alla libera professione, infatti, era solamente l’Assistente
Sociale in pensione che voleva continuare la sua attività, dedicandosi
più che altro alla formazione. Oggi, però, il contesto socioeconomico è
totalmente cambiato: la crisi economica, il blocco delle assunzioni, le
nuove forme lavorative e di comunicazione, un nuovo modo di
approcciarsi alla professione hanno contribuito ad un cambiamento di
9
prospettiva che ha portato il professionista a modificare il modo stesso
di operare, senza però scordare i principi e i cardini storici del lavoro
sociale.
I.I L’evoluzione della libera professione: riferimenti normativi e
welfare mix
Fin dagli albori alcune professioni hanno avuto la caratteristica
dell’autonomia, peculiarità che probabilmente manterranno sempre;
basti pensare all’avvocatura, all’attività notarile e altri esempi similari.
Invece, nonostante l’attività libero professionale riguardante la figura
dell’Assistente Sociale sia abbastanza recente, possiamo dire che
l’evoluzione, che ha caratterizzato anche altri ambiti occupazionali,
nasce,
in
generale,
dall’esigenza
di
supplire
alle
mancanze
dell’apparato statale che non può materialmente occuparsi di dare
risposta a tutte le esigenze dei cittadini. Perciò, il professionista decide
di svolgere la propria attività in regime di “quasi concorrenza” nei
confronti dello Stato. Scendendo nello specifico, nel settore dei servizi
sociali, la crisi fiscale dello Stato ha operato molti tagli in tale ambito,
ciò ha favorito la legittimazione di nuovi attori e nuove forme di
fruizione dei servizi in una logica di welfare mix, in cui pubblico e
privato coesistono. Inoltre, il sistema lanciato dalla legge 328 del 2000
10
“legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali” si oppone a quello universalistico statale, richiedendo,
invece, risposte personalizzate alle esigenze del cittadino, estendendo il
concetto stesso di bisogno e approcciandosi alla risoluzione in maniera
diversa, più indiretta, con interventi di lungo periodo, escludendo la
limitazione al solo aiuto economico, come accadeva in precedenza.
Pertanto, affinché questo nuovo modo di lavorare nel sociale venga
messo in atto concretamente e non resti una mera opportunità, il settore
privato deve per forza affacciarsi e interfacciarsi in campi nuovi, prima
egemonia statale.
In questo nuovo scenario, quindi, come sostiene Antonietta Paglia,
“probabilmente il lavoro di libera professione rappresenterà una
scelta obbligata per molti dei futuri laureati Assistenti Sociali”. 1
Sebbene, nel linguaggio comune, il lavoro autonomo sia definito
come libera professione, questo appellativo è improprio poiché il
Codice Civile disciplina la questione nel libro V, riguardante il lavoro,
e nello specifico al titolo III, inerente il lavoro autonomo, qualificando
questa tipologia di lavoro come professione intellettuale.
Partendo dalla legge n. 84 del 1993 “Ordinamento della professione
di assistente sociale e istituzione dell'albo professionale”, che definisce
la figura dell’Assistente Sociale e il suo profilo professionale, ne
istituisce l’Ordine e ne disciplina l’iscrizione all’albo, appare
1
Paglia A., “Gli Assistenti Sociali e la libera professione” in Dimensione professionale del
servizio sociale n.1/2015 pagg.15-16.
11
importante per il tema trattato riportare il comma 3 dell’articolo 1 che
recita: “la professione di Assistente Sociale può essere esercitata in
forma autonoma o di rapporto di lavoro subordinato”. Nonostante la
definizione di tale possibilità di auto-imprenditoria, a più di vent’anni
dalla suddetta legge, le esperienze di libera professione sono ben poche
e si riducono a occupazioni di precariato, di incarichi saltuari o ancora
di un secondo lavoro supplementare a quello in forma dipendente.
Anche la legge 119 del 2001 “Disposizioni concernenti l’obbligo del
segreto professionale per gli Assistenti Sociali”, riconosce la possibilità
per codesta figura di esercitare la libera professione. L'articolo 1
prescrive,
infatti,
che
“gli assistenti sociali iscritti all'albo
professionale istituito con legge 23 marzo 1993, n. 84, hanno
l'obbligo del segreto professionale su quanto hanno conosciuto per
ragione della loro professione esercitata sia in regime di lavoro
dipendente, pubblico o privato, sia in regime di lavoro autonomo
libero-professionale”.
Inoltre, con il Decreto del Presidente della Repubblica 137 del 2012
“Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali” si è
definito professionista colui il quale svolge un’attività che può essere
esercitata solo dopo l’acquisizione di una qualifica e la successiva
iscrizione all’Ordine professionale. In tale categoria, perciò, rientra
anche la figura dell’Assistente Sociale, che, come gli altri
professionisti, potrà espletare l'esercizio della professione in modo
12
libero e fondato sull'autonomia e indipendenza di giudizio, intellettuale
e tecnico.
Naturalmente sono contenute anche delle disposizioni favorevoli
alla libera professione nel codice deontologico, in cui all’articolo 52 è
testualmente riportato che “l’Assistente Sociale può esercitare l’attività
professionale in rapporto di dipendenza con enti pubblici e privati in
forma autonoma o libero-professionale”.
A contribuire al sistema di progressiva diffusione del ruolo di libero
professionista è stato fondamentale il passaggio dal welfare state al
welfare mix, che ha incentivato sempre più il ricorso al libero mercato
e ha portato sullo stesso piano il settore pubblico e quello privato,
facendo interagire questi due sistemi fra loro. Il suddetto passaggio è
avvenuto soprattutto per cause da imputare a motivazioni economicofiscali: la profonda crisi del nostro Stato ha portato all’esigenza di
smontare il sistema di welfare precedentemente utilizzato, perché si è
ritenuto troppo dispendioso e poco rispondente ai bisogni, ogni giorno
più complessi e differenziati. Il nuovo sistema di welfare prevede un
sistema integrato di interventi e servizi sociali, introdotto dalla legge
quadro 328 del 2000, fondamentale in tal senso, che basa l’azione su
livelli essenziali da garantire su tutto il territorio nazionale, su criteri di
partecipazione e concertazione fra tutti gli attori coinvolti e sulla libera
scelta da parte degli utenti dei servizi di cui fruire, garantita da nuovi
strumenti di trasparenza e certificazioni di qualità dei servizi offerti.
13
I.II Definizione della figura di Assistente Sociale libero
professionista
Per libera professione s’intende il lavoro intellettuale svolto in
maniera autonoma, senza il vincolo, o quasi, della subordinazione. Per
svolgere la gran parte delle libere professioni non è generalmente
richiesta l'iscrizione all’albo professionale, ad eccezione delle ipotesi
previste dalla legge. Infatti, le cosiddette “attività riservate” a soggetti
iscritti sono precisamente indicate e costituiscono un elenco limitato
rispetto al vasto campo di servizi professionali centrati sull'apporto
intellettuale. L'iscrizione ad un albo professionale è tipica delle
"professioni protette", le cui prestazioni professionali possono essere
eseguite solo dai membri dell’ordine o dagli iscritti all’albo. 2
Se si vuole tentare di definire la figura dell’Assistente sociale libero
professionista, bisogna cominciare col ragionare sul fatto che egli
esercita un’attività lavorativa intellettuale, imperniata da una
competenza scientifica e specializzata derivante da una formazione e da
una professionalità maturate nel tempo. Inoltre, bisogna tenere a mente
che il codice deontologico, definendo principi e responsabilità, fornisce
al professionista delle linee guida da seguire per operare in maniera
eticamente corretta in qualsiasi ambito lavorativo. Se è anche vero che
è libero, in primis, l’Assistente Sociale è un professionista. Dice
2 Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Libero_professionista
14
Greenwood che gli elementi che costituiscono gli attributi distintivi di
una professione sono cinque. Secondo l’autore, sembra che tutte le
professioni che siano identificate come tali, posseggano: una teoria
sistematica, ossia un’abilità superiore derivante da teorie scientifiche
condivise e basilari per l’operato del professionista; un’autorità
professionale
data
dalla
competenza;
un’approvazione
e
un
riconoscimento da parte della comunità; un codice deontologico che ne
guidi l’azione e l’appartenenza ad un Ordine professionale; una propria
cultura.
L’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali ritiene che “la
professione è esercitata in modo autonomo quando l’attività è svolta
nei confronti di diversi committenti, senza vincolo di subordinazione,
attraverso una propria organizzazione di mezzi e del lavoro ed in modo
abituale quando gli atti attraverso cui si estrinseca l’attività sono svolti
con regolarità e sistematicità”. 3
3
http://www.cnoas.it/Assistenti_Sociali/Professione/Libera_professione.html
15
II. COMPITI E COMPETENZE DELL’ASSISTENTE
SOCIALE LIBERO PROFESSIONISTA
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali ha
sempre puntato l’attenzione sulla libera professione, ritenendola un
importante canale di sviluppo futuro. L’Assistente Sociale è sempre più
considerato come un “professionista”, attento alla lettura del bisogno,
ma anche alla costruzione di un progetto, in vista di un possibile
risultato; per cui occorre dare visibilità alle competenze gestionali e di
programmazione, cercando di organizzare ed erogare in un’ottica
imprenditoriale un servizio commisurato alle reali aspettative del
cittadino, che potrà divenire un cliente. 4
L’Assistente Sociale, quindi, in coerenza con i principi operativi
della professione, si propone come manager dei servizi integrati,
perciò, deve possedere la capacità di promuovere la partecipazione
della comunità per l’attivazione di risposte funzionali ai nuovi bisogni
4
Cfr. Agosta S., “La professione di Assistente sociale e l’esercizio libero professionale” in
Professione Assistente Sociale n. 2/2010 pag. 3.
16
emergenti e farsi, poi, portavoce delle istanze degli utenti, divenendo
un ponte fra il territorio e la politica.
II.I Breve storia del servizio sociale, chi è e di cosa si occupa
l’Assistente Sociale
Ripercorrendo in maniera sintetica la storia del servizio sociale
possiamo iniziare la trattazione asserendo che lo Stato nel primo
periodo non interviene nell’assistenza, infatti, agli albori, nel XVII
secolo, l’unica istituzione ad avere a cuore i bisogni di poveri, malati,
emarginati era la Chiesa appoggiata da alcune istituzioni private: le
Opere Pie. Il debutto dello Stato, per quanto riguarda il settore, si ha nel
1862 con la legge Rattazzi, che istituisce in ogni comune italiano le
Congregazioni di Carità, e poi ancora nel 1890 con la legge Crispi, che
trasforma le Opere Pie in Istituzioni di Pubblica Assistenza e
Beneficienza (IPAB).
La storia del servizio sociale italiano si può comunque suddividere
in tre fasi, che si caratterizzano per un diverso modo di intendere
l’assistenza, per l’emanazione delle leggi che hanno avuto ripercussioni
sul servizio sociale e per l’avvio dei primi percorsi formativi.
Dal primo dopoguerra al 1928: questa fase si caratterizza per le
iniziative di volontariato rivolte solo
17
ad
alcune
categorie
di
persone e per la fondazione dei primi istituti per la formazione degli
operatori (nel 1920 nasce l’Istituto Italiano di Assistenza Sociale a
Milano)
Dal 1928 al secondo dopoguerra: questa è caratterizzata per molte
iniziative caritatevoli che mirano a ristabilire condizioni di vita
accettabili in persone che vivono in stato di bisogno. Vi è la creazione
della prima Scuola Superiore per Assistenti Sociali a Roma nel 1928 e
vi sono i primi tentativi di strutturazione dei Servizi Sociali. Nel
periodo fascista assistiamo, infatti, ad una categorizzazione degli utenti
con il sorgere di vari enti assistenziali, quali l’Opera Nazionale per la
Maternità e l’Infanzia (ONMI), gli Enti Comunali di Assistenza (ECA),
che sostituiscono le Congregazioni di Carità, l’Istituto Nazionale di
Previdenza Sociale (INPS), l’Istituto Nazionale di Assistenza per gli
Infortuni sul Lavoro (INAIL).
Dal secondo dopo guerra: questo periodo segna l’avvio del servizio
sociale professionale, vengono riconosciute le teorie, i metodi e le
tecniche di lavoro. Sorgono e si sviluppano le prime sedi di formazione
a carattere universitario. Quest’ultimo periodo è il più importante
perché ha visto il riconoscimento giuridico della professione e la sua
legittimazione.
Alla fine della guerra, nel 1946, ebbe luogo il convegno di
Tremezzo, nel quale si definisce il servizio sociale come “l’ultima
espressione cui siamo giunti nell’evolversi progressivo del concetto di
carità, che si va facendo sempre più
18
sociale,
fondandosi
sui
concetti di dignità umana, ideale di giustizia, prevenzione sociale”.
A tutelare l’assistenza sociale è l’articolo 38 della costituzione, che
sancisce che “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi
necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza
sociale”. Continua affermando che per questi compiti sono stati creati
degli istituti predisposti o integrati dallo Stato, così si intende sancire
anche la libertà dell’assistenza privata e quindi il principio di
sussidiarietà orizzontale. Il diritto all’assistenza sociale può essere
ricondotto all’esigenza della tutela dei diritti inviolabili, sanciti
nell’articolo 2, e al principio della pari dignità sociale e
dell’uguaglianza sostanziale, legiferati nell’articolo 3, che mira ad
assicurare una vita dignitosa e a tutelare situazioni di particolare
bisogno dei cittadini.
Nel periodo degli anni ’40 e ’50, vi era la ricostruzione post-bellica
che rendeva difficile l’erogazione di interventi organici, quindi
l’assistenza era ancora settorializzata e centralizzata. I modelli di
intervento che venivano utilizzati erano di ispirazione medica e
giuridica, basati sul case work, ma già dall’inizio degli anni ’60 fino
alla fine degli anni ’70 vi sono grosse innovazioni: si inizia a parlare di
decentramento amministrativo, vengono istituiti gli uffici di servizio
sociale e ufficializzate le funzioni degli Assistenti Sociali, alcune sedi
formative diventano universitarie, e si iniziano ad utilizzare
metodologie di lavoro diverse dal case work come il lavoro di gruppo e
di comunità. Il primo scossone, che
19
contribuì
a
ravvivare
il
panorama dell’organismo assistenziale, ebbe luogo nel 1970 con
l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, che rappresentarono il
primo tassello del decentramento amministrativo. All’interno di questo
scenario ci furono parecchie trasformazioni culturali e normative, a
cominciare dalla “riforma del diritto di famiglia” proclamata dalla
legge n. 151 del 1975. Nello stesso anno il parlamento delega il
governo a terminare il decentramento amministrativo e, lungo questa
direttrice, un passo basilare è rappresentato dal DPR 616 del 1977 che
trasforma l’assistenza in sicurezza sociale e assicura l’universalità delle
prestazioni a tutti. Le regioni ricevevano per la prima volta dei compiti
amministrativi
all’assistenza
e
prendevano
sociale,
parte
acquistando
un
all’attuazione
ruolo
di
del
diritto
primo
piano
nell’organizzazione e nella realizzazione degli interventi pubblici.
Inoltre, il DPR stabiliva che tutte le funzioni amministrative relative
all’organizzazione ed all’erogazione dei servizi di assistenza e di
beneficienza fossero attribuite ai Comuni. Prendeva così avvio un
processo di riassetto generale del welfare socio-assistenziale italiano
che mira a riunificare le competenze gestionali in capo ad un unico
ente, il Comune. Si pensava in quel periodo ad una legge nazionale di
riordino del sistema socio-assistenziale nazionale, realizzata solo con la
“Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale” nel 1978 con la legge
833, che segnò la fine di un’organizzazione assistenziale categorizzata.
La riforma, inoltre, completa il decentramento amministrativo già
iniziato. Anche dal punto di vista formativo questo periodo è
importante, inizia l’utilizzo di metodi di lavoro unitari e si dà
20
sempre più attenzione alla comunità.
Nel corso degli anni ’80 e ’90 vi è la crisi del welfare state, la
nascita delle Aziende Ospedaliere e Sanitarie, la creazione di nuovi
servizi come il Sert e l’emanazione di leggi importanti che riguardano
il sociale. Nel 1985 vengono stilati i regolamenti delle scuole dirette a
fini speciali per Assistenti Sociali e nel 1987 al titolo di Assistente
Sociale si attribuisce il riconoscimento giuridico, nel 1993 la legge n.
84 ordina la professione di Assistente Sociale e crea l’albo
professionale, nel 1994 nasce anche l’Ordine Professionale, mentre il
codice deontologico viene istituito nel 1998. Il metodo di lavoro è di
tipo unitario con tecniche diverse e integrate, che prende in
considerazione contemporaneamente il singolo individuo e la sua
famiglia.
Dagli anni 2000, si potrebbe dire, ha inizio la quarta fase della storia
del servizio sociale. Quest’ultimo viene rafforzato come disciplina e
viene attribuita maggiore dignità alla professione: le scuole di servizio
sociale diventano corsi di laurea triennale e con la legge 328/2000 vi è
la riforma dell’assistenza, che porta importanti novità nell’ambito della
programmazione e gestione dei servizi.
L’assetto istituzionale e organizzativo del welfare socio-assistenziale
italiano, quindi, è stato attraversato da profondi processi di
trasformazione e rinnovamento, sia sul livello delle competenze
amministrative, sia per ciò che riguarda le modalità di intervento ed
erogazione
di
servizi.
Questi cambiamenti hanno portato ad un
21
“nuovo ciclo di vita dei sistemi socio-sanitari che sempre di più si
ispirano a principi come quelli di federalismo e sussidiarietà,
riconoscendo l’autonomia legislativa delle Regioni in materia di
assistenza
sociale
e
l’affermazione
di
modelli
organizzativo-
istituzionali che attribuiscono ai Comuni la titolarità delle funzioni
amministrative concernenti i servizi sociali e che valorizzano la
collaborazione tra pubblico e privato”. 5
La legge 328 del 2000 “legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali” ha ridefinito il profilo delle
politiche sociali apportando tutta una serie di elementi di novità. Questa
legge si colloca in un vuoto legislativo di oltre 110 anni in cui è
mancata una regolamentazione organica dei servizi socio-assistenziali.
Prima della 328, infatti, solo la legge Crispi del 1890 aveva costituito la
norma organica di riferimento per l’assistenza sociale. Tra le due
norme numerosi sono stati i cambiamenti e le riforme settoriali ma solo
con la legge del 2000 si è giunti alla creazione di un quadro normativo
unitario valido per l’intero territorio nazionale.
Essa ha innanzitutto segnato il passaggio dalla concezione di utente
quale portatore di un bisogno specialistico a quella di persona nella sua
totalità costituita anche dalle sue risorse e dal suo contesto familiare e
territoriale; quindi il passaggio da una accezione tradizionale di
assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente
riparativi del disagio, ad una di protezione sociale attiva, luogo di
5
Ferioli A., Diritti e servizi sociali nel passaggio dal welfare statale al welfare municipale,
Giappichelli, Torino, 2003.
22
rimozione delle cause di malessere e soprattutto luogo di prevenzione e
promozione dell’inserimento della persona nella società attraverso la
valorizzazione delle sue capacità.
L’attenzione con tale legge si è spostata poi dalla prestazione
disarticolata al progetto di intervento e al percorso accompagnato; dalle
prestazioni
monetarie
volte
a
risolvere
problemi
di
natura
esclusivamente economica a interventi complessi che intendono
rispondere ad una molteplicità di bisogni; dall’azione esclusiva
dell’ente pubblico a una azione svolta da una pluralità di attori quali
quelli del terzo settore.
Il sistema è finalizzato alla valorizzazione della persona e della
partecipazione attiva dei cittadini e al superamento della concezione
“statalista” dei diritti sociali, nella prospettiva di realizzare un sistema
di ispirazione universalistica in cui il pubblico e il privato cooperano
all’insegna della sussidiarietà orizzontale e del principio di solidarietà.
Il sistema dei servizi assistenziali tra i diversi livelli di governo si
caratterizza per un progressivo decentramento delle funzioni. La legge
328 rispetta essenzialmente il riparto delle competenze come delineato
dai decreti Bassanini (con la legge 59 del 1997 "Delega al Governo per
il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la
riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione
amministrativa") ribadendo la cosiddetta programmazione a cascata:
Ø I Comuni restano titolari delle funzioni di programmazione e
progettazione degli interventi a livello locale, attuate attraverso il
23
Piano di Zona, nel quale si definisce il sistema dei servizi sociali a rete
attraverso forme di consultazione. Ciò determina anche l’aggregazione
dei diversi Comuni in un unico ambito territoriale così da permettere la
predisposizione di servizi idonei ai bisogni specifici della popolazione
locale, evitando la frammentazione della programmazione affidata ai
singoli Comuni. L’ente locale, inoltre, esercita funzioni di controllo su
tutti i partecipanti al sistema.
Ø Alle Regioni spettano compiti di programmazione, coordinamento
ed indirizzo degli interventi, nonché il controllo.
Ø Lo Stato, invece, ripartisce le risorse finanziarie del Fondo
Nazionale Politiche Sociali; indirizza le politiche locali, stabilendo
principi e obiettivi attraverso il Piano Nazionale degli interventi e dei
servizi sociali ogni tre anni e determinando livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire in tutto il
paese.
A solo un anno dalla tanto attesa normativa in campo sociale, la
riforma del titolo V della Costituzione modifica ulteriormente le cose.
La Costituzione, infatti, ha legittimato il cambiamento avvenuto nelle
Regioni a causa del trasferimento di competenze, tanto amministrative
quanto legislative, avvenuto a loro favore. Allo Stato spetta la potestà
esclusiva su alcune materie e concorrente con le Regioni su altre,
entrambe elencate nell’articolo 117 della Costituzione. Ogni materia
non espressamente riservata alla legislazione statale, e perciò non
24
menzionata dall’articolo 117, è potestà legislativa esclusiva delle
Regioni.
I servizi sociali rientrano nella competenza legislativa regionale, non
più solo dal punto di vista amministrativo, ma da quello anche
legislativo. Mentre, la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni relative ai diritti civili e sociali resta affidata alla
competenza esclusiva dello Stato.
Le Regioni, pertanto, non sono più tenute ad osservare la legge 328
ma solo i livelli essenziali determinati dallo Stato, rispettando, però, nel
legiferare in materia di assistenza sociale anche gli obblighi
internazionali imposti dall’Unione Europea.
A livello nazionale, la legge 328/2000 anche se non è riuscita ad
affrontare le criticità storiche del welfare italiano, ha però favorito il
potenziamento della rete dei servizi affidata ai Comuni e ha dato
impulso all’attività normativa e programmatica di quasi tutte le Regioni
italiane.
6
L’introduzione dei Piani di Zona e la programmazione
partecipata tra diversi soggetti (come Comuni, Asl, rappresentanti del
terzo settore, cooperative sociali, imprese no profit, ecc.) prevede la
mobilitazione di tutte le risorse, e che gli attori rilevanti, che conoscono
bene le condizioni della società locale, siano in grado di mobilitare le
risorse migliori per sviluppare politiche efficienti ed efficaci. 7
6
Cfr. Siza R.,”La 328 e gli squilibri del welfare italiano”, in Prospettive Sociali e Sanitarie n.
13/2010, pagg.1-4.
7
Cfr. Kazepov Y., Carbone D., Che cos’è il welfare state, Carocci, Roma, 2007, pag. 78.
25
Con la legge 328/2000 vi è il superamento di un sistema di interventi
riparativi, successivi alla manifestazione del bisogno, a favore di un
sistema di protezione sociale attiva, in cui le prestazioni offerte hanno
lo scopo di eliminare le cause del disagio. Le politiche sociali, ed è uno
scopo della legge, devono essere rivolte alle persone e non alle
categorie, offrendo prestazioni flessibili in grado di rispondere alle
esigenze di ciascuno. Fondamentali sono per le politiche sociali la
promozione
delle
risorse
individuali,
delle
opportunità,
delle
competenze attraverso cui ogni cittadino può far fronte alle difficoltà e
ai rischi sociali superando dove è possibile le cause scatenanti.
Le moderne politiche sociali, dopo la 328, si stanno quindi
orientando verso quella che è definita Community Care, concetto-guida
già dato per scontato nei welfare di tutti gli altri stati occidentali. Per
community care si intende quel completo ripensamento del sistema di
interventi e servizi sociali in vista della realizzazione di politiche per la
comunità e da parte della comunità stessa, cioè orientato alla creazione
di una “caring society”. Primo principio della community care è quindi
la presa in carico della comunità da parte della comunità stessa in tutti i
suoi elementi attraverso l’intreccio di questi aiuti informali spontanei.
Poiché però questi aiuti difficilmente si attivano al di là della cerchia
ristretta delle reti più immediate quali la famiglia, bisogna promuovere
anche la partecipazione del privato sociale, che non può più essere
pensata solamente come residuale o integrativa.
Nuove competenze vengono quindi richieste all’operatore che
26
deve concentrare la sua disponibilità operativa in un dato territorio
provvedendo alle necessità della comunità, attraverso il raccordo di una
pluralità di apporti e di risorse locali. In particolare l’Assistente Sociale
deve essere capace di lavorare in rete con altri servizi e professionisti
(psicologi, educatori, medici…) e saper realizzare “pacchetti” di servizi
in un’ottica di rete, cioè coinvolgendo le reti formali (parenti, amici,
vicini di casa, colleghi di lavoro) e informali. Con la legge 328 del
2000 si realizza, quindi, il passaggio da una programmazione che
utilizzava una prospettiva di tipo “government”, in cui era il soggetto
pubblico a prendere decisioni (a governare), a una prospettiva di tipo
“governance”, in cui il governo si realizza grazie alla mobilitazione di
una serie di soggetti (pubblici, di privato sociale e della società civile).
Il concetto di governance implica l’idea che il raggiungimento di un
obiettivo è frutto dell’azione autonoma, ma non isolata, dei diversi
attori (Stato, Regioni, Province, Enti locali, Terzo settore e privati) che
possono e debbono dare un contributo al processo di attuazione delle
politiche sociali. La partecipazione attiva degli attori sopracitati è resa
possibile
dall’avvenuta
decentralizzazione.
È
la
tendenza
al
decentramento istituzionale della politica stessa, in una logica di
governo non più gerarchico ma declinato territorialmente, che crea le
condizioni per la loro azione.
Ma chi è l’Assistente Sociale?
Possiamo definire tale figura come un operatore che opera al fine di
prevenire e risolvere situazioni di disagio e di emarginazione di
27
singole persone, di nuclei familiari e di particolari categorie in
difficoltà (minori, anziani, persone con dipendenza patologica, con
disturbi psichici, ecc.). Come recita l’art. 11 del codice deontologico
“l’Assistente
Sociale
deve
impegnare
la
propria
competenza
professionale per promuovere l’autodeterminazione degli utenti e dei
clienti, la loro potenzialità ed autonomia, in quanto soggetti attivi del
progetto di aiuto, favorendo l'instaurarsi del rapporto fiduciario, in un
costante processo di valutazione”.
I compiti principali, quindi, riguardano: l’individuazione di bisogni
dei soggetti che si trovano in situazioni di disagio; lo svolgimento di
un’indagine sugli strumenti di intervento disponibili nel territorio e
adatti al singolo caso da trattare; l’instaurazione di un contatto tra i
servizi territoriali competenti e il soggetto; la creazione di raccordi fra
l’attività delle strutture e dei servizi socio-sanitari competenti e gli
interventi di sostegno e recupero; la definizione di un percorso da
seguire con i soggetti bisognosi, elaborandolo anche con la
collaborazione di un gruppo di lavoro multidisciplinare. È, allora,
possibile definirla come una figura complessa in quanto può svolgere
non solo attività socio-assistenziale in senso stretto, ma anche attività
socio-organizzativa per la programmazione di interventi; attività di
relazione con l’autorità giudiziaria e attività di orientamento per coloro
che vogliono usufruire dei servizi. La Federazione Internazionale degli
Assistenti Sociali nel 2004 propone la seguente descrizione “il servizio
sociale professionale promuove il cambiamento sociale, la soluzione
dei
problemi
nelle
relazioni umane e la restituzione di potere e
28
la liberazione delle persone per aumentare il benessere”.
Le competenze degli Assistenti Sociali, nello specifico, possono
essere ricondotte ad almeno sette tra le funzioni abitualmente svolte,
ognuna in proporzione diversa a seconda dei servizi considerati:
• funzioni di studio, indagine, ricerca e documentazione, rilevanti
tanto per la finalizzazione al lavoro di progettazione, organizzazione,
gestione e verifica degli interventi sociali, quanto per l’attivazione di
sistemi informativi utili ai cittadini in vista della promozione alla
partecipazione e al corretto accesso alle risorse disponibili;
• funzioni di consulenza, sostegno e intervento psicosociale, intese
prevalentemente in relazione al trattamento dei casi, a favore dei
singoli utenti dei servizi, delle famiglie, dei gruppi, ma anche in termini
di attivazione e responsabilizzazione delle reti sociali e dell’intera
comunità locale;
• funzioni
di
programmazione,
progettazione,
organizzazione,
amministrazione, coordinamento e gestione dei servizi sociali e
sociosanitari, perlopiù tradotte in attività sia per l’elaborazione e la
conduzione di progetti sia per l’amministrazione e la gestione di singoli
servizi e strutture socioassistenziali o sociosanitarie;
• funzioni di carattere giuridico-amministrativo, sostanziate in attività
di consulenza e corretta informazione giuridico-amministrativa nel
campo sociale e sociosanitario, soprattutto nei confronti degli utenti;
• funzioni
di
attivazione
e gestione del sistema informativo
29
in campo sociale al fine di facilitare la massima conoscenza ai cittadini
per l’esercizio della loro autodeterminazione, attraverso l’impegno del
professionista nella documentazione sistematica attinente al proprio
lavoro, sia per l’analisi e la valutazione delle situazioni affrontate, sia
per l’elaborazione, l’attuazione e la verifica dei piani di intervento,
nonché nella raccolta sistematica delle informazioni inerenti i servizi
sociali e sociosanitari, riferendosi anche alle risorse formali e informali
presenti nel territorio;
• funzione didattica e di supervisione professionale, volta soprattutto
alla formazione professionale di base degli assistenti sociali mediante
l’attivazione di tirocini professionali, è esercitata dagli assistenti sociali
più esperti, in qualità di supervisori degli studenti presso le sedi
operative dei servizi, in collaborazione con le sedi universitarie;
• funzione di promozione della partecipazione dei singoli cittadini,
delle reti di sostegno e protezione sociale in una prospettiva di
community care, dei gruppi, in particolare nelle esperienze di mutuoautoaiuto e delle associazioni no profit, nella programmazione,
attivazione, organizzazione, controllo di servizi alle persone. 8
Riportando le parole di Anna Maria Campanini “l’Assistente Sociale
attraverso la descrizione della realtà costruisce connessioni, propone
nuove forme possibili, ristruttura significati, individua strategie
d’azione e opera secondo uno stile relazionale orientato alla
8
Cfr. Gui L., “La figura dell’Assistente Sociale” in La rassegna bibliografica infanzia e
adolescenza n. 3/2005, pagg. 11-12.
30
reciprocità e alla capacità di inserirsi nei processi in corso”.9
L’attuale collocazione lavorativa degli assistenti sociali, costituita in
massima parte dalla professione dipendente, è situata soprattutto
all’interno di strutture pubbliche. Le analisi inerenti i diversi ambiti
occupazionali non sono recentissime, ma ci danno contezza di come si
sia sviluppato negli anni il lavoro sociale fino a questo momento.
L’analisi CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) del 1999
“Essere protagonisti del futuro: scenari di sviluppo per il ruolo degli
assistenti sociali” vedeva collocati il 39,5% degli assistenti sociali in
enti locali, il 34,6% nel comparto pubblico della sanità, il 7,5% in enti
privati, il 7,2% presso cooperative, il 6,0% nello Stato e il 5,2% in enti
pubblici diversi da quelli indicati, mentre il 7,5% è impegnato nel
lavoro autonomo .
Più recentemente, nel 2006, è stato pubblicato un ulteriore studio
"Dentro la professione verso possibili consensi. Una ricerca con e tra
Assistenti Sociali", realizzata da SUNAS e Socialia e curata da Ugo
Albano, Clelia Capo e Fiorella Cava. Da ciò si evince che l’Assistente
Sociale è donna nel 78% dei casi, nel 44% delle situazioni ha fra 41 e
50 anni e, 6 professionisti su 10, possiedono una laurea (triennale nel
27% dei casi, quadriennale nel 26%, quinquennale per il 7%). Passando
in rassegna i dati relativi la collocazione lavorativa, si vede un piccolo
cambiamento rispetto ai dati CENSIS del 1999: il 50% del campione è
9
Campanini A., L’intervento sistemico. Un modello operativo per il servizio sociale, Carocci,
Roma, 2005, pag. 135.
31
impiegato nel settore della sanità, mentre il 28% presso gli enti locali,
solamente il 2% presso lo Stato, il 5% in altro ente pubblico, solo il 3%
è impegnato nella cooperazione, il 4% presso enti privati, il 2% svolge
un lavoro autonomo e il 6% dichiara di svolgere la propria attività in
altri settori.
Fra il 1999 e il 2006 la quota operante al di fuori del pubblico resta
fissa al 15% e, in entrambi i casi, il 7,5% dei professionisti dichiara di
svolgere la professione in modo autonomo. Una notevole differenza,
però, sta nella maniera di intendere la formula “lavoro autonomo”: nel
’99, infatti, come rilevato e verificato dallo stesso CENSIS, il dato si
riferisce alla libera professione svolta da un dipendente pubblico che ha
visto aggiudicarsi privatamente un incarico aggiuntivo; al contrario il
2% della ricerca successiva si riferisce a quello che si potrebbe
ridefinire come “lavoro autonomo puro”. 10
RICERCA CENSIS
RICERCA
(1999)
SOCIALIA
(2006)
Sanità
34,6%
50%
Enti locali
39,5%
28%
10
Cfr. Albano U., Bucci L., Esposito D. G., Servizio sociale e libera professione. Dal lavoro
dipendente alle opportunità di mercato, Carrocci Editore, Roma 2008, pag. 29.
32
Stato
6%
2%
Altro ente pubblico
5,2%
5%
Cooperazione
7,2%
3%
Ente privato
7,5%
4%
Lavoro autonomo
7,5%
2%
Altro
6%
II.II Principi e valori della professione
Uno degli attributi fondamentali di ogni professione, soprattutto
quelle a forte contenuto relazionale, riguarda il bisogno di un apparato
valoriale che, sul piano etico-normativo, si traduce in codici di
deontologia professionale. La forte matrice filantropica, da cui sorge il
servizio sociale, sia in Italia che altrove, enfatizza alcuni valori che
diventano guide all’azione, talvolta più importanti dei riferimenti
scientifici e tecnici.
Gli orientamenti valoriali prescelti dal servizio sociale, che sono i
pilastri portanti del lavoro del professionista sociale in qualsiasi forma
33
esso si svolga, ruotano intorno ad un concetto: l’umanità di ogni uomo,
ossia la considerazione della persona come valore in sé. Da ciò si
desume una serie di altri valori che si traducono, a loro volta, in
atteggiamenti e comportamenti:
• dignità ed integrità dell’essere umano, indipendentemente dalla
provenienza, dallo status sociale e dalle convinzioni ideologiche che
sfocia nel principio del rispetto per la persona;
• unicità e irrepetibilità di ogni persona, poiché l’umanità è fatta di
differenze, che pretende, di conseguenza, la necessità di interventi
individualizzati e personalizzati;
• potenzialità, intesa come accrescimento dell’umanità anche nell’arco
di una vita intera, che vede l’Assistente Sociale impegnarsi nel
promuovere la piena autodeterminazione;
• fiducia nell’essere umano come titolare di diritti fondamentali che,
quindi, si concretizza in un lavoro costante che mira all’estensione dei
diritti di libertà, di eguaglianza, di socialità, di solidarietà, di
partecipazione per tutti gli esseri umani.11
II.III Le specificità del libero professionista
11
Cfr. Salombrino M. (a cura di), L’assistente sociale. Manuale completo per la preparazione,
Edizioni Simone, Napoli, 2013, pag. 15.
34
L’Assistente Sociale oggi, deve possedere alcune capacità
indispensabili come il saper ascoltare, mediare, essere disponibile
intellettualmente e operativamente, essere in grado di effettuare lavoro
interdisciplinare e quindi di collaborare con altri professionisti e
possedere molte conoscenze. Deve conoscere gli strumenti adatti alla
sua professione in una società in continuo mutamento, ed essere
costantemente informato sulle norme e sulle leggi attuali, avere una
buona conoscenza, capacità interpretativa e di lettura del bisogno, così
che possa formulare programmi e organizzare sempre nuove attività. 12
Secondo quanto dichiarato da Elena Giudice in un’intervista
pubblicata nell’ottobre 2014, il ruolo dell’Assistente Sociale privato
può essere sintetizzato in cinque punti:
•
“esame dei bisogni, delle risorse familiari, sociali e
comunitarie, che la persona ha attivato in passato e che potrebbe
attivare concretamente nel futuro;
• analisi delle potenzialità delle persone e del loro contesto sociale;
• presentazione alla persona di tutti gli scenari di scelte possibili e
delle relative conseguenze giuridiche, personali e sociali;
• proposta di un intervento o di un trattamento appropriato per quella
persona in quel dato momento della sua vita, accompagnamento,
monitoraggio e supporto l’intero percorso individuale;
12
Cfr. Tessarolo M., “Richiesta e bisogno di formazione: una lettura sociologica” in Batic N.,
Cavagnino G., Riefolo E., Tessarolo M., Bisogno di formazione e professionalità degli
assistenti sociali. Uno studio nel Friuli Venezia Giulia, Cleup, Padova, 1992, pagg. 85-86.
35
• orientamento della persona in stato di bisogno o quando essa
desidera migliorare il proprio stato di benessere rispetto alle risorse
territoriali, favorendone l’accesso”.13
Lavorare come libero professionista significa: rinunciare alle
sicurezze economiche e di rete che fornisce il settore pubblico,
staccarsi da un ambiente protetto e approcciarsi a un contesto incerto in
cui il soggetto in solitaria e in autonomia gestisce il proprio lavoro,
ponendo attenzione ai cambiamenti legati al sistema esterno e
adeguando, così, ad ogni esigenza lo spazio lavorativo consono,
gestendo i tempi e il carico di lavoro, imparando a promuovere e
pubblicizzare il proprio operato e le proprie competenze professionali,
capendo le modalità di gestione delle incombenze fiscali ed
economiche che la libera professione richiede. Quindi un professionista
Assistente Sociale, per esercitare in proprio, deve necessariamente
avere
e
saper
dell’organizzazione
sviluppare
dei
competenze
servizi,
delle
e
loro
conoscenze
problematiche
sia
e
caratteristiche, del contesto istituzionale e socioeconomico in cui si
muove; sia del mercato in cui si propone, avendo chiari campo d’azione
e funzione che intende intraprendere. Deve possedere anche, insieme
alle capacità di gestione relazionale e valutazionale, capacità
manageriali, gestionali ed abilità di marketing. In ogni buon progetto,
perciò, si devono curare analisi e strategie di mercato.
Nonostante le ulteriori capacità che il libero professionista deve
13
Nesi M., “Lavorare come Assistente sociale privato: intervista a Elena Giudice” in
http://news.biancolavoro.it/lavorare-come-assistente-sociale-privato-intervista-elena-giudice/
36
acquisire per svolgere al meglio la propria attività lavorativa, egli non
si può staccare dai valori e dai principi propri della materia, né
tantomeno andare contro le disposizioni definite dal codice
deontologico, né tantomeno da quelle indicate dal quadro normativo.
L’Assistente Sociale, quindi, deve saper porsi come un coordinatore
fra le istanze del singolo utente e il gruppo di appartenenza e la
comunità, fungendo da collante fra gli attori, le istituzioni e le risorse
presenti nel territorio. Aspetto essenziale è quello di dar voce ai propri
utenti, dando la possibilità di poter esprimere le proprie esigenze, le
paure, i bisogni.
II.IV I bisogni del professionista e la distinzione fra professione e
semi-professione
Il passaggio, anche culturale, dalla dipendenza all’autoimprenditoria
impone un’attenta analisi dei bisogni che riguardano l’Assistente
Sociale, che sono sia di ordine materiale, che immateriale. Ovvero, il
professionista deve sentirsi stimolato, appagato e sempre pronto a
imparare e migliorarsi, se vuole evitare una perdita di rendimento nel
proprio lavoro causata da demotivazione e scarsa dedizione al lavoro.
Diverse sono le tipologie di bisogni che possiamo annoverare: tra quelli
primari troviamo l’esigenza di guadagni certi e proporzionati al
37
proprio impegno; altri, invece, riguardano la crescita lavorativa e
intellettuale e l’acquisizione di competenze; poi abbiamo quelli
idealistici fra cui compaiono l’approccio etico al lavoro e la mission
dell’organizzazione; bisogni di sviluppo del sé e di riconoscimento
professionale; quelli legati al confronto con i colleghi e, infine, bisogno
di creatività, che si traduce in un’ottica progettuale del lavoro.
Inutile dire che un lavoro che punta al soddisfacimento dei soli
bisogni primari, senza interessamento verso altre aree di crescita e
dinamicità è qualcosa di inopportuno, che non può coincidere con una
logica libero-professionale. Si tratterebbe, per dirla in termini
sociologici, di mettere in pratica una semi-professione che si basa su
una mera attività pratica di tipo prestazionale, svolta in maniera
monotona, passivamente, burocraticamente, seguendo degli iter
prestabiliti. Questa maniera di lavorare, che è facilmente rintracciabile
nei contesti di pubblica dipendenza, è contrapposta all’esercizio pieno
della professione, che si caratterizza, invece, per un’attività dinamica e
variegata contestualmente, che ha bisogno di continui aggiornamenti e
si basa su una cultura scientifica, liberale, di sfida e di orientamento al
lavoro per obiettivi.
Se ci si chiedesse se l’Assistente Sociale è una professione o una
semi-professione, sembra confacente affidarsi alla risposta fornita da
Ugo Albano, il quale crede che questa sia formalmente una professione
in transizione dalla semi-professione. Per consolidarsi ha, quindi,
l’esigenza di affidarsi a buone prassi di professione agita e un
38
forte bisogno di aprirsi al mercato. Si può, perciò, ribadire che la
dipendenza tollera la semi-professione, ma, senza dubbio, la libera
professione nel mercato pretende la professione. 14
14
Cfr. Albano U., “Essere assistenti sociali oggi” in Albano U., Bucci L., Esposito D. G.,
Servizio sociale e libera professione. Dal lavoro dipendente alle opportunità di mercato,
Carrocci Editore, Roma, 2008, pagg. 17-24.
39
III.
PROFILI
LAVORATIVI
E
ADEMPIMENTI
BUROCRATICI
Le forme più comuni per esercitare la libera professione sono quelle
del lavoro autonomo individuale, della collaborazione con enti pubblici
e non e, infine, dell’istituzione di vari profili di studio associato
monoprofessionale o pluridisciplinale.
Inutile precisare che è requisito indispensabile, che prescinde dalla
tipologia contrattuale e dal campo occupazionale, l’aver conseguito
l’abilitazione all’esercizio della professione di assistente sociale dopo
aver superato l’esame di Stato e aver provveduto all’iscrizione
all’Ordine regionale di competenza, essendo perciò stato inserito
all’interno dell’albo professionale (sezione A o B).
L’Assistente sociale che intende svolgere la propria attività in
maniera autonoma individuale e in modo abituale ed autonomo ha
l’obbligo di richiedere l’apertura della Partita IVA e di porre in essere
tutti gli adempimenti conseguenti.
40
La professione è esercitata in modo autonomo quando l’attività è
svolta nei confronti di diversi committenti, senza vincolo di
subordinazione, attraverso una propria organizzazione di mezzi e del
lavoro ed in modo abituale, quando gli atti attraverso cui si estrinseca
l’attività sono svolti con regolarità e sistematicità. Nel momento in cui i
requisiti suddetti vengono a coesistere nasce l’obbligo dell’apertura
della Partita IVA.
Si può manifestare anche il caso in cui l’esercizio libero
professionale sia cumulato con un rapporto di dipendenza, in tale
situazione l’obbligo di apertura della Partita IVA sussiste solo nel caso
in cui, compatibilmente con il rapporto di lavoro subordinato,
l’Assistente sociale svolga anche collaborazioni che siano consistenti
per numero, rilevanza economica e frequenza, tanto da far ritenere che
stia svolgendo anche una libera attività.
L’assistente sociale che intende svolgere la professione in modo
autonomo ed abituale deve, entro e non oltre 30 giorni dall’inizio
dell’attività professionale, effettuare specifici adempimenti, ossia:
ü presentare all’Agenzia delle Entrate competente per territorio, la
richiesta di attribuzione del numero di Partita IVA;
ü eseguire l’iscrizione alla gestione separata dell’INPS (poiché gli
Assistenti sociali sono privi di apposita Cassa di previdenza);
ü facoltativamente aprire una posizione INAIL. 15
15
Cfr. http://www.cnoas.it/Assistenti_Sociali/Professione/Libera_professione.html
41
In alternativa, l’attività può essere svolta anche in forma di
collaborazione, ne esistono varie tipologie. Una possibilità è la
collaborazione occasionale, la quale si realizza attraverso la stipula di
un atto in cui risultino la durata della collaborazione, che non può
essere superiore a trenta giorni l’anno con lo stesso committente, e
l’indicazione di un corrispettivo che deve essere proporzionato alla
qualità e quantità del lavoro garantito. Un'altra forma è la
collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti Co.Co.Co) i quali
rappresentano una categoria intermedia fra il lavoro autonomo ed il
lavoro dipendente. Infatti, lavorano in piena autonomia operativa,
escluso ogni vincolo di subordinazione, ma nel quadro di un rapporto
unitario e continuativo con il committente del lavoro. Sono pertanto
funzionalmente inseriti nell’organizzazione aziendale e possono
operare all’interno del ciclo produttivo del committente, al quale viene
riconosciuto un potere di coordinamento dell’attività del lavoratore con
le esigenze dell’organizzazione aziendale.
A seguito dell'entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 276 del
2003 “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato
del lavoro”, la cosiddetta riforma Biagi, non è più possibile instaurare
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, se non sono
riconducibili ad un progetto, un programma di lavoro o una fase di
esso. 16
Un’altra tipologia di collaborazione è quella coordinata e
16
Cfr. http://www.inps.it/portale/default.aspx?itemdir=5769
42
continuativa a progetto (cosiddetti Co.Co.Pro.), in cui il lavoro deve
essere ricondotto a un progetto, un programma o anche una fase di
lavoro, determinata in precedenza dal datore di lavoro e poi gestito in
completa autonomia dal professionista, che deve raggiungere
l’obiettivo in tempi stabiliti.
Dal 25 giugno 2015, con l’entrata in vigore del Decreto Legislativo
n. 81 “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della
normativa in tema di mansioni”, non è più possibile stipulare contratti
di collaborazione a progetto. I contratti di questo tipo già stipulati a tale
data, continueranno ad essere normati in base alla disciplina previgente,
ma a partire dal 1° gennaio 2016, le collaborazioni di tipo
parasubordinato o nella forma del lavoro autonomo saranno considerate
come lavoro subordinato, qualora si concretizzino in prestazioni di
lavoro esclusivamente personali, continuative ed organizzate dal
committente rispetto al luogo ed all’orario di lavoro. Nelle pubbliche
amministrazioni il divieto di stipulare collaborazioni con le suddette
caratteristiche scatterà dal 2017. 17
L’esercizio professionale, oltre alle tipologie sopracitate che
riguardano tutte quante forme individuali, può essere svolto in maniera
collettiva attraverso vari tipi d’impresa:
• società, si ha quando “due o più persone conferiscono beni o servizi
per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di
17
Cfr. http://www.cliclavoro.gov.it/NormeContratti/Contratti/Pagine/Contratto-di-lavoro-aprogetto.aspx
43
dividerne gli utili” (articolo 2247 del Codice Civile);
• cooperative “sono società dedite alla produzione di beni o servizi
dove lo scopo comune non è il profitto, ma quello mutualistico che
consiste nel vantaggio che i soci conseguono grazie allo svolgimento
della propria attività, invece che con terzi, direttamente con la società”
(articolo 2511 del Codice Civile);
• ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) secondo
l’articolo 10 del Decreto Legislativo n. 460 del 1997 “Riordino della
disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni
non lucrative di utilità sociale”, sono le associazioni, i comitati, le
fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, i
cui statuti o atti costitutivi prevedono come obiettivo il perseguimento
di finalità di solidarietà sociale, il divieto di distribuzione degli utili e lo
svolgimento di attività riguardanti assistenza sociale e socio-sanitaria,
beneficienza, istruzione, sport, formazione, ricerca, tutela dei diritti,
tutela dell’ambiente;
• associazioni di promozione sociale la legge 383 del 2000
“Disciplina delle associazioni di promozione sociale” li definisce come
“i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al
fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi,
senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli
associati”;
• imprese sociali, cioè tutte quelle imprese private, comprese le
società cooperative, la cui attività economica d'impresa principale è
44
stabile e ha per oggetto la produzione e lo scambio di beni e servizi di
utilità sociale, ricadenti nei settori indicati dal Decreto Legislativo n.
155/2006 “Disciplina dell'impresa sociale” (assistenza sociale, sanitaria
e socio sanitaria, educazione, istruzione, tutela ambientale e dei beni
culturali, formazione, turismo sociale) o che mirano all'inserimento di
lavoratori disabili e svantaggiati se questi costituiscono almeno il 30%
del personale totale;
• patronati, sono enti di assistenza sociale senza fini di lucro, costituiti
e gestiti dalle confederazioni o dalle associazioni nazionali dei
lavoratori. Svolgono funzioni di rappresentanza e tutela in favore di
lavoratori, pensionati e di tutti i cittadini presenti sul territorio, il loro
riconoscimento giuridico è disciplinato dalla legge 152 del 2001
“Nuova disciplina per gli istituti di patronato e di assistenza sociale”.
III.I Parametri per la liquidazione
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali nella
seduta del 21 marzo 2003 aveva approvato un tariffario per stabilire in
maniera univoca e inequivocabile i criteri e le modalità per la
determinazione
e
la
liquidazione
dei
compensi
spettanti
ai
professionisti iscritti all’albo.
Nel tariffario venivano distinte diverse aree differenziando l’area
45
relazionale, l’area giuridico legale, l’area progettuale, programmatoria
e organizzativa-gestionale, l’area didattico-formativa e, infine, l’area di
studio e ricerca. I compensi venivano differenziati in 103 tipologie di
prestazioni, aventi tutte un costo minimo e uno massimo, a seconda
della difficoltà. Gli emolumenti ricompresi nello schema, perciò, sono
vari: dai 10 euro per una semplice consultazione telefonica si arriva
fino ai 4000 euro per un intero progetto relativo ad una valutazione dei
servizi
complessa,
comprensiva
di
analisi
dell’organizzazione,
individuazione di aree critiche, progetto di miglioramento e valutazione
degli esiti.
Le recenti normative hanno abrogato, per tutti gli ordini
professionali, il tariffario. L’Ordine Nazionale, in conformità al
Decreto Legge n. 140 del 20 luglio 2012, ha depositato presso il
Ministero della Giustizia, per l’approvazione, il “Regolamento recante
la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un
organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolamentate
vigilate dal Ministero della Giustizia”. Sulla Gazzetta Ufficiale del
decreto n. 106 del 2 agosto 2013 è stato pubblicato il “Regolamento
recante integrazioni e modificazioni al decreto del Ministro della
giustizia 20 luglio 2012, n. 140, concernente la determinazione dei
parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei
compensi per le professioni regolamentate vigilate dal Ministero della
Giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.
1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27.
46
(13G00149)”.
Il Regolamento si applica per le prestazioni rese dagli iscritti
all’Ordine degli Assistenti Sociali, e sarà utilizzato in caso di
liquidazione da parte di un organo giurisdizionale in assenza di accordo
scritto tra le parti. Per la prima volta, sono elencate nello specifico le
tipologie di lavoro svolto dall’Assistente Sociale (Allegato A) e,
relativamente alle diverse aree di intervento, è indicato un compenso
che deve essere corrisposto (Allegato B).
47
IV. I SERVIZI OFFERTI E LA TIPOLOGIA DI
UTENZA
Per chiarezza espositiva si possono riassumere i campi d’intervento
e i modelli di libera professione come proposto nel manuale “Servizio
sociale e libera professione” di Albano, Bucci ed Esposito. Seguendo
tale classificazione, quindi, si possono considerare quattro fuochi:
l’area consulenziale, quella comunicativa, la formativa e, infine, l’area
giudiziaria. Inoltre, si può annoverare fra le forme di lavoro alternative
a quelle dipendenti, l’esperienza di Assistenti Sociali senza frontiere. 18
IV.I
Area consulenziale
18
Bucci L. “Campi e modelli di libera professione” in Albano U., Bucci L., Esposito D. G.,
Servizio sociale e libera professione. Dal lavoro dipendente alle opportunità di mercato,
Carrocci Editore, Roma, 2008.
48
La mediazione familiare
“La Mediazione Familiare in materia di divorzio e di separazione è
un processo nel quale un terzo neutrale e qualificato (il mediatore),
viene sollecitato dalle parti per fronteggiare la riorganizzazione resa
necessaria dalla separazione, nel rispetto del quadro legale esistente.
La mediazione opera per ristabilire la comunicazione tra i coniugi.
Questo è il mezzo adottato per pervenire ad un obiettivo concreto: la
realizzazione di un progetto di organizzazione delle relazioni in seguito
alla separazione o al divorzio, che tenga in considerazione i bisogni di
ogni membro della famiglia”. Questa è la definizione fornita dalla
Carta Europea sulla formazione dei mediatori familiari operanti nelle
situazioni di separazione o di divorzio stilata nel 1992.
Oggi sappiamo che il raggio d’azione della mediazione familiare è
più ampio: è un tipo di intervento volto alla riorganizzazione delle
relazioni familiari e alla risoluzione o all’attenuazione dei conflitti
destinato a tutte quelle coppie, sposate o conviventi, con o senza figli,
che si stanno separando legalmente o di fatto, stanno divorziando, sono
già separate o divorziate. “La mediazione familiare è adatta e
auspicabile anche per le famiglie che stanno vivendo problematiche
che non riescono a gestire e a superare autonomamente (mediazione
coniugale) ma hanno bisogno di un aiuto che le supporti nella nuova
definizione di un assetto familiare sereno. Inoltre, tale percorso si
49
rivolge ai rapporti tra rami parentali (nonni/nipoti, genitori /figli,
ecc.)”. 19
Il ciclo di incontri si dovrebbe avviare quando le parti non riescono
autonomamente ad attivare le loro naturali capacità di mediazione,
proprio per l’intensità cui il conflitto è giunto e si pone l’obiettivo di far
riemergere nel soggetto la capacità di dialogare nuovamente, uscendo
dallo schema aggressivo che lo imprigiona e, pian piano, arrivando a
comprendere i bisogni dell'altro.
Tale percorso mira a sviluppare la capacità di resilienza del
soggetto, sfruttando il potenziale positivo della condizione conflittuale:
il conflitto non è statico ma è un fenomeno dinamico nel quale le parti
rimbalzano da una posizione all'altra e diventano più tranquilli, sinceri,
sicuri, eloquenti e risoluti, passano dalla debolezza alla forza
(empowerment),
dall'egocentrismo
alla
comprensione
dell'altro
(recognition). Superando la rigidità presente, le parti, per arrivare a
soluzioni reciprocamente accettabili e durevoli nel tempo, attraverso la
trasformazione del conflitto da competitivo a collaborativo, stipulano
degli accordi soddisfacenti per entrambi e, solo così, la coppia sarà
interessata a rispettare i patti nel tempo.
La
mediazione
familiare
permette
alle
parti
di
vivere
costruttivamente le loro conflittualità, e di riorganizzare la loro vita
ritrovando benessere e serenità. I genitori (ad esempio in caso di
19
Laviola
T.,
“Mediazione
familiare:
parla
l’esperto”
http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoCivile/famiglia/2014-02-28/mediazionefamiliare-parla-esperto-111218.php?refresh_ce=1
50
in
divorzio) saranno tali per sempre, anche se non potranno più essere
coppia; anche le famiglie in difficoltà, potranno imparare e godere di
una gestione costruttiva e serena dei rapporti, anche grazie ad un nuova
modalità di comunicare. Quindi, la crisi affettiva potrà trasformarsi da
catastrofico fallimento ad occasione di crescita ed evoluzione
personale: i partner potranno valorizzare le proprie funzioni genitoriali
ed i figli trovare un luogo di ascolto e di accoglimento delle proprie
istanze emotive, poiché, attraverso la mediazione familiare, le relazioni
saranno trasformate, fortificate. Mai spezzate.
Quindi, l’obiettivo principale e comune a ogni modello di
mediazione familiare è quello di incrementare la capacità di
negoziazione delle parti, stimolando la riapertura dei canali di
comunicazione nella coppia e proponendo alla medesima degli itinerari
diversi, nel rispetto dei propri bisogni, attraverso la promozione di un
dialogo costruttivo.
I mediati, dunque, attraverso questo strumento, potranno interrogarsi
e mettersi in discussione, cambieranno prospettiva, approdando a nuove
letture, diverse del proprio e dell'altrui comportamento.
Il mediatore (letteralmente colui che sta in mezzo, che s’interpone
fra due persone cercando di portarle a un accordo), ascoltando
empaticamente le parti e favorendo il loro reciproco ascolto, fa si che
non vengano eluse le sofferenze di ciascuno, ma che siano aiutate ad
affrontarle senza essere censurati e giudicati, né tenterà di fornire
interpretazioni particolari ai loro vissuti e comportamenti; quindi,
51
permettendo alla coppia di aprirsi e manifestare ogni preoccupazione o
malessere, rispecchia la sofferenza delle parti coinvolte nella disputa
per supportare un cambiamento nella loro relazione, li comprende ma
non si sostituisce a loro.
Il mediatore familiare è una figura professionale, che, con una
formazione specifica, gestisce con competenza un percorso per la
riorganizzazione delle relazioni familiari. Egli deve spiegare, fin dal
primo incontro, la sua funzione e le caratteristiche proprie del suo
ruolo: terzietà, imparzialità ed equivicinanza rispetto alle parti, la totale
assenza di ogni qualsivoglia giudizio da parte sua e il dovere di
segretezza rispetto ai contenuti degli incontri.
Pare doveroso sottolineare come la mediazione familiare non sia
nata per il fallimento della struttura familiare, ma a conferma della
fondamentalità delle relazioni familiari e delle esigenze di
rinnovamento delle stesse relazioni. Nella mediazione familiare si
riconoscono la positività dei conflitti e la normalità della dimensione
conflittuale della famiglia, essendo questa anche una forma di
educazione all’alterità. Per di più, questo modello può essere
considerato un buon sostituto a una lite legale, che crea solo
spossatezza e sofferenza. Se ci deve separare e dirsi addio meglio
farlo in modo civile e pacifico per chiudere serenamente un capitolo
della propria vita, senza creare dissapori che potrebbero ripercuotersi
sul rapporto con i figli o altri familiari.
A differenza di altri Paesi europei, l’Italia non si è ancora
52
dotata di una legislazione sulla mediazione familiare. Questo significa
che non esiste un albo nazionale e che nessun provvedimento ha
definito con chiarezza il percorso formativo che si deve intraprendere,
col risultato che spesso i mediatori vengono confusi con altre figure
che intervengono nelle problematiche familiari, come gli assistenti
sociali o gli educatori. Chi è in possesso di una laurea specialistica in
Psicologia, Giurisprudenza, Servizi sociali, Sociologia, Scienze della
formazione, Scienze dell’educazione può frequentare un corso di studi
per il conseguimento del titolo presso un istituto riconosciuto dal
MIUR, che può essere universitario o extrauniversitario. Al termine
dell’attività formativa è previsto un tirocinio formativo sul campo per
un periodo non inferiore a sei mesi, in affiancamento a un mediatore
esperto. Nonostante non esista un albo unico, sono nate varie
associazioni di categoria, come AIMEF, AIMS e SIMEF, che hanno
degli albi privati e indicano costantemente i criteri per la formazione,
quindi il soggetto deve iscriversi a una delle associazioni presenti.
Mediazione penale
La mediazione in ambito penale, come quella familiare, è un
processo che mira alla risoluzione dei conflitti. In tal caso, però, i
protagonisti sono la vittima e l’autore del reato, che devono partecipare
53
attivamente per risolvere i contrasti sorti dalla commissione del reato,
attraverso l’aiuto del mediatore, che come si è già detto, rappresenta
una parte terza imparziale. La finalità di tale modello è quella di
responsabilizzare il reo da un lato, e dare voce alla sofferenza della
parte lesa dall’altro, chiarendo cause, moventi e circostanze dell’azione
lesiva. Si struttura così quella che viene chiamata la giustizia delle
emozioni, che poggia sia sul bisogno concreto della vittima di essere
riconosciuta come soggetto danneggiato, non rispettato, sia sul bisogno
del reo di essere ascoltato ed accolto nelle sue diversità e difficoltà.
Il concetto di giustizia riparativa è stato il motore di questo modello
di mediazione. Un’ulteriore spinta è stata data dalla necessità di
valorizzare il ruolo della vittima nell’ambito del processo penale
minorile, perciò si può inserire la mediazione nel riparto degli
interventi tutelari. Oltre alla riparazione concreta del danno, quale può
essere una misura di risarcimento monetario, si può e si deve anche
ritenere la mediazione penale come una forma di riparazione
psicologica.
Si può immaginare come nel corso di un incontro si
realizzi la prima e più significativa forma di responsabilizzazione,
consistente nell’accogliere e farsi carico, da parte del minore che
delinque, delle azioni e reazioni della vittima, rivendicative del suo
bisogno di giustizia: non una giustizia formale in senso stretto, ma più
personale.
L’iniziativa per intraprendere l’attività di mediazione spetta al
giudice dell’udienza preliminare, al giudice del dibattimento, al
54
pubblico ministero o al giudice per le indagine preliminari. Tale
mediazione può essere esercitata in più occasione durante il
procedimento: nell’ambito delle indagini preliminari, nell’attuazione
della sospensione del processo e messa alla prova, come anche
nell’applicazione della pena sia nella sfera restrittiva che in quella
alternative alla detenzione. E’ un ottimo strumento specialmente in
situazioni di lieve entità per tentare di giungere al ritiro della querela da
parte della vittima.
Il mediatore penale vaglia l’esito della mediazione per quanto
riguarda sia indicatori esterni (riparazione, gesti di perdono, scuse) sia
indicatori di carattere psicologico relativi al clima instauratosi durante
lo svolgimento della stessa. Il percorso deve sempre prevedere un esito,
positivo o negativo, che il mediatore deve comunicazione al giudice
competente.
Con la mediazione penale la vittima del reato può ritrovare il giusto
ruolo centrale, tradizionalmente ignorato a favore di interventi di tipo
punitivo nei confronti dell’autore del reato. Uno degli obiettivi è,
infatti, quello di dare significato al reato come violazione dei valori
umani, non solo del codice penale; difatti se il magistrato opta per
l’applicazione della messa alla prova fondata su attività riparatorie
come l’impegno in attività socialmente utili, esse dovranno avere
qualche relazione con il reato commesso e essere di breve durata, per
non apparire come lavoro forzato.
Nel 2014 è stata introdotta la mediazione vittima-reo, anche nel
55
contesto del processo penale degli adulti. La riforma prevede la
possibilità per gli imputati di poter richiedere la sospensione del
procedimento con messa alla prova e fare ricorso alla mediazione
mediante centri pubblici o privati.20
Questa figura professionale, così come quella del mediatore
familiare, non ha ancora ricevuto in Italia una formalizzazione e un
riconoscimento giuridico, tuttavia è previsto come requisito base il
possesso di una diploma di laurea in Psicologia, Servizio Sociale,
Sociologia, Giurisprudenza, Scienze dell’Educazione, Scienze della
Formazione o precedenti esperienze di lavoro nell’ambito della
devianza minorile. Per conseguire il titolo di mediatore penale è
necessario frequentare un corso di specializzazione post-laurea presso
un’agenzia formativa. Durante il colloquio per l’ammissione al corso
viene solitamente valutata anche l’attitudine personale a svolgere
l’attività di mediazione penale. Il corso prevede lo studio di discipline
tecnico-scientifiche, tecnico-operative, giuridiche, oltre che un periodo
di tirocinio formativo sul campo, in affiancamento a un mediatore
esperto. L’esame finale per il conseguimento del titolo si riassume in
un colloquio su tutte le materie del corso, oltre che la presentazione di
un caso di mediazione penale minorile trattato durante il tirocinio. 21
20
Cfr. http://www.mediazionecrisi.it/mediazione/mediazione-penale
21
Cfr. http://professioniweb.regione.liguria.it/Dettaglio.aspx?code=0000000144
56
La supervisione professionale
La supervisione è una fase, durante il percorso professionale, in cui
ci si verifica come professionisti. Essa può essere individuale, ma
frequentemente viene realizzata in ambito gruppale. Gli ambiti di
sviluppo sono molteplici, ci può essere una supervisione di
preparazione per operatori che sono ancora in fase di formazione, una
supervisione per neoassunti o, ancora, per Assistenti Sociali che
lavorano da anni. Il filo rosso è costituito dalla necessità di
intraprendere una percorso di riflessione attraverso studio, confronto
con i colleghi, partecipazione ad attività di formazione
Nel contesto delle professioni d’aiuto, il termine è stato usato per
indicare “il processo di riflessione, apprendimento, verifica, e
valutazione, che si sviluppa, attraverso la relazione fra un
professionista esperto e uno o più operatori del settore, durante il
percorso formativo nel corso dell’attività professionale”.
22
La
supervisione è considerata come uno degli strumenti fondamentali per
la congiunzione fra prassi e teoria, utile per una crescita professionale
che dia maggiore consapevolezza del ruolo professionale, delle
potenzialità personali e delle responsabilità legate al contesto
lavorativo.
La supervisione non deve, però, essere intesa come una forma di
22
Merlini F., Filippini S., “La supervisione al servizio della valutazione” in Prospettive sociali
e sanitarie n. 19/2006, pag. 8.
57
controllo sui collaboratori, sul loro stato di salute o sulla funzionalità
del servizio, non è neanche una seduta di psicoterapia di gruppo, ma lo
si può intendere come un percorso di presa di coscienza costruttiva dei
problemi presenti in ambito relazionale sia con l’utente, sia con i
colleghi che con l’organizzazione presso cui si è inseriti. Nello
specifico, il supervisore deve aiutare il professionista a crescere,
agendo su alcuni ambiti: collegando teoria e prassi, significando il
piano
dell’identità
professionale,
stimolando
la
rielaborazione
dell’esperienza professionale, accrescendo le capacità relazionali,
l’importanza data al lavoro in gruppo e le capacità organizzative.
Essendo la supervisione, quindi, un "campo neutro" di riflessione,
dato che il supervisore non è una persona interna all’organizzazione
(tuttavia è consigliabile che appartenga professionalmente al gruppo
supervisionato), è quello il luogo in cui l’Assistente Sociale può
ottenere un sostegno motivazionale, può fare un bilancio personale del
proprio percorso professionale, esprimendo i problemi vissuti e
sforzandosi di comprendere se questi problemi dipendano da se stessi o
dall’organizzazione. La supervisione deve essere considerata come un
processo circolare perché aiuta sia l’organizzazione che il dipendente a
capire "dov’è il problema", affinché si possa passare alle azioni per
fronteggiarlo.
Nonostante la competenza generale del supervisore è perfettamente
sovrapponibile con quella dell’Assistente Sociale Specialista, anche in
questo campo ci sono diversi percorsi
58
formativi
post-laurea,
molti dei quali attivati come master universitari.
La supervisione organizzativa
Il termine organizzazione denota il modo in cui le varie parti o
componenti di un ente sono dinamicamente connesse e coordinate tra
loro, al fine di produrre un bene o erogare un servizio.
La supervisione organizzativa riguarda l’attività di chi controlla e
dirige la realizzazione di un lavoro in un contesto organizzativo. È un
supporto di tipo metodologico indispensabile per progetti nei quali
sono previste equipe allargate e multidisciplinari, poiché alcune
difficoltà nelle comunicazioni e nelle relazioni di lavoro sono diretta e
inevitabile conseguenza della forma organizzativa adottata. È un valido
strumento per ridurle perché, da un lato, mira ad assicurare la
coordinazione e l’organicità delle risorse sia materiali che umane,
dall’altro, vuole proiettare il sistema verso una strategia di mercato
legata a una gestione di input e output.
Formare un’equipe di lavoro, decidere ruoli e mansioni all’interno
del progetto, definirne l’organizzazione, necessita di una conoscenza
approfondita delle dinamiche interpersonali e di ruolo che ne possono
derivare. Spesso, inconsapevolmente e con le migliori intenzioni, si
pongono a livello organizzativo delle
59
basi
problematiche
all’interno del gruppo di lavoro: in fase progettuale con la supervisione
organizzativa tali premesse negative possono essere evitate, ed in
itinere, individuate e successivamente risolte.23
Quindi, la supervisione organizzativa opera al fine di raggiungere
positivamente gli obiettivi istituzionali, di appoggiare un modello
operativo equilibrato, di innalzare il livello qualitativo, nonché di
accrescere la motivazione dei dipendenti, così da scansare i rischi di
patologie organizzative (burnout, mobbing, ecc.).
La progettazione dei servizi
La progettazione è la capacità di pianificare i cambiamenti che si
desidera introdurre in una data situazione, è la capacità di immaginare
attraverso quali strategie operative si possono conseguire tali
cambiamenti. Il lavoro per progetti nasce dall'esigenza di sapere dove
si vuole andare, in quanto tempo, con quali mezzi e costi, mettendo in
gioco quali responsabilità.
Nel lavoro sociale la progettazione si associa, più che mai, ad
attività di ricerca, mediazione, spazio aperto di dialogo. L’innovazione
è stata introdotta dalla legge quadro 328/2000 che ha disciplinato la
programmazione, la progettazione e la realizzazione del sistema locale
23
Cfr. http://www.psicologimilano.it/int_superorg.html
60
dei servizi sociali a rete, indicazione delle priorità e dei settori di
innovazione attraverso la concertazione delle risorse umane e
finanziarie locali. All’articolo 1 la legge definisce che “alla gestione ed
all'offerta dei servizi provvedono soggetti pubblici nonché, in qualità di
soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli
interventi, organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della
cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di
promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti
privati”.
Progettare, tanto più per gli operatori sociali, non significa capacità
di riprodurre in modo sistematico delle azioni cosicché siano
saldamente controllate da un unico soggetto centrale e affinché si crei
un sistema efficiente. L’obiettivo della progettazione nel sociale è
quello di chiedersi come si raggiungono certi risultati, registrando i
vissuti di chi vi coopera. Il percorso parte da una valutazione delle
risorse disponibili, successivamente, basandosi sulle esigenze emerse
da parte dei cittadini, vengono scelti gli obiettivi cui mirare, le azioni
da svolgere, che poi vengono trasformate in interventi e servizi
concreti. In relazione alle verifiche che vengono compiute in itinere,
questi ultimi possono subire modifiche.
L’Assistente Sociale ha, solitamente, un ruolo peculiare nell’ambito
della programmazione e dell’organizzazione dei servizi perché, essendo
a stretto contatto con l’utente, può capirne le effettive problematiche e
realizzare pertanto servizi ad hoc.
61
Per essere precisi, l’organizzazione e la progettazione dei servizi
spetta, di norma, agli Assistenti Sociali Specialisti, che siano iscritti
alla sezione A dell’albo professionale. Data l’importanza della
tematica, vengono spesso attivati, in ambito universitario, dei corsi
post-laurea
riguardanti
l’ambito
della
progettazione
e
dell’organizzazione dei servizi sociali che consentono al professionista
di specializzarsi e acquisire ulteriori competenze sia sugli strumenti di
gestione economico-finanziaria, sugli aspetti giuridici e amministrativi,
nonché sulle principali linee di finanziamento regionali, nazionali ed
europee del settore sociale e del non profit.
L’accreditamento e il percorso valutazione-qualità
Il concetto di valutazione e quello di qualità sono nati in contesti
differenti, ma successivamente sono stati collegati. La valutazione è
una stima, un esame di tutti gli elementi necessari alla formazione di un
giudizio. La qualità è, invece, definita come la capacità di soddisfare le
esigenze di chi acquista un bene o un servizio.
Il concetto di valutazione e quello di qualità si intrecciano fra loro
quando si parla di accreditamento, cioè l’attestazione della capacità di
operare. Un soggetto di riconosciuta autorità certifica che determinati
fattori all’interno di un ente risultino
62
conformi
ai
criteri
stabiliti dalle norme e rilascia il documento di chi deve svolgere un
ruolo in un determinato contesto sociale.
La procedura di accreditamento, che vuole essere una garanzia di
qualità, è più o meno simile in tutte le circostanze: in primis bisogna
selezionare fra i professionisti uno o più valutatori esterni, si
definiscono i criteri di valutazione, si adattano gli strumenti adeguati ad
ogni
dimensione
qualitativa
che
si
vuole
indagare
e
poi,
volontariamente, si può chiedere di essere accreditati. Infine, si procede
ad una valutazione dei risultati raggiunti, la restituzione al committente
e, infine, l’attribuzione del certificato di accreditamento.
Per quanto concerne la formazione specifica di accreditatore, ci sono
degli enti autorizzati, diversi da Regione a Regione, che se ne occupano
organizzando dei corsi ad hoc, un esempio è costituito dalla
Fondazione Zancan, specializzata nel campo dei servizi sociali.
La consulenza sociale
Il servizio sociale ha anche lo scopo di offrire consulenza in
situazioni di bisogno, costruendo e esplorando insieme all'utente un
percorso d'aiuto per il superamento delle difficoltà.
Il termine consulenza indica, in generale, il parere esternato da un
esperto per la valutazione di una data situazione, offrendo un punto
63
di
vista
professionale
e
consigliando
il
soggetto.
L’attività
consulenziale racchiude al suo interno l’accoglienza e la valutazione
delle
richieste
di
prestazioni,
la
presentazione
esaustiva
dell’organizzazione e le informazioni utili per la conoscenza del
funzionamento del servizio, l’instaurarsi di contatti con i servizi sociali
o altri enti ritenuti utili e, infine, l’arrivo ad una soluzione più o meno
desiderabile, che nelle migliori delle ipotesi riesce ad arginare il
problema.
La consulenza può essere scissa in due ambiti, che differiscono per
l’utenza a cui si rivolgono: il counseling e la consultation.
Il termine counseling denota letteralmente un “consiglio da un
consigliere-consulente”. Indica un'attività professionale che tende ad
orientare,
sostenere
e
sviluppare
le
potenzialità
del
cliente,
promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le
capacità di scelta. Si occupa di problemi non specifici (prendere
decisioni,
miglioramento
delle
relazioni
interpersonali)
contestualmente circoscritti (famiglia, scuola, lavoro).
e
24
In questo processo, in cui la relazione è la cura: l’utente è
protagonista del processo, il compito del counselor è quello di guidarlo
al fine di esaminare il suo problema da diversi punti di vista, fino a
scorgere nuove letture, risorse non sfruttate e diverse possibili soluzioni
dello stesso.
24
Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Counseling
64
Nel documento “Definizione di servizio sociale”, stilato a Montreal
nel 2000 dalla International Federation of Social Work in relazione alla
descrizione di servizio sociale cita il counseling come una delle
pratiche utilizzate dall’Assistente Sociale. Infatti, esso trova un largo
impiego in tutti quegli spazi di intervento del lavoro di servizio sociale
professionale, in cui si manifesti la necessità di una forte competenza
comunicativa e l’esigenza di attivare processi di cambiamento che
promuovano l’empowerment della persona, della famiglia o della
comunità. Perciò, in tale prospettiva per l’Assistente Sociale, il
counseling diventa uno strumento principe per lo svolgimento di un
buon lavoro.
La consultation è, invece, la consulenza fornita da un esperto
quando si manifesta una richiesta o uno scambio di consigli, di pareri,
di informazioni su una determinata questione nei confronti, però, di un
soggetto istituzionale; come nel caso di enti pubblici o organi
giudiziari.
Nonostante, la consulenza rientra perfettamente fra le competenze
dell’Assistente Sociale, l’abilità di comunicazione e relazione specifica
del counselor è fornita da master o scuole di specializzazione. La figura
non è un terapeuta, tantomeno i corsi abilitano alla psicoterapia, ma
formano un professionista che ascolta, aiuta, sostiene, affianca e orienta
le persone mentre affrontano momenti di disagio e difficoltà,
evoluzione e cambiamento.
Attualmente,
in
Italia rispondono
65
alla
necessità
di
regolamentare la professione solamente delle associazioni di categoria
come la Assocounseling, la LUC (Libera Università degli studi e delle
ricerche sul Counseling), la SiCo (Società Italiana di Counseling) e la
FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Psicoterapia).
La selezione del personale
Il patrimonio delle risorse umane di un’azienda ne decide il buono o
il cattivo andamento: dal momento che i dipendenti sono coloro che
mandano avanti il processo produttivo, questi collaboratori devono
essere scelti meticolosamente con l’obiettivo e l’aspirazione di
determinare un maggiore successo aziendale.
Si occupa di ricerca e selezione del personale chi si dedica al
reperimento, alla selezione e all'inserimento in azienda dei nuovi
dipendenti, o meglio definiti come risorse umane. La ricerca e
selezione del personale non è più un compito che viene affidato alla
segretaria, bensì richiede abilità, competenza, capacità d'analisi,
perseveranza e disciplina. Queste attività sono organizzate per
rispondere in modo e soddisfacente alle esigenze della società che ha
commissionato il compito.
Ci sono metodi, tecniche e strumenti adeguati all’identificazione del
candidato ideale; per cominciare si effettua un'analisi interna che
66
consentirà di adeguare tali mezzi all’ambiente organizzativo. Dopo
aver passato in rassegna i curricula degli aspiranti, si procederà a
un’ulteriore scrematura attraverso test specifici o un colloqui finalizzati
ad eleggere il miglior candidato, scegliendo la persona più adatta. Non
si tratta solamente di assumere.
In Italia, storicamente, l’ambito della selezione del personale, è stato
spesso intaccato da vari fenomeni negativi e per niente meritocratici
quali l’appartenenza ad un partito politico o ad un’ideologia religiosa, o
ancora l’approccio prevaricatore della raccomandazione, dando campo
fertile al dilagarsi della filosofia che “un lavoro vale l’altro”. Oggi,
invece, si vuole puntare a un dipendente che sia e si senta al proprio
posto, che abbia chiara la logica secondo cui il lavoratore e l’azienda si
scelgono a vicenda e entrino subito in simbiosi in una logica di
interscambio, di dare – avere.
Vista la funzione fondamentale che sta assumendo la ricerca e la
selezione del personale nel management dell’impresa, molti master e
corsi di formazione si stanno espandendo verso il campo dell’ Human
Resources per creare esperti capaci sia di comprendere appieno tale
ruolo centrale della persona che di gestirne i processi manageriali
connessi, quali selezione, reclutamento, formazione, comunicazione.
IV.II Area comunicativa
67
Il giornalismo sociale
Secondo la definizione del prof. Mauro Sarti, il giornalismo sociale
è “un modo di fare informazione. Attento alle persone, disposto ad
ascoltare, proprietà non molto diffusa in campo giornalistico perché
l’ascolto è spesso strumentale alla scrittura del pezzo, e non va oltre. È
un giornalismo in grado di raccogliere i particolari e di dare un
feedback alle persone che hanno bisogno. O che chiedono
semplicemente un’informazione corretta”.25
Da una ventina d’anni si sono affermate testate giornalistiche prima,
giornali online dopo, che riguardano il settore dell’informazione che si
occupa di problematiche sociali e che si riferiscono ad un target
professionale mirato, i professionisti del sociale.
Un esempio importante è dato dal periodico “Notiziario SUNAS”
fondato nel ’91 dal Sindacato unitario nazionale Assistenti Sociali. Da
qui molti sono stati i giornali e le riviste su carta stampata che sono nati
successivamente; altrettanto numerosi i siti internet dedicati al settore.
Una realtà recentissima è, invece, quella della web radio “S.O.S.
Servizi Sociali On Line”, da cui è nata anche un’App gratuita.
25
http://www.comunicareilcoma.it/res/site13801/res67803_intervista%20sarti.doc.
68
Per quanto riguarda la specializzazione in tale campo si organizzano
dei seminari annuali di “redattore sociale” e alcuni master universitari
in giornalismo sociale, nonché corsi extraaccademici disposti da enti
privati. Per ciò che concerne l’iscrizione all’albo, va evidenziata la
differenza tra pubblicisti, e professionisti e praticanti. I primi sono
coloro i quali, dopo aver praticato per due anni la professione
giornalistica con una o più testate, hanno superato un esame di
abilitazione presso l’ordine regionale competente. I pubblicisti possono
operare in campo giornalistico come tutti gli altri colleghi, ma non
possono svolgere esclusivamente questa professione. Insomma non
possono vivere esclusivamente di giornalismo. Possibilità, invece,
riservata ai professionisti che, a differenza dei primi, svolgono
esclusivamente questa attività dopo aver superato un esame di
abilitazione nazionale, previo periodo di praticantato di diciotto mesi
presso una testata o una scuola di giornalismo riconosciuta dall’Ordine
dei Giornalisti. I praticanti sono coloro i quali si preparano a iscriversi
all’albo dei professionisti. Questa differenza illustrata è importante
perché se è pur vero che tutti possono scrivere per dei giornali, una
collaborazione continua senza iscrizione o senza contratto anche di
collaborazione può fare incappare nel reato di abuso della professione
giornalistica.
La consulenza comunicativa
69
“La comunicazione è uno scambio interattivo fra due o più
partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di
consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato
sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di
segnalazione secondo la cultura di riferimento”.26
È uno strumento essenziale per realizzare, all’interno degli enti
pubblici,
un’apertura
verso
i
dipendenti,
creando
forme
di
concertazione e partecipazione fra tutti i collaboratori, ma soprattutto
verso l’esterno, creando rapporti con altre istituzioni e con gli utenti
stessi, al fine di fornire informazioni utili che li indirizzino verso
comportamenti positivi.
Diverse sono le forme di comunicazione pubblica che si trovano
all’interno di una pubblica amministrazione; in primis troviamo
l’Ufficio Relazioni con il Pubblico, poi l’ufficio stampa e, infine, il
portavoce.
L’URP è un servizio d'informazione, sulle attività di pubblico
interesse e sui procedimenti amministrativi avviati, che rappresenta un
punto d'incontro fra l’ente e il cittadino, assicurando la trasparenza
amministrativa. Più in generale, l'ufficio mira ad assicurare e garantire
il diritto di partecipazione alla vita amministrativa e semplifica la
comunicazione con i cittadini, fornendo informazioni immediate e di
26
Watzlawick P., Beavin J. H., Jackson D. D. “Pragmatica della comunicazione umana. Studio
dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi”, Astrolabio Ubaldini, 1971.
70
prima necessità per orientare i cittadini sulle procedure da seguire per
avviare le pratiche, sulla documentazione necessaria da presentare, a
chi rivolgersi per avere maggiori chiarimenti; offrendo consultazione
ed eventuale rilascio di copia di atti e documenti; dando comunicazione
di bandi, modulistica e documentazione varia; promuovendo e
realizzando iniziative di pubblica utilità per assicurare la conoscenza
delle normative e l'informazione sui diritti dell'utenza; monitorando e
verificando il gradimento dei servizi, anche accogliendo segnalazioni,
reclami, suggerimenti e proposte per migliorare i servizi erogati.
L’URP deve anche occuparsi di curare la Carta dei servizi, che è il
mezzo attraverso il quale il soggetto, che eroga un servizio pubblico,
individua gli standard della propria prestazione, dichiarando i propri
obiettivi e riconoscendo specifici diritti in capo all’utente, perciò si
comunica, in modo trasparente e completo, i servizi che vengono
forniti, il modo per usufruirne e gli standard di qualità garantiti.
L’ufficio Stampa si occupa di rappresentare comunicativamente
l’ente, la struttura, la persona fisica per cui svolge tale mansione. È una
sorta di mediatore tra i vertici dell’azienda e il personale, i pazienti e il
mondo dell’informazione. I clienti possono usufruire di un canale
informativo professionale, costantemente aggiornato; ma soprattutto,
vengono sfruttati al fine di veicolare delle informazioni utili ad
affermare l’immagine dell’azienda i media, sia quelli su carta stampata,
che radio, televisivi sia sul web.
Il portavoce è, invece, una figura professionale, anche esterna
71
all'amministrazione, che essendo fiduciariamente incaricato e in stretta
collaborazione con l’organo di vertice, deve intraprendere rapporti di
carattere politico-istituzionale con gli organi di informazione
comunicando scelte, orientamenti, strategie.
Tutte le competenze sopraelencate sono possedute dall’Assistente
Sociale; bisogna però ricordare che la naturale collocazione della figura
si inquadra nell’ambito del back office e non in quello del front office,
come previsto per alcune funzioni degli URP.
IV.III
Area formativa
La formazione professionale
Un mantra del servizio sociale è il collegamento fra teoria-prassiteoria, tale passaggio è essenziale in ogni dimensione del lavoro
professionale. Quindi, allo scopo di non trascurare la dimensione della
conoscenza e non tralasciare il frequente problema di passare dalla
formazione di base alla pratica senza far più ritorno alla teorizzazione,
nel 2009 è stato introdotto per la figura degli Assistenti Sociali
l’obbligo di formazione continua. Con tale espressione si vuole
72
intendere
ogni
attività
organizzata
di
accrescimento
ed
approfondimento delle conoscenze e delle competenze professionali
nonché il loro aggiornamento. Ogni professionista iscritto all’albo per
mantenere tale status deve accumulare 60 crediti in un triennio (ogni
credito corrisponde a circa un’ora di attività).
La formazione, secondo Maria Dal Pra Ponticelli, si articola in tre
grandi obiettivi da raggiungere: conoscenze teoriche e metodologiche,
competenze e capacità operative, atteggiamenti professionali che
scaturiscono dai valori e dai principi che si intende salvaguardare. Si
tratta di tre aspetti strettamente connessi e integrati che possono essere
trasmessi ed appresi solo attraverso un’integrazione fra base
deontologica, base teorica e metodologica e prassi operativa.
Solo se lo studente nel corso degli anni della formazione di base e il
professionista nell’ambito di progetti di formazione continua e
ricorrente, sapranno collegare in modo creativo e costruttivo questi tre
aspetti si può veramente parlare di formazione e di educazione cioè
valorizzazione delle proprie specifiche potenzialità intorno ad un
progetto di professionalità integrata. 27
Le applicazioni operative della formazione costituiscono due filoni:
la formazione intellettuale che riguarda strettamente il campo del
servizio sociale, interessando gli Assistenti Sociali in fieri e quelli già
27
Cfr. Dal Pra Ponticelli M., “L’Assistente Sociale oggi: professionalità e formazione” in Eiss
(a cura di), Rapporto sulla situazione del servizio sociale in Italia. I rapporto 2001, Ente
Italiano di Servizio sociale, Roma, 2001.
73
avviati, e la formazione psichica si riferisce ad altri attori di aiuto, come
i caregiver che necessitano di un supporto emotivo.
Anche i destinatari della formazione possono essere differenti,
prevalentemente sono altri assistenti sociali tramite formazione di base,
specialistica o continua svolta in ambito accademico o da altri enti
accreditati dal Consiglio Nazionale (o Regionale) dell’Ordine degli
Assistenti Sociali; o anche altri operatori del sistema di aiuto
nell’ambito dei servizi della cura alla persona; o anche caregiver
informali quali potrebbero essere volontari o anche familiari di soggetti
con particolari esigenze, spesso bisognosi, oltre che di competenze
pratiche, anche di un sostegno emotivo che li supporti in una situazione
fortemente stressante.
L’Assistente
Sociale
oggi
deve
prendere
coscienza
dell’autorevolezza e delle responsabilità del suo ruolo e saper affermare
un’identità professionale sempre più forte e consapevole, anche
attraverso azioni formative che evidenzino maggiormente il sapere
autonomo. La teoria del servizio sociale professionale ha, perciò,
davanti a sé un futuro molto prospero: sono sempre di più i
professionisti che s’impegnano nella ricerca teorica, come formatori o
come semplici appassionati, e quelli desiderosi di apprenderla,
vestendo le parti di allievi, a prescindere dall’obbligo formativo.
Diversi sono i corsi organizzati appositamente per creare Assistenti
Sociali formatori. È possibile, comunque, chiedere al Consiglio
Nazionale
dell’Ordine
degli Assistenti Sociali l'autorizzazione
74
di agenzie o di enti che si occupano di formazione, o anche
l'accreditamento di formatori o solamente di singoli eventi formativi.
La docenza universitaria
Nonostante la docenza universitaria rientri nelle possibilità
lavorative di un Assistente Sociale, alternative al lavoro dipendente,
questo scenario è poco conosciuto, poco sfruttato e solitamente
occupato da professionisti specializzati in materie diverse. Infatti, ad
oggi, le principali materie d’insegnamento dei corsi di studio, quali
Principi e fondamenti del servizio sociale, Metodi e tecniche del
servizio sociale e Organizzazione del servizio sociale, rientrano
nell’ampia classe della sociologia, di conseguenza ad insegnare materie
base, ad alto contenuto professionalizzante per l’allievo, ci possono
essere altri professionisti, considerati equipollenti.
Attualmente a fronte di 41 corsi di laurea in Scienze del Servizio
Sociale
L39
e
35
corsi
di
laurea
magistrale
LM87,
con
un’immatricolazione di circa 5 mila studenti sul territorio nazionale i
docenti di servizio sociale provenienti dalla professione e incardinati
presso gli atenei italiani sono solamente 15 (un professore ordinario, tre
professori associati, otto ricercatori confermati e tre ricercatori a tempo
determinato). Nelle altre realtà, gli insegnanti
75
delle
discipline
di
servizio sociale sono tenuti prevalentemente da docenti a contratto,
quando non affidati a docenti di altre discipline.28
Per essere docente universitario è generalmente necessario il
superamento di un concorso, bandito dal singolo ateneo previo
conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale prevista della
legge 240 del 2010 “Norme in materia di organizzazione delle
università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al
Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema
universitario costituente”. Come definito dall’articolo 16 comma 1
della suddetta legge “è istituita l'abilitazione scientifica nazionale, di
seguito
denominata
«abilitazione».
L'abilitazione
ha
durata
quadriennale e richiede requisiti distinti per le funzioni di professore di
prima e di seconda fascia. L'abilitazione attesta la qualificazione
scientifica che costituisce requisito necessario per l'accesso alla prima
e alla seconda fascia dei professori”.
La docenza nelle scuole medie superiori
Anche la docenza negli istituti tecnici per i servizi sociali e i licei
socio-psicopedagogici potrebbero costituire un’opportunità per gli
28
Cfr.
Associazione
Italiana
Docenti
di
Servizio
Sociale
in
https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/attachments/documento_evento_pro
cedura_commissione/files/000/001/029/0660_Memorie_AIDOSS.pdf
76
Assistenti
Sociali
che
vogliono
affacciarsi
nel
mondo
dell’insegnamento, purtroppo le uniche possibilità concesse ai laureati
magistrali in Servizio sociale e politiche sociali (LM-87) sono le
materie letterarie negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado
(A050), le materie letterarie e latino nei licei e nell’istituto magistrale
(A051) e le materie letterarie, latino e greco nel liceo classico (A052).
Ci sono, però, delle lacune da colmare per poter insegnare tali materie.
Nel primo caso si devono, infatti, avere almeno 80 crediti nei settori
scientifico disciplinari lingua e letteratura latina, letteratura italiana,
linguistica italiana, geografia e storia. Nel secondo caso, devono essere
almeno 90 crediti negli stessi settori, mentre nel terzo caso 108 con
l’aggiunta del settore della lingua e letteratura greca.29
Per insegnare nelle scuole superiori bisogna possedere il titolo di
laurea specialistica o magistrale, più aver frequentato un anno di
Tirocinio Formativo Attivo. Il TFA è un corso di preparazione
finalizzato all’abilitazione per l’insegnamento nelle scuole secondarie
italiane, a numero chiuso con prova di ingresso sia scritta che orale.
Tale percorso, che ha sostituito i SSIS (Scuole di Specializzazione
all’Insegnamento Superiore), è stato introdotto con decreto del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel 2010.
29
Cfr. Manzoni R., “Titoli di studio per la partecipazione ai tirocini formativi speciali nella
scuola secondaria di primo e di secondo grado” in
http://www.gildanapoli.it/gildanews/2013/19_08/Titoli_accesso_PAS2013.pdf
77
IV.IV
Area giuridica
Il giudice onorario
Il Tribunale per i Minorenni è un organo specializzato
dell’amministrazione della giustizia collegiale. È composto da quattro
giudici: due giudici togati e due giudici onorari, un uomo e una donna,
benemeriti dell’assistenza sociale, scelti tra i cultori di biologia, di
psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia.
Ormai da anni rientrano fra tali figure, individuate dal Consiglio
Superiore della Magistratura anche gli Assistenti Sociali, quindi questo
può essere individuato come un ulteriore campo d’intervento di libera
professione.
La funzione del giudice onorario è complessa e rilevante, perché
finalizzata alla ricerca di soluzioni che corrispondano all’interesse del
minore attraverso l’utilizzo di conoscenze appartenenti a saperi
extragiuridici (in particolare all’area psicosociale).
Il giudice onorario per tutta la durata dell'incarico è un giudice e
quindi, nell'esercizio di tale attività, deve osservare i principi
deontologici del giudice. In particolare, il principio fondamentale che
deve osservare è quello secondo cui il giudice è terzo e non è una
78
delle parti. Inoltre, non svolge un ruolo di consulente o di aiutante dei
giudici togati, ma è giudice anch'egli, con pari dignità, e deve, perciò,
decidere secondo scienza e coscienza, consapevole di dover essere
interprete del mondo minorile e delle relazioni familiari.
30
All'incarico di giudice onorario minorile, che ha durata triennale, si
accede tramite selezioni che avvengono in ogni ufficio giudiziario
minorile, decretate tramite bando. Per partecipare alla selezione occorre
possedere alcuni requisiti: essere benemeriti dell'assistenza sociale,
essere cultori di specifiche discipline umane ritenute essenziali per
un’adeguata comprensione delle problematiche minorili e avere un’età
compresa fra 30 e 69 anni.
Inoltre, per consentire ai componenti privati minorili di nuova
nomina un’infarinatura nel campo giuridico è garantita una formazione
professionale, che viene avviata subito dopo la nomina, attraverso
attività pratiche. Questa formazione, che ha durata di due mesi, si
realizza essenzialmente nella partecipazione dei giudici onorari alle
camere di consiglio civili, alle udienze civili di opposizione
all'adottabilità, alle udienze penali e agli incontri con i Servizi sociali
del territorio e con il Ministero della giustizia, nonché le visite agli
istituti penali minorili. Perciò, ogni magistrato onorario viene
affiancato da un tutor, che è un magistrato ordinario o onorario
appartenente all'ufficio, il quale provvederà a fornire tutte le
informazioni concernenti il lavoro.
30
Cfr. http://www.minoriefamiglia.it/pagina-www/mode_full/id_65/
79
Le funzioni di un giudice onorario si possono dividere in due settori:
quello civile, in cui rientrano materie inerenti l’adozione, la tutela dei
minori, l’esercizio della podestà genitoriale, i casi di abuso o
maltrattamento, lo status di figlio naturale e legittimo, la valutazione
dei minori da emancipare; il settore penale riguarda procedimenti e
udienze nel campo del penale, come anche l’applicazione delle misure
alternative alla detenzione.
La consulenza tecnica
La consulenza tecnica nel campo del giudizio civile può, in casi che
lo richiedono, essere svolta anche da professionisti del settore sociale,
nello specifico è istituito presso ogni Tribunale l’albo speciale dei
consulenti tecnici Assistenti Sociali.
Tale consulenza si sviluppa in due figure: il consulente tecnico di
ufficio e il consulente tecnico di parte.
Il primo è una figura ausiliare del giudice, nominata dal giudice
stesso che sceglie fra gli scritti ad un albo speciale del Tribunale.
Quindi, egli supporta il giudice svolgendo le indagini che gli sono state
commissionate, offrendo argomentazioni per valutare le risultanze di
determinate prove, o anche elementi diretti di giudizio. Perciò, proprio
per tali motivi, deve essere una persona
80
con
particolare
competenza in un determinato settore, chiamata a esprimere pareri,
raccogliere motivazioni ed effettuare verifiche, anche se non esercita
mai l’attività decisoria che, invece, spetta esclusivamente al magistrato.
Pertanto, quando lo ritiene necessario, il giudice può farsi assistere per
il compimento di singoli atti o per l’intero processo da uno o più
consulenti con particolari competenze. Nonostante ciò, la relazione
tecnica non costituisce una prova e non è del tutto vincolante per il
giudice, il quale può farne disporre una nuova o può chiarire di non
voler tenere conto di quanto scritto dal tecnico purché, ovviamente,
motivi adeguatamente la decisione esplicando la ragione per cui non
ritiene rilevanti gli argomenti del perito nominato.
Il consulente tecnico di parte si può avere ogniqualvolta venga
nominato un consulente d’ufficio, ma a differenza di quest’ultimo è
scelto in piena autonomia dalla parte interessata dal processo come
persona di fiducia. La nomina è facoltativa, ma comunque subordinata
all'intervento nel processo di un consulente tecnico d'ufficio.
Nonostante il rapporto di collaborazione fiduciaria con il soggetto e il
suo avvocato, deve essere sempre scelto da un albo speciale del
Tribunale, e abilitato ad assistere allo svolgimento delle operazioni
peritali svolte dal consulente d’ufficio, partecipare alle udienze ed
essere ammesso in camera di consiglio per chiarire al Presidente le
proprie osservazioni tecniche attraverso una dichiarazione resa dal
cancelliere. Il consulente tecnico di parte, alla fine dei suoi lavori, deve
presentare una relazione che può o essere inserita nella relazione del
consulente d'ufficio a sostegno o a critica,
81
oppure
può
essere
presentata autonomamente, ma in questo caso non costituisce mezzo di
prova.
IV.V
Assistenti Sociali senza frontiere
Un ulteriore campo d’azione per coloro che vogliono sperimentarsi
in situazioni al di fuori della dipendenza è quello dell’esperienza di
Assistente sociale senza frontiere.
“Assistenti Sociali Senza Frontiere” è un’associazione ONLUS nata
dall’esigenza di proporre e sostenere un’estensione del raggio d’azione
degli Assistenti Sociali, dai servizi alla persona alla pianificazione di
interventi di cambiamento che abbiano come interlocutori gruppi
sociali o popolazioni specifiche e che abbiano finalità di sviluppo
sociale, in Europa come nei Paesi in via di sviluppo. La specifica
finalità dell’associazione di volontariato “ASSF” è la promozione della
cooperazione
internazionale
nel
campo
dell’assistenza
sociale
attraverso la costruzione di iniziative di dialogo e di comunicazione
interculturale fra il nord e il sud del mondo. L’obiettivo è quello di
promuovere interventi d’aiuto attraverso il consolidamento della
cittadinanza sociale e della partecipazione, attraverso nuove pratiche
sociali a carattere egualitario, mediante interventi di empowerment
82
rispetto alle minoranze etniche, culturali, linguistiche o religiose. 31
Sperimentarsi Assistenti Sociali “senza frontiere” significa dare
un’interpretazione diversa alla deontologia professionale mettendosi
alla prova in situazioni e contesti di lavoro diversi da quelli in cui si
opera normalmente, mediante altri possibili modi di esprimere l’agire
professionale e promuovendo altre forme di solidarietà.
L’impegno di ASSF comprende differenti ambiti: si lavora
sull’emergenza,
sull’inclusione
e
coesione
sociale,
sulla
sensibilizzazione e sulla cooperazione internazionale.
Sul fronte dell’emergenza, oggi si vuole, non solo offrire solidarietà
e collaborazione ai colleghi dei territori interessati da eventi disastrosi,
ma anche promuovere sul piano istituzionale il riconoscimento del
profilo dell’Assistente Sociale all’interno della Protezione Civile,
poiché una piena legittimazione in tal senso rende chiaro il mandato
professionale e dona maggiori garanzie di presenza e di sostenibilità
nell’impegno dei professionisti volontari. Inoltre, si vogliono
promuovere azioni rivolte sia alla prevenzione dei danni che al
processo di ricostruzione, come è stato sperimentato dalla stessa
associazione in Abruzzo nel post-emergenza.
Per quanto riguarda l’inclusione e la coesione sociale, si guarda ai
molteplici bisogni che gli immigrati, i rifugiati e i richiedenti asilo
hanno quando arrivano in un Paese a loro quasi sconosciuto. Si vuole
31
Cfr. Di Rosa R., “Assistenti Sociali senza frontiere” in Professione Assistente Sociale n.
2/2010, pag. 13.
83
perciò dare aiuto a queste persone sia per ciò che riguarda necessità
concrete (bisogni abitativi, linguistici, ecc.), ma anche fornendo un
quadro dei diritti e dei doveri di cui la persona è titolare. Il
professionista deve, perciò agire a vari livelli: in quello micro si tratta
di lavorare con l’individuo e la famiglia, a livello meso si impegna
nello sviluppo di una comunità accogliente e, al macro livello,
considera le istanze legate ai diritti umani e alla giustizia sociale.
L’ambito della sensibilizzazione riguarda, invece, vari temi che
caratterizzano il nostro Paese e che stanno alla base di atteggiamenti di
intolleranza, di rifiuto di interiorizzazione, di discriminazione, di
vittimizzazione che ostacolano il contatto e l’integrazione tra i popoli,
come le differenze culturali, delle ragioni socio-economiche, storiche o
politiche,. L’ASSF vuole, pertanto, creare spazi di riflessione adeguati
attraverso cui prender consapevolezza delle nuove esigenze e delle
strategie per farvi fronte, nonché ampliare le conoscenze personali e
professionali degli operatori coinvolti e contribuire al cambiamento
culturale delle nuove generazioni di Assistenti Sociali, attraverso la
partecipazione e
l’organizzazione periodica di convegni, corsi di
formazione e Summer Schools.
L’ambito in cui i principi dell’associazione sono perfettamente
applicati e sintetizzati è quello della cooperazione internazionale, in cui
l’Assistente Sociale si fa promotore di stabilire un’uguaglianza
sostanziale tra i popoli e favorisce lo sviluppo umano e la libertà delle
persone, cercando di stabilire una cultura della pace, in cui i diritti
84
umani e la giustizia sociale possano essere garantiti e protetti.
Solitamente si lavora in contesti in cui tali valori sono stati
ingiustamente negati dai processi storici e sociali, in Paesi in via di
sviluppo, come i progetti degli ultimi anni attivati in Perù, Mozambico,
Madagascar, Tanzania e India. 32
32
Cfr. http://www.assistentisocialisenzafrontiere.it
85
V. PUNTI DI FORZA E CRITICITÀ DELLA LIBERA
PROFESSIONE
Nel passaggio dalla dipendenza pubblica al libero mercato ci sono
dei punti di forza e alcune criticità che devono essere esaminati al fine
di essere al corrente di tutti gli aspetti, positivi e negativi, così da poter
scegliere la giusta opzione in maniera cosciente.
Si può cominciare l’analisi partendo dalle parole della dottoressa
Elena Giudice. A suo parere, “nel pubblico non esiste la necessità di
trovare clienti: l’utenza non ha scelta e deve rivolgersi ai servizi di
competenza territoriali. L’Assistente Sociale privato, invece, deve
innanzitutto scardinare alcuni luoghi comuni, che lo identificano nel
burocrate o, per contro, nella figura che interviene solo in casi
gravissimi, che spesso prevedono l’allontanamento del minore dal
proprio nucleo di origine. Nel privato, quindi, è necessario comprovare
la propria professionalità, competenza e credibilità: “agire il mandato
professionale e sociale” e non quello istituzionale che, invece, fa
86
da cornice nei servizi pubblici; bisogna farsi conoscere, cercare
contatti con altri professionisti e proporsi per collaborazioni. Mettere
al centro le persone e non il bisogno in sé, lavorare quando la
necessità emerge e non quando essa è diventata un problema
cristallizzato. All’interno di questo scenario è fondamentale motivare
costantemente la persona. Inoltre, la creatività del professionista trova
nel privato un canale interessante, perché l’Assistente Sociale propone
all’utente metodi di lavoro mirati ai suoi bisogni specifici, per fornirgli
un ampio scenario di possibilità da attivare”.33
Dal punto di vista professionale, svolgere l'attività di Assistente
Sociale all'interno di un'azienda pubblica o privata che sia, significa
comunque muoversi e gestirsi con l'autonomia e l’interpretazione
personale che, appunto, la professione richiede, sempre, ovviamente,
nell'interesse sia della collettività, sia dell’azienda per cui si presta
servizio. Va da sé che lo svolgimento di un'attività professionale in
forma dipendente, svolta con autodeterminazione e coscienza, ma senza
i rischi della libera professione costituisce un vantaggio in termini di
sicurezza. Si sente, al contempo, il bisogno di sottolineare che non ci si
deve mai muovere con la mentalità del posto fisso: in qualsiasi azienda,
infatti, si è valutati e apprezzati per l’impegno posto e il valore
personale e professionale e, di conseguenza, se mancano questi
elementi, non si viene premiati in nessun contesto. Basti pensare ai vari
bonus monetari attribuiti ai dipendenti pubblici dopo aver svolto con
33
Nesi M., “Lavorare come Assistente sociale privato: intervista a Elena Giudice” in
http://news.biancolavoro.it/lavorare-come-assistente-sociale-privato-intervista-elena-giudice/
87
meriti particolari alcuni compiti o anche agli avanzamenti di livello che
permettono una progressione della carriera, un incremento della
gratificazione, nonché un aumento dello stipendio.
Fra i pregi che la libera professione porta con sé, è da annoverare, in
primis, la libertà del professionista di adeguare alle sue esigenze e alle
sue caratteristiche personali lo specifico ambito lavorativo in cui
adoperarsi, il luogo in cui svolgere la propria attività, il tempo da
dedicare al lavoro. Inoltre il libero professionista può scegliere se un
singolo lavoro può essere svolto o meno, non solo in base alla
propensione personale ma anche attenendosi alle competenze possedute
e alle esperienze pregresse. Nel lavoro autonomo il professionista può
dare voce alla sua creatività e a tutte le sue variabili personali perché
può metterci ciò che sente come l’aspetto più rilevante di sé e per sé
rispetto alla propria professionalità, ovviamente nel rispetto della
normativa, del codice deontologico e dei principi e dei valori del
servizio sociale. Rispetto ai rapporti di dipendenza pubblica, però,
l’Assistente Sociale privato non ha vincoli nei confronti di nessuna
organizzazione.
Fra i lati positivi non si devono, senza dubbio, tralasciare i fattori
motivazionali: se nel lavoro dipendente, lo stipendio è allineato con le
ore di lavoro svolte mensilmente, nella libera professione il compenso
del lavoratore è proporzionato al lavoro eseguito per un committente. Il
successo, in questo secondo caso, dipenderà dal grado di qualità del
servizio
erogato
e
dalla soddisfazione del cliente, quindi il
88
professionista si sforzerà di svolgere al meglio il suo lavoro e dovrà
essere in grado di gestire più lavori contemporaneamente, realizzando i
progetti tenendo conto anche di tempi non sfruttati legati a logiche
burocratiche. In altri casi, invece, dovrà avere la pazienza di aspettare i
clienti perché in un dato momento può anche capitare di non aver
nessun lavoro da svolgere.
Il lavoro autonomo, inoltre, aiuta a dare maggiore riconoscimento
alla professione in quanto, se il committente sceglie un professionista
in genere non tende a squalificare il suo lavoro. Anzi, se l’esito risulterà
ottimale, tenderà a valorizzare e stimare non solo l’esperto, ma l’intera
professione, parlandone positivamente anche all’esterno .
Non si deve, fra l’altro, dimenticare che è importante anche l’effetto
della gratificazione che si prova nel sapersi gestire autonomamente e
nel costruire con le proprie forze la propria strada e il successo
professionale. Sentirsi gratificati migliora, non solo il rendimento, ma
anche aumenta l’impegno e la voglia di mettersi in gioco,
continuamente, sperimentandosi in nuovi campi d’azione e volendo
sempre acquisire maggiori conoscenze.
Importante è in tale scenario anche il campo della formazione e
dell’acquisizione continua di nuove competenze, come l’uso di
tecnologie all’avanguardia che permettono al professionista di
risparmiare tempo. Come è facile intuire, nel privato il tempo è denaro,
perciò più competenze e informazioni si possiedono, più tempo si
risparmia e più si guadagna.
89
Di contro, dalla parte dei rischi si può stilare una lista corposa. La
prima cosa che viene in mente, intuitivamente, è la mancanza di
sicurezza: intraprendere la libera professione può essere un’opportunità
di riappassionamento al lavoro sociale, di “svago” ed anche di
manifestazione di creatività per chi ha un “paracadute” come nel caso
degli Assistenti Sociali in pensione o che svolgono un lavoro part time
nel settore pubblico, ma è molto difficile, invece, per chi non ha
coperture, come nel caso dei neolaureati. Se è vero che si è un po’
spaesati quando si esce dall’ambiente universitario, però si può osare e
provare a mettersi in gioco, data la giovane età, e crescere
professionalmente ed anche personalmente grazie ad un lavoro in cui le
opportunità di imparare sono infinite e i casi che si analizzano sempre
differenti fra loro.
Altre mancanze di sicurezza nel lavoro autonomo riguardano la
mancanza di protezioni lavorative, come per esempio la tutela della
maternità, e la sicurezza di una pensione adeguata.
Nel lavoro autonomo, che si tratti di uno studio individuale o
associato non conta, ci si può ritrovare in una situazione di overdose da
lavoro perché non ci sono orari e spesso ci si ritrova a lavorare anche
da casa e in giorni festivi. Quindi, bisogna sapersi dare dei limiti per
non incorrere nel rischio di lavorare per molto tempo senza neanche
rendersene conto e trascurare, così, altri aspetti importanti della propria
vita.
La creatività di cui si è parlato, inoltre, può sfociare in aspetti
90
poco positivi e provocare uno scostamento dai valori causato, per
esempio, dall’accettazione di lavori per servizi o modelli già superati o
ancora credere di praticare il lavoro di Assistente Sociale facendo altro,
come il burocrate.
Un altro rischio riguarda il ritrovarsi con dei compagni che lavorano
nel sociale solo perché il sociale è un business come un altro, senza
saper neanche definire il lavoro del servizio sociale o, al contrario ed
erroneamente, credendo di saperne più degli stessi professionisti.
Inoltre, quando si lavora per conto di un’istituzione pubblica, il
rischio di chiudere in “deficit” la pratica oggetto di appalto, almeno in
termini finanziari, si fa molto concreta. Infatti, se da un lato il
professionista è costretto a sborsare denaro proprio per affrontare le
spese in tempi brevi, dall’altro capita spesso che la struttura
committente diventi “morosa”, elargendo all’Assistente Sociale la
somma pattuita dopo parecchio tempo.
Da questa disamina, perciò, si comprende come ci siano dei pro e
dei contro, sia che si svolga un lavoro in forma dipendente sia che ci si
dedichi alla libera professione. Saranno anche le propensioni e le
caratteristiche personali a far sì che la persona si dedichi alla forma e al
campo lavorativo più confacente alla propria personalità. Sicuramente,
l’esperienza della libera professione, in qualsiasi settore essa sia
intrapresa, accrescerà il bagaglio di conoscenze del professionista
perché lo porterà a confrontarsi con una varietà molto estesa di casi da
affrontare e lo terrà sempre in movimento
91
per
cercare
di
imparare il più possibile e aggiornare le sue attività in base alle
caratteristiche del mercato. Quindi, il soggetto sarà arricchito da
conoscenze e competenze acquisite nello svolgimento pratico, dalle
opportunità lavorative, dall’interazione con gli utenti, con altri
Assistenti Sociali o altri professionisti.
92
VI. DIECI DOMANDE AGLI ASSISTENTI SOCIALI
LIBERI PROFESSIONISTI
Per dare maggiore pregnanza e scientificità al lavoro, in questa
sezione si riporta il contributo prezioso fornito da quattro Assistenti
Sociali i quali esercitano la libera professione, che hanno risposto a
dieci domande.
VI.I Dottoressa Desirè Longo
Laureata in servizio sociale e specializzata in “Programmazione e
gestione delle politiche e dei servizi sociali” alla Lumsa di Roma;
prima di intraprendere il percorso come formatrice, la dottoressa Longo
ha seguito uno stage come volontaria presso la Scuola di Roma di
Fundraising
per
il
no-profit; attualmente lavora anche come
93
assistente educativo con ragazzi disabili per la Cooperativa Cassiavass
di Roma ed è presidente dell'associazione “Nuovi Apprendimenti”,
nonché collaboratrice per il Portale S.O.S servizi sociali on line.
1. Da quanti anni svolge la libera professione, com’è nata l’idea e
come ha cominciato?
Ho intrapreso questa strada, essendo una giovane assistente sociale,
da quasi due anni cominciando con l’approfondire e il frequentare liberi
professionisti, gruppi di studio e corsi di formazione che cominciarono
a pormi in una posizione professionale diversa da quella che mi era
stata impartita all’università. Diventai socia di un’associazione di
volontariato (Nuovi Apprendimenti) che si occupava e si occupa
tutt’ora sia di programmazione di eventi formativi sia di realizzazione
di progettualità diverse ed innovative che mi vide partecipe su più
fronti. Da poco sono diventata Presidente di questa associazione e sto
continuando a portare avanti, insieme agli altri soci, l’importante
mission che abbiamo deciso di sposare e che ha come obiettivo ultimo
la creazione di reti professionali e formative capaci di fronteggiare i
nuovi fabbisogni sociali.
2. Perché ha scelto la libera professione?
Ho scelto di intraprendere questa strada alla luce dei cambiamenti
che il nostro sistema di Welfare ha mostrato oramai da circa un
decennio e alla luce della ricaduta negativa verificatasi sulla società e
94
soprattutto sui cittadini per la sempre maggiore carenza di risorse nel
servizio pubblico; non solo, la libera professione permette di diventare
anelli attivi di una catena dinamica e flessibile che cerca di cooperare
con il privato sociale ma anche con il servizio pubblico in un’ottica di
multidimensionalità sociale e progettuale. Offrire nuovi servizi e
risorse più efficaci ed efficienti contribuisce al miglioramento e alla
tutela di quelli che sono i diritti fondamentali delle Persone.
3. Qual è il campo d’intervento maggioritario del suo lavoro e qual
è la tipologia di utenza più frequente?
Al momento sono operativa come libero professionista sia nell’area
formativa sia nello sviluppo dei progetti che riguardano i bambini con
Bisogni Educativi Speciali. In quest’ultimo caso l’assistente sociale si
pone come canale di comunicazione tra le esigenze della famiglia,
quelle della scuola e le lunghe attese del servizio pubblico,
fronteggiando quindi un’esigenza sempre più impellente e che richiede
percorsi d’intervento specifici e personalizzati per evitare che nascano
sensi di frustrazione o insuccesso scolastico sia nei bambini che nelle
loro famiglie con riscontri poi negativi nelle dinamiche col gruppo
classe e corpo docenti.
L’area formativa invece funge da nuovo stimolo per la comunità
professionale nell’acquisizione di strumenti e risorse innovative in
un’ottica fondamentale di lavoro di rete e di elaborazione di nuove idee
progettuali che possano trovare realizzazione in un tessuto socioterritoriale
ormai
sempre
più frammentato
95
ed
eterogeneo.
Importante è quindi mantenere ben salda la propria identità
professionale e la predisposizione a voler condividere piani operativi e
d’intervento che meglio potranno fronteggiare le esigenze sociali
emergenti.
4. Cosa spinge un utente a scegliere e pagare un servizio privato,
piuttosto che rivolgersi gratuitamente a strutture pubbliche?
Ciò che spinge l’utente a rivolgersi ad una struttura privata anziché
gratuitamente al servizio pubblico è, innanzitutto, il disincanto totale
nei confronti di una PA sempre più scadente e che non tutela il
cittadino, considerato una “cartella o pratica sociale” da sovrapporre a
tutte le altre e da poter eventualmente sostenere, laddove, ci siano le
risorse necessarie messe a disposizione del servizio.
Rivolgersi ad un servizio privato vuol dire ricevere maggiore
attenzione e tutela da parte del professionista che abbiamo di fronte e in
cui riponiamo fiducia; vuol dire essere accolti in un “setting”
sicuramente più curato e adeguato e che mira a garantire il rispetto
della privacy del cittadino; vuol dire avere la possibilità di poter
esprimere con maggior serenità quelli che sono i disagi da fronteggiare
e per cui dover trovare le soluzioni più conformi al problema oggetto
dell’intervento sociale; vuol dire essere sostenuti ed accompagnati per
tutto il processo d’aiuto. Il servizio privato garantisce uno standard
qualitativo, quindi, sicuramente più elevato rispetto ad un normale
servizio pubblico a cui affluisce quotidianamente, oramai, un ingente
numero di cittadini che stenta a trovare o non trova proprio né la
96
giusta accoglienza né le risposte che cerca.
5. Qual è la differenza fra lavorare come Assistente sociale nel
settore pubblico e nel privato?
L’Assistente sociale che lavora nel settore pubblico sicuramente si
muove in una cornice organizzativa molto più rigida e quindi poco
flessibile ai cambiamenti emergenti. Esposto alle varie e continue
richieste di aiuto e non avendo a disposizione del proprio servizio le
giuste risorse, rimane ancorato ad un sistema “malato” e carente su più
fronti generando, quindi, il malcontento generale di tutti quei cittadini
che si sentono totalmente “abbandonati a sé stessi” e ai loro problemi.
Un assistente sociale che lavora come libero professionista, invece,
non essendo ancorato a determinate modalità di organizzazioni
lavorative riesce a muoversi tra le reti professionali con molta più
facilità intercettando anche soluzioni alternative al fronteggiamento del
problema. Riesce a comunicare con il privato sociale e il Terzo Settore
o con tutte le altre organizzazioni preposte al benessere del cittadino. E’
un professionista, quindi, a 360 gradi che riesce a muoversi all’interno
di più “aree” sociali e mantenendo sempre ben impresso il suo obiettivo
ultimo: il ben-essere del cliente.
6. Quali sono, a suo parere, i pregi e i difetti nello svolgere in
maniera autonoma la professione?
L’Assistente Sociale libero professionista costruisce connessioni,
ristruttura significati, individua strategie d’azione e opera secondo uno
97
stile relazionale orientato alla reciprocità e alla capacità di inserirsi nei
processi in corso. Ciò impone una competenza integrata nella lettura
del problema e un’incisiva capacità di promozione della partecipazione
della società civile e di implementazione della reticolazione solidale,
nel rispetto dei principi di sussidiarietà e dei diritti di cittadinanza.
Intraprendere questa professione privatamente implica un grande
impegno, in termini di tempo ed energie, professionali ma anche
personali. La formazione deve essere costante, per essere sempre più in
grado di offrire alla persona opzioni diverse e basate sui propri bisogni.
Inoltre è fondamentale un certo investimento economico, perché essere
seguiti da consulenti nell’ambito del posizionamento di mercato e della
comunicazione aiuta a rendersi visibili. È necessario anche un
investimento
di
tempo:
ad
esempio
sui
Social
Network
e
sull’aggiornamento del sito per promuoversi. Queste attività richiedono
una motivazione molto alta, perché i risultati non sono immediati e
spesso la frustrazione mette a dura prova.
7. Si può considerare la libera professione una nuova frontiera del
lavoro sociale?
Superando lo stereotipo della figura dell’assistente sociale come
mero “burocrate” del servizio pubblico e come mera figura pubblica
assistenzialistica, certo che potrebbe essere la libera professione una
nuova frontiera del lavoro sociale ma c’è ancora molta strada da fare.
Ci sono tanti esempi validi di liberi professionisti che hanno creduto e
credono nel loro progetto e che cercano di dare testimonianza di
98
quanto il coraggio, la tenacia, la motivazione e l’entusiasmo debbano
essere le pietre miliari affinché si proceda verso questa nuova ottica di
lavoro sociale.
8. Secondo lei, un incremento della libera professione potrebbe
influire positivamente a livello di immagine, conferendo maggiore
riconoscimento professionale alla figura dell’Assistente Sociale?
Sicuramente porre le basi e credere nella libera professione è una
grande sfida che accolta, “combattuta” e tutelata in tutti i suoi aspetti
potrebbe portare ad un riconoscimento professionale importante e
anche più visibile al cittadino che, al momento, ancora non riesce a
collocare la nostra professione ma soprattutto competenze e mansioni
che svolge un assistente sociale. Quindi importante è innanzitutto che
noi, come comunità professionale, facciamo in modo di informare e
diffondere la nostra identità, la nostra mission, le motivazioni che
devono spingere il cittadino a cercare o richiedere il nostro aiuto
altrimenti rimarremo sempre ancorati nella mera cornice pubblica e con
la visione “distorta” di una professione che altro non fa che firmare
moduli o autorizzare pratiche.
Le ultime due domande volutamente le ho lasciate in bianco perché
ritengo che, essendo giovane, non potrei dare una lettura ampia e
completa alla luce di una esperienza robusta che invece un assistente
sociale con una certa età potrebbe dare e suggerire.
99
VI.II Dottoressa Francesca Pirilli
Laureata, dapprima, in Scienze dell'Educazione; la dottoressa Pirilli
ha successivamente conseguito la laurea triennale in Servizio Sociale.
Attualmente sta frequentando il secondo anno della Scuola Biennale in
Counsellig Sistemico Relazionale.
1. Da quanti anni svolge la libera professione, com’è nata l’idea e
come ha cominciato?
Ho iniziato a lavorare come libera professionista nel campo della
formazione circa 4 anni fa collaborando presso l’Associazione di
Promozione Sociale (Aiasf) di cui oggi sono Vice Presidente.
All’inizio mi sono occupata della segreteria organizzativa e
successivamente, dopo aver partecipato a corsi di formazione inerenti
la gestione d’aula e un lungo training (che è stato utile per capire ciò
che veramente volevo e potevo fare) ho iniziato a sperimentarmi nel
campo dapprima come co-docente e poi come formatrice. Il percorso è
stato lungo e talvolta difficile ma ciò che mi ha spinto (e che mi spinge
tutt’ora) è stata la grande motivazione nel fare formazione
accompagnata anche da tanta
100
curiosità e umiltà.
2. Perché ha scelto la libera professione?
Perché la libera professione è molto vicino alle mie caratteristiche
personali ed è sempre stato un mio sogno. Permette una maggiore
autonomia, autodeterminazione, creatività e capacità di problem
solving e non bisogna dimenticare che - a differenza di un lavoro a
tempo indeterminato - può avere più rischi a livello lavorativo ed
economico.
3. Qual è il campo d’intervento maggioritario del suo lavoro e qual
è la tipologia di utenza più frequente?
Mi occupo di formazione sia rivolta ad assistenti sociali che
trasversale ovvero destinata ad altre figure che lavorano nel sociale
(educatori, psicologi, operatori, ecc) nonché a studenti universitari e
neo laureati residenti o domiciliati nel Lazio (dove lavoro e risiedo)
oppure provenienti da altre Regioni. Tenendo conto dei vari bisogni
formativi e delle richieste che giungono presso la segreteria
dell’Associazione, sto iniziando anche ad organizzare corsi fuori
Regione preferendo sempre la formula week end al fine di permettere
ai colleghi lavoratori di poter partecipare ai vari corsi di formazione.
4. Cosa spinge un utente a scegliere e pagare un servizio privato,
piuttosto che rivolgersi gratuitamente a strutture pubbliche?
Sicuramente la conoscenza dell’Ente che offre il servizio e la qualità
dello stesso anche in termini di rapporto qualità/prezzo.
5. Qual
è
la differenza
fra
101
lavorare come Assistente sociale
nel settore pubblico e nel privato?
Sicuramente nel pubblico impiego vi è una maggiore tutela
economica e contrattuale che non sempre è presente nel lavoro privato
dove è più facile trovare precarietà e turn over.
Quali sono, a suo parere, i pregi e i difetti nello svolgere in maniera
autonoma la professione?
Partiamo dai pregi: sicuramente la soddisfazione di essere l’artefice
del proprio lavoro, svolgerlo in maniera indipendente e creativa con la
chiara consapevolezza di essere “al passo con i tempi” e di avere la
capacità di rispondere ai bisogni e richieste della Comunità. Rispetto ai
difetti vi è la mancanza di una sicurezza contrattuale che un lavoro
dipendente può offrire.
6. Si può considerare la libera professione una nuova frontiera del
lavoro sociale?
Sicuramente si ma se organizzata in maniera chiara e consapevole
ovvero avere obiettivi ben chiari e i mezzi (economici, di tempo e di
risorse umane) per raggiungerli.
7. Secondo lei, un incremento della libera professione potrebbe
influire positivamente a livello di immagine, conferendo maggiore
riconoscimento professionale alla figura dell’Assistente Sociale?
Dipende da quello che intendiamo come libera professione e come
vogliamo organizzarla ovvero che tipo di servizi erogare. Se manca tale
consapevolezza si rischia, a mio
102
avviso, di lavorare senza un
ideale e senza una chiara progettazione che rischierebbe di creare
confusione fra i colleghi e una cattiva immagine della professione di
assistente sociale.
8. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri della professione?
Credo che lo sviluppo della nostra professione dipenda da ciò che
veramente vogliamo e crediamo. Dal mio canto mi auguro che si
abbandoni definitivamente l’abito dell’assistenzialismo e si ponga
come una professione volta al cambiamento, alla progettazione ed
erogazione di servizi destinati al singolo, ai gruppi e comunità
attraverso forme di collaborazione mediante, ad esempio, Studi
Associati, Associazioni o altre personalità giuridiche usando tecniche
specifiche di rilevazione del bisogno e criteri di soddisfazione dello
stesso (customer satisfaction).
9. Cosa suggerisce ai giovani Assistenti Sociali?
Di partire dal “chi siamo”, “da dove partiamo” e “dove vogliamo
arrivare” con la speranza che siano le linee guida per rendere concreti i
propri sogni attraverso l’impegno, la costanza e determinazione,
sapendo anche accettare tante “porte sbattute in faccia” come
esperienze che aiutano a crescere, evitando di perdere l’entusiasmo e di
pensare che “tutto sia dovuto” ma di affrontare ogni giorno con estrema
umiltà, pazienza e con la voglia di attivare delle collaborazioni fra
colleghi consapevoli che la strada sarà lunga e a volte in salita ma che,
step by step, si riusciranno a trovare finalmente soddisfazioni personali
103
e professionali.
VI.III
Dottoressa Marta Ienzi
Assistente
Sociale
Specialista,
laureata
nel
2013
in
“Programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali” presso
la Lumsa, sezione Santa Silvia di Palermo, la dottoressa Ienzi ha adesso
intrapreso un percorso accademico in Psicologia per ampliare
ulteriormente la propria visione. È, inoltre, presidente della cooperativa
ConCrea.
1. Da quanti anni svolge la libera professione, com’è nata l’idea e
come ha cominciato?
La mia esperienza libero professionale nasce nel maggio 2014 con la
fondazione della cooperativa sociale ConCrea avviata insieme a due
colleghe Assistenti Sociali specialiste e con la preziosa collaborazione
di una psicoterapeuta, giudice onorario al Tribunale per i Minori.
L’ottica è quella di rivalutare la crisi del welfare in un momento in cui
la frammentazione e lo scarso coordinamento dei servizi è ormai un
dato di fatto, una realtà che si palesa ai nostri occhi e che, però, ci
impone di ripensare il nostro agire professionale in un’ottica di rete ma
soprattutto di messa a sistema
104
delle
risorse
pubbliche,
ma
soprattutto di nuove risorse private. La cooperativa sociale ConCrea e,
quindi, la mia esperienza di libero professionista nasce proprio dalla
mission di ripensare l’offerta dei servizi in termini di apertura al
territorio, di dinamicità e di flessibilità che, spesso, il settore pubblico
fatica a attuare.
Consapevoli di una realtà frammentata, un gruppo di giovani
Assistenti Sociali Specialiste decide di esplorare le reti territoriali e,
dopo aver compreso l’analisi di contesto, abbiamo pensato a qualche
servizio innovativo da poter implementare nella nostra città e nella
nostra Regione, iscrivendo una storia nuova nell’attuale sistema di
welfare. Siamo passate, quindi, da esploratrici a mobilitatrici delle reti
territoriali, pensando di sviluppare una strutturata iniziativa di libera
professione, creando un’impresa sociale di comunità.
2. Perché ha scelto la libera professione?
Inutile essere ipocriti e dire che è stata una scelta immediata
dovuta a una vocazione professionale da freelance, questo forse lo si
matura in un secondo momento. Inizialmente ho scelto la libera
professione perché mi sono resa conto che non ci sono altri spazi
lavorativi o comunque sono complicati da raggiungere. Di conseguenza
con due lauree e un’immensa motivazione, ho deciso di metterle a
frutto. Ideata un’impresa sociale di comunità, ho riscoperto
successivamente il motivo della mia scelta. La libera professione, non è
solo risposta a una crisi di welfare al fatto che i concorsi pubblici
tardano a dare a noi giovani delle
105
possibilità di intraprendere un
percorso più sicuro, ma diventa fattore di innovazione e riconoscimento
maggiore della professione, facendo rivalutare all’esterno l’immagine
dell’Assistente Sociale quale operatore esperto dell’aiuto che esplora e
mobilita le reti, che mette a sistema le risorse dell’utente, garantendo
percorsi di risposta individualizzati e al contempo gruppali che
attenzionano i diversi livelli di bisogni delle persone. Questo si può fare
con la libera professione.
3. Qual è il campo d’intervento maggioritario del suo lavoro e qual
è la tipologia di utenza più frequente?
La mia attività libero professione si esplica nell’ambito dello studio
professionale associato Go.Pro, costituito dalla cooperativa ConCrea da
circa sei mesi. Lo studio è costituito da un team multidisciplinare,
composto da Assistenti Sociali Specialiste, mediatrici familiari,
avvocato, psicologi clinici e psicoterapeuti, con l’obiettivo di
perseguire percorsi alternativi di risposta ai bisogni complessi
attraverso un approccio multidisciplinare integrato e integrativo,
attenzionando più fasce d’utenza. Nello specifico lo studio accoglie
un’utenza molto diversificata, affrontandone cause di svantaggio, di
disorientamento, di disagio emotivo ed offrendo loro pacchetti di
servizi personalizzati: offriamo doposcuola per bambini con Bisogni
Educativi Speciali, laboratori di arte-terapia, di logopedia, di musicoterapia, di cucina e, più in generale, di autonomia sociale per ragazzi
con disabilità intellettiva o fisica. Inoltre, garantiamo consulenze per lo
start
up
di
imprese
sociali,
106
consulenze multiprofessionali a
seconda dei casi di svantaggio, gruppi di sostegno per i familiari in
difficoltà socio-educativa, assistenza domiciliare di primo livello per
persone parzialmente autosufficienti. Infine, il settore della formazione
che contestualmente e trasversalmente riveste un’importanza notevole.
4. Cosa spinge un utente a scegliere e pagare un servizio privato,
piuttosto che rivolgersi gratuitamente a strutture pubbliche?
L’utente potrebbe preferire un servizio privato al pubblico, poiché
evita disservizi, disinformazione, disorientamento, a vantaggio della
qualità intesa come tempestività, efficacia, efficienza, nonché
accompagnamento e perché i servizi pubblici tendono più ad offrire
pacchetti standardizzati di prestazioni poco individualizzate e poco
pensate con gli utenti.
5. Qual è la differenza fra lavorare come Assistente sociale nel
settore pubblico e nel privato?
Nel settore pubblico, si tende più a lavorare sugli utenti che per e
con gli utenti: questa è la chiave di volta della libera professione, che
progetta con gli utenti, facendo sì che essi siano protagonisti attivi del
loro cambiamento. Quindi, si sceglie un servizio privato perché ha
maggiore qualità e perché è co-costruito con l’utente, evitando la
standardizzazione e la passivizzazione tipica del settore pubblico.
6. Quali sono, a suo parere, i pregi e i difetti nello svolgere in
maniera autonoma la professione?
I pro e i contro lavorando nel
107
privato. L’Assistente Sociale che
lavora nel pubblico ha una maggiore garanzia, una maggiore stabilità
sotto il punto di vista economico, ma al contempo si presta a fenomeni
di bournot, mobbing, autoreferenzialità dell’agire professionale,
subisce la standardizzazione dei servizi, il blocco dei fondi,
l’impossibilità di ripensare i servizi in termini alternativi, il sottostare a
dei criteri e a delle legislazioni imposte dalla pianificazione strategica
dell’azienda presso cui opera. Ha, dunque, in determinati casi, mente e
mani legati, a svantaggio della sua professionalità, dei suoi saperi, delle
sue competenze e, soprattutto, del benessere dell’utente, vivendo una
sensazione di frustrazione e impotenza che viene gestita in maniera
diversa a livello privato. Un professionista a livello privato è chiamato
a non fermarsi mai, deve valutare continuamente e vagliare il mercato, i
servizi, i nuovi soggetti erogatori, i bisogni come cambiano, deve
progettare e programmare in itinere e prevedere delle modifiche al suo
agire professionale, cercando di essere al passo con i tempi e di
proporre servizi diversificati e innovativi. Quindi, una maggiore
insicurezza e una maggiore instabilità rispetto al pubblico, però ripagati
dalla possibilità di essere protagonisti reali ed effettivi del proprio agire
professionale.
7. Si può considerare la libera professione una nuova frontiera del
lavoro sociale?
La libera professione è la nuova frontiera del lavoro sociale, per le
motivazioni suddette e per il fatto che il servizio pubblico non risponde
più ai bisogni delle persone o non
108
in maniera esaustiva. Noi ci
confrontiamo con dei bisogni inesauribili che premono per essere
soddisfatti, quindi è sicuramente la nuova frontiera del lavoro sociale. È
la nuova frontiera perché va a rivalutare il riconoscimento della
professione e perché garantisce spazi di azione, nuovi e creativi in
risposta ai bisogni multidimensionali non sempre attenzionati in tutte le
sfaccettature.
8. Secondo lei, un incremento della libera professione potrebbe
influire positivamente a livello di immagine, conferendo maggiore
riconoscimento professionale alla figura dell’Assistente Sociale?
Assolutamente sì. La libera professione diventa un fattore facilitante
della
riscoperta
a
livello
d’immagine
dell’Assistente
Sociale
conferendo un maggiore riconoscimento professionale e, soprattutto, un
diversificato riconoscimento professionale. Quindi, dapprima farci
riconoscere e poi farci riconoscere per quello che siamo realmente.
Sarebbe però bello e opportuno che nascano altre iniziative private. La
libera professione deve diventare motivo di svecchiamento della
professione, per questo si può influire positivamente a livello
d’immagine. Deve essere il professionista stesso a re-immaginarsi, a
pensare che si può essere differenti da come abbiamo studiato sui libri
universitari,
quindi
svecchiamento
della
figura
professionale
dell’Assistente Sociale verso una nuova frontiera, quella della libera
professione, dell’essere policy maker, imprenditori di se stessi e del
sociale.
109
9. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri della professione?
Potrebbero essere quelli della libera professione, del creare numerosi
studi privati di Assistenti sociali, che diramati sul territorio attenzionino
i diversi bisogni diffusi. Abbiamo otto circoscrizioni, perché no il
pubblico mettersi in partenariato e lavorare con il privato? Perché non
affiancare all’esperienza delle otto circoscrizioni, oberate di lavoro,
anche i casi di tipo privato? Quindi, gli possibili sviluppi della
professione possono essere creare un numero maggiore di imprese
sociali di comunità che agiscono a livello privato, offrendo servizi
alternativi, affiancando anche l’esperienza pubblica. Ciò richiederebbe
un lavoro di concertazione a più livelli fra pubblico e privato: il
pubblico deve aprirsi alle logiche del privato e il privato cedere a
qualche compromesso.
10.
Cosa suggerisce ai giovani Assistenti Sociali?
Suggerirei di non avere paura, o meglio, di avere paura e sfruttarla in
termini positivi, canalizzandola verso scelte opportune e alternative del
lavoro sociale. I giovani Assistenti Sociali non devono farsi abbattere
dalla crisi del welfare, ma pensarla come un’opportunità per loro stessi:
è vero che non c’è lavoro, createlo, inventalo. Quindi, suggerisco ai
giovani di creare, di inventare, di sfruttare al meglio le competenze
dell’Assistente Sociale e parlo delle competenze trasversali, del saper
essere, del saper fare, del divenire. E nel divenire c’è sicuramente la
libera professione.
110
VI.IV
Dottor Giacomo Sansica
Il dottor Giacomo Sansica è un Assistente Sociale iscritto all’Ordine
degli Assistenti Sociali Sicilia Sezione A; laureato presso l’Università
degli Studi di Palermo in Servizio Sociale nel 2007 e Specializzato
presso
l’Alma
Mater
Studiorum
(Università
di
Bologna)
in
Responsabile nella Progettazione e Coordinamento dei Servizi Sociali.
La formazione viene arricchita da vari corsi formativi e master
universitari, tra cui corso in criminologia per le professioni di aiuto;
master in mediazione interculturale e gestione delle emergenze
umanitarie. Esperto in percorsi di emancipazione da dipendenze, lavora
a Trapani come libero professionista, occupandosi dei bisogni familiari:
anziani, minori, adulti, disabili. Inoltre, collabora a diversi progetti di
formazione.
Oltre all’intervista, viene riportato per intero l’articolo “Il lavoro
rende liberi” in cui lo stesso dottor Sansica, all’interno del suo sito
internet
www.studiosociale.altervista.org,
racconta
in
maniera
dettagliata l’approccio alla libera professione. All’interno del sito web,
inoltre, il professionista rende noto il suo curriculum vitae, descrive il
suo operato nel corso degli anni, i campi d’intervento del suo lavoro, i
progetti in corso e futuri.
111
1. Da quanti anni svolge la libera professione, com’è nata l’idea e
come ha cominciato?
Svolgo la professione da Libero Professionista da ottobre ’13. L’idea
imprenditoriale mi è sempre piaciuta. Soprattutto creare ed offrire
servizi per la cittadinanza.
“Inizia tutto nel 2013, anno particolare per me; dovevo sposarmi ma
un mese prima delle nozze persi il lavoro e insieme ad esso, forza e
speranza. In quel momento i 12 anni di fidanzamento vissuti già con la
mia donna, sembravano destinati a crescere ancora di più. Mi sentivo
senza forze e forse non tanto per il lavoro ma perché pensavo che non
avrei potuto coronare un sogno d’amore quale il matrimonio. Cosi
arrivò una forte depressione, ne fui travolto tanto da rompere tutti i
rapporti con le persone a me care e non. Mi vergognavo, ero un fallito!
Non riuscivo a pensare altro che questo.
Lei, lo aveva sempre fatto… aveva sempre creduto in me e cercato
di spronarmi nei momenti difficili. Non fece eccezione neppure quella
volta…: “ Tu sei nato per fare questo lavoro, sei determinato, caparbio
e capace” mi disse, “riporta in superficie queste qualità, trovane la
forza e rialzati”. Quelle parole, mi tormentavano durante le notti, iniziai
a riflettere. Cosa fare? Come muovermi? E nel frattempo lei…Luana
muoveva altre strade: cercava spazi ad uso ufficio tra i giornali
112
d’annunci vai, internet, etc… così. Una mattina di settembre mi chiese
di accompagnarla a vedere un ufficio per lei. Arrivati sul posto, disse:
questo è il tuo ufficio, qui inizierai la tua attività come libero
professionista”. Io ero sconvolto, impaurito, perplesso: stai fuori”
dicevo, “chi deve venire da me!” Ma lei ribatteva senza timore: “Tu ce
la farai! Sali su questa barca e portami all’altare”!
Mentre il tempo passava e con esso la mia depressione sembrava
giungere ad un nodo cruciale: continuare a vivere da morto o vivere
pienamente? Fu come un miracolo, ho ritrovato la voglia di fare. Iniziai
subito a fare un bilancio delle mie competenze professionali, iniziai a
misurare la mia professionalità, cominciai a studiare e capire cosa e
come potesse lavorare un assistente sociale da libero professionista.
Qual erano i servizi che potevo offrire, come lavorare in rete? Cercavo
di documentarmi sulla libera professione, ma non conoscevo nulla, solo
qualche libro universitario che affermava “L’assistente sociale può
operare da dipendente sia nella pubblica amministrazione che nel terzo
settore, e può operare da libero professionista. Mi documentai su come
aprire la partita iva, iniziai a realizzare brochure, locandine, biglietti da
visita e fare pubblicità in giro per la città, così il 7 ottobre 2013 ho
preso postazione nel mio ufficio. Due giorni dopo mi chiamò una
signora chiedendomi di aiutare il figlio con disturbi dell’apprendimento
la mia risposta è stata positiva . E così iniziai a lavorare con questo
minore dal 10 ottobre 2015, riuscendo a pagare la mensilità dell’ufficio.
Quel primo intervento mi diede coraggio. Di lì iniziarono le prime
chiamate per delle consulenze di
113
sostegno e di supporto: - un
ragazzo che necessitava di un supporto dopo essersi lasciato con la
fidanzata; - una famiglia mi contatta per aiutare la figlia nelle relazioni
familiari e sociali; - una coppia di fidanzati mi contatta per supportarli
favorendo il dialogo di coppia; - una coppia di genitori mi contatta per
supporto tra genitori e figli; - altra madre mi contatta per chiedermi
sostegno per il figlio, che sta prendendo “brutte strade”. Altro caso
divertente è stato quello di un giovane di 22 anni che lavorava presso
un’agenzia assicurativa. Presentatosi allo studio, mi voleva vendere la
polizza vita, e sapete come è finita? Non ho fatto la polizza, ma ho
preso in carico il ragazzo. Queste consulenze mi hanno permesso di
acquisire maggiore sicurezza e andare avanti fino a quando a gennaio
2014 chiesi alla mia ragazza di riprendere ciò che avevamo lasciato e
così il 3 maggio del 2014 ci siamo sposati grazie al lavoro libero
professionista.
Da lì non mi sono mai fermato la mattina giravo per la città,
andando nelle scuole, negli enti istituzionali, per capire quali fossero i
bisogni e dare delle risposte attraverso progetti, ad esempio presentai
“STAR BENE A SCUOLA” per promuovere la figura dell’assistente
sociale.
Nel mese di marzo del 2014 al comune di Erice presentai il progetto:
“STUDIARE GIOCANDO” rivolto ai bambini con disturbi specifici di
apprendimento e non. Il progetto è stato presentato dopo aver tenuto
insieme al Dottor. Panizzi Furio il corso Tutor DSA a Trapani nel mese
di Febbraio. Grazie a questo
114
progetto, finanziato dal comune
hanno lavorato sei operatori per 12 minori segnalatami dai servizi
sociale del comune. Dopo l’esito positivo il progetto viene riaffermato
per
l’anno
scolastico
2014/2015
con
il
titolo
“Imparare…
Studiando&Giocando” che attualmente sta vedendo impegnati 30
operatori che lavorano sia a domicilio che a scuola per il supporto
didattico educativo per ben 45 minori segnalatami dai sempre dai
servizi sociali.
Quest’anno ho presentato altri progetti nelle scuole, “I HAVE A
DREAM”, sulla legalità e sulle norme costituzionali; “A SOSTEGNO
PER TE… FUORI CLASSE”, riguardante la dispersione scolastica e i
problemi adolescenziali.
Durante questo anno, ho avviato a Trapani, l’Associazione di
Promozione Sociale “Professione Assistente Sociale” con finalità e
obiettivi rivolti all’emarginazione sociale e ad una cittadinanza attiva.
Molti Assistenti Sociali anche fuori regione Sicilia sono soci e insieme
lavoriamo in rete.
La potenzialità del lavoro di rete mi ha permesso di tenere ed
organizzare vari corsi di formazione, quali: Libera professione,
L’assistente sociale formatore, Fare cose con le parole”, Tutor DSA,
Tutor BES, L’amministratore di sostegno. Molti di questi sono stati
patrocinati e accreditati.
Concludo dicendo che io ci sono riuscito, dunque niente è
impossibile. Occorre crederci prima di tutto e in particolar modo
impegnarsi
attivamente
nella
115
promozione.
Bisogna
prima
tirarsi fuori da dietro una scrivania se si vuole trovare posto dietro ad
essa”.34
2. Perché ha scelto la libera professione?
La difficoltà e la crisi lavorativa sicuramente ha potenziato in me
l’idea di scegliere qualcosa alternativo per la nostra comunità.
3. Qual è il campo d’intervento maggioritario del suo lavoro e qual
è la tipologia di utenza più frequente?
Consulenze e sostegno individuale, supporto personale e familiare.
L’utenza che si presenta presso il mio ufficio è varia… dal povero al
benestante.
4. Cosa spinge un utente a scegliere e pagare un servizio privato,
piuttosto che rivolgersi gratuitamente a strutture pubbliche?
La qualità e la risposta tempestiva alle esigenze dell’utente.
5. Qual è la differenza fra lavorare come Assistente sociale nel
settore pubblico e nel privato?
Nel settore pubblico l’assistente sociale appare vincolato alla
burocrazia e soprattutto alle aree di intervento. Mentre nel privato
sociale l’assistente sociale opera a 360 gradi intervenendo sulle varie
aree di intervento:
famiglia,
anziani, minori, dipendenza,
immigrazione, disabilità…
34
Sansica G. “Il lavoro rende liberi” in
http://www.studiosociale.altervista.org/contenuto/visualizzo.php
116
6. Quali sono, a suo parere, i pregi e i difetti nello svolgere in
maniera autonoma la professione?
Il pregio è sicuramente la possibilità di scegliere come lavorare,
ovviamente con professionalità e seguendo sempre il nostro codice
deontologico.
Il difetto, essere poco riconosciuto dalle autorità
giudiziali.
7. Si può considerare la libera professione una nuova frontiera del
lavoro sociale?
Si… sicuramente potrebbe dare migliore risposta alla cittadinanza in
maniera ottimale e tempestiva…e soprattutto essere una nuova frontiera
lavorativa per i giovani d’oggi ovviamente dopo una preparazione
raggiunta.
8. Secondo lei, un incremento della libera professione potrebbe
influire positivamente a livello di immagine, conferendo maggiore
riconoscimento professionale alla figura dell’Assistente Sociale?
Sicuramente.
9. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri della professione?
Tanti…soprattutto offrire un servizio alternativo….anche se in
collaborazione con la P.A.
10.
Cosa suggerisce ai giovani Assistenti Sociali?
Come disse il Santo Papa Giovanni Paolo II ai giovani “aprite…anzi
spalancate le porte del vostro
117
cuore”…. Io dico “Apritevi alla
Libera professione e siate un modello professionale per la nostra
comunità”.
118
VII.
CONCLUSIONE:
PERCHÉ
LA
LIBERA
PROFESSIONE È LA NUOVA FRONTIERA DEL
LAVORO SOCIALE
“Scritta in cinese la parola crisi è composta di due caratteri. Uno
rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta l’opportunità”.
Questa citazione di John Fitzgerald Kennedy rappresenta la
prospettiva positiva che si dovrebbe creare in un momento negativo: la
situazione socio-economica che si è venuta a creare negli ultimi anni e
lo smantellamento dell’apparato di welfare pubblico dovrebbero fornire
una spinta al soggetto, così come è avvenuto recentemente per lo
sviluppo dell’esperienza di libera professione degli Assistenti Sociali.
In fondo, bisogna pensare che alle fasi di recessione sono sempre
seguite fasi di sviluppo e progresso. In particolare, l’Assistente Sociale
ambizioso sa svincolarsi dalla visione tradizionale della professione al
fine di creare e reinventare un’identità professionale stimolante, ricca e
119
sempre in evoluzione, che quindi fa presagire un futuro quanto mai
innovativo e eccitante.
Oggi, l’Assistente Sociale deve sapersi porre come policy maker,
attore di cambiamento e promozione delle politiche sociali, che devono
andare ad investire nella realtà locale. La dottoressa Ienzi, alla
domanda riguardante i pregi e i difetti nello svolgere in maniera
autonoma la professione, afferma che l’Assistente Sociale che opera nel
pubblico ha “mente e mani legati, a svantaggio della sua
professionalità, dei suoi saperi, delle sue competenze e, soprattutto, del
benessere dell’utente, vivendo una sensazione di frustrazione e
impotenza che viene gestita in maniera diversa a livello privato. Un
professionista, a livello privato, è chiamato a non fermarsi mai, deve
valutare continuamente e vagliare il mercato, i servizi, i nuovi soggetti
erogatori, i bisogni come cambiano, deve progettare e programmare in
itinere e prevedere delle modifiche al suo agire professionale,
cercando di essere al passo con i tempi e di proporre servizi
diversificati e innovativi”.
Il professionista è colui il quale impiega il proprio bagaglio di
conoscenze per offrire un servizio ad altri soggetti, ma, oltre a ciò, deve
essere
un
professionista
di
progettualità
dinamiche
e
non
burocratizzate, sia nel settore pubblico, ma soprattutto nel privato. La
libera professione può favorire questo passaggio: il lavoro sociale non
si può esaurire nella mera burocrazia e nell’assistenzialismo, deve
essere dinamico, con interventi
120
personalizzati e azioni modellate
per ogni singola situazione. Basta dotarsi degli strumenti tipici
dell’impresa, recuperando nel bagaglio identitario il lavoro e la
relazione con l’utente, sapendo scovare le risorse esistenti per poter
intervenire concretamente sul caso. Importantissimi aspetti sono anche
quelli menzionati dalla dottoressa Longo, “il coraggio, la tenacia, la
motivazione e l’entusiasmo debbono essere le pietre miliari affinché si
proceda verso questa nuova ottica di lavoro sociale”.
Svolgere un lavoro autonomo significa gestirlo in proprio, reggendo
compiti e responsabilità senza l’intermediazione dell’organizzazione,
analizzando motivazioni e attitudini personali all’imprenditorialità,
senza però incedere sull’onda dell’entusiasmo, dell’emotività o della
creatività eccessiva, basando, invece, il proprio operato sulle
conoscenze teoriche e/o normative. Perciò, a causa della complessità e
della varietà degli ambiti d’intervento degli Assistenti Sociali,
possiamo affermare che liberi professionisti non si nasce, ma si diventa
seguendo un percorso in cui si acquisiscono conoscenze sempre più
approfondite, in cui l’ambito lavorativo può subire cambiamenti dettati
dal mercato e in cui il professionista deve essere sempre pronto a
mettersi in gioco e a rimodulare la sua identità professionale.
In aggiunta a quanto detto, la libera professione è un’attività che può
migliorare l’immagine dell’Assistente Sociale. Purtroppo, dopo molti
anni, si è ancora lontani da un adeguato riconoscimento professionale,
sia per la percezione che il cittadino ha della figura, sia per il ruolo che
altri
professionisti
gli
121
attribuiscono.
Forse
attraverso
l’esercizio della libera professione, l’Assistente Sociale potrà
dimostrare di aver quel valore aggiunto, che lo farà differenziare da
altre professioni e gli conferirà maggiore riconoscimento dal punto di
vista professionale perché creerà una nuova immagine, dettata da
un’identità più matura, ma anche dal punto di vista personale perché
avrà maggiore dinamicità, motivazione, creatività, maggiore spazio per
dimostrare le sue capacità e la sua rilevanza nel lavoro e nelle politiche
sociali. E, perché no, anche l’aspetto economico ne risentirebbe
positivamente.
L’Assistente Sociale libero professionista risulta, quindi, cambiato
in ordine sia allo status, che al ruolo. Questo è di fondamentale
importanza per comprendere e pronosticare verso quale connotazione
definitoria sta andando la professione. Saprà elevarsi puntando a una
solida formazione? Gli Assistenti Sociali sapranno lottare per affermare
l’importanza del loro ruolo? Sapranno portare avanti le proprie
aspettative con determinazione? Le istituzioni coglieranno i benefici
sociali ed economici che l’agire professionale dell’Assistente Sociale
determina per l’interesse pubblico?
122
123
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