! LIBERA UNIVERSITÀ MARIA SS. ASSUNTA ! DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN PROGRAMMAZIONE E GESTIONE DELLE POLITICHE E DEI SERVIZI SOCIALI CLASSE LM - 87 CATTEDRA DI SISTEMI COMPARATI DI WELFARE LA LIBERA PROFESSIONE: NUOVA FRONTIERA DEL LAVORO SOCIALE THE LIBERAL PROFESSION: A NEW FRONTIER OF SOCIAL WORK RELATORE Prof. Massimo Rizzuto CORRELATORE Dott.ssa Eleonora Caruso CANDIDATO Chiara Salvaggio Matricola SS 17700/402 ANNO ACCADEMICO 2014 –2015 INDICE Introduzione >> 3 I. Gli sviluppi della libera professione dell’Assistente Sociale >> 9 L’evoluzione della libera professione: riferimenti normativi e welfare mix Definizione della figura di Assistente Sociale libero professionista II. Compiti e competenze dell’Assistente professionista Sociale libero >> 16 Breve storia del servizio sociale, chi è e di cosa si occupa l’Assistente Sociale Principi e valori della professione Le specificità del libero professionista I bisogni del professionista e la distinzione fra professione e semi-professione III. Profili lavorativi e adempimenti burocratici >> 40 Parametri per la liquidazione IV. I servizi offerti e la tipologia di utenza Area consulenziale Area comunicativa Area formativa Area giuridica 1 >> 48 INDICE Introduzione >> 3 I. Gli sviluppi della libera professione dell’Assistente Sociale >> 9 L’evoluzione della libera professione: riferimenti normativi e welfare mix Definizione della figura di Assistente Sociale libero professionista II. Compiti e competenze dell’Assistente professionista Sociale libero >> 16 Breve storia del servizio sociale, chi è e di cosa si occupa l’Assistente Sociale Principi e valori della professione Le specificità del libero professionista I bisogni del professionista e la distinzione fra professione e semi-professione III. Profili lavorativi e adempimenti burocratici >> 40 Parametri per la liquidazione IV. I servizi offerti e la tipologia di utenza Area consulenziale Area comunicativa Area formativa Area giuridica 1 >> 48 Assistenti Sociali senza frontiere V. Punti di forza e criticità della libera professione >> 86 VI. Dieci domande agli Assistenti Sociali liberi professionisti >> 93 Dottoressa Desiré Longo Dottoressa Francesca Pirilli Dottoressa Marta Ienzi Dottor Giacomo Sansica VII. Conclusione: perché la libera professione è la nuova frontiera del lavoro sociale >> 119 Bibliografia >> 124 Sitografia >> 127 2 INTRODUZIONE Questo elaborato vuole affrontare il tema della libera professione dell’Assistente Sociale intesa come nuova frontiera del lavoro sociale al fine di esaminare un ambito lavorativo tanto emergente quanto innovativo che è divenuto piuttosto esteso negli ultimi anni. Tale settore, che negli anni addietro non era solamente poco sviluppato ma anche poco conosciuto, ha saputo ritagliarsi sempre più spazio e continua a espandersi anche come una forma di contrapposizione alla crisi degli ultimi anni e al blocco delle assunzioni. Il professionista può ripensare il suo ruolo, bypassando le negatività e facendosi imprenditore del sociale. L’Assistente Sociale deve saper porsi come un coordinatore fra le istanze del singolo utente e la comunità, fungendo da collante fra gli attori, fra le istituzioni e le risorse presenti nel territorio. Deve possedere la capacità di promuovere la partecipazione della comunità per l’attivazione di risposte funzionali ai nuovi bisogni emergenti e farsi, poi, portavoce delle istanze degli 3 utenti, divenendo un ponte fra il territorio e la politica. Solo grazie al contributo di chi ha esperienza, di chi è portatore di un bisogno, si possono creare delle azioni utili e dei servizi veramente rispondenti alle esigenze del territorio. Se è vero che l’Assistente Sociale - come si evince nella sezione riguardante l’evoluzione della libera professione nel primo capitolo nasce come dipendente pubblico e tale ambito tutt’oggi risulta prevalente, è anche vero che la crisi del welfare, che non è più riuscito a soddisfare i bisogni del cittadino, ha sviluppato un approccio multistakeholder, reticolare in cui l’offerta pubblica viene affiancata da alternative professionali operative di tipo privato. Nello stesso capitolo si darà una definizione della figura dell’Assistente Sociale libero professionista. Il Codice Civile classifica l’attività sotto la denominazione di “professione intellettuale”, ossia il lavoro svolto per conto di svariati committenti, senza vincolo di subordinazione, attraverso una propria organizzazione di mezzi e del lavoro e in modo abituale. La libera professione è, quindi, esercitata dal professionista, rigorosamente iscritto all’albo, che la svolge in maniera autonoma, scevro da rapporti di dipendenza. È, quindi, un’attività lavorativa che richiede competenze tecnico-scientifiche e che crea un rapporto diretto con l’utente, il quale paga la prestazione secondo un compenso pattuito a priori. È doveroso far riferimento alla cornice normativa che orienta l’agire professionale, all’articolo 52 del codice 4 deontologico e in particolare alla legge 328 del 2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, la quale rivoluziona l’ambito dei servizi sociali e dà spazio alla sussidiarietà orizzontale a garanzia di una libera scelta e di una presa in carico globale dei bisogni e della domanda sociosanitaria, attuando servizi che rispondano realmente alle esigenze della comunità, con tempestività e qualità. Non si può, inoltre, non parlare dell’importanza che ricopre il concetto di rete su diversi piani: nell’interesse generale della comunità, in un’ottica di percorsi alternativi e interdisciplinari, in risposta ai multiformi bisogni sociali della comunità odierna. Proprio per questo nel secondo capitolo, intitolato “Compiti e competenze dell’Assistente Sociale libero professionista” si delineeranno, attraverso un piccolo excursus normativo, sia i cambiamenti avvenuti nel settore sociale, ma anche la metamorfosi che ha vissuto la figura dell’Assistente Sociale, nonché i principi e i valori della professione. Si traccerà, la differenza fra il concetto di professione e quello di semi-professione, passando in rassegna anche i bisogni, materiali e immateriali, che riguardano l’Assistente Sociale nel passaggio dalla dipendenza al lavoro autonomo. Ma quali step bisogna seguire per esercitare la libera professione? Quali cavilli normativi bisogna rispettare? Basti pensare che, a volte, i fattori burocratici rappresentano un disincentivo all’autoimprenditoria. Nel terzo capitolo, con il proposito di fare maggiore chiarezza, si inquadreranno i profili lavorativi, differenziando le forme di lavoro autonomo individuale, come le varie forme di collaborazione, da 5 quelle a carattere collettivo, quali forme d’imprese monoprofessionale o pluriprofessionali. Per di più, saranno spiegati alcuni adempimenti burocratici da compiere per poter esercitare correttamente la libera professione e verrà dedicata una parte al tariffario e ai parametri per la corresponsione del compenso. Successivamente, si esporranno dettagliatamente i campi d’intervento, i servizi che un Assistente sociale può offrire non esercitando un lavoro dipendente e gli utenti interessati da tali prestazioni. Si è preferito raggruppare le attività in cinque diverse aree operative. All’interno dell’area a tema consulenziale si troverà illustrata la mediazione spiegata e diversificata per ambiti, la supervisione, la creazione di servizi, la consulenza sociale e la selezione del personale. L’area comunicativa, invece, si snoda in giornalismo sociale e consulenza comunicativa. Un’altra area veramente interessante è quella formativa in cui si analizzerà la formazione professionale, che si è sviluppata a partire dall’introduzione dell’obbligo di formazione continua, e la docenza, a sua volta differenziando l’ambiente universitario dalla scuola secondaria superiore. La quarta area, ovvero quella giuridica vede come figure prevalenti il giudice onorario e il consulente tecnico giuridico. L’ultima area descritta riguarda l’esperienza di “Assistenti Sociali Senza Frontiere”, una ONLUS che mira a promuovere la cooperazione internazionale nel campo dell’assistenza sociale allargando il raggio d’azione degli Assistenti Sociale e portandoli ad operare anche fuori dall’Italia, spesso in Paesi 6 in via di sviluppo. Nel quinto capitolo, partendo da un’analisi della dottoressa Elena Giudice, Assistente Sociale libero professionista milanese, si procederà a una disamina dei pregi e dei difetti che la professione svolta in maniera autonoma ha insiti, annoverando fra i primi l’autonomia e la creatività che un professionista può concedersi e contrapponendo i rischi legati a una mancanza di tutele lavorative, anche sul versante pensionistico. Per dare maggiore rilevanza e significatività scientifica al lavoro, si è deciso di contattare alcuni Assistenti Sociali che svolgono la libera professione e sottoporli ad un’intervista composta da una batteria di dieci domande, di cui alcune inerenti l’esperienza personale e l’approccio alla libera professione, altre, poi, concernenti la loro idea di libera professione e gli sviluppi futuri della professione. Infine, dopo il prezioso contributo fornito dal dalla dottoressa Longo (operativo a Roma), dalla dottoressa Pirilli (Roma), dalla dottoressa Ienzi (Palermo) e dal dottor Sansica (Trapani), si cercherà di concludere, esaminando e sintetizzando quali sono le motivazioni per cui si ritiene che la libera professione rappresenta oggi, e costituirà anche in futuro, la nuova frontiera del lavoro sociale. Perché può essere un orientamento utile alle nuove generazioni di Assistenti Sociali ai quali il “posto fisso” sta stretto, a coloro che cercano un’esperienza stimolante. L’obiettivo di questa tesi è quello di essere una cassetta degli 7 attrezzi per chi vuole intraprendere la libera professione, di chiarire e sviluppare il concetto di empowerment anche negli operatori del sociale, di innescare una miccia che faccia cambiare prospettiva: bisogna concentrarsi sulle risorse, guardare ciò che c’è e che si può migliorare e sviluppare, non solo le negatività. La libera professione può potenziare e correggere alcuni aspetti poco funzionanti del settore sociale e, al contempo, fornire a molti professionisti l’opportunità di trovare la loro strada. 8 I. GLI SVILUPPI DELLA LIBERA PROFESSIONE DELL’ASSISTENTE SOCIALE Nonostante la professione dell’Assistente Sociale sia svolta quasi totalmente come lavoro dipendente, negli ultimi anni sta trovando spazio una nuova forma lavorativa che interessa questa figura: la libera professione. Fino agli anni ’90, il binomio Assistente Sociale - libero mercato era improponibile, soprattutto per il fatto che, pressoché la totalità degli operatori che terminava il percorso di studi, trovava lavoro quasi immediatamente come dipendente pubblico. Chi sceglieva di approcciarsi alla libera professione, infatti, era solamente l’Assistente Sociale in pensione che voleva continuare la sua attività, dedicandosi più che altro alla formazione. Oggi, però, il contesto socioeconomico è totalmente cambiato: la crisi economica, il blocco delle assunzioni, le nuove forme lavorative e di comunicazione, un nuovo modo di approcciarsi alla professione hanno contribuito ad un cambiamento di 9 prospettiva che ha portato il professionista a modificare il modo stesso di operare, senza però scordare i principi e i cardini storici del lavoro sociale. I.I L’evoluzione della libera professione: riferimenti normativi e welfare mix Fin dagli albori alcune professioni hanno avuto la caratteristica dell’autonomia, peculiarità che probabilmente manterranno sempre; basti pensare all’avvocatura, all’attività notarile e altri esempi similari. Invece, nonostante l’attività libero professionale riguardante la figura dell’Assistente Sociale sia abbastanza recente, possiamo dire che l’evoluzione, che ha caratterizzato anche altri ambiti occupazionali, nasce, in generale, dall’esigenza di supplire alle mancanze dell’apparato statale che non può materialmente occuparsi di dare risposta a tutte le esigenze dei cittadini. Perciò, il professionista decide di svolgere la propria attività in regime di “quasi concorrenza” nei confronti dello Stato. Scendendo nello specifico, nel settore dei servizi sociali, la crisi fiscale dello Stato ha operato molti tagli in tale ambito, ciò ha favorito la legittimazione di nuovi attori e nuove forme di fruizione dei servizi in una logica di welfare mix, in cui pubblico e privato coesistono. Inoltre, il sistema lanciato dalla legge 328 del 2000 10 “legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” si oppone a quello universalistico statale, richiedendo, invece, risposte personalizzate alle esigenze del cittadino, estendendo il concetto stesso di bisogno e approcciandosi alla risoluzione in maniera diversa, più indiretta, con interventi di lungo periodo, escludendo la limitazione al solo aiuto economico, come accadeva in precedenza. Pertanto, affinché questo nuovo modo di lavorare nel sociale venga messo in atto concretamente e non resti una mera opportunità, il settore privato deve per forza affacciarsi e interfacciarsi in campi nuovi, prima egemonia statale. In questo nuovo scenario, quindi, come sostiene Antonietta Paglia, “probabilmente il lavoro di libera professione rappresenterà una scelta obbligata per molti dei futuri laureati Assistenti Sociali”. 1 Sebbene, nel linguaggio comune, il lavoro autonomo sia definito come libera professione, questo appellativo è improprio poiché il Codice Civile disciplina la questione nel libro V, riguardante il lavoro, e nello specifico al titolo III, inerente il lavoro autonomo, qualificando questa tipologia di lavoro come professione intellettuale. Partendo dalla legge n. 84 del 1993 “Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell'albo professionale”, che definisce la figura dell’Assistente Sociale e il suo profilo professionale, ne istituisce l’Ordine e ne disciplina l’iscrizione all’albo, appare 1 Paglia A., “Gli Assistenti Sociali e la libera professione” in Dimensione professionale del servizio sociale n.1/2015 pagg.15-16. 11 importante per il tema trattato riportare il comma 3 dell’articolo 1 che recita: “la professione di Assistente Sociale può essere esercitata in forma autonoma o di rapporto di lavoro subordinato”. Nonostante la definizione di tale possibilità di auto-imprenditoria, a più di vent’anni dalla suddetta legge, le esperienze di libera professione sono ben poche e si riducono a occupazioni di precariato, di incarichi saltuari o ancora di un secondo lavoro supplementare a quello in forma dipendente. Anche la legge 119 del 2001 “Disposizioni concernenti l’obbligo del segreto professionale per gli Assistenti Sociali”, riconosce la possibilità per codesta figura di esercitare la libera professione. L'articolo 1 prescrive, infatti, che “gli assistenti sociali iscritti all'albo professionale istituito con legge 23 marzo 1993, n. 84, hanno l'obbligo del segreto professionale su quanto hanno conosciuto per ragione della loro professione esercitata sia in regime di lavoro dipendente, pubblico o privato, sia in regime di lavoro autonomo libero-professionale”. Inoltre, con il Decreto del Presidente della Repubblica 137 del 2012 “Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali” si è definito professionista colui il quale svolge un’attività che può essere esercitata solo dopo l’acquisizione di una qualifica e la successiva iscrizione all’Ordine professionale. In tale categoria, perciò, rientra anche la figura dell’Assistente Sociale, che, come gli altri professionisti, potrà espletare l'esercizio della professione in modo 12 libero e fondato sull'autonomia e indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnico. Naturalmente sono contenute anche delle disposizioni favorevoli alla libera professione nel codice deontologico, in cui all’articolo 52 è testualmente riportato che “l’Assistente Sociale può esercitare l’attività professionale in rapporto di dipendenza con enti pubblici e privati in forma autonoma o libero-professionale”. A contribuire al sistema di progressiva diffusione del ruolo di libero professionista è stato fondamentale il passaggio dal welfare state al welfare mix, che ha incentivato sempre più il ricorso al libero mercato e ha portato sullo stesso piano il settore pubblico e quello privato, facendo interagire questi due sistemi fra loro. Il suddetto passaggio è avvenuto soprattutto per cause da imputare a motivazioni economicofiscali: la profonda crisi del nostro Stato ha portato all’esigenza di smontare il sistema di welfare precedentemente utilizzato, perché si è ritenuto troppo dispendioso e poco rispondente ai bisogni, ogni giorno più complessi e differenziati. Il nuovo sistema di welfare prevede un sistema integrato di interventi e servizi sociali, introdotto dalla legge quadro 328 del 2000, fondamentale in tal senso, che basa l’azione su livelli essenziali da garantire su tutto il territorio nazionale, su criteri di partecipazione e concertazione fra tutti gli attori coinvolti e sulla libera scelta da parte degli utenti dei servizi di cui fruire, garantita da nuovi strumenti di trasparenza e certificazioni di qualità dei servizi offerti. 13 I.II Definizione della figura di Assistente Sociale libero professionista Per libera professione s’intende il lavoro intellettuale svolto in maniera autonoma, senza il vincolo, o quasi, della subordinazione. Per svolgere la gran parte delle libere professioni non è generalmente richiesta l'iscrizione all’albo professionale, ad eccezione delle ipotesi previste dalla legge. Infatti, le cosiddette “attività riservate” a soggetti iscritti sono precisamente indicate e costituiscono un elenco limitato rispetto al vasto campo di servizi professionali centrati sull'apporto intellettuale. L'iscrizione ad un albo professionale è tipica delle "professioni protette", le cui prestazioni professionali possono essere eseguite solo dai membri dell’ordine o dagli iscritti all’albo. 2 Se si vuole tentare di definire la figura dell’Assistente sociale libero professionista, bisogna cominciare col ragionare sul fatto che egli esercita un’attività lavorativa intellettuale, imperniata da una competenza scientifica e specializzata derivante da una formazione e da una professionalità maturate nel tempo. Inoltre, bisogna tenere a mente che il codice deontologico, definendo principi e responsabilità, fornisce al professionista delle linee guida da seguire per operare in maniera eticamente corretta in qualsiasi ambito lavorativo. Se è anche vero che è libero, in primis, l’Assistente Sociale è un professionista. Dice 2 Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Libero_professionista 14 Greenwood che gli elementi che costituiscono gli attributi distintivi di una professione sono cinque. Secondo l’autore, sembra che tutte le professioni che siano identificate come tali, posseggano: una teoria sistematica, ossia un’abilità superiore derivante da teorie scientifiche condivise e basilari per l’operato del professionista; un’autorità professionale data dalla competenza; un’approvazione e un riconoscimento da parte della comunità; un codice deontologico che ne guidi l’azione e l’appartenenza ad un Ordine professionale; una propria cultura. L’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali ritiene che “la professione è esercitata in modo autonomo quando l’attività è svolta nei confronti di diversi committenti, senza vincolo di subordinazione, attraverso una propria organizzazione di mezzi e del lavoro ed in modo abituale quando gli atti attraverso cui si estrinseca l’attività sono svolti con regolarità e sistematicità”. 3 3 http://www.cnoas.it/Assistenti_Sociali/Professione/Libera_professione.html 15 II. COMPITI E COMPETENZE DELL’ASSISTENTE SOCIALE LIBERO PROFESSIONISTA Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali ha sempre puntato l’attenzione sulla libera professione, ritenendola un importante canale di sviluppo futuro. L’Assistente Sociale è sempre più considerato come un “professionista”, attento alla lettura del bisogno, ma anche alla costruzione di un progetto, in vista di un possibile risultato; per cui occorre dare visibilità alle competenze gestionali e di programmazione, cercando di organizzare ed erogare in un’ottica imprenditoriale un servizio commisurato alle reali aspettative del cittadino, che potrà divenire un cliente. 4 L’Assistente Sociale, quindi, in coerenza con i principi operativi della professione, si propone come manager dei servizi integrati, perciò, deve possedere la capacità di promuovere la partecipazione della comunità per l’attivazione di risposte funzionali ai nuovi bisogni 4 Cfr. Agosta S., “La professione di Assistente sociale e l’esercizio libero professionale” in Professione Assistente Sociale n. 2/2010 pag. 3. 16 emergenti e farsi, poi, portavoce delle istanze degli utenti, divenendo un ponte fra il territorio e la politica. II.I Breve storia del servizio sociale, chi è e di cosa si occupa l’Assistente Sociale Ripercorrendo in maniera sintetica la storia del servizio sociale possiamo iniziare la trattazione asserendo che lo Stato nel primo periodo non interviene nell’assistenza, infatti, agli albori, nel XVII secolo, l’unica istituzione ad avere a cuore i bisogni di poveri, malati, emarginati era la Chiesa appoggiata da alcune istituzioni private: le Opere Pie. Il debutto dello Stato, per quanto riguarda il settore, si ha nel 1862 con la legge Rattazzi, che istituisce in ogni comune italiano le Congregazioni di Carità, e poi ancora nel 1890 con la legge Crispi, che trasforma le Opere Pie in Istituzioni di Pubblica Assistenza e Beneficienza (IPAB). La storia del servizio sociale italiano si può comunque suddividere in tre fasi, che si caratterizzano per un diverso modo di intendere l’assistenza, per l’emanazione delle leggi che hanno avuto ripercussioni sul servizio sociale e per l’avvio dei primi percorsi formativi. Dal primo dopoguerra al 1928: questa fase si caratterizza per le iniziative di volontariato rivolte solo 17 ad alcune categorie di persone e per la fondazione dei primi istituti per la formazione degli operatori (nel 1920 nasce l’Istituto Italiano di Assistenza Sociale a Milano) Dal 1928 al secondo dopoguerra: questa è caratterizzata per molte iniziative caritatevoli che mirano a ristabilire condizioni di vita accettabili in persone che vivono in stato di bisogno. Vi è la creazione della prima Scuola Superiore per Assistenti Sociali a Roma nel 1928 e vi sono i primi tentativi di strutturazione dei Servizi Sociali. Nel periodo fascista assistiamo, infatti, ad una categorizzazione degli utenti con il sorgere di vari enti assistenziali, quali l’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia (ONMI), gli Enti Comunali di Assistenza (ECA), che sostituiscono le Congregazioni di Carità, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS), l’Istituto Nazionale di Assistenza per gli Infortuni sul Lavoro (INAIL). Dal secondo dopo guerra: questo periodo segna l’avvio del servizio sociale professionale, vengono riconosciute le teorie, i metodi e le tecniche di lavoro. Sorgono e si sviluppano le prime sedi di formazione a carattere universitario. Quest’ultimo periodo è il più importante perché ha visto il riconoscimento giuridico della professione e la sua legittimazione. Alla fine della guerra, nel 1946, ebbe luogo il convegno di Tremezzo, nel quale si definisce il servizio sociale come “l’ultima espressione cui siamo giunti nell’evolversi progressivo del concetto di carità, che si va facendo sempre più 18 sociale, fondandosi sui concetti di dignità umana, ideale di giustizia, prevenzione sociale”. A tutelare l’assistenza sociale è l’articolo 38 della costituzione, che sancisce che “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Continua affermando che per questi compiti sono stati creati degli istituti predisposti o integrati dallo Stato, così si intende sancire anche la libertà dell’assistenza privata e quindi il principio di sussidiarietà orizzontale. Il diritto all’assistenza sociale può essere ricondotto all’esigenza della tutela dei diritti inviolabili, sanciti nell’articolo 2, e al principio della pari dignità sociale e dell’uguaglianza sostanziale, legiferati nell’articolo 3, che mira ad assicurare una vita dignitosa e a tutelare situazioni di particolare bisogno dei cittadini. Nel periodo degli anni ’40 e ’50, vi era la ricostruzione post-bellica che rendeva difficile l’erogazione di interventi organici, quindi l’assistenza era ancora settorializzata e centralizzata. I modelli di intervento che venivano utilizzati erano di ispirazione medica e giuridica, basati sul case work, ma già dall’inizio degli anni ’60 fino alla fine degli anni ’70 vi sono grosse innovazioni: si inizia a parlare di decentramento amministrativo, vengono istituiti gli uffici di servizio sociale e ufficializzate le funzioni degli Assistenti Sociali, alcune sedi formative diventano universitarie, e si iniziano ad utilizzare metodologie di lavoro diverse dal case work come il lavoro di gruppo e di comunità. Il primo scossone, che 19 contribuì a ravvivare il panorama dell’organismo assistenziale, ebbe luogo nel 1970 con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, che rappresentarono il primo tassello del decentramento amministrativo. All’interno di questo scenario ci furono parecchie trasformazioni culturali e normative, a cominciare dalla “riforma del diritto di famiglia” proclamata dalla legge n. 151 del 1975. Nello stesso anno il parlamento delega il governo a terminare il decentramento amministrativo e, lungo questa direttrice, un passo basilare è rappresentato dal DPR 616 del 1977 che trasforma l’assistenza in sicurezza sociale e assicura l’universalità delle prestazioni a tutti. Le regioni ricevevano per la prima volta dei compiti amministrativi all’assistenza e prendevano sociale, parte acquistando un all’attuazione ruolo di del diritto primo piano nell’organizzazione e nella realizzazione degli interventi pubblici. Inoltre, il DPR stabiliva che tutte le funzioni amministrative relative all’organizzazione ed all’erogazione dei servizi di assistenza e di beneficienza fossero attribuite ai Comuni. Prendeva così avvio un processo di riassetto generale del welfare socio-assistenziale italiano che mira a riunificare le competenze gestionali in capo ad un unico ente, il Comune. Si pensava in quel periodo ad una legge nazionale di riordino del sistema socio-assistenziale nazionale, realizzata solo con la “Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale” nel 1978 con la legge 833, che segnò la fine di un’organizzazione assistenziale categorizzata. La riforma, inoltre, completa il decentramento amministrativo già iniziato. Anche dal punto di vista formativo questo periodo è importante, inizia l’utilizzo di metodi di lavoro unitari e si dà 20 sempre più attenzione alla comunità. Nel corso degli anni ’80 e ’90 vi è la crisi del welfare state, la nascita delle Aziende Ospedaliere e Sanitarie, la creazione di nuovi servizi come il Sert e l’emanazione di leggi importanti che riguardano il sociale. Nel 1985 vengono stilati i regolamenti delle scuole dirette a fini speciali per Assistenti Sociali e nel 1987 al titolo di Assistente Sociale si attribuisce il riconoscimento giuridico, nel 1993 la legge n. 84 ordina la professione di Assistente Sociale e crea l’albo professionale, nel 1994 nasce anche l’Ordine Professionale, mentre il codice deontologico viene istituito nel 1998. Il metodo di lavoro è di tipo unitario con tecniche diverse e integrate, che prende in considerazione contemporaneamente il singolo individuo e la sua famiglia. Dagli anni 2000, si potrebbe dire, ha inizio la quarta fase della storia del servizio sociale. Quest’ultimo viene rafforzato come disciplina e viene attribuita maggiore dignità alla professione: le scuole di servizio sociale diventano corsi di laurea triennale e con la legge 328/2000 vi è la riforma dell’assistenza, che porta importanti novità nell’ambito della programmazione e gestione dei servizi. L’assetto istituzionale e organizzativo del welfare socio-assistenziale italiano, quindi, è stato attraversato da profondi processi di trasformazione e rinnovamento, sia sul livello delle competenze amministrative, sia per ciò che riguarda le modalità di intervento ed erogazione di servizi. Questi cambiamenti hanno portato ad un 21 “nuovo ciclo di vita dei sistemi socio-sanitari che sempre di più si ispirano a principi come quelli di federalismo e sussidiarietà, riconoscendo l’autonomia legislativa delle Regioni in materia di assistenza sociale e l’affermazione di modelli organizzativo- istituzionali che attribuiscono ai Comuni la titolarità delle funzioni amministrative concernenti i servizi sociali e che valorizzano la collaborazione tra pubblico e privato”. 5 La legge 328 del 2000 “legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” ha ridefinito il profilo delle politiche sociali apportando tutta una serie di elementi di novità. Questa legge si colloca in un vuoto legislativo di oltre 110 anni in cui è mancata una regolamentazione organica dei servizi socio-assistenziali. Prima della 328, infatti, solo la legge Crispi del 1890 aveva costituito la norma organica di riferimento per l’assistenza sociale. Tra le due norme numerosi sono stati i cambiamenti e le riforme settoriali ma solo con la legge del 2000 si è giunti alla creazione di un quadro normativo unitario valido per l’intero territorio nazionale. Essa ha innanzitutto segnato il passaggio dalla concezione di utente quale portatore di un bisogno specialistico a quella di persona nella sua totalità costituita anche dalle sue risorse e dal suo contesto familiare e territoriale; quindi il passaggio da una accezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi del disagio, ad una di protezione sociale attiva, luogo di 5 Ferioli A., Diritti e servizi sociali nel passaggio dal welfare statale al welfare municipale, Giappichelli, Torino, 2003. 22 rimozione delle cause di malessere e soprattutto luogo di prevenzione e promozione dell’inserimento della persona nella società attraverso la valorizzazione delle sue capacità. L’attenzione con tale legge si è spostata poi dalla prestazione disarticolata al progetto di intervento e al percorso accompagnato; dalle prestazioni monetarie volte a risolvere problemi di natura esclusivamente economica a interventi complessi che intendono rispondere ad una molteplicità di bisogni; dall’azione esclusiva dell’ente pubblico a una azione svolta da una pluralità di attori quali quelli del terzo settore. Il sistema è finalizzato alla valorizzazione della persona e della partecipazione attiva dei cittadini e al superamento della concezione “statalista” dei diritti sociali, nella prospettiva di realizzare un sistema di ispirazione universalistica in cui il pubblico e il privato cooperano all’insegna della sussidiarietà orizzontale e del principio di solidarietà. Il sistema dei servizi assistenziali tra i diversi livelli di governo si caratterizza per un progressivo decentramento delle funzioni. La legge 328 rispetta essenzialmente il riparto delle competenze come delineato dai decreti Bassanini (con la legge 59 del 1997 "Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa") ribadendo la cosiddetta programmazione a cascata: Ø I Comuni restano titolari delle funzioni di programmazione e progettazione degli interventi a livello locale, attuate attraverso il 23 Piano di Zona, nel quale si definisce il sistema dei servizi sociali a rete attraverso forme di consultazione. Ciò determina anche l’aggregazione dei diversi Comuni in un unico ambito territoriale così da permettere la predisposizione di servizi idonei ai bisogni specifici della popolazione locale, evitando la frammentazione della programmazione affidata ai singoli Comuni. L’ente locale, inoltre, esercita funzioni di controllo su tutti i partecipanti al sistema. Ø Alle Regioni spettano compiti di programmazione, coordinamento ed indirizzo degli interventi, nonché il controllo. Ø Lo Stato, invece, ripartisce le risorse finanziarie del Fondo Nazionale Politiche Sociali; indirizza le politiche locali, stabilendo principi e obiettivi attraverso il Piano Nazionale degli interventi e dei servizi sociali ogni tre anni e determinando livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire in tutto il paese. A solo un anno dalla tanto attesa normativa in campo sociale, la riforma del titolo V della Costituzione modifica ulteriormente le cose. La Costituzione, infatti, ha legittimato il cambiamento avvenuto nelle Regioni a causa del trasferimento di competenze, tanto amministrative quanto legislative, avvenuto a loro favore. Allo Stato spetta la potestà esclusiva su alcune materie e concorrente con le Regioni su altre, entrambe elencate nell’articolo 117 della Costituzione. Ogni materia non espressamente riservata alla legislazione statale, e perciò non 24 menzionata dall’articolo 117, è potestà legislativa esclusiva delle Regioni. I servizi sociali rientrano nella competenza legislativa regionale, non più solo dal punto di vista amministrativo, ma da quello anche legislativo. Mentre, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali resta affidata alla competenza esclusiva dello Stato. Le Regioni, pertanto, non sono più tenute ad osservare la legge 328 ma solo i livelli essenziali determinati dallo Stato, rispettando, però, nel legiferare in materia di assistenza sociale anche gli obblighi internazionali imposti dall’Unione Europea. A livello nazionale, la legge 328/2000 anche se non è riuscita ad affrontare le criticità storiche del welfare italiano, ha però favorito il potenziamento della rete dei servizi affidata ai Comuni e ha dato impulso all’attività normativa e programmatica di quasi tutte le Regioni italiane. 6 L’introduzione dei Piani di Zona e la programmazione partecipata tra diversi soggetti (come Comuni, Asl, rappresentanti del terzo settore, cooperative sociali, imprese no profit, ecc.) prevede la mobilitazione di tutte le risorse, e che gli attori rilevanti, che conoscono bene le condizioni della società locale, siano in grado di mobilitare le risorse migliori per sviluppare politiche efficienti ed efficaci. 7 6 Cfr. Siza R.,”La 328 e gli squilibri del welfare italiano”, in Prospettive Sociali e Sanitarie n. 13/2010, pagg.1-4. 7 Cfr. Kazepov Y., Carbone D., Che cos’è il welfare state, Carocci, Roma, 2007, pag. 78. 25 Con la legge 328/2000 vi è il superamento di un sistema di interventi riparativi, successivi alla manifestazione del bisogno, a favore di un sistema di protezione sociale attiva, in cui le prestazioni offerte hanno lo scopo di eliminare le cause del disagio. Le politiche sociali, ed è uno scopo della legge, devono essere rivolte alle persone e non alle categorie, offrendo prestazioni flessibili in grado di rispondere alle esigenze di ciascuno. Fondamentali sono per le politiche sociali la promozione delle risorse individuali, delle opportunità, delle competenze attraverso cui ogni cittadino può far fronte alle difficoltà e ai rischi sociali superando dove è possibile le cause scatenanti. Le moderne politiche sociali, dopo la 328, si stanno quindi orientando verso quella che è definita Community Care, concetto-guida già dato per scontato nei welfare di tutti gli altri stati occidentali. Per community care si intende quel completo ripensamento del sistema di interventi e servizi sociali in vista della realizzazione di politiche per la comunità e da parte della comunità stessa, cioè orientato alla creazione di una “caring society”. Primo principio della community care è quindi la presa in carico della comunità da parte della comunità stessa in tutti i suoi elementi attraverso l’intreccio di questi aiuti informali spontanei. Poiché però questi aiuti difficilmente si attivano al di là della cerchia ristretta delle reti più immediate quali la famiglia, bisogna promuovere anche la partecipazione del privato sociale, che non può più essere pensata solamente come residuale o integrativa. Nuove competenze vengono quindi richieste all’operatore che 26 deve concentrare la sua disponibilità operativa in un dato territorio provvedendo alle necessità della comunità, attraverso il raccordo di una pluralità di apporti e di risorse locali. In particolare l’Assistente Sociale deve essere capace di lavorare in rete con altri servizi e professionisti (psicologi, educatori, medici…) e saper realizzare “pacchetti” di servizi in un’ottica di rete, cioè coinvolgendo le reti formali (parenti, amici, vicini di casa, colleghi di lavoro) e informali. Con la legge 328 del 2000 si realizza, quindi, il passaggio da una programmazione che utilizzava una prospettiva di tipo “government”, in cui era il soggetto pubblico a prendere decisioni (a governare), a una prospettiva di tipo “governance”, in cui il governo si realizza grazie alla mobilitazione di una serie di soggetti (pubblici, di privato sociale e della società civile). Il concetto di governance implica l’idea che il raggiungimento di un obiettivo è frutto dell’azione autonoma, ma non isolata, dei diversi attori (Stato, Regioni, Province, Enti locali, Terzo settore e privati) che possono e debbono dare un contributo al processo di attuazione delle politiche sociali. La partecipazione attiva degli attori sopracitati è resa possibile dall’avvenuta decentralizzazione. È la tendenza al decentramento istituzionale della politica stessa, in una logica di governo non più gerarchico ma declinato territorialmente, che crea le condizioni per la loro azione. Ma chi è l’Assistente Sociale? Possiamo definire tale figura come un operatore che opera al fine di prevenire e risolvere situazioni di disagio e di emarginazione di 27 singole persone, di nuclei familiari e di particolari categorie in difficoltà (minori, anziani, persone con dipendenza patologica, con disturbi psichici, ecc.). Come recita l’art. 11 del codice deontologico “l’Assistente Sociale deve impegnare la propria competenza professionale per promuovere l’autodeterminazione degli utenti e dei clienti, la loro potenzialità ed autonomia, in quanto soggetti attivi del progetto di aiuto, favorendo l'instaurarsi del rapporto fiduciario, in un costante processo di valutazione”. I compiti principali, quindi, riguardano: l’individuazione di bisogni dei soggetti che si trovano in situazioni di disagio; lo svolgimento di un’indagine sugli strumenti di intervento disponibili nel territorio e adatti al singolo caso da trattare; l’instaurazione di un contatto tra i servizi territoriali competenti e il soggetto; la creazione di raccordi fra l’attività delle strutture e dei servizi socio-sanitari competenti e gli interventi di sostegno e recupero; la definizione di un percorso da seguire con i soggetti bisognosi, elaborandolo anche con la collaborazione di un gruppo di lavoro multidisciplinare. È, allora, possibile definirla come una figura complessa in quanto può svolgere non solo attività socio-assistenziale in senso stretto, ma anche attività socio-organizzativa per la programmazione di interventi; attività di relazione con l’autorità giudiziaria e attività di orientamento per coloro che vogliono usufruire dei servizi. La Federazione Internazionale degli Assistenti Sociali nel 2004 propone la seguente descrizione “il servizio sociale professionale promuove il cambiamento sociale, la soluzione dei problemi nelle relazioni umane e la restituzione di potere e 28 la liberazione delle persone per aumentare il benessere”. Le competenze degli Assistenti Sociali, nello specifico, possono essere ricondotte ad almeno sette tra le funzioni abitualmente svolte, ognuna in proporzione diversa a seconda dei servizi considerati: • funzioni di studio, indagine, ricerca e documentazione, rilevanti tanto per la finalizzazione al lavoro di progettazione, organizzazione, gestione e verifica degli interventi sociali, quanto per l’attivazione di sistemi informativi utili ai cittadini in vista della promozione alla partecipazione e al corretto accesso alle risorse disponibili; • funzioni di consulenza, sostegno e intervento psicosociale, intese prevalentemente in relazione al trattamento dei casi, a favore dei singoli utenti dei servizi, delle famiglie, dei gruppi, ma anche in termini di attivazione e responsabilizzazione delle reti sociali e dell’intera comunità locale; • funzioni di programmazione, progettazione, organizzazione, amministrazione, coordinamento e gestione dei servizi sociali e sociosanitari, perlopiù tradotte in attività sia per l’elaborazione e la conduzione di progetti sia per l’amministrazione e la gestione di singoli servizi e strutture socioassistenziali o sociosanitarie; • funzioni di carattere giuridico-amministrativo, sostanziate in attività di consulenza e corretta informazione giuridico-amministrativa nel campo sociale e sociosanitario, soprattutto nei confronti degli utenti; • funzioni di attivazione e gestione del sistema informativo 29 in campo sociale al fine di facilitare la massima conoscenza ai cittadini per l’esercizio della loro autodeterminazione, attraverso l’impegno del professionista nella documentazione sistematica attinente al proprio lavoro, sia per l’analisi e la valutazione delle situazioni affrontate, sia per l’elaborazione, l’attuazione e la verifica dei piani di intervento, nonché nella raccolta sistematica delle informazioni inerenti i servizi sociali e sociosanitari, riferendosi anche alle risorse formali e informali presenti nel territorio; • funzione didattica e di supervisione professionale, volta soprattutto alla formazione professionale di base degli assistenti sociali mediante l’attivazione di tirocini professionali, è esercitata dagli assistenti sociali più esperti, in qualità di supervisori degli studenti presso le sedi operative dei servizi, in collaborazione con le sedi universitarie; • funzione di promozione della partecipazione dei singoli cittadini, delle reti di sostegno e protezione sociale in una prospettiva di community care, dei gruppi, in particolare nelle esperienze di mutuoautoaiuto e delle associazioni no profit, nella programmazione, attivazione, organizzazione, controllo di servizi alle persone. 8 Riportando le parole di Anna Maria Campanini “l’Assistente Sociale attraverso la descrizione della realtà costruisce connessioni, propone nuove forme possibili, ristruttura significati, individua strategie d’azione e opera secondo uno stile relazionale orientato alla 8 Cfr. Gui L., “La figura dell’Assistente Sociale” in La rassegna bibliografica infanzia e adolescenza n. 3/2005, pagg. 11-12. 30 reciprocità e alla capacità di inserirsi nei processi in corso”.9 L’attuale collocazione lavorativa degli assistenti sociali, costituita in massima parte dalla professione dipendente, è situata soprattutto all’interno di strutture pubbliche. Le analisi inerenti i diversi ambiti occupazionali non sono recentissime, ma ci danno contezza di come si sia sviluppato negli anni il lavoro sociale fino a questo momento. L’analisi CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) del 1999 “Essere protagonisti del futuro: scenari di sviluppo per il ruolo degli assistenti sociali” vedeva collocati il 39,5% degli assistenti sociali in enti locali, il 34,6% nel comparto pubblico della sanità, il 7,5% in enti privati, il 7,2% presso cooperative, il 6,0% nello Stato e il 5,2% in enti pubblici diversi da quelli indicati, mentre il 7,5% è impegnato nel lavoro autonomo . Più recentemente, nel 2006, è stato pubblicato un ulteriore studio "Dentro la professione verso possibili consensi. Una ricerca con e tra Assistenti Sociali", realizzata da SUNAS e Socialia e curata da Ugo Albano, Clelia Capo e Fiorella Cava. Da ciò si evince che l’Assistente Sociale è donna nel 78% dei casi, nel 44% delle situazioni ha fra 41 e 50 anni e, 6 professionisti su 10, possiedono una laurea (triennale nel 27% dei casi, quadriennale nel 26%, quinquennale per il 7%). Passando in rassegna i dati relativi la collocazione lavorativa, si vede un piccolo cambiamento rispetto ai dati CENSIS del 1999: il 50% del campione è 9 Campanini A., L’intervento sistemico. Un modello operativo per il servizio sociale, Carocci, Roma, 2005, pag. 135. 31 impiegato nel settore della sanità, mentre il 28% presso gli enti locali, solamente il 2% presso lo Stato, il 5% in altro ente pubblico, solo il 3% è impegnato nella cooperazione, il 4% presso enti privati, il 2% svolge un lavoro autonomo e il 6% dichiara di svolgere la propria attività in altri settori. Fra il 1999 e il 2006 la quota operante al di fuori del pubblico resta fissa al 15% e, in entrambi i casi, il 7,5% dei professionisti dichiara di svolgere la professione in modo autonomo. Una notevole differenza, però, sta nella maniera di intendere la formula “lavoro autonomo”: nel ’99, infatti, come rilevato e verificato dallo stesso CENSIS, il dato si riferisce alla libera professione svolta da un dipendente pubblico che ha visto aggiudicarsi privatamente un incarico aggiuntivo; al contrario il 2% della ricerca successiva si riferisce a quello che si potrebbe ridefinire come “lavoro autonomo puro”. 10 RICERCA CENSIS RICERCA (1999) SOCIALIA (2006) Sanità 34,6% 50% Enti locali 39,5% 28% 10 Cfr. Albano U., Bucci L., Esposito D. G., Servizio sociale e libera professione. Dal lavoro dipendente alle opportunità di mercato, Carrocci Editore, Roma 2008, pag. 29. 32 Stato 6% 2% Altro ente pubblico 5,2% 5% Cooperazione 7,2% 3% Ente privato 7,5% 4% Lavoro autonomo 7,5% 2% Altro 6% II.II Principi e valori della professione Uno degli attributi fondamentali di ogni professione, soprattutto quelle a forte contenuto relazionale, riguarda il bisogno di un apparato valoriale che, sul piano etico-normativo, si traduce in codici di deontologia professionale. La forte matrice filantropica, da cui sorge il servizio sociale, sia in Italia che altrove, enfatizza alcuni valori che diventano guide all’azione, talvolta più importanti dei riferimenti scientifici e tecnici. Gli orientamenti valoriali prescelti dal servizio sociale, che sono i pilastri portanti del lavoro del professionista sociale in qualsiasi forma 33 esso si svolga, ruotano intorno ad un concetto: l’umanità di ogni uomo, ossia la considerazione della persona come valore in sé. Da ciò si desume una serie di altri valori che si traducono, a loro volta, in atteggiamenti e comportamenti: • dignità ed integrità dell’essere umano, indipendentemente dalla provenienza, dallo status sociale e dalle convinzioni ideologiche che sfocia nel principio del rispetto per la persona; • unicità e irrepetibilità di ogni persona, poiché l’umanità è fatta di differenze, che pretende, di conseguenza, la necessità di interventi individualizzati e personalizzati; • potenzialità, intesa come accrescimento dell’umanità anche nell’arco di una vita intera, che vede l’Assistente Sociale impegnarsi nel promuovere la piena autodeterminazione; • fiducia nell’essere umano come titolare di diritti fondamentali che, quindi, si concretizza in un lavoro costante che mira all’estensione dei diritti di libertà, di eguaglianza, di socialità, di solidarietà, di partecipazione per tutti gli esseri umani.11 II.III Le specificità del libero professionista 11 Cfr. Salombrino M. (a cura di), L’assistente sociale. Manuale completo per la preparazione, Edizioni Simone, Napoli, 2013, pag. 15. 34 L’Assistente Sociale oggi, deve possedere alcune capacità indispensabili come il saper ascoltare, mediare, essere disponibile intellettualmente e operativamente, essere in grado di effettuare lavoro interdisciplinare e quindi di collaborare con altri professionisti e possedere molte conoscenze. Deve conoscere gli strumenti adatti alla sua professione in una società in continuo mutamento, ed essere costantemente informato sulle norme e sulle leggi attuali, avere una buona conoscenza, capacità interpretativa e di lettura del bisogno, così che possa formulare programmi e organizzare sempre nuove attività. 12 Secondo quanto dichiarato da Elena Giudice in un’intervista pubblicata nell’ottobre 2014, il ruolo dell’Assistente Sociale privato può essere sintetizzato in cinque punti: • “esame dei bisogni, delle risorse familiari, sociali e comunitarie, che la persona ha attivato in passato e che potrebbe attivare concretamente nel futuro; • analisi delle potenzialità delle persone e del loro contesto sociale; • presentazione alla persona di tutti gli scenari di scelte possibili e delle relative conseguenze giuridiche, personali e sociali; • proposta di un intervento o di un trattamento appropriato per quella persona in quel dato momento della sua vita, accompagnamento, monitoraggio e supporto l’intero percorso individuale; 12 Cfr. Tessarolo M., “Richiesta e bisogno di formazione: una lettura sociologica” in Batic N., Cavagnino G., Riefolo E., Tessarolo M., Bisogno di formazione e professionalità degli assistenti sociali. Uno studio nel Friuli Venezia Giulia, Cleup, Padova, 1992, pagg. 85-86. 35 • orientamento della persona in stato di bisogno o quando essa desidera migliorare il proprio stato di benessere rispetto alle risorse territoriali, favorendone l’accesso”.13 Lavorare come libero professionista significa: rinunciare alle sicurezze economiche e di rete che fornisce il settore pubblico, staccarsi da un ambiente protetto e approcciarsi a un contesto incerto in cui il soggetto in solitaria e in autonomia gestisce il proprio lavoro, ponendo attenzione ai cambiamenti legati al sistema esterno e adeguando, così, ad ogni esigenza lo spazio lavorativo consono, gestendo i tempi e il carico di lavoro, imparando a promuovere e pubblicizzare il proprio operato e le proprie competenze professionali, capendo le modalità di gestione delle incombenze fiscali ed economiche che la libera professione richiede. Quindi un professionista Assistente Sociale, per esercitare in proprio, deve necessariamente avere e saper dell’organizzazione sviluppare dei competenze servizi, delle e loro conoscenze problematiche sia e caratteristiche, del contesto istituzionale e socioeconomico in cui si muove; sia del mercato in cui si propone, avendo chiari campo d’azione e funzione che intende intraprendere. Deve possedere anche, insieme alle capacità di gestione relazionale e valutazionale, capacità manageriali, gestionali ed abilità di marketing. In ogni buon progetto, perciò, si devono curare analisi e strategie di mercato. Nonostante le ulteriori capacità che il libero professionista deve 13 Nesi M., “Lavorare come Assistente sociale privato: intervista a Elena Giudice” in http://news.biancolavoro.it/lavorare-come-assistente-sociale-privato-intervista-elena-giudice/ 36 acquisire per svolgere al meglio la propria attività lavorativa, egli non si può staccare dai valori e dai principi propri della materia, né tantomeno andare contro le disposizioni definite dal codice deontologico, né tantomeno da quelle indicate dal quadro normativo. L’Assistente Sociale, quindi, deve saper porsi come un coordinatore fra le istanze del singolo utente e il gruppo di appartenenza e la comunità, fungendo da collante fra gli attori, le istituzioni e le risorse presenti nel territorio. Aspetto essenziale è quello di dar voce ai propri utenti, dando la possibilità di poter esprimere le proprie esigenze, le paure, i bisogni. II.IV I bisogni del professionista e la distinzione fra professione e semi-professione Il passaggio, anche culturale, dalla dipendenza all’autoimprenditoria impone un’attenta analisi dei bisogni che riguardano l’Assistente Sociale, che sono sia di ordine materiale, che immateriale. Ovvero, il professionista deve sentirsi stimolato, appagato e sempre pronto a imparare e migliorarsi, se vuole evitare una perdita di rendimento nel proprio lavoro causata da demotivazione e scarsa dedizione al lavoro. Diverse sono le tipologie di bisogni che possiamo annoverare: tra quelli primari troviamo l’esigenza di guadagni certi e proporzionati al 37 proprio impegno; altri, invece, riguardano la crescita lavorativa e intellettuale e l’acquisizione di competenze; poi abbiamo quelli idealistici fra cui compaiono l’approccio etico al lavoro e la mission dell’organizzazione; bisogni di sviluppo del sé e di riconoscimento professionale; quelli legati al confronto con i colleghi e, infine, bisogno di creatività, che si traduce in un’ottica progettuale del lavoro. Inutile dire che un lavoro che punta al soddisfacimento dei soli bisogni primari, senza interessamento verso altre aree di crescita e dinamicità è qualcosa di inopportuno, che non può coincidere con una logica libero-professionale. Si tratterebbe, per dirla in termini sociologici, di mettere in pratica una semi-professione che si basa su una mera attività pratica di tipo prestazionale, svolta in maniera monotona, passivamente, burocraticamente, seguendo degli iter prestabiliti. Questa maniera di lavorare, che è facilmente rintracciabile nei contesti di pubblica dipendenza, è contrapposta all’esercizio pieno della professione, che si caratterizza, invece, per un’attività dinamica e variegata contestualmente, che ha bisogno di continui aggiornamenti e si basa su una cultura scientifica, liberale, di sfida e di orientamento al lavoro per obiettivi. Se ci si chiedesse se l’Assistente Sociale è una professione o una semi-professione, sembra confacente affidarsi alla risposta fornita da Ugo Albano, il quale crede che questa sia formalmente una professione in transizione dalla semi-professione. Per consolidarsi ha, quindi, l’esigenza di affidarsi a buone prassi di professione agita e un 38 forte bisogno di aprirsi al mercato. Si può, perciò, ribadire che la dipendenza tollera la semi-professione, ma, senza dubbio, la libera professione nel mercato pretende la professione. 14 14 Cfr. Albano U., “Essere assistenti sociali oggi” in Albano U., Bucci L., Esposito D. G., Servizio sociale e libera professione. Dal lavoro dipendente alle opportunità di mercato, Carrocci Editore, Roma, 2008, pagg. 17-24. 39 III. PROFILI LAVORATIVI E ADEMPIMENTI BUROCRATICI Le forme più comuni per esercitare la libera professione sono quelle del lavoro autonomo individuale, della collaborazione con enti pubblici e non e, infine, dell’istituzione di vari profili di studio associato monoprofessionale o pluridisciplinale. Inutile precisare che è requisito indispensabile, che prescinde dalla tipologia contrattuale e dal campo occupazionale, l’aver conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione di assistente sociale dopo aver superato l’esame di Stato e aver provveduto all’iscrizione all’Ordine regionale di competenza, essendo perciò stato inserito all’interno dell’albo professionale (sezione A o B). L’Assistente sociale che intende svolgere la propria attività in maniera autonoma individuale e in modo abituale ed autonomo ha l’obbligo di richiedere l’apertura della Partita IVA e di porre in essere tutti gli adempimenti conseguenti. 40 La professione è esercitata in modo autonomo quando l’attività è svolta nei confronti di diversi committenti, senza vincolo di subordinazione, attraverso una propria organizzazione di mezzi e del lavoro ed in modo abituale, quando gli atti attraverso cui si estrinseca l’attività sono svolti con regolarità e sistematicità. Nel momento in cui i requisiti suddetti vengono a coesistere nasce l’obbligo dell’apertura della Partita IVA. Si può manifestare anche il caso in cui l’esercizio libero professionale sia cumulato con un rapporto di dipendenza, in tale situazione l’obbligo di apertura della Partita IVA sussiste solo nel caso in cui, compatibilmente con il rapporto di lavoro subordinato, l’Assistente sociale svolga anche collaborazioni che siano consistenti per numero, rilevanza economica e frequenza, tanto da far ritenere che stia svolgendo anche una libera attività. L’assistente sociale che intende svolgere la professione in modo autonomo ed abituale deve, entro e non oltre 30 giorni dall’inizio dell’attività professionale, effettuare specifici adempimenti, ossia: ü presentare all’Agenzia delle Entrate competente per territorio, la richiesta di attribuzione del numero di Partita IVA; ü eseguire l’iscrizione alla gestione separata dell’INPS (poiché gli Assistenti sociali sono privi di apposita Cassa di previdenza); ü facoltativamente aprire una posizione INAIL. 15 15 Cfr. http://www.cnoas.it/Assistenti_Sociali/Professione/Libera_professione.html 41 In alternativa, l’attività può essere svolta anche in forma di collaborazione, ne esistono varie tipologie. Una possibilità è la collaborazione occasionale, la quale si realizza attraverso la stipula di un atto in cui risultino la durata della collaborazione, che non può essere superiore a trenta giorni l’anno con lo stesso committente, e l’indicazione di un corrispettivo che deve essere proporzionato alla qualità e quantità del lavoro garantito. Un'altra forma è la collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti Co.Co.Co) i quali rappresentano una categoria intermedia fra il lavoro autonomo ed il lavoro dipendente. Infatti, lavorano in piena autonomia operativa, escluso ogni vincolo di subordinazione, ma nel quadro di un rapporto unitario e continuativo con il committente del lavoro. Sono pertanto funzionalmente inseriti nell’organizzazione aziendale e possono operare all’interno del ciclo produttivo del committente, al quale viene riconosciuto un potere di coordinamento dell’attività del lavoratore con le esigenze dell’organizzazione aziendale. A seguito dell'entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 276 del 2003 “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro”, la cosiddetta riforma Biagi, non è più possibile instaurare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, se non sono riconducibili ad un progetto, un programma di lavoro o una fase di esso. 16 Un’altra tipologia di collaborazione è quella coordinata e 16 Cfr. http://www.inps.it/portale/default.aspx?itemdir=5769 42 continuativa a progetto (cosiddetti Co.Co.Pro.), in cui il lavoro deve essere ricondotto a un progetto, un programma o anche una fase di lavoro, determinata in precedenza dal datore di lavoro e poi gestito in completa autonomia dal professionista, che deve raggiungere l’obiettivo in tempi stabiliti. Dal 25 giugno 2015, con l’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 81 “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”, non è più possibile stipulare contratti di collaborazione a progetto. I contratti di questo tipo già stipulati a tale data, continueranno ad essere normati in base alla disciplina previgente, ma a partire dal 1° gennaio 2016, le collaborazioni di tipo parasubordinato o nella forma del lavoro autonomo saranno considerate come lavoro subordinato, qualora si concretizzino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative ed organizzate dal committente rispetto al luogo ed all’orario di lavoro. Nelle pubbliche amministrazioni il divieto di stipulare collaborazioni con le suddette caratteristiche scatterà dal 2017. 17 L’esercizio professionale, oltre alle tipologie sopracitate che riguardano tutte quante forme individuali, può essere svolto in maniera collettiva attraverso vari tipi d’impresa: • società, si ha quando “due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di 17 Cfr. http://www.cliclavoro.gov.it/NormeContratti/Contratti/Pagine/Contratto-di-lavoro-aprogetto.aspx 43 dividerne gli utili” (articolo 2247 del Codice Civile); • cooperative “sono società dedite alla produzione di beni o servizi dove lo scopo comune non è il profitto, ma quello mutualistico che consiste nel vantaggio che i soci conseguono grazie allo svolgimento della propria attività, invece che con terzi, direttamente con la società” (articolo 2511 del Codice Civile); • ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) secondo l’articolo 10 del Decreto Legislativo n. 460 del 1997 “Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale”, sono le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, i cui statuti o atti costitutivi prevedono come obiettivo il perseguimento di finalità di solidarietà sociale, il divieto di distribuzione degli utili e lo svolgimento di attività riguardanti assistenza sociale e socio-sanitaria, beneficienza, istruzione, sport, formazione, ricerca, tutela dei diritti, tutela dell’ambiente; • associazioni di promozione sociale la legge 383 del 2000 “Disciplina delle associazioni di promozione sociale” li definisce come “i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati”; • imprese sociali, cioè tutte quelle imprese private, comprese le società cooperative, la cui attività economica d'impresa principale è 44 stabile e ha per oggetto la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale, ricadenti nei settori indicati dal Decreto Legislativo n. 155/2006 “Disciplina dell'impresa sociale” (assistenza sociale, sanitaria e socio sanitaria, educazione, istruzione, tutela ambientale e dei beni culturali, formazione, turismo sociale) o che mirano all'inserimento di lavoratori disabili e svantaggiati se questi costituiscono almeno il 30% del personale totale; • patronati, sono enti di assistenza sociale senza fini di lucro, costituiti e gestiti dalle confederazioni o dalle associazioni nazionali dei lavoratori. Svolgono funzioni di rappresentanza e tutela in favore di lavoratori, pensionati e di tutti i cittadini presenti sul territorio, il loro riconoscimento giuridico è disciplinato dalla legge 152 del 2001 “Nuova disciplina per gli istituti di patronato e di assistenza sociale”. III.I Parametri per la liquidazione Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali nella seduta del 21 marzo 2003 aveva approvato un tariffario per stabilire in maniera univoca e inequivocabile i criteri e le modalità per la determinazione e la liquidazione dei compensi spettanti ai professionisti iscritti all’albo. Nel tariffario venivano distinte diverse aree differenziando l’area 45 relazionale, l’area giuridico legale, l’area progettuale, programmatoria e organizzativa-gestionale, l’area didattico-formativa e, infine, l’area di studio e ricerca. I compensi venivano differenziati in 103 tipologie di prestazioni, aventi tutte un costo minimo e uno massimo, a seconda della difficoltà. Gli emolumenti ricompresi nello schema, perciò, sono vari: dai 10 euro per una semplice consultazione telefonica si arriva fino ai 4000 euro per un intero progetto relativo ad una valutazione dei servizi complessa, comprensiva di analisi dell’organizzazione, individuazione di aree critiche, progetto di miglioramento e valutazione degli esiti. Le recenti normative hanno abrogato, per tutti gli ordini professionali, il tariffario. L’Ordine Nazionale, in conformità al Decreto Legge n. 140 del 20 luglio 2012, ha depositato presso il Ministero della Giustizia, per l’approvazione, il “Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolamentate vigilate dal Ministero della Giustizia”. Sulla Gazzetta Ufficiale del decreto n. 106 del 2 agosto 2013 è stato pubblicato il “Regolamento recante integrazioni e modificazioni al decreto del Ministro della giustizia 20 luglio 2012, n. 140, concernente la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolamentate vigilate dal Ministero della Giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. 46 (13G00149)”. Il Regolamento si applica per le prestazioni rese dagli iscritti all’Ordine degli Assistenti Sociali, e sarà utilizzato in caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale in assenza di accordo scritto tra le parti. Per la prima volta, sono elencate nello specifico le tipologie di lavoro svolto dall’Assistente Sociale (Allegato A) e, relativamente alle diverse aree di intervento, è indicato un compenso che deve essere corrisposto (Allegato B). 47 IV. I SERVIZI OFFERTI E LA TIPOLOGIA DI UTENZA Per chiarezza espositiva si possono riassumere i campi d’intervento e i modelli di libera professione come proposto nel manuale “Servizio sociale e libera professione” di Albano, Bucci ed Esposito. Seguendo tale classificazione, quindi, si possono considerare quattro fuochi: l’area consulenziale, quella comunicativa, la formativa e, infine, l’area giudiziaria. Inoltre, si può annoverare fra le forme di lavoro alternative a quelle dipendenti, l’esperienza di Assistenti Sociali senza frontiere. 18 IV.I Area consulenziale 18 Bucci L. “Campi e modelli di libera professione” in Albano U., Bucci L., Esposito D. G., Servizio sociale e libera professione. Dal lavoro dipendente alle opportunità di mercato, Carrocci Editore, Roma, 2008. 48 La mediazione familiare “La Mediazione Familiare in materia di divorzio e di separazione è un processo nel quale un terzo neutrale e qualificato (il mediatore), viene sollecitato dalle parti per fronteggiare la riorganizzazione resa necessaria dalla separazione, nel rispetto del quadro legale esistente. La mediazione opera per ristabilire la comunicazione tra i coniugi. Questo è il mezzo adottato per pervenire ad un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di organizzazione delle relazioni in seguito alla separazione o al divorzio, che tenga in considerazione i bisogni di ogni membro della famiglia”. Questa è la definizione fornita dalla Carta Europea sulla formazione dei mediatori familiari operanti nelle situazioni di separazione o di divorzio stilata nel 1992. Oggi sappiamo che il raggio d’azione della mediazione familiare è più ampio: è un tipo di intervento volto alla riorganizzazione delle relazioni familiari e alla risoluzione o all’attenuazione dei conflitti destinato a tutte quelle coppie, sposate o conviventi, con o senza figli, che si stanno separando legalmente o di fatto, stanno divorziando, sono già separate o divorziate. “La mediazione familiare è adatta e auspicabile anche per le famiglie che stanno vivendo problematiche che non riescono a gestire e a superare autonomamente (mediazione coniugale) ma hanno bisogno di un aiuto che le supporti nella nuova definizione di un assetto familiare sereno. Inoltre, tale percorso si 49 rivolge ai rapporti tra rami parentali (nonni/nipoti, genitori /figli, ecc.)”. 19 Il ciclo di incontri si dovrebbe avviare quando le parti non riescono autonomamente ad attivare le loro naturali capacità di mediazione, proprio per l’intensità cui il conflitto è giunto e si pone l’obiettivo di far riemergere nel soggetto la capacità di dialogare nuovamente, uscendo dallo schema aggressivo che lo imprigiona e, pian piano, arrivando a comprendere i bisogni dell'altro. Tale percorso mira a sviluppare la capacità di resilienza del soggetto, sfruttando il potenziale positivo della condizione conflittuale: il conflitto non è statico ma è un fenomeno dinamico nel quale le parti rimbalzano da una posizione all'altra e diventano più tranquilli, sinceri, sicuri, eloquenti e risoluti, passano dalla debolezza alla forza (empowerment), dall'egocentrismo alla comprensione dell'altro (recognition). Superando la rigidità presente, le parti, per arrivare a soluzioni reciprocamente accettabili e durevoli nel tempo, attraverso la trasformazione del conflitto da competitivo a collaborativo, stipulano degli accordi soddisfacenti per entrambi e, solo così, la coppia sarà interessata a rispettare i patti nel tempo. La mediazione familiare permette alle parti di vivere costruttivamente le loro conflittualità, e di riorganizzare la loro vita ritrovando benessere e serenità. I genitori (ad esempio in caso di 19 Laviola T., “Mediazione familiare: parla l’esperto” http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoCivile/famiglia/2014-02-28/mediazionefamiliare-parla-esperto-111218.php?refresh_ce=1 50 in divorzio) saranno tali per sempre, anche se non potranno più essere coppia; anche le famiglie in difficoltà, potranno imparare e godere di una gestione costruttiva e serena dei rapporti, anche grazie ad un nuova modalità di comunicare. Quindi, la crisi affettiva potrà trasformarsi da catastrofico fallimento ad occasione di crescita ed evoluzione personale: i partner potranno valorizzare le proprie funzioni genitoriali ed i figli trovare un luogo di ascolto e di accoglimento delle proprie istanze emotive, poiché, attraverso la mediazione familiare, le relazioni saranno trasformate, fortificate. Mai spezzate. Quindi, l’obiettivo principale e comune a ogni modello di mediazione familiare è quello di incrementare la capacità di negoziazione delle parti, stimolando la riapertura dei canali di comunicazione nella coppia e proponendo alla medesima degli itinerari diversi, nel rispetto dei propri bisogni, attraverso la promozione di un dialogo costruttivo. I mediati, dunque, attraverso questo strumento, potranno interrogarsi e mettersi in discussione, cambieranno prospettiva, approdando a nuove letture, diverse del proprio e dell'altrui comportamento. Il mediatore (letteralmente colui che sta in mezzo, che s’interpone fra due persone cercando di portarle a un accordo), ascoltando empaticamente le parti e favorendo il loro reciproco ascolto, fa si che non vengano eluse le sofferenze di ciascuno, ma che siano aiutate ad affrontarle senza essere censurati e giudicati, né tenterà di fornire interpretazioni particolari ai loro vissuti e comportamenti; quindi, 51 permettendo alla coppia di aprirsi e manifestare ogni preoccupazione o malessere, rispecchia la sofferenza delle parti coinvolte nella disputa per supportare un cambiamento nella loro relazione, li comprende ma non si sostituisce a loro. Il mediatore familiare è una figura professionale, che, con una formazione specifica, gestisce con competenza un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari. Egli deve spiegare, fin dal primo incontro, la sua funzione e le caratteristiche proprie del suo ruolo: terzietà, imparzialità ed equivicinanza rispetto alle parti, la totale assenza di ogni qualsivoglia giudizio da parte sua e il dovere di segretezza rispetto ai contenuti degli incontri. Pare doveroso sottolineare come la mediazione familiare non sia nata per il fallimento della struttura familiare, ma a conferma della fondamentalità delle relazioni familiari e delle esigenze di rinnovamento delle stesse relazioni. Nella mediazione familiare si riconoscono la positività dei conflitti e la normalità della dimensione conflittuale della famiglia, essendo questa anche una forma di educazione all’alterità. Per di più, questo modello può essere considerato un buon sostituto a una lite legale, che crea solo spossatezza e sofferenza. Se ci deve separare e dirsi addio meglio farlo in modo civile e pacifico per chiudere serenamente un capitolo della propria vita, senza creare dissapori che potrebbero ripercuotersi sul rapporto con i figli o altri familiari. A differenza di altri Paesi europei, l’Italia non si è ancora 52 dotata di una legislazione sulla mediazione familiare. Questo significa che non esiste un albo nazionale e che nessun provvedimento ha definito con chiarezza il percorso formativo che si deve intraprendere, col risultato che spesso i mediatori vengono confusi con altre figure che intervengono nelle problematiche familiari, come gli assistenti sociali o gli educatori. Chi è in possesso di una laurea specialistica in Psicologia, Giurisprudenza, Servizi sociali, Sociologia, Scienze della formazione, Scienze dell’educazione può frequentare un corso di studi per il conseguimento del titolo presso un istituto riconosciuto dal MIUR, che può essere universitario o extrauniversitario. Al termine dell’attività formativa è previsto un tirocinio formativo sul campo per un periodo non inferiore a sei mesi, in affiancamento a un mediatore esperto. Nonostante non esista un albo unico, sono nate varie associazioni di categoria, come AIMEF, AIMS e SIMEF, che hanno degli albi privati e indicano costantemente i criteri per la formazione, quindi il soggetto deve iscriversi a una delle associazioni presenti. Mediazione penale La mediazione in ambito penale, come quella familiare, è un processo che mira alla risoluzione dei conflitti. In tal caso, però, i protagonisti sono la vittima e l’autore del reato, che devono partecipare 53 attivamente per risolvere i contrasti sorti dalla commissione del reato, attraverso l’aiuto del mediatore, che come si è già detto, rappresenta una parte terza imparziale. La finalità di tale modello è quella di responsabilizzare il reo da un lato, e dare voce alla sofferenza della parte lesa dall’altro, chiarendo cause, moventi e circostanze dell’azione lesiva. Si struttura così quella che viene chiamata la giustizia delle emozioni, che poggia sia sul bisogno concreto della vittima di essere riconosciuta come soggetto danneggiato, non rispettato, sia sul bisogno del reo di essere ascoltato ed accolto nelle sue diversità e difficoltà. Il concetto di giustizia riparativa è stato il motore di questo modello di mediazione. Un’ulteriore spinta è stata data dalla necessità di valorizzare il ruolo della vittima nell’ambito del processo penale minorile, perciò si può inserire la mediazione nel riparto degli interventi tutelari. Oltre alla riparazione concreta del danno, quale può essere una misura di risarcimento monetario, si può e si deve anche ritenere la mediazione penale come una forma di riparazione psicologica. Si può immaginare come nel corso di un incontro si realizzi la prima e più significativa forma di responsabilizzazione, consistente nell’accogliere e farsi carico, da parte del minore che delinque, delle azioni e reazioni della vittima, rivendicative del suo bisogno di giustizia: non una giustizia formale in senso stretto, ma più personale. L’iniziativa per intraprendere l’attività di mediazione spetta al giudice dell’udienza preliminare, al giudice del dibattimento, al 54 pubblico ministero o al giudice per le indagine preliminari. Tale mediazione può essere esercitata in più occasione durante il procedimento: nell’ambito delle indagini preliminari, nell’attuazione della sospensione del processo e messa alla prova, come anche nell’applicazione della pena sia nella sfera restrittiva che in quella alternative alla detenzione. E’ un ottimo strumento specialmente in situazioni di lieve entità per tentare di giungere al ritiro della querela da parte della vittima. Il mediatore penale vaglia l’esito della mediazione per quanto riguarda sia indicatori esterni (riparazione, gesti di perdono, scuse) sia indicatori di carattere psicologico relativi al clima instauratosi durante lo svolgimento della stessa. Il percorso deve sempre prevedere un esito, positivo o negativo, che il mediatore deve comunicazione al giudice competente. Con la mediazione penale la vittima del reato può ritrovare il giusto ruolo centrale, tradizionalmente ignorato a favore di interventi di tipo punitivo nei confronti dell’autore del reato. Uno degli obiettivi è, infatti, quello di dare significato al reato come violazione dei valori umani, non solo del codice penale; difatti se il magistrato opta per l’applicazione della messa alla prova fondata su attività riparatorie come l’impegno in attività socialmente utili, esse dovranno avere qualche relazione con il reato commesso e essere di breve durata, per non apparire come lavoro forzato. Nel 2014 è stata introdotta la mediazione vittima-reo, anche nel 55 contesto del processo penale degli adulti. La riforma prevede la possibilità per gli imputati di poter richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova e fare ricorso alla mediazione mediante centri pubblici o privati.20 Questa figura professionale, così come quella del mediatore familiare, non ha ancora ricevuto in Italia una formalizzazione e un riconoscimento giuridico, tuttavia è previsto come requisito base il possesso di una diploma di laurea in Psicologia, Servizio Sociale, Sociologia, Giurisprudenza, Scienze dell’Educazione, Scienze della Formazione o precedenti esperienze di lavoro nell’ambito della devianza minorile. Per conseguire il titolo di mediatore penale è necessario frequentare un corso di specializzazione post-laurea presso un’agenzia formativa. Durante il colloquio per l’ammissione al corso viene solitamente valutata anche l’attitudine personale a svolgere l’attività di mediazione penale. Il corso prevede lo studio di discipline tecnico-scientifiche, tecnico-operative, giuridiche, oltre che un periodo di tirocinio formativo sul campo, in affiancamento a un mediatore esperto. L’esame finale per il conseguimento del titolo si riassume in un colloquio su tutte le materie del corso, oltre che la presentazione di un caso di mediazione penale minorile trattato durante il tirocinio. 21 20 Cfr. http://www.mediazionecrisi.it/mediazione/mediazione-penale 21 Cfr. http://professioniweb.regione.liguria.it/Dettaglio.aspx?code=0000000144 56 La supervisione professionale La supervisione è una fase, durante il percorso professionale, in cui ci si verifica come professionisti. Essa può essere individuale, ma frequentemente viene realizzata in ambito gruppale. Gli ambiti di sviluppo sono molteplici, ci può essere una supervisione di preparazione per operatori che sono ancora in fase di formazione, una supervisione per neoassunti o, ancora, per Assistenti Sociali che lavorano da anni. Il filo rosso è costituito dalla necessità di intraprendere una percorso di riflessione attraverso studio, confronto con i colleghi, partecipazione ad attività di formazione Nel contesto delle professioni d’aiuto, il termine è stato usato per indicare “il processo di riflessione, apprendimento, verifica, e valutazione, che si sviluppa, attraverso la relazione fra un professionista esperto e uno o più operatori del settore, durante il percorso formativo nel corso dell’attività professionale”. 22 La supervisione è considerata come uno degli strumenti fondamentali per la congiunzione fra prassi e teoria, utile per una crescita professionale che dia maggiore consapevolezza del ruolo professionale, delle potenzialità personali e delle responsabilità legate al contesto lavorativo. La supervisione non deve, però, essere intesa come una forma di 22 Merlini F., Filippini S., “La supervisione al servizio della valutazione” in Prospettive sociali e sanitarie n. 19/2006, pag. 8. 57 controllo sui collaboratori, sul loro stato di salute o sulla funzionalità del servizio, non è neanche una seduta di psicoterapia di gruppo, ma lo si può intendere come un percorso di presa di coscienza costruttiva dei problemi presenti in ambito relazionale sia con l’utente, sia con i colleghi che con l’organizzazione presso cui si è inseriti. Nello specifico, il supervisore deve aiutare il professionista a crescere, agendo su alcuni ambiti: collegando teoria e prassi, significando il piano dell’identità professionale, stimolando la rielaborazione dell’esperienza professionale, accrescendo le capacità relazionali, l’importanza data al lavoro in gruppo e le capacità organizzative. Essendo la supervisione, quindi, un "campo neutro" di riflessione, dato che il supervisore non è una persona interna all’organizzazione (tuttavia è consigliabile che appartenga professionalmente al gruppo supervisionato), è quello il luogo in cui l’Assistente Sociale può ottenere un sostegno motivazionale, può fare un bilancio personale del proprio percorso professionale, esprimendo i problemi vissuti e sforzandosi di comprendere se questi problemi dipendano da se stessi o dall’organizzazione. La supervisione deve essere considerata come un processo circolare perché aiuta sia l’organizzazione che il dipendente a capire "dov’è il problema", affinché si possa passare alle azioni per fronteggiarlo. Nonostante la competenza generale del supervisore è perfettamente sovrapponibile con quella dell’Assistente Sociale Specialista, anche in questo campo ci sono diversi percorsi 58 formativi post-laurea, molti dei quali attivati come master universitari. La supervisione organizzativa Il termine organizzazione denota il modo in cui le varie parti o componenti di un ente sono dinamicamente connesse e coordinate tra loro, al fine di produrre un bene o erogare un servizio. La supervisione organizzativa riguarda l’attività di chi controlla e dirige la realizzazione di un lavoro in un contesto organizzativo. È un supporto di tipo metodologico indispensabile per progetti nei quali sono previste equipe allargate e multidisciplinari, poiché alcune difficoltà nelle comunicazioni e nelle relazioni di lavoro sono diretta e inevitabile conseguenza della forma organizzativa adottata. È un valido strumento per ridurle perché, da un lato, mira ad assicurare la coordinazione e l’organicità delle risorse sia materiali che umane, dall’altro, vuole proiettare il sistema verso una strategia di mercato legata a una gestione di input e output. Formare un’equipe di lavoro, decidere ruoli e mansioni all’interno del progetto, definirne l’organizzazione, necessita di una conoscenza approfondita delle dinamiche interpersonali e di ruolo che ne possono derivare. Spesso, inconsapevolmente e con le migliori intenzioni, si pongono a livello organizzativo delle 59 basi problematiche all’interno del gruppo di lavoro: in fase progettuale con la supervisione organizzativa tali premesse negative possono essere evitate, ed in itinere, individuate e successivamente risolte.23 Quindi, la supervisione organizzativa opera al fine di raggiungere positivamente gli obiettivi istituzionali, di appoggiare un modello operativo equilibrato, di innalzare il livello qualitativo, nonché di accrescere la motivazione dei dipendenti, così da scansare i rischi di patologie organizzative (burnout, mobbing, ecc.). La progettazione dei servizi La progettazione è la capacità di pianificare i cambiamenti che si desidera introdurre in una data situazione, è la capacità di immaginare attraverso quali strategie operative si possono conseguire tali cambiamenti. Il lavoro per progetti nasce dall'esigenza di sapere dove si vuole andare, in quanto tempo, con quali mezzi e costi, mettendo in gioco quali responsabilità. Nel lavoro sociale la progettazione si associa, più che mai, ad attività di ricerca, mediazione, spazio aperto di dialogo. L’innovazione è stata introdotta dalla legge quadro 328/2000 che ha disciplinato la programmazione, la progettazione e la realizzazione del sistema locale 23 Cfr. http://www.psicologimilano.it/int_superorg.html 60 dei servizi sociali a rete, indicazione delle priorità e dei settori di innovazione attraverso la concertazione delle risorse umane e finanziarie locali. All’articolo 1 la legge definisce che “alla gestione ed all'offerta dei servizi provvedono soggetti pubblici nonché, in qualità di soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati”. Progettare, tanto più per gli operatori sociali, non significa capacità di riprodurre in modo sistematico delle azioni cosicché siano saldamente controllate da un unico soggetto centrale e affinché si crei un sistema efficiente. L’obiettivo della progettazione nel sociale è quello di chiedersi come si raggiungono certi risultati, registrando i vissuti di chi vi coopera. Il percorso parte da una valutazione delle risorse disponibili, successivamente, basandosi sulle esigenze emerse da parte dei cittadini, vengono scelti gli obiettivi cui mirare, le azioni da svolgere, che poi vengono trasformate in interventi e servizi concreti. In relazione alle verifiche che vengono compiute in itinere, questi ultimi possono subire modifiche. L’Assistente Sociale ha, solitamente, un ruolo peculiare nell’ambito della programmazione e dell’organizzazione dei servizi perché, essendo a stretto contatto con l’utente, può capirne le effettive problematiche e realizzare pertanto servizi ad hoc. 61 Per essere precisi, l’organizzazione e la progettazione dei servizi spetta, di norma, agli Assistenti Sociali Specialisti, che siano iscritti alla sezione A dell’albo professionale. Data l’importanza della tematica, vengono spesso attivati, in ambito universitario, dei corsi post-laurea riguardanti l’ambito della progettazione e dell’organizzazione dei servizi sociali che consentono al professionista di specializzarsi e acquisire ulteriori competenze sia sugli strumenti di gestione economico-finanziaria, sugli aspetti giuridici e amministrativi, nonché sulle principali linee di finanziamento regionali, nazionali ed europee del settore sociale e del non profit. L’accreditamento e il percorso valutazione-qualità Il concetto di valutazione e quello di qualità sono nati in contesti differenti, ma successivamente sono stati collegati. La valutazione è una stima, un esame di tutti gli elementi necessari alla formazione di un giudizio. La qualità è, invece, definita come la capacità di soddisfare le esigenze di chi acquista un bene o un servizio. Il concetto di valutazione e quello di qualità si intrecciano fra loro quando si parla di accreditamento, cioè l’attestazione della capacità di operare. Un soggetto di riconosciuta autorità certifica che determinati fattori all’interno di un ente risultino 62 conformi ai criteri stabiliti dalle norme e rilascia il documento di chi deve svolgere un ruolo in un determinato contesto sociale. La procedura di accreditamento, che vuole essere una garanzia di qualità, è più o meno simile in tutte le circostanze: in primis bisogna selezionare fra i professionisti uno o più valutatori esterni, si definiscono i criteri di valutazione, si adattano gli strumenti adeguati ad ogni dimensione qualitativa che si vuole indagare e poi, volontariamente, si può chiedere di essere accreditati. Infine, si procede ad una valutazione dei risultati raggiunti, la restituzione al committente e, infine, l’attribuzione del certificato di accreditamento. Per quanto concerne la formazione specifica di accreditatore, ci sono degli enti autorizzati, diversi da Regione a Regione, che se ne occupano organizzando dei corsi ad hoc, un esempio è costituito dalla Fondazione Zancan, specializzata nel campo dei servizi sociali. La consulenza sociale Il servizio sociale ha anche lo scopo di offrire consulenza in situazioni di bisogno, costruendo e esplorando insieme all'utente un percorso d'aiuto per il superamento delle difficoltà. Il termine consulenza indica, in generale, il parere esternato da un esperto per la valutazione di una data situazione, offrendo un punto 63 di vista professionale e consigliando il soggetto. L’attività consulenziale racchiude al suo interno l’accoglienza e la valutazione delle richieste di prestazioni, la presentazione esaustiva dell’organizzazione e le informazioni utili per la conoscenza del funzionamento del servizio, l’instaurarsi di contatti con i servizi sociali o altri enti ritenuti utili e, infine, l’arrivo ad una soluzione più o meno desiderabile, che nelle migliori delle ipotesi riesce ad arginare il problema. La consulenza può essere scissa in due ambiti, che differiscono per l’utenza a cui si rivolgono: il counseling e la consultation. Il termine counseling denota letteralmente un “consiglio da un consigliere-consulente”. Indica un'attività professionale che tende ad orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del cliente, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta. Si occupa di problemi non specifici (prendere decisioni, miglioramento delle relazioni interpersonali) contestualmente circoscritti (famiglia, scuola, lavoro). e 24 In questo processo, in cui la relazione è la cura: l’utente è protagonista del processo, il compito del counselor è quello di guidarlo al fine di esaminare il suo problema da diversi punti di vista, fino a scorgere nuove letture, risorse non sfruttate e diverse possibili soluzioni dello stesso. 24 Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Counseling 64 Nel documento “Definizione di servizio sociale”, stilato a Montreal nel 2000 dalla International Federation of Social Work in relazione alla descrizione di servizio sociale cita il counseling come una delle pratiche utilizzate dall’Assistente Sociale. Infatti, esso trova un largo impiego in tutti quegli spazi di intervento del lavoro di servizio sociale professionale, in cui si manifesti la necessità di una forte competenza comunicativa e l’esigenza di attivare processi di cambiamento che promuovano l’empowerment della persona, della famiglia o della comunità. Perciò, in tale prospettiva per l’Assistente Sociale, il counseling diventa uno strumento principe per lo svolgimento di un buon lavoro. La consultation è, invece, la consulenza fornita da un esperto quando si manifesta una richiesta o uno scambio di consigli, di pareri, di informazioni su una determinata questione nei confronti, però, di un soggetto istituzionale; come nel caso di enti pubblici o organi giudiziari. Nonostante, la consulenza rientra perfettamente fra le competenze dell’Assistente Sociale, l’abilità di comunicazione e relazione specifica del counselor è fornita da master o scuole di specializzazione. La figura non è un terapeuta, tantomeno i corsi abilitano alla psicoterapia, ma formano un professionista che ascolta, aiuta, sostiene, affianca e orienta le persone mentre affrontano momenti di disagio e difficoltà, evoluzione e cambiamento. Attualmente, in Italia rispondono 65 alla necessità di regolamentare la professione solamente delle associazioni di categoria come la Assocounseling, la LUC (Libera Università degli studi e delle ricerche sul Counseling), la SiCo (Società Italiana di Counseling) e la FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Psicoterapia). La selezione del personale Il patrimonio delle risorse umane di un’azienda ne decide il buono o il cattivo andamento: dal momento che i dipendenti sono coloro che mandano avanti il processo produttivo, questi collaboratori devono essere scelti meticolosamente con l’obiettivo e l’aspirazione di determinare un maggiore successo aziendale. Si occupa di ricerca e selezione del personale chi si dedica al reperimento, alla selezione e all'inserimento in azienda dei nuovi dipendenti, o meglio definiti come risorse umane. La ricerca e selezione del personale non è più un compito che viene affidato alla segretaria, bensì richiede abilità, competenza, capacità d'analisi, perseveranza e disciplina. Queste attività sono organizzate per rispondere in modo e soddisfacente alle esigenze della società che ha commissionato il compito. Ci sono metodi, tecniche e strumenti adeguati all’identificazione del candidato ideale; per cominciare si effettua un'analisi interna che 66 consentirà di adeguare tali mezzi all’ambiente organizzativo. Dopo aver passato in rassegna i curricula degli aspiranti, si procederà a un’ulteriore scrematura attraverso test specifici o un colloqui finalizzati ad eleggere il miglior candidato, scegliendo la persona più adatta. Non si tratta solamente di assumere. In Italia, storicamente, l’ambito della selezione del personale, è stato spesso intaccato da vari fenomeni negativi e per niente meritocratici quali l’appartenenza ad un partito politico o ad un’ideologia religiosa, o ancora l’approccio prevaricatore della raccomandazione, dando campo fertile al dilagarsi della filosofia che “un lavoro vale l’altro”. Oggi, invece, si vuole puntare a un dipendente che sia e si senta al proprio posto, che abbia chiara la logica secondo cui il lavoratore e l’azienda si scelgono a vicenda e entrino subito in simbiosi in una logica di interscambio, di dare – avere. Vista la funzione fondamentale che sta assumendo la ricerca e la selezione del personale nel management dell’impresa, molti master e corsi di formazione si stanno espandendo verso il campo dell’ Human Resources per creare esperti capaci sia di comprendere appieno tale ruolo centrale della persona che di gestirne i processi manageriali connessi, quali selezione, reclutamento, formazione, comunicazione. IV.II Area comunicativa 67 Il giornalismo sociale Secondo la definizione del prof. Mauro Sarti, il giornalismo sociale è “un modo di fare informazione. Attento alle persone, disposto ad ascoltare, proprietà non molto diffusa in campo giornalistico perché l’ascolto è spesso strumentale alla scrittura del pezzo, e non va oltre. È un giornalismo in grado di raccogliere i particolari e di dare un feedback alle persone che hanno bisogno. O che chiedono semplicemente un’informazione corretta”.25 Da una ventina d’anni si sono affermate testate giornalistiche prima, giornali online dopo, che riguardano il settore dell’informazione che si occupa di problematiche sociali e che si riferiscono ad un target professionale mirato, i professionisti del sociale. Un esempio importante è dato dal periodico “Notiziario SUNAS” fondato nel ’91 dal Sindacato unitario nazionale Assistenti Sociali. Da qui molti sono stati i giornali e le riviste su carta stampata che sono nati successivamente; altrettanto numerosi i siti internet dedicati al settore. Una realtà recentissima è, invece, quella della web radio “S.O.S. Servizi Sociali On Line”, da cui è nata anche un’App gratuita. 25 http://www.comunicareilcoma.it/res/site13801/res67803_intervista%20sarti.doc. 68 Per quanto riguarda la specializzazione in tale campo si organizzano dei seminari annuali di “redattore sociale” e alcuni master universitari in giornalismo sociale, nonché corsi extraaccademici disposti da enti privati. Per ciò che concerne l’iscrizione all’albo, va evidenziata la differenza tra pubblicisti, e professionisti e praticanti. I primi sono coloro i quali, dopo aver praticato per due anni la professione giornalistica con una o più testate, hanno superato un esame di abilitazione presso l’ordine regionale competente. I pubblicisti possono operare in campo giornalistico come tutti gli altri colleghi, ma non possono svolgere esclusivamente questa professione. Insomma non possono vivere esclusivamente di giornalismo. Possibilità, invece, riservata ai professionisti che, a differenza dei primi, svolgono esclusivamente questa attività dopo aver superato un esame di abilitazione nazionale, previo periodo di praticantato di diciotto mesi presso una testata o una scuola di giornalismo riconosciuta dall’Ordine dei Giornalisti. I praticanti sono coloro i quali si preparano a iscriversi all’albo dei professionisti. Questa differenza illustrata è importante perché se è pur vero che tutti possono scrivere per dei giornali, una collaborazione continua senza iscrizione o senza contratto anche di collaborazione può fare incappare nel reato di abuso della professione giornalistica. La consulenza comunicativa 69 “La comunicazione è uno scambio interattivo fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento”.26 È uno strumento essenziale per realizzare, all’interno degli enti pubblici, un’apertura verso i dipendenti, creando forme di concertazione e partecipazione fra tutti i collaboratori, ma soprattutto verso l’esterno, creando rapporti con altre istituzioni e con gli utenti stessi, al fine di fornire informazioni utili che li indirizzino verso comportamenti positivi. Diverse sono le forme di comunicazione pubblica che si trovano all’interno di una pubblica amministrazione; in primis troviamo l’Ufficio Relazioni con il Pubblico, poi l’ufficio stampa e, infine, il portavoce. L’URP è un servizio d'informazione, sulle attività di pubblico interesse e sui procedimenti amministrativi avviati, che rappresenta un punto d'incontro fra l’ente e il cittadino, assicurando la trasparenza amministrativa. Più in generale, l'ufficio mira ad assicurare e garantire il diritto di partecipazione alla vita amministrativa e semplifica la comunicazione con i cittadini, fornendo informazioni immediate e di 26 Watzlawick P., Beavin J. H., Jackson D. D. “Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi”, Astrolabio Ubaldini, 1971. 70 prima necessità per orientare i cittadini sulle procedure da seguire per avviare le pratiche, sulla documentazione necessaria da presentare, a chi rivolgersi per avere maggiori chiarimenti; offrendo consultazione ed eventuale rilascio di copia di atti e documenti; dando comunicazione di bandi, modulistica e documentazione varia; promuovendo e realizzando iniziative di pubblica utilità per assicurare la conoscenza delle normative e l'informazione sui diritti dell'utenza; monitorando e verificando il gradimento dei servizi, anche accogliendo segnalazioni, reclami, suggerimenti e proposte per migliorare i servizi erogati. L’URP deve anche occuparsi di curare la Carta dei servizi, che è il mezzo attraverso il quale il soggetto, che eroga un servizio pubblico, individua gli standard della propria prestazione, dichiarando i propri obiettivi e riconoscendo specifici diritti in capo all’utente, perciò si comunica, in modo trasparente e completo, i servizi che vengono forniti, il modo per usufruirne e gli standard di qualità garantiti. L’ufficio Stampa si occupa di rappresentare comunicativamente l’ente, la struttura, la persona fisica per cui svolge tale mansione. È una sorta di mediatore tra i vertici dell’azienda e il personale, i pazienti e il mondo dell’informazione. I clienti possono usufruire di un canale informativo professionale, costantemente aggiornato; ma soprattutto, vengono sfruttati al fine di veicolare delle informazioni utili ad affermare l’immagine dell’azienda i media, sia quelli su carta stampata, che radio, televisivi sia sul web. Il portavoce è, invece, una figura professionale, anche esterna 71 all'amministrazione, che essendo fiduciariamente incaricato e in stretta collaborazione con l’organo di vertice, deve intraprendere rapporti di carattere politico-istituzionale con gli organi di informazione comunicando scelte, orientamenti, strategie. Tutte le competenze sopraelencate sono possedute dall’Assistente Sociale; bisogna però ricordare che la naturale collocazione della figura si inquadra nell’ambito del back office e non in quello del front office, come previsto per alcune funzioni degli URP. IV.III Area formativa La formazione professionale Un mantra del servizio sociale è il collegamento fra teoria-prassiteoria, tale passaggio è essenziale in ogni dimensione del lavoro professionale. Quindi, allo scopo di non trascurare la dimensione della conoscenza e non tralasciare il frequente problema di passare dalla formazione di base alla pratica senza far più ritorno alla teorizzazione, nel 2009 è stato introdotto per la figura degli Assistenti Sociali l’obbligo di formazione continua. Con tale espressione si vuole 72 intendere ogni attività organizzata di accrescimento ed approfondimento delle conoscenze e delle competenze professionali nonché il loro aggiornamento. Ogni professionista iscritto all’albo per mantenere tale status deve accumulare 60 crediti in un triennio (ogni credito corrisponde a circa un’ora di attività). La formazione, secondo Maria Dal Pra Ponticelli, si articola in tre grandi obiettivi da raggiungere: conoscenze teoriche e metodologiche, competenze e capacità operative, atteggiamenti professionali che scaturiscono dai valori e dai principi che si intende salvaguardare. Si tratta di tre aspetti strettamente connessi e integrati che possono essere trasmessi ed appresi solo attraverso un’integrazione fra base deontologica, base teorica e metodologica e prassi operativa. Solo se lo studente nel corso degli anni della formazione di base e il professionista nell’ambito di progetti di formazione continua e ricorrente, sapranno collegare in modo creativo e costruttivo questi tre aspetti si può veramente parlare di formazione e di educazione cioè valorizzazione delle proprie specifiche potenzialità intorno ad un progetto di professionalità integrata. 27 Le applicazioni operative della formazione costituiscono due filoni: la formazione intellettuale che riguarda strettamente il campo del servizio sociale, interessando gli Assistenti Sociali in fieri e quelli già 27 Cfr. Dal Pra Ponticelli M., “L’Assistente Sociale oggi: professionalità e formazione” in Eiss (a cura di), Rapporto sulla situazione del servizio sociale in Italia. I rapporto 2001, Ente Italiano di Servizio sociale, Roma, 2001. 73 avviati, e la formazione psichica si riferisce ad altri attori di aiuto, come i caregiver che necessitano di un supporto emotivo. Anche i destinatari della formazione possono essere differenti, prevalentemente sono altri assistenti sociali tramite formazione di base, specialistica o continua svolta in ambito accademico o da altri enti accreditati dal Consiglio Nazionale (o Regionale) dell’Ordine degli Assistenti Sociali; o anche altri operatori del sistema di aiuto nell’ambito dei servizi della cura alla persona; o anche caregiver informali quali potrebbero essere volontari o anche familiari di soggetti con particolari esigenze, spesso bisognosi, oltre che di competenze pratiche, anche di un sostegno emotivo che li supporti in una situazione fortemente stressante. L’Assistente Sociale oggi deve prendere coscienza dell’autorevolezza e delle responsabilità del suo ruolo e saper affermare un’identità professionale sempre più forte e consapevole, anche attraverso azioni formative che evidenzino maggiormente il sapere autonomo. La teoria del servizio sociale professionale ha, perciò, davanti a sé un futuro molto prospero: sono sempre di più i professionisti che s’impegnano nella ricerca teorica, come formatori o come semplici appassionati, e quelli desiderosi di apprenderla, vestendo le parti di allievi, a prescindere dall’obbligo formativo. Diversi sono i corsi organizzati appositamente per creare Assistenti Sociali formatori. È possibile, comunque, chiedere al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali l'autorizzazione 74 di agenzie o di enti che si occupano di formazione, o anche l'accreditamento di formatori o solamente di singoli eventi formativi. La docenza universitaria Nonostante la docenza universitaria rientri nelle possibilità lavorative di un Assistente Sociale, alternative al lavoro dipendente, questo scenario è poco conosciuto, poco sfruttato e solitamente occupato da professionisti specializzati in materie diverse. Infatti, ad oggi, le principali materie d’insegnamento dei corsi di studio, quali Principi e fondamenti del servizio sociale, Metodi e tecniche del servizio sociale e Organizzazione del servizio sociale, rientrano nell’ampia classe della sociologia, di conseguenza ad insegnare materie base, ad alto contenuto professionalizzante per l’allievo, ci possono essere altri professionisti, considerati equipollenti. Attualmente a fronte di 41 corsi di laurea in Scienze del Servizio Sociale L39 e 35 corsi di laurea magistrale LM87, con un’immatricolazione di circa 5 mila studenti sul territorio nazionale i docenti di servizio sociale provenienti dalla professione e incardinati presso gli atenei italiani sono solamente 15 (un professore ordinario, tre professori associati, otto ricercatori confermati e tre ricercatori a tempo determinato). Nelle altre realtà, gli insegnanti 75 delle discipline di servizio sociale sono tenuti prevalentemente da docenti a contratto, quando non affidati a docenti di altre discipline.28 Per essere docente universitario è generalmente necessario il superamento di un concorso, bandito dal singolo ateneo previo conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale prevista della legge 240 del 2010 “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario costituente”. Come definito dall’articolo 16 comma 1 della suddetta legge “è istituita l'abilitazione scientifica nazionale, di seguito denominata «abilitazione». L'abilitazione ha durata quadriennale e richiede requisiti distinti per le funzioni di professore di prima e di seconda fascia. L'abilitazione attesta la qualificazione scientifica che costituisce requisito necessario per l'accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori”. La docenza nelle scuole medie superiori Anche la docenza negli istituti tecnici per i servizi sociali e i licei socio-psicopedagogici potrebbero costituire un’opportunità per gli 28 Cfr. Associazione Italiana Docenti di Servizio Sociale in https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/attachments/documento_evento_pro cedura_commissione/files/000/001/029/0660_Memorie_AIDOSS.pdf 76 Assistenti Sociali che vogliono affacciarsi nel mondo dell’insegnamento, purtroppo le uniche possibilità concesse ai laureati magistrali in Servizio sociale e politiche sociali (LM-87) sono le materie letterarie negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado (A050), le materie letterarie e latino nei licei e nell’istituto magistrale (A051) e le materie letterarie, latino e greco nel liceo classico (A052). Ci sono, però, delle lacune da colmare per poter insegnare tali materie. Nel primo caso si devono, infatti, avere almeno 80 crediti nei settori scientifico disciplinari lingua e letteratura latina, letteratura italiana, linguistica italiana, geografia e storia. Nel secondo caso, devono essere almeno 90 crediti negli stessi settori, mentre nel terzo caso 108 con l’aggiunta del settore della lingua e letteratura greca.29 Per insegnare nelle scuole superiori bisogna possedere il titolo di laurea specialistica o magistrale, più aver frequentato un anno di Tirocinio Formativo Attivo. Il TFA è un corso di preparazione finalizzato all’abilitazione per l’insegnamento nelle scuole secondarie italiane, a numero chiuso con prova di ingresso sia scritta che orale. Tale percorso, che ha sostituito i SSIS (Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Superiore), è stato introdotto con decreto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel 2010. 29 Cfr. Manzoni R., “Titoli di studio per la partecipazione ai tirocini formativi speciali nella scuola secondaria di primo e di secondo grado” in http://www.gildanapoli.it/gildanews/2013/19_08/Titoli_accesso_PAS2013.pdf 77 IV.IV Area giuridica Il giudice onorario Il Tribunale per i Minorenni è un organo specializzato dell’amministrazione della giustizia collegiale. È composto da quattro giudici: due giudici togati e due giudici onorari, un uomo e una donna, benemeriti dell’assistenza sociale, scelti tra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia. Ormai da anni rientrano fra tali figure, individuate dal Consiglio Superiore della Magistratura anche gli Assistenti Sociali, quindi questo può essere individuato come un ulteriore campo d’intervento di libera professione. La funzione del giudice onorario è complessa e rilevante, perché finalizzata alla ricerca di soluzioni che corrispondano all’interesse del minore attraverso l’utilizzo di conoscenze appartenenti a saperi extragiuridici (in particolare all’area psicosociale). Il giudice onorario per tutta la durata dell'incarico è un giudice e quindi, nell'esercizio di tale attività, deve osservare i principi deontologici del giudice. In particolare, il principio fondamentale che deve osservare è quello secondo cui il giudice è terzo e non è una 78 delle parti. Inoltre, non svolge un ruolo di consulente o di aiutante dei giudici togati, ma è giudice anch'egli, con pari dignità, e deve, perciò, decidere secondo scienza e coscienza, consapevole di dover essere interprete del mondo minorile e delle relazioni familiari. 30 All'incarico di giudice onorario minorile, che ha durata triennale, si accede tramite selezioni che avvengono in ogni ufficio giudiziario minorile, decretate tramite bando. Per partecipare alla selezione occorre possedere alcuni requisiti: essere benemeriti dell'assistenza sociale, essere cultori di specifiche discipline umane ritenute essenziali per un’adeguata comprensione delle problematiche minorili e avere un’età compresa fra 30 e 69 anni. Inoltre, per consentire ai componenti privati minorili di nuova nomina un’infarinatura nel campo giuridico è garantita una formazione professionale, che viene avviata subito dopo la nomina, attraverso attività pratiche. Questa formazione, che ha durata di due mesi, si realizza essenzialmente nella partecipazione dei giudici onorari alle camere di consiglio civili, alle udienze civili di opposizione all'adottabilità, alle udienze penali e agli incontri con i Servizi sociali del territorio e con il Ministero della giustizia, nonché le visite agli istituti penali minorili. Perciò, ogni magistrato onorario viene affiancato da un tutor, che è un magistrato ordinario o onorario appartenente all'ufficio, il quale provvederà a fornire tutte le informazioni concernenti il lavoro. 30 Cfr. http://www.minoriefamiglia.it/pagina-www/mode_full/id_65/ 79 Le funzioni di un giudice onorario si possono dividere in due settori: quello civile, in cui rientrano materie inerenti l’adozione, la tutela dei minori, l’esercizio della podestà genitoriale, i casi di abuso o maltrattamento, lo status di figlio naturale e legittimo, la valutazione dei minori da emancipare; il settore penale riguarda procedimenti e udienze nel campo del penale, come anche l’applicazione delle misure alternative alla detenzione. La consulenza tecnica La consulenza tecnica nel campo del giudizio civile può, in casi che lo richiedono, essere svolta anche da professionisti del settore sociale, nello specifico è istituito presso ogni Tribunale l’albo speciale dei consulenti tecnici Assistenti Sociali. Tale consulenza si sviluppa in due figure: il consulente tecnico di ufficio e il consulente tecnico di parte. Il primo è una figura ausiliare del giudice, nominata dal giudice stesso che sceglie fra gli scritti ad un albo speciale del Tribunale. Quindi, egli supporta il giudice svolgendo le indagini che gli sono state commissionate, offrendo argomentazioni per valutare le risultanze di determinate prove, o anche elementi diretti di giudizio. Perciò, proprio per tali motivi, deve essere una persona 80 con particolare competenza in un determinato settore, chiamata a esprimere pareri, raccogliere motivazioni ed effettuare verifiche, anche se non esercita mai l’attività decisoria che, invece, spetta esclusivamente al magistrato. Pertanto, quando lo ritiene necessario, il giudice può farsi assistere per il compimento di singoli atti o per l’intero processo da uno o più consulenti con particolari competenze. Nonostante ciò, la relazione tecnica non costituisce una prova e non è del tutto vincolante per il giudice, il quale può farne disporre una nuova o può chiarire di non voler tenere conto di quanto scritto dal tecnico purché, ovviamente, motivi adeguatamente la decisione esplicando la ragione per cui non ritiene rilevanti gli argomenti del perito nominato. Il consulente tecnico di parte si può avere ogniqualvolta venga nominato un consulente d’ufficio, ma a differenza di quest’ultimo è scelto in piena autonomia dalla parte interessata dal processo come persona di fiducia. La nomina è facoltativa, ma comunque subordinata all'intervento nel processo di un consulente tecnico d'ufficio. Nonostante il rapporto di collaborazione fiduciaria con il soggetto e il suo avvocato, deve essere sempre scelto da un albo speciale del Tribunale, e abilitato ad assistere allo svolgimento delle operazioni peritali svolte dal consulente d’ufficio, partecipare alle udienze ed essere ammesso in camera di consiglio per chiarire al Presidente le proprie osservazioni tecniche attraverso una dichiarazione resa dal cancelliere. Il consulente tecnico di parte, alla fine dei suoi lavori, deve presentare una relazione che può o essere inserita nella relazione del consulente d'ufficio a sostegno o a critica, 81 oppure può essere presentata autonomamente, ma in questo caso non costituisce mezzo di prova. IV.V Assistenti Sociali senza frontiere Un ulteriore campo d’azione per coloro che vogliono sperimentarsi in situazioni al di fuori della dipendenza è quello dell’esperienza di Assistente sociale senza frontiere. “Assistenti Sociali Senza Frontiere” è un’associazione ONLUS nata dall’esigenza di proporre e sostenere un’estensione del raggio d’azione degli Assistenti Sociali, dai servizi alla persona alla pianificazione di interventi di cambiamento che abbiano come interlocutori gruppi sociali o popolazioni specifiche e che abbiano finalità di sviluppo sociale, in Europa come nei Paesi in via di sviluppo. La specifica finalità dell’associazione di volontariato “ASSF” è la promozione della cooperazione internazionale nel campo dell’assistenza sociale attraverso la costruzione di iniziative di dialogo e di comunicazione interculturale fra il nord e il sud del mondo. L’obiettivo è quello di promuovere interventi d’aiuto attraverso il consolidamento della cittadinanza sociale e della partecipazione, attraverso nuove pratiche sociali a carattere egualitario, mediante interventi di empowerment 82 rispetto alle minoranze etniche, culturali, linguistiche o religiose. 31 Sperimentarsi Assistenti Sociali “senza frontiere” significa dare un’interpretazione diversa alla deontologia professionale mettendosi alla prova in situazioni e contesti di lavoro diversi da quelli in cui si opera normalmente, mediante altri possibili modi di esprimere l’agire professionale e promuovendo altre forme di solidarietà. L’impegno di ASSF comprende differenti ambiti: si lavora sull’emergenza, sull’inclusione e coesione sociale, sulla sensibilizzazione e sulla cooperazione internazionale. Sul fronte dell’emergenza, oggi si vuole, non solo offrire solidarietà e collaborazione ai colleghi dei territori interessati da eventi disastrosi, ma anche promuovere sul piano istituzionale il riconoscimento del profilo dell’Assistente Sociale all’interno della Protezione Civile, poiché una piena legittimazione in tal senso rende chiaro il mandato professionale e dona maggiori garanzie di presenza e di sostenibilità nell’impegno dei professionisti volontari. Inoltre, si vogliono promuovere azioni rivolte sia alla prevenzione dei danni che al processo di ricostruzione, come è stato sperimentato dalla stessa associazione in Abruzzo nel post-emergenza. Per quanto riguarda l’inclusione e la coesione sociale, si guarda ai molteplici bisogni che gli immigrati, i rifugiati e i richiedenti asilo hanno quando arrivano in un Paese a loro quasi sconosciuto. Si vuole 31 Cfr. Di Rosa R., “Assistenti Sociali senza frontiere” in Professione Assistente Sociale n. 2/2010, pag. 13. 83 perciò dare aiuto a queste persone sia per ciò che riguarda necessità concrete (bisogni abitativi, linguistici, ecc.), ma anche fornendo un quadro dei diritti e dei doveri di cui la persona è titolare. Il professionista deve, perciò agire a vari livelli: in quello micro si tratta di lavorare con l’individuo e la famiglia, a livello meso si impegna nello sviluppo di una comunità accogliente e, al macro livello, considera le istanze legate ai diritti umani e alla giustizia sociale. L’ambito della sensibilizzazione riguarda, invece, vari temi che caratterizzano il nostro Paese e che stanno alla base di atteggiamenti di intolleranza, di rifiuto di interiorizzazione, di discriminazione, di vittimizzazione che ostacolano il contatto e l’integrazione tra i popoli, come le differenze culturali, delle ragioni socio-economiche, storiche o politiche,. L’ASSF vuole, pertanto, creare spazi di riflessione adeguati attraverso cui prender consapevolezza delle nuove esigenze e delle strategie per farvi fronte, nonché ampliare le conoscenze personali e professionali degli operatori coinvolti e contribuire al cambiamento culturale delle nuove generazioni di Assistenti Sociali, attraverso la partecipazione e l’organizzazione periodica di convegni, corsi di formazione e Summer Schools. L’ambito in cui i principi dell’associazione sono perfettamente applicati e sintetizzati è quello della cooperazione internazionale, in cui l’Assistente Sociale si fa promotore di stabilire un’uguaglianza sostanziale tra i popoli e favorisce lo sviluppo umano e la libertà delle persone, cercando di stabilire una cultura della pace, in cui i diritti 84 umani e la giustizia sociale possano essere garantiti e protetti. Solitamente si lavora in contesti in cui tali valori sono stati ingiustamente negati dai processi storici e sociali, in Paesi in via di sviluppo, come i progetti degli ultimi anni attivati in Perù, Mozambico, Madagascar, Tanzania e India. 32 32 Cfr. http://www.assistentisocialisenzafrontiere.it 85 V. PUNTI DI FORZA E CRITICITÀ DELLA LIBERA PROFESSIONE Nel passaggio dalla dipendenza pubblica al libero mercato ci sono dei punti di forza e alcune criticità che devono essere esaminati al fine di essere al corrente di tutti gli aspetti, positivi e negativi, così da poter scegliere la giusta opzione in maniera cosciente. Si può cominciare l’analisi partendo dalle parole della dottoressa Elena Giudice. A suo parere, “nel pubblico non esiste la necessità di trovare clienti: l’utenza non ha scelta e deve rivolgersi ai servizi di competenza territoriali. L’Assistente Sociale privato, invece, deve innanzitutto scardinare alcuni luoghi comuni, che lo identificano nel burocrate o, per contro, nella figura che interviene solo in casi gravissimi, che spesso prevedono l’allontanamento del minore dal proprio nucleo di origine. Nel privato, quindi, è necessario comprovare la propria professionalità, competenza e credibilità: “agire il mandato professionale e sociale” e non quello istituzionale che, invece, fa 86 da cornice nei servizi pubblici; bisogna farsi conoscere, cercare contatti con altri professionisti e proporsi per collaborazioni. Mettere al centro le persone e non il bisogno in sé, lavorare quando la necessità emerge e non quando essa è diventata un problema cristallizzato. All’interno di questo scenario è fondamentale motivare costantemente la persona. Inoltre, la creatività del professionista trova nel privato un canale interessante, perché l’Assistente Sociale propone all’utente metodi di lavoro mirati ai suoi bisogni specifici, per fornirgli un ampio scenario di possibilità da attivare”.33 Dal punto di vista professionale, svolgere l'attività di Assistente Sociale all'interno di un'azienda pubblica o privata che sia, significa comunque muoversi e gestirsi con l'autonomia e l’interpretazione personale che, appunto, la professione richiede, sempre, ovviamente, nell'interesse sia della collettività, sia dell’azienda per cui si presta servizio. Va da sé che lo svolgimento di un'attività professionale in forma dipendente, svolta con autodeterminazione e coscienza, ma senza i rischi della libera professione costituisce un vantaggio in termini di sicurezza. Si sente, al contempo, il bisogno di sottolineare che non ci si deve mai muovere con la mentalità del posto fisso: in qualsiasi azienda, infatti, si è valutati e apprezzati per l’impegno posto e il valore personale e professionale e, di conseguenza, se mancano questi elementi, non si viene premiati in nessun contesto. Basti pensare ai vari bonus monetari attribuiti ai dipendenti pubblici dopo aver svolto con 33 Nesi M., “Lavorare come Assistente sociale privato: intervista a Elena Giudice” in http://news.biancolavoro.it/lavorare-come-assistente-sociale-privato-intervista-elena-giudice/ 87 meriti particolari alcuni compiti o anche agli avanzamenti di livello che permettono una progressione della carriera, un incremento della gratificazione, nonché un aumento dello stipendio. Fra i pregi che la libera professione porta con sé, è da annoverare, in primis, la libertà del professionista di adeguare alle sue esigenze e alle sue caratteristiche personali lo specifico ambito lavorativo in cui adoperarsi, il luogo in cui svolgere la propria attività, il tempo da dedicare al lavoro. Inoltre il libero professionista può scegliere se un singolo lavoro può essere svolto o meno, non solo in base alla propensione personale ma anche attenendosi alle competenze possedute e alle esperienze pregresse. Nel lavoro autonomo il professionista può dare voce alla sua creatività e a tutte le sue variabili personali perché può metterci ciò che sente come l’aspetto più rilevante di sé e per sé rispetto alla propria professionalità, ovviamente nel rispetto della normativa, del codice deontologico e dei principi e dei valori del servizio sociale. Rispetto ai rapporti di dipendenza pubblica, però, l’Assistente Sociale privato non ha vincoli nei confronti di nessuna organizzazione. Fra i lati positivi non si devono, senza dubbio, tralasciare i fattori motivazionali: se nel lavoro dipendente, lo stipendio è allineato con le ore di lavoro svolte mensilmente, nella libera professione il compenso del lavoratore è proporzionato al lavoro eseguito per un committente. Il successo, in questo secondo caso, dipenderà dal grado di qualità del servizio erogato e dalla soddisfazione del cliente, quindi il 88 professionista si sforzerà di svolgere al meglio il suo lavoro e dovrà essere in grado di gestire più lavori contemporaneamente, realizzando i progetti tenendo conto anche di tempi non sfruttati legati a logiche burocratiche. In altri casi, invece, dovrà avere la pazienza di aspettare i clienti perché in un dato momento può anche capitare di non aver nessun lavoro da svolgere. Il lavoro autonomo, inoltre, aiuta a dare maggiore riconoscimento alla professione in quanto, se il committente sceglie un professionista in genere non tende a squalificare il suo lavoro. Anzi, se l’esito risulterà ottimale, tenderà a valorizzare e stimare non solo l’esperto, ma l’intera professione, parlandone positivamente anche all’esterno . Non si deve, fra l’altro, dimenticare che è importante anche l’effetto della gratificazione che si prova nel sapersi gestire autonomamente e nel costruire con le proprie forze la propria strada e il successo professionale. Sentirsi gratificati migliora, non solo il rendimento, ma anche aumenta l’impegno e la voglia di mettersi in gioco, continuamente, sperimentandosi in nuovi campi d’azione e volendo sempre acquisire maggiori conoscenze. Importante è in tale scenario anche il campo della formazione e dell’acquisizione continua di nuove competenze, come l’uso di tecnologie all’avanguardia che permettono al professionista di risparmiare tempo. Come è facile intuire, nel privato il tempo è denaro, perciò più competenze e informazioni si possiedono, più tempo si risparmia e più si guadagna. 89 Di contro, dalla parte dei rischi si può stilare una lista corposa. La prima cosa che viene in mente, intuitivamente, è la mancanza di sicurezza: intraprendere la libera professione può essere un’opportunità di riappassionamento al lavoro sociale, di “svago” ed anche di manifestazione di creatività per chi ha un “paracadute” come nel caso degli Assistenti Sociali in pensione o che svolgono un lavoro part time nel settore pubblico, ma è molto difficile, invece, per chi non ha coperture, come nel caso dei neolaureati. Se è vero che si è un po’ spaesati quando si esce dall’ambiente universitario, però si può osare e provare a mettersi in gioco, data la giovane età, e crescere professionalmente ed anche personalmente grazie ad un lavoro in cui le opportunità di imparare sono infinite e i casi che si analizzano sempre differenti fra loro. Altre mancanze di sicurezza nel lavoro autonomo riguardano la mancanza di protezioni lavorative, come per esempio la tutela della maternità, e la sicurezza di una pensione adeguata. Nel lavoro autonomo, che si tratti di uno studio individuale o associato non conta, ci si può ritrovare in una situazione di overdose da lavoro perché non ci sono orari e spesso ci si ritrova a lavorare anche da casa e in giorni festivi. Quindi, bisogna sapersi dare dei limiti per non incorrere nel rischio di lavorare per molto tempo senza neanche rendersene conto e trascurare, così, altri aspetti importanti della propria vita. La creatività di cui si è parlato, inoltre, può sfociare in aspetti 90 poco positivi e provocare uno scostamento dai valori causato, per esempio, dall’accettazione di lavori per servizi o modelli già superati o ancora credere di praticare il lavoro di Assistente Sociale facendo altro, come il burocrate. Un altro rischio riguarda il ritrovarsi con dei compagni che lavorano nel sociale solo perché il sociale è un business come un altro, senza saper neanche definire il lavoro del servizio sociale o, al contrario ed erroneamente, credendo di saperne più degli stessi professionisti. Inoltre, quando si lavora per conto di un’istituzione pubblica, il rischio di chiudere in “deficit” la pratica oggetto di appalto, almeno in termini finanziari, si fa molto concreta. Infatti, se da un lato il professionista è costretto a sborsare denaro proprio per affrontare le spese in tempi brevi, dall’altro capita spesso che la struttura committente diventi “morosa”, elargendo all’Assistente Sociale la somma pattuita dopo parecchio tempo. Da questa disamina, perciò, si comprende come ci siano dei pro e dei contro, sia che si svolga un lavoro in forma dipendente sia che ci si dedichi alla libera professione. Saranno anche le propensioni e le caratteristiche personali a far sì che la persona si dedichi alla forma e al campo lavorativo più confacente alla propria personalità. Sicuramente, l’esperienza della libera professione, in qualsiasi settore essa sia intrapresa, accrescerà il bagaglio di conoscenze del professionista perché lo porterà a confrontarsi con una varietà molto estesa di casi da affrontare e lo terrà sempre in movimento 91 per cercare di imparare il più possibile e aggiornare le sue attività in base alle caratteristiche del mercato. Quindi, il soggetto sarà arricchito da conoscenze e competenze acquisite nello svolgimento pratico, dalle opportunità lavorative, dall’interazione con gli utenti, con altri Assistenti Sociali o altri professionisti. 92 VI. DIECI DOMANDE AGLI ASSISTENTI SOCIALI LIBERI PROFESSIONISTI Per dare maggiore pregnanza e scientificità al lavoro, in questa sezione si riporta il contributo prezioso fornito da quattro Assistenti Sociali i quali esercitano la libera professione, che hanno risposto a dieci domande. VI.I Dottoressa Desirè Longo Laureata in servizio sociale e specializzata in “Programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali” alla Lumsa di Roma; prima di intraprendere il percorso come formatrice, la dottoressa Longo ha seguito uno stage come volontaria presso la Scuola di Roma di Fundraising per il no-profit; attualmente lavora anche come 93 assistente educativo con ragazzi disabili per la Cooperativa Cassiavass di Roma ed è presidente dell'associazione “Nuovi Apprendimenti”, nonché collaboratrice per il Portale S.O.S servizi sociali on line. 1. Da quanti anni svolge la libera professione, com’è nata l’idea e come ha cominciato? Ho intrapreso questa strada, essendo una giovane assistente sociale, da quasi due anni cominciando con l’approfondire e il frequentare liberi professionisti, gruppi di studio e corsi di formazione che cominciarono a pormi in una posizione professionale diversa da quella che mi era stata impartita all’università. Diventai socia di un’associazione di volontariato (Nuovi Apprendimenti) che si occupava e si occupa tutt’ora sia di programmazione di eventi formativi sia di realizzazione di progettualità diverse ed innovative che mi vide partecipe su più fronti. Da poco sono diventata Presidente di questa associazione e sto continuando a portare avanti, insieme agli altri soci, l’importante mission che abbiamo deciso di sposare e che ha come obiettivo ultimo la creazione di reti professionali e formative capaci di fronteggiare i nuovi fabbisogni sociali. 2. Perché ha scelto la libera professione? Ho scelto di intraprendere questa strada alla luce dei cambiamenti che il nostro sistema di Welfare ha mostrato oramai da circa un decennio e alla luce della ricaduta negativa verificatasi sulla società e 94 soprattutto sui cittadini per la sempre maggiore carenza di risorse nel servizio pubblico; non solo, la libera professione permette di diventare anelli attivi di una catena dinamica e flessibile che cerca di cooperare con il privato sociale ma anche con il servizio pubblico in un’ottica di multidimensionalità sociale e progettuale. Offrire nuovi servizi e risorse più efficaci ed efficienti contribuisce al miglioramento e alla tutela di quelli che sono i diritti fondamentali delle Persone. 3. Qual è il campo d’intervento maggioritario del suo lavoro e qual è la tipologia di utenza più frequente? Al momento sono operativa come libero professionista sia nell’area formativa sia nello sviluppo dei progetti che riguardano i bambini con Bisogni Educativi Speciali. In quest’ultimo caso l’assistente sociale si pone come canale di comunicazione tra le esigenze della famiglia, quelle della scuola e le lunghe attese del servizio pubblico, fronteggiando quindi un’esigenza sempre più impellente e che richiede percorsi d’intervento specifici e personalizzati per evitare che nascano sensi di frustrazione o insuccesso scolastico sia nei bambini che nelle loro famiglie con riscontri poi negativi nelle dinamiche col gruppo classe e corpo docenti. L’area formativa invece funge da nuovo stimolo per la comunità professionale nell’acquisizione di strumenti e risorse innovative in un’ottica fondamentale di lavoro di rete e di elaborazione di nuove idee progettuali che possano trovare realizzazione in un tessuto socioterritoriale ormai sempre più frammentato 95 ed eterogeneo. Importante è quindi mantenere ben salda la propria identità professionale e la predisposizione a voler condividere piani operativi e d’intervento che meglio potranno fronteggiare le esigenze sociali emergenti. 4. Cosa spinge un utente a scegliere e pagare un servizio privato, piuttosto che rivolgersi gratuitamente a strutture pubbliche? Ciò che spinge l’utente a rivolgersi ad una struttura privata anziché gratuitamente al servizio pubblico è, innanzitutto, il disincanto totale nei confronti di una PA sempre più scadente e che non tutela il cittadino, considerato una “cartella o pratica sociale” da sovrapporre a tutte le altre e da poter eventualmente sostenere, laddove, ci siano le risorse necessarie messe a disposizione del servizio. Rivolgersi ad un servizio privato vuol dire ricevere maggiore attenzione e tutela da parte del professionista che abbiamo di fronte e in cui riponiamo fiducia; vuol dire essere accolti in un “setting” sicuramente più curato e adeguato e che mira a garantire il rispetto della privacy del cittadino; vuol dire avere la possibilità di poter esprimere con maggior serenità quelli che sono i disagi da fronteggiare e per cui dover trovare le soluzioni più conformi al problema oggetto dell’intervento sociale; vuol dire essere sostenuti ed accompagnati per tutto il processo d’aiuto. Il servizio privato garantisce uno standard qualitativo, quindi, sicuramente più elevato rispetto ad un normale servizio pubblico a cui affluisce quotidianamente, oramai, un ingente numero di cittadini che stenta a trovare o non trova proprio né la 96 giusta accoglienza né le risposte che cerca. 5. Qual è la differenza fra lavorare come Assistente sociale nel settore pubblico e nel privato? L’Assistente sociale che lavora nel settore pubblico sicuramente si muove in una cornice organizzativa molto più rigida e quindi poco flessibile ai cambiamenti emergenti. Esposto alle varie e continue richieste di aiuto e non avendo a disposizione del proprio servizio le giuste risorse, rimane ancorato ad un sistema “malato” e carente su più fronti generando, quindi, il malcontento generale di tutti quei cittadini che si sentono totalmente “abbandonati a sé stessi” e ai loro problemi. Un assistente sociale che lavora come libero professionista, invece, non essendo ancorato a determinate modalità di organizzazioni lavorative riesce a muoversi tra le reti professionali con molta più facilità intercettando anche soluzioni alternative al fronteggiamento del problema. Riesce a comunicare con il privato sociale e il Terzo Settore o con tutte le altre organizzazioni preposte al benessere del cittadino. E’ un professionista, quindi, a 360 gradi che riesce a muoversi all’interno di più “aree” sociali e mantenendo sempre ben impresso il suo obiettivo ultimo: il ben-essere del cliente. 6. Quali sono, a suo parere, i pregi e i difetti nello svolgere in maniera autonoma la professione? L’Assistente Sociale libero professionista costruisce connessioni, ristruttura significati, individua strategie d’azione e opera secondo uno 97 stile relazionale orientato alla reciprocità e alla capacità di inserirsi nei processi in corso. Ciò impone una competenza integrata nella lettura del problema e un’incisiva capacità di promozione della partecipazione della società civile e di implementazione della reticolazione solidale, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e dei diritti di cittadinanza. Intraprendere questa professione privatamente implica un grande impegno, in termini di tempo ed energie, professionali ma anche personali. La formazione deve essere costante, per essere sempre più in grado di offrire alla persona opzioni diverse e basate sui propri bisogni. Inoltre è fondamentale un certo investimento economico, perché essere seguiti da consulenti nell’ambito del posizionamento di mercato e della comunicazione aiuta a rendersi visibili. È necessario anche un investimento di tempo: ad esempio sui Social Network e sull’aggiornamento del sito per promuoversi. Queste attività richiedono una motivazione molto alta, perché i risultati non sono immediati e spesso la frustrazione mette a dura prova. 7. Si può considerare la libera professione una nuova frontiera del lavoro sociale? Superando lo stereotipo della figura dell’assistente sociale come mero “burocrate” del servizio pubblico e come mera figura pubblica assistenzialistica, certo che potrebbe essere la libera professione una nuova frontiera del lavoro sociale ma c’è ancora molta strada da fare. Ci sono tanti esempi validi di liberi professionisti che hanno creduto e credono nel loro progetto e che cercano di dare testimonianza di 98 quanto il coraggio, la tenacia, la motivazione e l’entusiasmo debbano essere le pietre miliari affinché si proceda verso questa nuova ottica di lavoro sociale. 8. Secondo lei, un incremento della libera professione potrebbe influire positivamente a livello di immagine, conferendo maggiore riconoscimento professionale alla figura dell’Assistente Sociale? Sicuramente porre le basi e credere nella libera professione è una grande sfida che accolta, “combattuta” e tutelata in tutti i suoi aspetti potrebbe portare ad un riconoscimento professionale importante e anche più visibile al cittadino che, al momento, ancora non riesce a collocare la nostra professione ma soprattutto competenze e mansioni che svolge un assistente sociale. Quindi importante è innanzitutto che noi, come comunità professionale, facciamo in modo di informare e diffondere la nostra identità, la nostra mission, le motivazioni che devono spingere il cittadino a cercare o richiedere il nostro aiuto altrimenti rimarremo sempre ancorati nella mera cornice pubblica e con la visione “distorta” di una professione che altro non fa che firmare moduli o autorizzare pratiche. Le ultime due domande volutamente le ho lasciate in bianco perché ritengo che, essendo giovane, non potrei dare una lettura ampia e completa alla luce di una esperienza robusta che invece un assistente sociale con una certa età potrebbe dare e suggerire. 99 VI.II Dottoressa Francesca Pirilli Laureata, dapprima, in Scienze dell'Educazione; la dottoressa Pirilli ha successivamente conseguito la laurea triennale in Servizio Sociale. Attualmente sta frequentando il secondo anno della Scuola Biennale in Counsellig Sistemico Relazionale. 1. Da quanti anni svolge la libera professione, com’è nata l’idea e come ha cominciato? Ho iniziato a lavorare come libera professionista nel campo della formazione circa 4 anni fa collaborando presso l’Associazione di Promozione Sociale (Aiasf) di cui oggi sono Vice Presidente. All’inizio mi sono occupata della segreteria organizzativa e successivamente, dopo aver partecipato a corsi di formazione inerenti la gestione d’aula e un lungo training (che è stato utile per capire ciò che veramente volevo e potevo fare) ho iniziato a sperimentarmi nel campo dapprima come co-docente e poi come formatrice. Il percorso è stato lungo e talvolta difficile ma ciò che mi ha spinto (e che mi spinge tutt’ora) è stata la grande motivazione nel fare formazione accompagnata anche da tanta 100 curiosità e umiltà. 2. Perché ha scelto la libera professione? Perché la libera professione è molto vicino alle mie caratteristiche personali ed è sempre stato un mio sogno. Permette una maggiore autonomia, autodeterminazione, creatività e capacità di problem solving e non bisogna dimenticare che - a differenza di un lavoro a tempo indeterminato - può avere più rischi a livello lavorativo ed economico. 3. Qual è il campo d’intervento maggioritario del suo lavoro e qual è la tipologia di utenza più frequente? Mi occupo di formazione sia rivolta ad assistenti sociali che trasversale ovvero destinata ad altre figure che lavorano nel sociale (educatori, psicologi, operatori, ecc) nonché a studenti universitari e neo laureati residenti o domiciliati nel Lazio (dove lavoro e risiedo) oppure provenienti da altre Regioni. Tenendo conto dei vari bisogni formativi e delle richieste che giungono presso la segreteria dell’Associazione, sto iniziando anche ad organizzare corsi fuori Regione preferendo sempre la formula week end al fine di permettere ai colleghi lavoratori di poter partecipare ai vari corsi di formazione. 4. Cosa spinge un utente a scegliere e pagare un servizio privato, piuttosto che rivolgersi gratuitamente a strutture pubbliche? Sicuramente la conoscenza dell’Ente che offre il servizio e la qualità dello stesso anche in termini di rapporto qualità/prezzo. 5. Qual è la differenza fra 101 lavorare come Assistente sociale nel settore pubblico e nel privato? Sicuramente nel pubblico impiego vi è una maggiore tutela economica e contrattuale che non sempre è presente nel lavoro privato dove è più facile trovare precarietà e turn over. Quali sono, a suo parere, i pregi e i difetti nello svolgere in maniera autonoma la professione? Partiamo dai pregi: sicuramente la soddisfazione di essere l’artefice del proprio lavoro, svolgerlo in maniera indipendente e creativa con la chiara consapevolezza di essere “al passo con i tempi” e di avere la capacità di rispondere ai bisogni e richieste della Comunità. Rispetto ai difetti vi è la mancanza di una sicurezza contrattuale che un lavoro dipendente può offrire. 6. Si può considerare la libera professione una nuova frontiera del lavoro sociale? Sicuramente si ma se organizzata in maniera chiara e consapevole ovvero avere obiettivi ben chiari e i mezzi (economici, di tempo e di risorse umane) per raggiungerli. 7. Secondo lei, un incremento della libera professione potrebbe influire positivamente a livello di immagine, conferendo maggiore riconoscimento professionale alla figura dell’Assistente Sociale? Dipende da quello che intendiamo come libera professione e come vogliamo organizzarla ovvero che tipo di servizi erogare. Se manca tale consapevolezza si rischia, a mio 102 avviso, di lavorare senza un ideale e senza una chiara progettazione che rischierebbe di creare confusione fra i colleghi e una cattiva immagine della professione di assistente sociale. 8. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri della professione? Credo che lo sviluppo della nostra professione dipenda da ciò che veramente vogliamo e crediamo. Dal mio canto mi auguro che si abbandoni definitivamente l’abito dell’assistenzialismo e si ponga come una professione volta al cambiamento, alla progettazione ed erogazione di servizi destinati al singolo, ai gruppi e comunità attraverso forme di collaborazione mediante, ad esempio, Studi Associati, Associazioni o altre personalità giuridiche usando tecniche specifiche di rilevazione del bisogno e criteri di soddisfazione dello stesso (customer satisfaction). 9. Cosa suggerisce ai giovani Assistenti Sociali? Di partire dal “chi siamo”, “da dove partiamo” e “dove vogliamo arrivare” con la speranza che siano le linee guida per rendere concreti i propri sogni attraverso l’impegno, la costanza e determinazione, sapendo anche accettare tante “porte sbattute in faccia” come esperienze che aiutano a crescere, evitando di perdere l’entusiasmo e di pensare che “tutto sia dovuto” ma di affrontare ogni giorno con estrema umiltà, pazienza e con la voglia di attivare delle collaborazioni fra colleghi consapevoli che la strada sarà lunga e a volte in salita ma che, step by step, si riusciranno a trovare finalmente soddisfazioni personali 103 e professionali. VI.III Dottoressa Marta Ienzi Assistente Sociale Specialista, laureata nel 2013 in “Programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali” presso la Lumsa, sezione Santa Silvia di Palermo, la dottoressa Ienzi ha adesso intrapreso un percorso accademico in Psicologia per ampliare ulteriormente la propria visione. È, inoltre, presidente della cooperativa ConCrea. 1. Da quanti anni svolge la libera professione, com’è nata l’idea e come ha cominciato? La mia esperienza libero professionale nasce nel maggio 2014 con la fondazione della cooperativa sociale ConCrea avviata insieme a due colleghe Assistenti Sociali specialiste e con la preziosa collaborazione di una psicoterapeuta, giudice onorario al Tribunale per i Minori. L’ottica è quella di rivalutare la crisi del welfare in un momento in cui la frammentazione e lo scarso coordinamento dei servizi è ormai un dato di fatto, una realtà che si palesa ai nostri occhi e che, però, ci impone di ripensare il nostro agire professionale in un’ottica di rete ma soprattutto di messa a sistema 104 delle risorse pubbliche, ma soprattutto di nuove risorse private. La cooperativa sociale ConCrea e, quindi, la mia esperienza di libero professionista nasce proprio dalla mission di ripensare l’offerta dei servizi in termini di apertura al territorio, di dinamicità e di flessibilità che, spesso, il settore pubblico fatica a attuare. Consapevoli di una realtà frammentata, un gruppo di giovani Assistenti Sociali Specialiste decide di esplorare le reti territoriali e, dopo aver compreso l’analisi di contesto, abbiamo pensato a qualche servizio innovativo da poter implementare nella nostra città e nella nostra Regione, iscrivendo una storia nuova nell’attuale sistema di welfare. Siamo passate, quindi, da esploratrici a mobilitatrici delle reti territoriali, pensando di sviluppare una strutturata iniziativa di libera professione, creando un’impresa sociale di comunità. 2. Perché ha scelto la libera professione? Inutile essere ipocriti e dire che è stata una scelta immediata dovuta a una vocazione professionale da freelance, questo forse lo si matura in un secondo momento. Inizialmente ho scelto la libera professione perché mi sono resa conto che non ci sono altri spazi lavorativi o comunque sono complicati da raggiungere. Di conseguenza con due lauree e un’immensa motivazione, ho deciso di metterle a frutto. Ideata un’impresa sociale di comunità, ho riscoperto successivamente il motivo della mia scelta. La libera professione, non è solo risposta a una crisi di welfare al fatto che i concorsi pubblici tardano a dare a noi giovani delle 105 possibilità di intraprendere un percorso più sicuro, ma diventa fattore di innovazione e riconoscimento maggiore della professione, facendo rivalutare all’esterno l’immagine dell’Assistente Sociale quale operatore esperto dell’aiuto che esplora e mobilita le reti, che mette a sistema le risorse dell’utente, garantendo percorsi di risposta individualizzati e al contempo gruppali che attenzionano i diversi livelli di bisogni delle persone. Questo si può fare con la libera professione. 3. Qual è il campo d’intervento maggioritario del suo lavoro e qual è la tipologia di utenza più frequente? La mia attività libero professione si esplica nell’ambito dello studio professionale associato Go.Pro, costituito dalla cooperativa ConCrea da circa sei mesi. Lo studio è costituito da un team multidisciplinare, composto da Assistenti Sociali Specialiste, mediatrici familiari, avvocato, psicologi clinici e psicoterapeuti, con l’obiettivo di perseguire percorsi alternativi di risposta ai bisogni complessi attraverso un approccio multidisciplinare integrato e integrativo, attenzionando più fasce d’utenza. Nello specifico lo studio accoglie un’utenza molto diversificata, affrontandone cause di svantaggio, di disorientamento, di disagio emotivo ed offrendo loro pacchetti di servizi personalizzati: offriamo doposcuola per bambini con Bisogni Educativi Speciali, laboratori di arte-terapia, di logopedia, di musicoterapia, di cucina e, più in generale, di autonomia sociale per ragazzi con disabilità intellettiva o fisica. Inoltre, garantiamo consulenze per lo start up di imprese sociali, 106 consulenze multiprofessionali a seconda dei casi di svantaggio, gruppi di sostegno per i familiari in difficoltà socio-educativa, assistenza domiciliare di primo livello per persone parzialmente autosufficienti. Infine, il settore della formazione che contestualmente e trasversalmente riveste un’importanza notevole. 4. Cosa spinge un utente a scegliere e pagare un servizio privato, piuttosto che rivolgersi gratuitamente a strutture pubbliche? L’utente potrebbe preferire un servizio privato al pubblico, poiché evita disservizi, disinformazione, disorientamento, a vantaggio della qualità intesa come tempestività, efficacia, efficienza, nonché accompagnamento e perché i servizi pubblici tendono più ad offrire pacchetti standardizzati di prestazioni poco individualizzate e poco pensate con gli utenti. 5. Qual è la differenza fra lavorare come Assistente sociale nel settore pubblico e nel privato? Nel settore pubblico, si tende più a lavorare sugli utenti che per e con gli utenti: questa è la chiave di volta della libera professione, che progetta con gli utenti, facendo sì che essi siano protagonisti attivi del loro cambiamento. Quindi, si sceglie un servizio privato perché ha maggiore qualità e perché è co-costruito con l’utente, evitando la standardizzazione e la passivizzazione tipica del settore pubblico. 6. Quali sono, a suo parere, i pregi e i difetti nello svolgere in maniera autonoma la professione? I pro e i contro lavorando nel 107 privato. L’Assistente Sociale che lavora nel pubblico ha una maggiore garanzia, una maggiore stabilità sotto il punto di vista economico, ma al contempo si presta a fenomeni di bournot, mobbing, autoreferenzialità dell’agire professionale, subisce la standardizzazione dei servizi, il blocco dei fondi, l’impossibilità di ripensare i servizi in termini alternativi, il sottostare a dei criteri e a delle legislazioni imposte dalla pianificazione strategica dell’azienda presso cui opera. Ha, dunque, in determinati casi, mente e mani legati, a svantaggio della sua professionalità, dei suoi saperi, delle sue competenze e, soprattutto, del benessere dell’utente, vivendo una sensazione di frustrazione e impotenza che viene gestita in maniera diversa a livello privato. Un professionista a livello privato è chiamato a non fermarsi mai, deve valutare continuamente e vagliare il mercato, i servizi, i nuovi soggetti erogatori, i bisogni come cambiano, deve progettare e programmare in itinere e prevedere delle modifiche al suo agire professionale, cercando di essere al passo con i tempi e di proporre servizi diversificati e innovativi. Quindi, una maggiore insicurezza e una maggiore instabilità rispetto al pubblico, però ripagati dalla possibilità di essere protagonisti reali ed effettivi del proprio agire professionale. 7. Si può considerare la libera professione una nuova frontiera del lavoro sociale? La libera professione è la nuova frontiera del lavoro sociale, per le motivazioni suddette e per il fatto che il servizio pubblico non risponde più ai bisogni delle persone o non 108 in maniera esaustiva. Noi ci confrontiamo con dei bisogni inesauribili che premono per essere soddisfatti, quindi è sicuramente la nuova frontiera del lavoro sociale. È la nuova frontiera perché va a rivalutare il riconoscimento della professione e perché garantisce spazi di azione, nuovi e creativi in risposta ai bisogni multidimensionali non sempre attenzionati in tutte le sfaccettature. 8. Secondo lei, un incremento della libera professione potrebbe influire positivamente a livello di immagine, conferendo maggiore riconoscimento professionale alla figura dell’Assistente Sociale? Assolutamente sì. La libera professione diventa un fattore facilitante della riscoperta a livello d’immagine dell’Assistente Sociale conferendo un maggiore riconoscimento professionale e, soprattutto, un diversificato riconoscimento professionale. Quindi, dapprima farci riconoscere e poi farci riconoscere per quello che siamo realmente. Sarebbe però bello e opportuno che nascano altre iniziative private. La libera professione deve diventare motivo di svecchiamento della professione, per questo si può influire positivamente a livello d’immagine. Deve essere il professionista stesso a re-immaginarsi, a pensare che si può essere differenti da come abbiamo studiato sui libri universitari, quindi svecchiamento della figura professionale dell’Assistente Sociale verso una nuova frontiera, quella della libera professione, dell’essere policy maker, imprenditori di se stessi e del sociale. 109 9. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri della professione? Potrebbero essere quelli della libera professione, del creare numerosi studi privati di Assistenti sociali, che diramati sul territorio attenzionino i diversi bisogni diffusi. Abbiamo otto circoscrizioni, perché no il pubblico mettersi in partenariato e lavorare con il privato? Perché non affiancare all’esperienza delle otto circoscrizioni, oberate di lavoro, anche i casi di tipo privato? Quindi, gli possibili sviluppi della professione possono essere creare un numero maggiore di imprese sociali di comunità che agiscono a livello privato, offrendo servizi alternativi, affiancando anche l’esperienza pubblica. Ciò richiederebbe un lavoro di concertazione a più livelli fra pubblico e privato: il pubblico deve aprirsi alle logiche del privato e il privato cedere a qualche compromesso. 10. Cosa suggerisce ai giovani Assistenti Sociali? Suggerirei di non avere paura, o meglio, di avere paura e sfruttarla in termini positivi, canalizzandola verso scelte opportune e alternative del lavoro sociale. I giovani Assistenti Sociali non devono farsi abbattere dalla crisi del welfare, ma pensarla come un’opportunità per loro stessi: è vero che non c’è lavoro, createlo, inventalo. Quindi, suggerisco ai giovani di creare, di inventare, di sfruttare al meglio le competenze dell’Assistente Sociale e parlo delle competenze trasversali, del saper essere, del saper fare, del divenire. E nel divenire c’è sicuramente la libera professione. 110 VI.IV Dottor Giacomo Sansica Il dottor Giacomo Sansica è un Assistente Sociale iscritto all’Ordine degli Assistenti Sociali Sicilia Sezione A; laureato presso l’Università degli Studi di Palermo in Servizio Sociale nel 2007 e Specializzato presso l’Alma Mater Studiorum (Università di Bologna) in Responsabile nella Progettazione e Coordinamento dei Servizi Sociali. La formazione viene arricchita da vari corsi formativi e master universitari, tra cui corso in criminologia per le professioni di aiuto; master in mediazione interculturale e gestione delle emergenze umanitarie. Esperto in percorsi di emancipazione da dipendenze, lavora a Trapani come libero professionista, occupandosi dei bisogni familiari: anziani, minori, adulti, disabili. Inoltre, collabora a diversi progetti di formazione. Oltre all’intervista, viene riportato per intero l’articolo “Il lavoro rende liberi” in cui lo stesso dottor Sansica, all’interno del suo sito internet www.studiosociale.altervista.org, racconta in maniera dettagliata l’approccio alla libera professione. All’interno del sito web, inoltre, il professionista rende noto il suo curriculum vitae, descrive il suo operato nel corso degli anni, i campi d’intervento del suo lavoro, i progetti in corso e futuri. 111 1. Da quanti anni svolge la libera professione, com’è nata l’idea e come ha cominciato? Svolgo la professione da Libero Professionista da ottobre ’13. L’idea imprenditoriale mi è sempre piaciuta. Soprattutto creare ed offrire servizi per la cittadinanza. “Inizia tutto nel 2013, anno particolare per me; dovevo sposarmi ma un mese prima delle nozze persi il lavoro e insieme ad esso, forza e speranza. In quel momento i 12 anni di fidanzamento vissuti già con la mia donna, sembravano destinati a crescere ancora di più. Mi sentivo senza forze e forse non tanto per il lavoro ma perché pensavo che non avrei potuto coronare un sogno d’amore quale il matrimonio. Cosi arrivò una forte depressione, ne fui travolto tanto da rompere tutti i rapporti con le persone a me care e non. Mi vergognavo, ero un fallito! Non riuscivo a pensare altro che questo. Lei, lo aveva sempre fatto… aveva sempre creduto in me e cercato di spronarmi nei momenti difficili. Non fece eccezione neppure quella volta…: “ Tu sei nato per fare questo lavoro, sei determinato, caparbio e capace” mi disse, “riporta in superficie queste qualità, trovane la forza e rialzati”. Quelle parole, mi tormentavano durante le notti, iniziai a riflettere. Cosa fare? Come muovermi? E nel frattempo lei…Luana muoveva altre strade: cercava spazi ad uso ufficio tra i giornali 112 d’annunci vai, internet, etc… così. Una mattina di settembre mi chiese di accompagnarla a vedere un ufficio per lei. Arrivati sul posto, disse: questo è il tuo ufficio, qui inizierai la tua attività come libero professionista”. Io ero sconvolto, impaurito, perplesso: stai fuori” dicevo, “chi deve venire da me!” Ma lei ribatteva senza timore: “Tu ce la farai! Sali su questa barca e portami all’altare”! Mentre il tempo passava e con esso la mia depressione sembrava giungere ad un nodo cruciale: continuare a vivere da morto o vivere pienamente? Fu come un miracolo, ho ritrovato la voglia di fare. Iniziai subito a fare un bilancio delle mie competenze professionali, iniziai a misurare la mia professionalità, cominciai a studiare e capire cosa e come potesse lavorare un assistente sociale da libero professionista. Qual erano i servizi che potevo offrire, come lavorare in rete? Cercavo di documentarmi sulla libera professione, ma non conoscevo nulla, solo qualche libro universitario che affermava “L’assistente sociale può operare da dipendente sia nella pubblica amministrazione che nel terzo settore, e può operare da libero professionista. Mi documentai su come aprire la partita iva, iniziai a realizzare brochure, locandine, biglietti da visita e fare pubblicità in giro per la città, così il 7 ottobre 2013 ho preso postazione nel mio ufficio. Due giorni dopo mi chiamò una signora chiedendomi di aiutare il figlio con disturbi dell’apprendimento la mia risposta è stata positiva . E così iniziai a lavorare con questo minore dal 10 ottobre 2015, riuscendo a pagare la mensilità dell’ufficio. Quel primo intervento mi diede coraggio. Di lì iniziarono le prime chiamate per delle consulenze di 113 sostegno e di supporto: - un ragazzo che necessitava di un supporto dopo essersi lasciato con la fidanzata; - una famiglia mi contatta per aiutare la figlia nelle relazioni familiari e sociali; - una coppia di fidanzati mi contatta per supportarli favorendo il dialogo di coppia; - una coppia di genitori mi contatta per supporto tra genitori e figli; - altra madre mi contatta per chiedermi sostegno per il figlio, che sta prendendo “brutte strade”. Altro caso divertente è stato quello di un giovane di 22 anni che lavorava presso un’agenzia assicurativa. Presentatosi allo studio, mi voleva vendere la polizza vita, e sapete come è finita? Non ho fatto la polizza, ma ho preso in carico il ragazzo. Queste consulenze mi hanno permesso di acquisire maggiore sicurezza e andare avanti fino a quando a gennaio 2014 chiesi alla mia ragazza di riprendere ciò che avevamo lasciato e così il 3 maggio del 2014 ci siamo sposati grazie al lavoro libero professionista. Da lì non mi sono mai fermato la mattina giravo per la città, andando nelle scuole, negli enti istituzionali, per capire quali fossero i bisogni e dare delle risposte attraverso progetti, ad esempio presentai “STAR BENE A SCUOLA” per promuovere la figura dell’assistente sociale. Nel mese di marzo del 2014 al comune di Erice presentai il progetto: “STUDIARE GIOCANDO” rivolto ai bambini con disturbi specifici di apprendimento e non. Il progetto è stato presentato dopo aver tenuto insieme al Dottor. Panizzi Furio il corso Tutor DSA a Trapani nel mese di Febbraio. Grazie a questo 114 progetto, finanziato dal comune hanno lavorato sei operatori per 12 minori segnalatami dai servizi sociale del comune. Dopo l’esito positivo il progetto viene riaffermato per l’anno scolastico 2014/2015 con il titolo “Imparare… Studiando&Giocando” che attualmente sta vedendo impegnati 30 operatori che lavorano sia a domicilio che a scuola per il supporto didattico educativo per ben 45 minori segnalatami dai sempre dai servizi sociali. Quest’anno ho presentato altri progetti nelle scuole, “I HAVE A DREAM”, sulla legalità e sulle norme costituzionali; “A SOSTEGNO PER TE… FUORI CLASSE”, riguardante la dispersione scolastica e i problemi adolescenziali. Durante questo anno, ho avviato a Trapani, l’Associazione di Promozione Sociale “Professione Assistente Sociale” con finalità e obiettivi rivolti all’emarginazione sociale e ad una cittadinanza attiva. Molti Assistenti Sociali anche fuori regione Sicilia sono soci e insieme lavoriamo in rete. La potenzialità del lavoro di rete mi ha permesso di tenere ed organizzare vari corsi di formazione, quali: Libera professione, L’assistente sociale formatore, Fare cose con le parole”, Tutor DSA, Tutor BES, L’amministratore di sostegno. Molti di questi sono stati patrocinati e accreditati. Concludo dicendo che io ci sono riuscito, dunque niente è impossibile. Occorre crederci prima di tutto e in particolar modo impegnarsi attivamente nella 115 promozione. Bisogna prima tirarsi fuori da dietro una scrivania se si vuole trovare posto dietro ad essa”.34 2. Perché ha scelto la libera professione? La difficoltà e la crisi lavorativa sicuramente ha potenziato in me l’idea di scegliere qualcosa alternativo per la nostra comunità. 3. Qual è il campo d’intervento maggioritario del suo lavoro e qual è la tipologia di utenza più frequente? Consulenze e sostegno individuale, supporto personale e familiare. L’utenza che si presenta presso il mio ufficio è varia… dal povero al benestante. 4. Cosa spinge un utente a scegliere e pagare un servizio privato, piuttosto che rivolgersi gratuitamente a strutture pubbliche? La qualità e la risposta tempestiva alle esigenze dell’utente. 5. Qual è la differenza fra lavorare come Assistente sociale nel settore pubblico e nel privato? Nel settore pubblico l’assistente sociale appare vincolato alla burocrazia e soprattutto alle aree di intervento. Mentre nel privato sociale l’assistente sociale opera a 360 gradi intervenendo sulle varie aree di intervento: famiglia, anziani, minori, dipendenza, immigrazione, disabilità… 34 Sansica G. “Il lavoro rende liberi” in http://www.studiosociale.altervista.org/contenuto/visualizzo.php 116 6. Quali sono, a suo parere, i pregi e i difetti nello svolgere in maniera autonoma la professione? Il pregio è sicuramente la possibilità di scegliere come lavorare, ovviamente con professionalità e seguendo sempre il nostro codice deontologico. Il difetto, essere poco riconosciuto dalle autorità giudiziali. 7. Si può considerare la libera professione una nuova frontiera del lavoro sociale? Si… sicuramente potrebbe dare migliore risposta alla cittadinanza in maniera ottimale e tempestiva…e soprattutto essere una nuova frontiera lavorativa per i giovani d’oggi ovviamente dopo una preparazione raggiunta. 8. Secondo lei, un incremento della libera professione potrebbe influire positivamente a livello di immagine, conferendo maggiore riconoscimento professionale alla figura dell’Assistente Sociale? Sicuramente. 9. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri della professione? Tanti…soprattutto offrire un servizio alternativo….anche se in collaborazione con la P.A. 10. Cosa suggerisce ai giovani Assistenti Sociali? Come disse il Santo Papa Giovanni Paolo II ai giovani “aprite…anzi spalancate le porte del vostro 117 cuore”…. Io dico “Apritevi alla Libera professione e siate un modello professionale per la nostra comunità”. 118 VII. CONCLUSIONE: PERCHÉ LA LIBERA PROFESSIONE È LA NUOVA FRONTIERA DEL LAVORO SOCIALE “Scritta in cinese la parola crisi è composta di due caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta l’opportunità”. Questa citazione di John Fitzgerald Kennedy rappresenta la prospettiva positiva che si dovrebbe creare in un momento negativo: la situazione socio-economica che si è venuta a creare negli ultimi anni e lo smantellamento dell’apparato di welfare pubblico dovrebbero fornire una spinta al soggetto, così come è avvenuto recentemente per lo sviluppo dell’esperienza di libera professione degli Assistenti Sociali. In fondo, bisogna pensare che alle fasi di recessione sono sempre seguite fasi di sviluppo e progresso. In particolare, l’Assistente Sociale ambizioso sa svincolarsi dalla visione tradizionale della professione al fine di creare e reinventare un’identità professionale stimolante, ricca e 119 sempre in evoluzione, che quindi fa presagire un futuro quanto mai innovativo e eccitante. Oggi, l’Assistente Sociale deve sapersi porre come policy maker, attore di cambiamento e promozione delle politiche sociali, che devono andare ad investire nella realtà locale. La dottoressa Ienzi, alla domanda riguardante i pregi e i difetti nello svolgere in maniera autonoma la professione, afferma che l’Assistente Sociale che opera nel pubblico ha “mente e mani legati, a svantaggio della sua professionalità, dei suoi saperi, delle sue competenze e, soprattutto, del benessere dell’utente, vivendo una sensazione di frustrazione e impotenza che viene gestita in maniera diversa a livello privato. Un professionista, a livello privato, è chiamato a non fermarsi mai, deve valutare continuamente e vagliare il mercato, i servizi, i nuovi soggetti erogatori, i bisogni come cambiano, deve progettare e programmare in itinere e prevedere delle modifiche al suo agire professionale, cercando di essere al passo con i tempi e di proporre servizi diversificati e innovativi”. Il professionista è colui il quale impiega il proprio bagaglio di conoscenze per offrire un servizio ad altri soggetti, ma, oltre a ciò, deve essere un professionista di progettualità dinamiche e non burocratizzate, sia nel settore pubblico, ma soprattutto nel privato. La libera professione può favorire questo passaggio: il lavoro sociale non si può esaurire nella mera burocrazia e nell’assistenzialismo, deve essere dinamico, con interventi 120 personalizzati e azioni modellate per ogni singola situazione. Basta dotarsi degli strumenti tipici dell’impresa, recuperando nel bagaglio identitario il lavoro e la relazione con l’utente, sapendo scovare le risorse esistenti per poter intervenire concretamente sul caso. Importantissimi aspetti sono anche quelli menzionati dalla dottoressa Longo, “il coraggio, la tenacia, la motivazione e l’entusiasmo debbono essere le pietre miliari affinché si proceda verso questa nuova ottica di lavoro sociale”. Svolgere un lavoro autonomo significa gestirlo in proprio, reggendo compiti e responsabilità senza l’intermediazione dell’organizzazione, analizzando motivazioni e attitudini personali all’imprenditorialità, senza però incedere sull’onda dell’entusiasmo, dell’emotività o della creatività eccessiva, basando, invece, il proprio operato sulle conoscenze teoriche e/o normative. Perciò, a causa della complessità e della varietà degli ambiti d’intervento degli Assistenti Sociali, possiamo affermare che liberi professionisti non si nasce, ma si diventa seguendo un percorso in cui si acquisiscono conoscenze sempre più approfondite, in cui l’ambito lavorativo può subire cambiamenti dettati dal mercato e in cui il professionista deve essere sempre pronto a mettersi in gioco e a rimodulare la sua identità professionale. In aggiunta a quanto detto, la libera professione è un’attività che può migliorare l’immagine dell’Assistente Sociale. Purtroppo, dopo molti anni, si è ancora lontani da un adeguato riconoscimento professionale, sia per la percezione che il cittadino ha della figura, sia per il ruolo che altri professionisti gli 121 attribuiscono. Forse attraverso l’esercizio della libera professione, l’Assistente Sociale potrà dimostrare di aver quel valore aggiunto, che lo farà differenziare da altre professioni e gli conferirà maggiore riconoscimento dal punto di vista professionale perché creerà una nuova immagine, dettata da un’identità più matura, ma anche dal punto di vista personale perché avrà maggiore dinamicità, motivazione, creatività, maggiore spazio per dimostrare le sue capacità e la sua rilevanza nel lavoro e nelle politiche sociali. E, perché no, anche l’aspetto economico ne risentirebbe positivamente. L’Assistente Sociale libero professionista risulta, quindi, cambiato in ordine sia allo status, che al ruolo. Questo è di fondamentale importanza per comprendere e pronosticare verso quale connotazione definitoria sta andando la professione. Saprà elevarsi puntando a una solida formazione? Gli Assistenti Sociali sapranno lottare per affermare l’importanza del loro ruolo? Sapranno portare avanti le proprie aspettative con determinazione? Le istituzioni coglieranno i benefici sociali ed economici che l’agire professionale dell’Assistente Sociale determina per l’interesse pubblico? 122 123 BIBLIOGRAFIA − Agosta S., “La professione di Assistente sociale e l’esercizio libero professionale” in Professione Assistente Sociale n. 2/2010. − Albano U., “Libera professione: yes, we can (when we want)” in Professione Assistente Sociale n. 2/2010. − Albano U., Bucci L., Esposito D. G., Servizio sociale e libera professione. Dal lavoro dipendente alle opportunità di mercato, Carrocci Editore, Roma, 2008. − Bacherini A. M., “La più bella professione del mondo” in Professione Assistente Sociale n. 2/2010. − Bini L. “Formatore, una possibile declinazione della professione” in Professione Assistente Sociale n. 2/2010. − Busellato G. “Uno sguardo sulla mediazione familiare… e dintorni” in Professione Assistente Sociale n. 2/2010. − Campanini A., L’intervento sistemico. 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