LA PUBBLICITÁ COMMERCIALE DENIGRATORIA TRA INTERVENTO PENALE E TECNICHE CIVILISTICHE ED AMMINISTRATIVISTICHE DI TUTELA Sommario: 1. Premessa. – 2 Esigenze e strumenti d’intervento penale ed extrapenale in materia di pubblicità commerciale denigratoria. – 3. In particolare: la verità dell’addebito sfavorevole nella denigrazione commerciale e nel delitto di diffamazione. – 4. L’exceptio veritatis ex art. 596 c.p. e il diritto di cronaca quali strumenti di attribuzione di rilevanza in sede penale all’interesse generale alla conoscenza delle informazioni veritiere sui prodotti ed i produttori. – 5. Limiti di operatività della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica in materia di pubblicità commerciale diffamatoria - 6. Considerazioni conclusive. 1. PREMESSA I temi connessi al celere sviluppo economico, tecnologico e scientifico, alla globalizzazione della società e alla necessità di tutela di vecchi e nuovi beni giuridici dalle nuove aggressioni connaturate alla società post-industriale del rischio1, hanno impresso un radicale mutamento di prospettiva alle riflessioni della scienza penale, che, constatata l’inefficacia degli strumenti repressivi offerti dal “buon vecchio diritto penale liberale”2 – costruito sul paradigma della tutela di beni individuali da aggressioni dannose di limpida riconducibilità eziologica3 – è stata chiamata all’elaborazione di nuove tecniche di tutela4 idonee alla protezione in via preventiva5, anche attraverso apparati normativi alternativi a quello penale, quali il diritto civile ed il diritto amministrativo6, di quei beni di dimensione superindividuale Sono i “temi della modernità” magistralmente sviluppati da Stella, Giustizia e modernità, la protezsione dell’innocente e la tutela delle vittime, II ed., Milano, 2002, pp. 3 ss.; Paliero, L’autunno del patriarca, Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici? Ridpp, 1994, pp. 1220 ss.; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, pp. 137 ss.; Silva Sànchez, La expansión del Derecho penal. Aspectos de la Política criminal en las sociedades postindustriales, Madrid, 1999, trad. it. L’espansione del diritto penale. Aspetti di politica criminale nelle società postindustriali, a cura di V. Militello, Milano, 2004, pp. 3 ss.; Delmas-Marty, Le flou du droit. Du code pénal aux droits de l’homme, Paris, 1986, trad. it. Dal codice penale ai diritti del’uomo, a cura di F.C. Palazzo, Milano, 1992, pp. 26 ss.; Hassemer, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts, ZRP, 1992, pp. 378 ss.; Prittwitz, Strafrecht und Risiko. Untersuchungen zur Krise von Strafrecht und Kriminalpolitik in der Risikogesellschaft, Frankfurt, 1993, passim; Cocco, L’uso della punibilità nella modernizzaziono del diritto penale, Cagliari, 2001, passim.; Stortoni, Angoscia tecnologica ed esorcismo penale, Ridpp, 2004, pp. 71 ss. Su temi specifici della “società del rischio”, Stella, Fallacie e anarchia metodologica in tema di causalità. La sentenza Orlando, la sentenza Loi, la sentenza Ubbiali (Cass. Sez. IV pen.), Ridpp, 2004, pp. 3 ss.; Stella, La costruzione giuridica della scienza: sicurezza e salute negli ambienti di lavoro, Ridpp, 2003, pp. 55 ss; Summerer, Le nuove frontiere della tutela penale della vita prenatale, Ridpp, 2003, pp.1245 ss.; Forti, Tutela ambientale e legalità: prospettive giuridiche e socio-culturali, Ridpp, 2003, pp. 1353 ss.; Veneziani P., Regole cautelari “proprie” ed “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003, pp. 91 ss.; pp. 141 ss.; pp. 187 ss.; Merry, McCall Smith, Errors, medicine and law, Cambridge, 2001, trad. it. L’errore, la medicina e la legge, a cura di P. Girolami, Milano, 2004, passim; Blaiotta, La causalità nella responsabilità professionale, Milano, 2004; Stella, Criminalità d’impresa: nuovi modelli d’intervento, Ridpp, 1999, pp. 1254 ss:, Stella, Scienza e norma nella pratica dell’igiene industriale, Ridpp, 1999, pp. 382 ss.; Cocco, L’atto amministrativo invalido elemento delle fattispecie penali, Cagliari, 1996, pp. 357 ss.; Kuhlen, Umweltstrafrecht – auf der Suche nach einer neuen Dogmatik, ZStW, 105 (1993), 697, ss.; Kuhlen, Der Handlungserfolg der strafbaren Gewässerverunreinigung (324 StGB), GA, 1986, pp. 389 ss.; Piergallini, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di “diritto penale del rischio”, Ridpp, 1997, pp. 1449 ss.; Curi, Nesso di causalità e infortuni sul lavoro; criteri e limiti d’individuazione, CP, 1992, pp. 1618 ss. Rilevanti aspetti dell’impatto dello sviluppo tecnologico e scientifico sul diritto penale sono stati affrontati nel Convegno scientifico internazionale di diritto penale tenutosi a Cagliari dal 22 al 24 ottobre 2004 sul tema: L’interpretazione della legge penale, il principio di legalità e il precedente giurisprudenziale (alla prova delle nuove tecnologie e di internet), e in particolare nelle relazioni di Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento alle regole di diligenza; Mazzacuva, L’interpretazione della legge penale e i nuovi reati connessi ad internet; Cocco, Le garanzie dello stato di diritto e le attività di contrasto alla pedopornografia in rete; Pecorella, Dieci anni di giurisprudenza sui reati informatici, inedite. 2 In particolare Paliero, p. 1225; S. Sànchez, pp. 101 ss. 3 Paliero, p. 1227; Stella, Giustizia e modernità, pp. 185 ss.; Silva Sànchez, pp. 84 ss.; Cocco, L’uso della punibilità, pp. 10 ss. 4 Paliero, p. 1222. 5 Paliero, p. 1228; v. anche Calisti, Il sospetto di reati, Profili costituzionali e prospettive attuali, Milano, 2003, pp. 2 ss. 6 Stella, Giustizia e modernità, pp. 385 ss.; pp. 487 ss.; Silva Sànchez, pp. 83 ss., in particolare, per la costruzione di un “Diritto penale a due velocità”, pp. 109 ss.; Delmas-Marty, pp. 198 ss. 1 1 quali l’ambiente, la salute, la sicurezza dei luoghi di lavoro, la qualità e sicurezza dei cibi e dei prodotti, la verità e trasparenza delle informazioni sul mercato, la tutela dell’investimento e del risparmio, la cui effettiva lesione può comportare esiti su vasta scala (si pensi agli effetti indelebili dell’inquinamento radioattivo ma anche alla vanificazione dei risparmi di intere collettività da parte di spregiudicati operatori economici) da un lato irreparabili attraverso la sanzione, che interviene a cose fatte; dall’altro non sempre ricollegabili, per la estrema complessità dei meccanismi causali e del loro accertamento giudiziale7, ad una responsabilità penale sul modello classico8. Pur non essendo maturata fino alla ricodificazione delle regole generali del sistema sanzionatorio9, l’elaborazione penalistica italiana ha trasformato la legislazione penale complementare10, soprattutto in materia economica, ambientale ed urbanistica, nel campo di sperimentazione di numerosi, più o meno riusciti e stabili esperimenti di tecnica normativa, rendendola il privilegiato “veicolo non solo di uno svecchiamento del sistema ma anche della recezione dei nuovi valori penali della postmodernità”11. Pur additato dalle più diverse correnti della scienza economica, “sia che difendano il laissez-faire, sia che sostengano l’intervento del governo a correzione delle disfunzioni del mercato”12 quale imprescindibile “ideale”13 etico e razionale alla base di qualsiasi forma di mercato, il tema della libera e leale concorrenza tra imprenditori, e in particolare della lealtà e veridicità delle informazioni diffuse sul mercato, è rimasto sostanzialmente tagliato fuori dal dibattito sui “temi della modernità” cui in realtà – si pensi agli esiti devastanti potenzialmente collettivi di una singola denigrazione commerciale portata contro una grande impresa14 – concettualmente appartiene, e non ha trovato una nicchia evolutiva nelle pur elastiche maglie del “lupanare penalistico”15 della legislazione complementare. L’intervento penale in materia di pubblicità denigratoria, in particolare, si presenta ancora al giurista di oggi pressochè esclusivamente incarnato nel vecchio arnese del delitto di diffamazione previsto dall’art. 595 c.p., ossia, in definitiva, nelle stesse forme, e nello stesso abito disciplinare, cucito nel contesto di un’Italia ad economia ancora prevalentemente agropastorale che fece da sfondo all’elaborazione del codice penale del 193016. Un “autentico ‘cespuglio di rovi’ dal quale sembra impossibile districarsi”, nell’ espressione di Stella, Fallacie e anarchia, p. 24. 8 Stella, Giustizia e modernità, pp. 185 ss.; Cocco, L’uso della punibilità, pp. 15 ss. Con particolare riferimento ai “Kumulationsdelikte”, Kuhlen, Umweltstrafrecht, pp. 715 s.. 9 Paliero, pp. 1221, 1223 ss. 10 Paliero, pp. 1223 ss. 11 Palazzo, Paliero, Prefazione al Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2003, IX. 12 Hausman, McPherson, Taking Ethics Seriously: Economics and Contemporary Moral Philosophy, Journal of Economic Literature, 31, 1993, trad. It. Economia, razionalità ed etica, Milano, 1994, pp. 29 ss. 13 Hausman, McPherson, p. 29. 14 Il ben maggiore livello di pericolosità per la vita economica collettiva della denigrazione commerciale di una grande impresa rispetto alla – apparentemente più destabilizzante della pace e sicurezza sociale – rapina a mano armata dei suoi uffici è ben rappresentata nell’efficace esemplificazione introduttiva di Delmanto, Delitos de concurrencia desleal, Buenos Aires, 1976, pp. 3 ss: Se produce un asalto contra cierta gran empresa industrial, y el ladrón, armado de revólver, roba cinquenta mil cruzeiros. Suenan las sirenas, los coches policiales corren, y el hecho es noticia en los periódicos y radios. Preso el autor del robo, aunque no haya causado la menor herida a persona alguna – tan sólo esa pérdida de dinero a la empresa – sufrirá una pena de reclusión que oscilará entre un minimo de cuatro años y un máximo de diez. Sin embargo, es probable que, al día siguiente, esa misma empresa llegue a ser víctima de otro tipo de delito que le causará un perjuitio significativamente más importante. Nos referimos al hecho de que una competidora divulgue que los automóviles que ella fabrica tienen defectos graves de construcción o que serían retirados de las líneas de montaje con motivo del lanzamiento de un modelo más moderno. Si se trata de una fábrica de alimentos y no de vehículos, el competidor deshonesto hará correr el falso rumor de que un niño murió después de haber ingerido el chocolate que ella produce. La empresa sufrirá, en estos casos, un perjuicio centenares de veces superior al del robo; suas automóviles quedarán abandonadas en las playas o depósitos durante meses, sin compradores, aunque ella intente desmentir la noticia; los padres no adquirirán los chocolates y se los prohibirán a sus hijos por mucho tiempo. Mientras tanto, la competidora que propaló el falso rumor conseguirá el lucro correspondiente . muchas veces mayor que el del asalto – dado que el público consumidor, dejando de solicitar automóviles o los dulces de aquella empresa, adquirirá, en buena parte, los productos del rival dehonesto…..No puede argumentarse que en la hipótesis del primer delito, aunque sin ‘víctimas’, se origina un alarma o repercusión social. Ésta puede darse también en el segundo caso, y de forma real, ya que no hay seguro que cubra los daños, y la paralización de la producción por falta de ventas puede motivar el despido de centenares de operarios. 15 Palazzo, Paliero, IX. 16 Una ricostruzione storico -giuridica dell’evoluzione industriale nel percorso dal Codice di commercio al Codice civile è offerta da Sidoti, Le società dall’Unità d’Italia al Codice civile del 1942, in Riv. Scuola Superiore Economia e Finanze, n. 10, ottobre 2004. Per un quadro di sintesi del complessivo apparato penale chiamato in gioco dalle diverse ipotesi di concorrenza sleale 7 2 Il presente lavoro si prefigge, focalizzate le attuali esigenze e strumenti d’intervento penale ed extrapenale in materia di pubblicità commerciale denigratoria, di approfondire la preminente funzione di tutela ancor oggi ricoperta – sia per l’ampiezza della sua area di applicabilità, sia per la perdurante carenza di più specifici strumenti di tutela giudiziale – dal delitto di diffamazione, con particolare riferimento alla centrale problematica degli effetti giuridici della verità dell’addebito denigratorio attribuito all’impresa e ai prodotti del concorrente, che costituisce il più rilevante campo di prova dei rapporti tra la disciplina penalistica ex artt. 595, 596 c.p. e la disciplina extrapenale, ancora incarnata dall’illecito civile previsto dal n. 2 dell’art. 2598, comma 1, c.c. 2. ESIGENZE E STRUMENTI D’INTERVENTO PENALE ED EXTRAPENALE IN MATERIA DI PUBBLICITÀ COMMERCIALE DENIGRATORIA La delineata assenza di un’evoluzione degli strumenti d’intervento penale sulla pubblicità denigratoria non può in sè denunciarsi come un vuoto di tutela, senza verificare se questa possa ritenersi adeguatamente perseguita attraverso strumenti sanzionatori civilistici o modelli di controllo amministrativistico sul settore d’attività in esame: alla stregua dei princìpi cardine del nostro sistema penale, e in special modo del principio di frammentarietà17, un “problema della repressione penale della concorrenza sleale” non ha in sé ragion d’essere: deve, all’opposto, affermarsi la piena legittimità de iure condito, e la serena prospettabilità, di per sé, de iure condendo, di un sistema penale che non contempli affatto al suo interno né un apparato repressivo organico della concorrenza sleale – ed in particolare, per quel che qui rileva, della concorrenza denigratoria – né norme penali poste a tutela di singole ipotesi d’illecito concorrenziale, affidando così la regolazione della materia esclusivamente a strumenti civilistici ed amministrativistici: come osservato, in merito allo specifico problema, da autorevole dottrina, “è da escludere che esista un principio di illiceità penale di tutti gli atti di concorrenza sleale, ben potendo sussistere comportamenti civilmente illeciti e penalmente indifferenti”18. Né impone il ricorso allo strumento della tutela penale il rilievo costituzionale dei beni giuridici in gioco. È pur vero che la libertà dell’iniziativa economica – che si pone non solo nei confronti della potestà pubblica, ma anche delle attività dei concorrenti19 – e la sua compatibilità con l’utilità sociale – concetto comprensivo della libertà di scelta dei consumatori20 – vengono additati come principi cardine dei rapporti economici dall’art. 4121, commi 1 e 2, Cost., così indicando al legislatore la necessità di apprestarvi tutela22. Tale esigenza di tutela di valori, pur di così pregnante rilevanza costituzionale, non coincide affatto, tuttavia, col necessario utilizzo a tal fine dello strumento penale, potendo anche ammettersi la sufficienza – o financo la maggior efficacia protettiva – degli strumenti sanzionatori e ex art. 2598 c.c. si rinvia a Manca, Spunti per la ricostruzione dei rapporti tra tutela penale e tutela civile in materia di concorrenza sleale: il delitto di diffamazione e la denigrazione dell’imprenditore concorrente ex art. 2598, n. 2, c.c., in AA. VV. Studi economico-giuridici, vol. LX 2003-2004, in memoria di Franco Ledda, tomo II, Torino, 2004, pp. 635 ss. 17 In particolare si rinvia, sul punto, a Fiandaca, Musco, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, pp. 31 ss. 18 Di Amato Diritto penale dell’impresa, Milano, 1999, p. 236. 19 In particolare Alessandri, Parte generale, in Pedrazzi, Alessandri, Foffani, Seminara, Spagnolo, Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 1998, p. 12. 20 Ferrara, Garzia, Consumatore (protezione del), in Digesto ipertestuale, diretto da Monateri, Torino, 2003. 21 Si rinvia in materia a Baldassarre, Iniziativa economica privata, ED, XXI, Milano, 1971; Galgano, Commentario della costituzione, Bologna-Roma, 1982; Luciani, Economia nel diritto costituzionale, DDPubbl., V, Torino, 1990, Martinez, Diritto costituzionale, Milano, 1992; Amato, Barbera, Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1994; Bognetti, La costituzione economica italiana, Milano, 1995; Cassese, La nuova costituzione economica, Bari, 1995; Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1997; Saraceno, Pubblicità commerciale, in Digesto ipertestuale, diretto da Monateri, Torino, 2003; Di Amato, p. 235. 22 “La pubblicità commerciale si pone”, invece, “al di fuori dell'area di protezione della garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero di cui all'art. 21 Cost., in quanto, pur estrinsecandosi attraverso elementi informativi, è ontologicamente comunque caratterizzata dallo scopo ultimo (non di trasmettere il pensiero) bensì di promuovere comportamenti e scelte di modelli imitativi sul piano dell'attività quotidiana”, sottolinea Cass. civ., sez. I, 23.11.1999, n.12993, soc. Reti Televisive It. c. soc. Emi Songs Edizioni Musicali, DInd, 2000, 191; già in tal senso Corte cost., 17 ottobre 1985, n.231, soc. Teleopus c. soc. Uni, FI, 1985, I, 2829, nota Pardolesi. Si rinvia ampiamente in dottrina, tra gli altri, a AA.VV., La comunicazione del futuro e i diritti delle persone, a cura di L. Carlassare, Padova, 2000, passim; Pace, Comunicazioni di massa (diritto), Enc. scienze soc., II, Roma, 1992, pp. 172 s.; Lipari, Libertà di informare o diritto di essere informati, Dir. radiodiff. telecom., 1978, pp. 5 ss.; Floridia, Comparazione ed informazione, RDI, 1985, I, pp. 32 ss. 3 inibitori offerti da altre branche dell’ordinamento: è appena il caso rammentare, in proposito, la fondamentale affermazione dell’inconfigurabilità – riconosciuta dalla più autorevole dottrina23 – di obblighi costituzionali impliciti di incriminazione. L’esigenza di una riscoperta dell’intervento penale in materia nasce, tuttavia, proprio dalla constatazione dei limiti e carenze della settoriale evoluzione normativa dell’intervento extrapenale, sviluppatosi attraverso l’approntamento di strumenti da un lato estranei all’applicazione giudiziaria e dall’altro inidonei a soppiantarla del tutto; e dalla percezione dell’assenza, nelle sedi di applicazione giudiziaria del diritto – ancora relegate esclusivamente all’utilizzo degli strumenti d’intervento offerti dal codice Rocco e dall’impianto originale del codice civile – di una visione organica e consapevole dei rapporti tra sfera d’intervento penale e discipline civilistiche ed amministrativistiche della materia. Quanto, in particolare, all’intervento extrapenale, è nel codice civile che la materia della denigrazione commerciale ancora trova il principale nucleo di disciplina: il primo comma, n. 2, dell’art. 2598 c.c., appresta infatti tutela alla “funzione promozionale”24 dell’attività d’impresa, ossia quella “serie di atti di comunicazione mediante i quali le imprese fanno conoscere e propagandano se stesse e i loro prodotti e servizi, onde affermarsi e progredire sul mercato”25, tipizzando come atti di concorrenza sleale denigratoria le condotte di chi “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito”, e di chi, all’opposto, “si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente”. In un’ottica di adeguamento in chiave costituzionale degli obbiettivi di tutela, agli strumenti civilistici sono stati più recentemente affiancati, limitatamente però alle sole materie della pubblicità ingannevole26 e della pubblicità comparativa illecita27, e “fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art. 2598 c.c.”28, quelli d’intervento amministrativistico, incentrati sui provvedimenti inibitori delle condotte illecite – e di rimozione dei loro effetti – attribuiti dall’art. 7 D.lgs. 25 gennaio 1992 n. 74 (attuativo della direttiva CEE 84/450), successivamente integrato dal D.lgs. 25 febbraio 2000 n. 67 (che ha recepito la direttiva CE 97/55, a sua volta integrativa della precedente) alla competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato29. L’introduzione di uno strumento pubblicistico30 di tutela della lealtà dei messaggi pubblicitari e d’inibizione delle condotte illecite31, la cui attivazione non è – come accade invece nella disciplina civilistica ex art. 2598 c.c. – demandata alla discrezionalità e al privato interesse degli imprenditori Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di Stile, Napoli, 1985, pp. 151 ss.; Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, Ridpp. 1983, pp. 484 ss.; Palazzo, Valori costituzionali e diritto penale, in AA.VV., L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, 1985, I, p. 592; Marinucci, Dolcini, Corso di diritto penale, I, Milano, 2001, pp. 506 ss.; Mazzacuva, Modello costituzionale di reato. Le “definizioni” del reato e la struttura dell’illecito penale, in AA. VV., Introduzione al sistema penale, a cura di Insolera, Mazzacuva, Pavarini, Zanotti, Torino, 1997, pp. 87 ss. 24 Ghidini, Della concorrenza sleale, in Il Codice Civile Commentato, a cura di Schlesinger, Milano, 1991, pp. 108 ss., pp. 193 ss.; Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2003, pp. 63 ss.; Di Amato, p. 235. 25 Ghidini, 193 ss. 26 Vanzetti, Di Cataldo, pp. 88, ss. 27 Vanzetti, Di Cataldo, pp. 69 ss. 28 Così specifica (Vanzetti, Di Cataldo, 71, 89) il comma 13 dell’art. 7 del D.lgs. 25 gennaio 1992 n. 74 (attuativo della direttiva CEE 84/450, così come modificata dalla direttiva CE 97/55), che, nell’attribuire all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – originariamente istituita, con la L. 10 ottobre 1990 n. 287, in funzione d’ intervento sulle intese restrittive (art. 2), sull’abuso di posizione dominante (art. 3), e sulle operazioni di concentrazione (artt. 5, 6) – funzioni d’intervento inibitorio e ripristinatorio in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, fa salva, oltre l’ordinaria giurisdizione civile in materia di concorrenza sleale, anche quella “in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d’autore protetto dalla L. 22 aprile 1941 n. 633, e successive modificazioni, e del marchio d’impresa protetto a norma del R.D. 21 giugno 1942 n. 929, e successive modificazioni, nonché delle denominazioni d’origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi di imprese, beni e servizi concorrenti”. 29 Si veda Vanzetti, Di Cataldo, pp. 69 ss. L’istituzione dell’Autorità Garante, precisa Tomassi, L’uso e l’abuso della parola e dell’immagine, Padova, 1998, pp. 190 ss., interviene per la constatata insufficienzadella tutela offerta non solo dall’apparato giuridico preesistente, ma anche dal Codice di autodisciplina pubblicitaria, codice etico di matrice contrattuale varato nel 1966 e vincolante solo per gli associati all’Istituto dell’Autodisciplina pubblicitaria, “ente privato, che affidò ad un Giurì, appositamente costituito, il controllo della pubblicità diffusa dai suoi associati”. 30 Peraltro assistito da sanzione penale: v. infra. 31 Vanzetti, Di Cataldo, p. 89. 23 4 concorrenti32, ma può essere richiesta, ex art. 7, comma 2, D.lgs. 25 gennaio 1992 n. 74, anche dai “consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali”, recepisce normativamente – limitatamente, però, alla sola area d’intervento dell’Authority – il definitivo superamento, ormai solidamente maturato dalla dottrina di settore33, della tradizionale concezione che limitava la materia concorrenziale al solo ambito privatistico della tutela dell’interesse individuale dei singoli imprenditori e alla regolazione giudiziale dei loro conflitti intersoggettivi34, e costituisce un primo, per quanto circoscritto, riconoscimento attuativo del parametro costituzionale35 di “utilità sociale” dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), che elegge a protagonista del mercato, al fianco degli imprenditori, il pubblico dei consumatori36, elevando così a principale oggetto di tutela l’ “interesse generale” alla lealtà degli operatori economici e alla veridicità e trasparenza delle informazioni diffuse nel mercato37. Sena, Premesse di diritto industriale, in Nuvolone, Sena, Conti, E. Gallo, Bricola, Crespi, Bovio, Pisani., La repressione penale della concorrenza sleale. Atti del secondo simposio di studi di diritto e procedura penali, di Varenna, Villa Monastero, 1-3 settembre 1965, Milano, 1966, p. 48, lucidamente osserva che “la normativa privatistica affida la tutela dell’interesse generale alla esistenza e sussistenza di un regime di concorrenza condotta lealmente fra imprenditori e quindi attribuisce a ciascun imprenditore il potere di reagire contro ogni violazione delle “regole del gioco” per la soddisfazione di un proprio interesse individuale”, cosicchè, qualora nel caso specifico il singolo imprenditore ritenga proprio interesse non citare ex art. 2598 c.c. il proprio sleale concorrente, preferendo ripagarlo della stessa moneta reagendo “con analoga pubblicità al proprio prodotto”, l’interesse pubblico alla lealtà della concorrenza – e in specie alla veridicità messaggi pubblicitari, non troverà tutela alcuna nell’apparato civilistico ed anzi – conclude acutamente l’Autore, si produrrà un ulteriore danno al “consumatore, che verrà così ingannato due volte!”. “E’ stato già da tempo segnalato” – osservava Santagata, Concorrenza sleale e interessi protetti, Napoli, 1975, pp. 38 ss. – “l’equivoco di fondo del liberismo tradizionale secondo cui il concorrente, che agisce nel proprio interesse, fungerebbe da vicarius avenger del consumatore, realizzando indirettamente la tutela di quest’ultimo”. 33 E’ del 1965 la chiara denuncia di Sena, 47 ss. (v. anche nota prec.) della inadeguatezza dell’apparato civilistico ex artt. 2598 ss. c.c. come strumento d’intervento nell’allora emergente problematica della pubblicità commerciale: “si pensi ad esempio ai problemi connessi con la pubblicità: alcune forme di pubblicità menzognera grandemente nocive per il consumatore, non saranno mai sufficientemente represse quando la loro repressione sia affidata agli imprenditori concorrenti. Solo raramente l’imprenditore danneggiato si sentirà di iniziare una costosa ed aleatoria azione di concorrenza sleale”, non solo lasciando senza tutela i consumatori – sprovvisti in sede civilistica di una propria legittimazione attiva – ma ingannandoli esso stesso per controbilanciare la sleale persuasività pubblicitaria del concorrente (cfr. nota prec.). “In tutti questi casi”, già sosteneva l’illustre Autore, “l’interesse del consumatore non è più tutelato dal sistema della concorrenza e si rende necessaria una diretta repressione dell’illecito nell’interesse della collettività, con una disciplina cioè di tipo pubblicistico nella quale…controllo e iniziativa per la repressione sono demandati ad organi pubblici o rimessi ai privati nella forma di una azione sostanzialmente popolare” Anche Santagata, pp. 197 ss., sottolineava: “si profila pertanto inevitabile la conclusione che gli strumenti di protezione del consumatore si debbano più correttamente ed opportunamente inquadrare nell’ambito di una più estesa e penetrante regolamentazione dell’attività imprenditoriale incidente sul mercato (ad esempio controllo sulla pubblicità, controlli sanitari e di qualità)”, e concludeva (Santagata, 39): “la predisposizione di una “tutela diretta” del consumatore nell’ambito della disciplina concorrenziale sembra profilarsi…l’unico rimedio per porlo al riparo da condotte collusive degli imprenditori”. 34 Ghidini, 3 ss.; Santagata, pp. 38 ss. 35 Affronta in particolare la problematica dell’ampliamento in chiave pubblicistica e solidaristica dell’interesse protetto dalla disciplina cvilistica della concorrenza sleale, in armonia con lo statuto costituzionale dell’economia, Santagata, che, constatato il superamento, da parte della logica corporativista ispiratrice del codice civile del 1942 (pp. 129 ss.) dell’originaria visione liberista che riservava la materia alla gestione dei conflitti endoimprenditoriali, propone un ulteriore progresso dell’esegesi del bene giuridico civilistico in chiave costituzionale, e alla stregua dei canoni di utilità sociale cui l’art. 41 Cost. subordina la libertà d’iniziativa economica (pp. 193 ss., 200 ss.), inserendo tra i soggetti del mercato anche il pubblico dei consumatori (p. 197). Analogamente Auletta , Mangini, Concorrenza, in Commentario del Codice Civile a cura di Scialoja, Branca, Bologna, Roma, 1987, pp. 203 ss. 36 “Specialmente la considerazione dell’interesse del consumatore”, specificano Vanzetti, Di Cataldo, 70, “ha peraltro portato alla emanazione di una direttiva comunitaria (n. 97/55 CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 6 ottobre 1997), nella quale si è affermata la liceità – a certe particolari condizioni volte… a tutelare il pubblico – della pubblicità comparativa”. Osserva, in particolare, Alessandri, Parte Generale, pp. 12 ss., che “l’interesse dell’imprenditore a non essere turbato nella sua attività si congiunge e si intreccia con quello del pubblico, che dalla slealtà del concorrente può risultare insidiato, ad esempio, nelle sue scelte” (Alessandri, 12), e constata che “l’esigenza di reprimere la pubblicità ingannevole – tempo addietro ricercata, in mancanza di strumenti specifici più adeguati, nell’art. 513 c.p. – trova oggi più razionale rimedio nella disciplina ad hoc, imperniata sulla vigilanza dell’Autorità Garante (D.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74)” (Alessandri, 13). 32 Bocchini, Il diritto industriale nella società dell’informazione, in Bocchini, Lemme, Rossi Vannini, Cocco, Trattato di diritto penale dell’impresa, IV, Il diritto penale industriale, Padova, 1993, 14, pp. 20 ss., 26, 30.; Tomassi, 190, cui si rinvia anche per un quadro teorico-praticodi sintesi sugli effettivi interventi dell’Autorità Garante in materia. Alla funzione di tutela preventiva del consumatore dalla forza persuasiva dei messaggi 37 5 Non sfugge, tuttavia, anche ad una prima analisi, che siffatti strumenti di controllo amministrativo sulla pubblicità commerciale si limitano in realtà ad incidere, innanzitutto, sull’area – ritenuta più immediatamente bisognosa di tutela per le conseguenze dirette degl’illeciti in capo ai consumatori – della pubblicità ingannevole, mentre non intervengono sul differente, e solo occasionalmente sovrapponibile, fenomeno della pubblicità denigratoria, caratterizzata da un attacco diretto alla reputazione del concorrente, concetto del tutto indipendente dalla presenza di conseguenze pregiudizievoli o meno in capo ai consumatori38: il concetto di pubblicità ingannevole accolto dall’art. 2, lett. a, del citato D.lgs. n. 74 del 1992, si incentra infatti sull’idoneità all’induzione in errore dell’utente destinatario, attribuendo rilevanza alle lesioni all’interesse del concorrente solamente se e in quanto siano state determinate in ragione dell’ingannevolezza del messaggio pubblicitario39. Rimane del tutto tagliata fuori dalla tutela ex D.lgs. n. 74 del 1992, dunque, l’autonoma problematica della pubblicità denigratoria, a meno che questa – come solo occasionalmente può accadere – contestualmente integri anche un’ipotesi di pubblicità ingannevole. Oltre che attraverso la propalazione di attribuzioni denigratorie false (quali l’attribuzione al prodotto del concorrente di difetti o rischi inesistenti), in cui la denigratorietà per il concorrente si sovrappone all’ingannevolezza per i consumatori, una denigrazione commerciale può realizzarsi, infatti, anche attraverso la propalazione di notizie vere (quali la pubblica attribuzione al prodotto del concorrente di reali difetti o rischi), da un lato ugualmente lesive dell’impresa concorrente, ma dall’altro, evidentemente, non solo non ingannevoli, ma financo estremamente giovevoli per il giudizio di scelta dei consumatori. Sul punto, la disciplina extrapenale rimane ancorata alla tutela giudiziaria classica rappresentata dal n. 2 dell’art. 2598 c.c. e dalla disiplina penale del delitto di diffamazione ex artt. 595 ss. c.p., senza che l’imprenditore-vittima possa invocare, neanche in via di tutela mediata, i più recenti strumenti d’intervento amministrativistico in materia di pubblicità ingannevole, che d’altronde, come già osservato, fanno salva la competenza del giudice ordinario in materia di concorrenza sleale40. Non dissimili considerazioni valgano per l’ipotesi della pubblicità comparativa illecita41 successivamente affidata alle competenze dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato dal D.lgs. 25 febbraio 2000 n. 67: e anche se si volesse ammettere, come dibattuto dalla dottrina di settore, una totale sovrapponibilità tra questa fattispecie e la denigrazione commerciale ex art. 2598, n. 2, c.c.42, non verrebbe comunque meno la piena autonomia della giurisdizione del giudice ordinario, che la disciplina amministrativistica, anzi, espressamente fa salva, ammettendo così la non esaustività – nemmeno negl’intenti del legislatore43 – della tutela amministrativistica44 e mantenendo comunque intatto il problema degli strumenti di tutela evocabili in sede giudiziaria. pubblicitari televisivi assolve, in particolare, l’istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni (si rinvia in materia a Valastro, Radiotelevisione, in Commentario breve alle leggi penali complementari, 1655, ss.), introdotta con l’art. 5 L. 31 luglio 1997, n. 249; in particolare gli artt. 3 (“Disposizioni in materia di pubblicità televisiva”) e 3 bis (“Televendita”), della successiva L. 30 aprile 1998, n. 122 (“Differimento dei termini previsti dalla L. 31 luglio 1997, n. 249, relativi all’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, nonché norme in materia di programmazione e di interruzioni pubblicitarie televisive”), apprestano disposizioni e divieti limitanti l’eccessiva frequenza di messaggi pubblicitari durante le trasmissioni televisive, e la accentuzione della forza persuasiva delle televendite attraverso l’esortazione all’acquisto rivolta direttamente ai minorenni e l’inserimento delle stesse all’interno di programmi che, per la serietà delle materie trattate, possano essere ingiustificatamente percepiti come garanti della serietà dell’offerta commerciale. Tant’è che la prevalente esegesi civilistica colloca la pubblicità ingannevole non già all’interno del n. 2, ma del n. 3 del comma 1 dell’art. 2598 c.c., ricollegandola fenomenologicamente allo storno di clientela assai più che all’ipotesi, pur eventualmente sovrapponibile, di denigrazione commerciale. Si rinvia in proposito all’ampia trattazione in Saraceno, p. 19, III, 24, 26. 39 L’art. 2, lett. a, del cit. D.lgs. n. 74 del 1992 definisce la pubblicità ingannevole come “qualsiasi pubblicità che, in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta, o che essa raggiunge, e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico, ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente” (sul punto Saraceno, p. 19, III) 40 “Avendo riguardo al fenomeno della pubblicità nel suo complesso, non può dubitarsi dell’autonomia degli atti di concorrenza sleale rispetto agli illeciti nei confronti dei consumatori”, osserva Saraceno, p. 19, III, n. 58. 41 “Per pubblicità comparativa deve considerarsi”, specificano Vanzetti, Di Cataldo, p. 70, “qualsiasi pubblicità che identifichi in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente”. 42 Sullo specifico punto si rinvia a Vanzetti, Di Cataldo, pp. 70 ss. 43 “Il decreto stesso afferma che è ‘comunque fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario, in materia di atti di concorrenza sleale a norma dell’articolo 2598 del codice civile…’, mostrando in tal guisa di ritenere che la pubblicità 38 6 Nel silenzio del legislatore penale45 – limitatosi all’inserimento, contenuto nel quarto comma dell’art. 30 L. 6 agosto 1990 n. 223 di disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato, del parziale richiamo, “nel caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato”, alla circostanza aggravante46 già prevista dall’art. 13 della legge sulla stampa – il presente lavoro si propone, in una prospettiva d’indagine de iure condito, di fornire un contributo alla ricostruzione degli strumenti repressivi penali evocabili in materia di pubblicità commerciale denigratoria, verificando, anche alla stregua delle esperienze giurisprudenziali, possibilità e limiti di sovrapposizione con l’area di tutela civilistica. In particolare, come anticipato, la trattazione che segue sarà dedicata all’approfondimento dei rapporti tra il delitto di diffamazione previsto dall’art. 595 c.p. – confermatosi, anche a seguito dell’introduzione dell’aggravante ex art. 30 L. n. 223 del 1990, come il fulcro della tutela penale della lealtà del messaggio pubblicitario – e la fattispecie di concorrenza sleale denigratoria prevista dal primo comma dell’art. 2598, n. 2 c.c., con specifica attenzione agli sviluppi raggiunti, nei due rami dell’ordinamento, dalla centrale problematica della verità dell’attribuzione diffamatoria, il campo di prova, come detto, in cui maggiormente risalta l’insufficienza dei nuovi strumenti d’intervento amministrativistico, e la conseguente necessità di ricorso alla regolazione giudiziale attraverso gli strumenti di tutela offerti dai codici civile e penale47. Non paiono d’altronde potersi rinvenire, oltre al delitto di diffamazione, altre norme penali concretamente rilevanti in materia di pubblicità commerciale denigratoria: l’applicabilità dell’art. 513 c.p.48 – che, all’interno dei “mezzi fraudolenti” finalizzati a “impedire o turbare l’esercizio di comparativa possa dar luogo anche ad un atto di sleale concorrenza (ed in particolare alla fattispecie di denigrazione di cui all’art. 2598 n. 2 c.c.)”, osservano Vanzetti, Di Cataldo, 70, s., e specificano (71) che se “si può concludere nel senso di una totale sovrapposizione tra le fattispecie”, tuttavia “le sanzioni previste rispettivamente nel codice e nel decreto legislativo sono diverse, cosicchè vi sarà la possibilità, e potrà esservi l’interesse, di ricorrere all’una o all’altra normativa, ovvero cumulativamente ad entrambe”. 44 Vanzetti, Di Cataldo, 71. 45 Non lambisce la materia della repressione penale della concorrenza denigratoria nemmeno la recente riforma introdotta con D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in materia di “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”; per qualche riflessione sul punto con riferimento alla diffamazione in ambito commerciale si rinvia a Manca, pp. 645 ss. 46 Valastro, 1685; Corrias Lucente, Il diritto penale dei mezzi di comunicazione di massa, Padova, 2000, pp. 239 ss. 47 Non ci si vuole soffermare, in questa sede, sul tema generale dei molti profili di sovrapponibilità, se non di stretta coincidenza, tra l’area d’intervento del delitto di diffamazione e quello della concorrenza denigratoria, già ampiamente trattati, quanto ai singoli profili dei soggetti attivi e passivi, il fatto tipico, e l’atteggiamento psichico richiesto, in Manca, Spunti, 640, ss., cui si rinvia per ogni approfondimento: l’ampiezza del campo d’interazione tra l’ambito di operatività dell’art. 595 c.p. e quello dell’art. 2598, n. 2, c.c. si coglie ictu oculi anche ad un primo raffronto della norma penale, che descrive la condotta di “chiunque…comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”, con la condotta di chi “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito”, tipizzata dal primo periodo del n. 2 dell’art. 2598 c.c.. Rilevava d’altronde Nuvolone, Relazione introduttiva, in Nnuvolone, Sena, Conti, Gallo, Bricola, Crespi, Bovio, Pisani, La repressione penale della concorrenza sleale, Atti del secondo simposio, 35, individuando uno stretto intreccio tra diffamazione e concorrenza sleale sotto il profilo della “pubblicità criminosa, la quale ha una problematica vastissima: si pensi ai confini tra l’esercizio del diritto in materia di esaltazione del proprio prodotto, e l’abuso del diritto che consiste in quella denigrazione indebita del prodotto altrui di cui parla l’art. 2598 n. 2 del c.c.”, la necessità di studio, con particolare riferimento ai rapporti tra delitto di diffamazione e concorrenza sleale, dei “rapporti che vi sono tra questa denigrazione del prodotto altrui e quei reati che sono già previsti, sia pure ad altro titolo e con altre finalità, dal codice penale. Possiamo prendere come esempio classico la diffamazione col suo problema dei confini tra il lecito e l’illecito in tema di diffamazione commerciale”.Coglie, più recentemente, il chiaro parallelo tra la struttura civilistica ex art. 2598, n. 2, c.c. e quella penalistica del delitto di diffamazione Bellantoni, Lesione dei diritti della persona, tutela penale, tutela civile e risarcimento del danno, Padova, 2000, p. 219. Art. 513 c.p. – Turbata libertà dell'industria o del commercio: “Chiunque adopera violenza sulle cose ovvero mezzi fraudolenti per impedire o turbare l'esercizio di un'industria o di un commercio è punito, a querela della persona offesa, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione fino a due anni e con la multa da lire duecentomila a due milioni”. Si rinvia in materia a Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. II, XIV ed., aggiornata da L. Conti, Milano, 2003; Baccaredda Boy, Commento all’art. 513 c.p., in Codice penale commentato, Parte speciale, a cura di E. Dolcini , G. Marinucci, Milano, 1999, pp. 2753 ss.; Bellotto, La riscoperta dell’art. 513 c.p., RTDPEc., 1993, pp. 1078 ss.; Bertolino, Commento all’art. 513 c.p., in Commentario breve al codice penale, a cura di A. Crespi, F. Stella, G. Zuccalà, Padova, 2003, pp. 1632 ss.; Bricola, Profili penali della pubblicità commerciale, in La repressione penale della concorrenza sleale, Atti del secondo simposio, passim; Conti, Economia pubblica, industria e commercio, (delitti contro), in Digesto pen. vol. IV, Torino, 1990, pp. 198 ss.; Di Amato, pp. 243 ss.; Fiandaca, Musco, Diritto penale, parte speciale, vol. I, II ed., Bologna, 1999; Fornasari, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, Milano, 1994; Maccari, Commento all’art. 513 c.p., in Codice penale ipertestuale, a cura di M. Ronco e S. Ardizzone, Torino, 2003, pp. 1831 ss.; Manzini, 48 7 un’industria o di un commercio” ben potrebbe astrattamente ricomprendere, alla stregua dell’uniforme esegesi49, le condotte di concorrenza sleale denigratoria – è del tutto eclissata proprio dal delitto di diffamazione, in ragione dalla clausola di riserva contenuta nell’art. 513 c.p., che consente l’applicazione della norma solamente “se il fatto non costituisce più grave reato”, escludendola dunque proprio ove trovi applicazione il delitto di diffamazione aggravato dal mezzo della stampa o da altro mezzo di pubblicità. Una rilevanza dell’art. 513 c.p. potrebbe dunque residuare unicamente nelle ipotesi di sleale propagazione d’informazioni sull’altrui impresa e/o prodotto caratterizzata non già da una connotazione denigratoria, afferente all’area penalistica della diffamazione, ma dal differente profilo di fraudolenza dell’ingannevolezza del messaggio50. Esigenze di completezza nella catalogazione del panorama penalistico lato sensu gravitante sulla pubblicità denigratoria impongono, infine, un breve cenno alla contravvenzione posta a presidio dell’effettività dell’intervento amministrativistico dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato disciplinato dal più volte citato D.lgs. 25 gennaio 1992 n. 74. Prevede il nono comma dell’art. 7 che “L’operatore pubblicitario che non ottempera ai provvedimenti d’urgenza o a quelli inibitori o di rimozione degli effetti adottati con la decisione che definisce il ricorso è punito con” la pena, rideterminata per l’effetto dell’art. 52, comma 2, D.lgs. 28 agosto 2000 n. 274, istitutivo della competenza in materia penale del Giudice di Pace, dell’ “ammenda da lire cinquecentomila a lire cinquemilioni”51. Concepita come accessoria allo strumento amministrativistico, la contravvenzione Trattato di diritto penale italiano, vol. VII, V ed. aggiornata da P. Nuvolone e G. Pisapia, Torino, 1984; Mazzacuva, I delitti contro l’economia pubblica, in Canestrari, Gamberini, Insolera, Mazzacuva Sgubbi, Stortoni, Tagliarini, Diritto penale, lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998; Mazzacuva, Costi, I delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, in Giurisporudenza sistematica di diritto penale, diretta da F. Bricola e V. Zagrebelsky, Codice penale, parte speciale, V, Torino, 1996, pp. 296 ss.; Paterniti, Manuale dei reati, vol. II, Milano, 2002; Paterniti, Diritto penale dell’economia, Torino, 1995; Paterniti, Industria e commercio, delitti contro, EG., XVI, Roma, 1990, 1, ss.; Palombi, Pica, Diritto penale dell’economia e dell’impresa, Torino, 1996; Pedrazzi, Economia pubblica, delitti contro la, ED., vol. XIV, Milano, 1965, 279 ss.; Pedrazzi, Turbativa della libertà dell’industria e del commercio, in ED., XLV, Milano, 1992, 282, ss.; Ricchiello, Osservazioni sull’art. 513 e riproduzione illecita di musicassette, in Dir. autore, 1976, 113; Ruga Riva, Turbata libertà dell’industria e del commercio, in Digesto pen., XIV, Torino, 1999, 412. ss.; Ruga Riva, Turbata libertà dell’industria e del commercio, in Digesto ipertestuale, diretto da P.G. Monateri, Torino, 2003, p. 2; Seminara, L’impresa e il mercato, in Pedrazzi, Alessandri, Foffani, Seminara, Spagnolo, Manuale di diritto penale dell’impresa, 485; Vitarelli, Turbata libertà dell’industria o del commercio, in Dizionario dei reati contro l’economia, a cura di G. Marini e C. Paterniti, Milano, 2000, p. 537. In giurisprudenza, Cass. 20 novembre 1961, Apicella, GP., 1962, II, 880; Cass., 5 marzo 1970, Peruzzo, GP., 1971, II, p. 200; Pret. Bologna, 11 agosto 1989, Turini, GDInd., 1990, p. 207; Pret. Bologna, 22 dicembre 1992, Carnovale, in Soc, 1993, p. 1091; App. Bologna, 13 luglio 1994, Carnovale, in FI., 1995, II, 248; Cass. pen., Sez. III, 2 febbraio 1995 n. 3445, Carnovale, in CP., 1997, p. 3526; Trib. Rovereto 2 febbraio 2001, Trenti, GM, 2001, pp. 405 ss. 49 Si discute in dottrina se – e, soprattutto, in che limiti – siano riconducibili alla categoria concettuale dei mezzi fraudolenti richiesti dall’art. 513 c.p. le ipotesi di concorrenza sleale disciplinate dall’art. 2598 c.c.. Di certo sia i mezzi fraudolenti ex art. 513 c.p. sia le condotte concorrenza sleale – si osservava nei lavori preparatori al codice penale (Bricola, 157) – “si diversificano dalle astute ed abili competizioni nel libero campo di una normale e lecita concorrenza”. Coerentemente con tale presupposto, l’uniforme dottrina in effetti non dubita della possibilità in sé di individuare un’area di coincidenza dell’illecito concorrenziale e della norma penale in commento: una differenziazione di posizioni si rileva, infatti, solamente sulla delimitazione dei suoi confini. Un primo orientamento individua il discrimen tra responsabilità penale ex art. 513 c.p. e sola responsabilità civile ex art. 2598 c.c. attraverso il criterio teleologico della direzione finalistica degli atti, che consente di ricomprendere all’interno dei mezzi fraudolenti qualunque forma di concorrenza sleale, confusoria (art. 2598, n. 1. c.c.), denigratoria (art. 2598, n. 2, c.c.) o atipica (art. 2598, n. 3, c.c.), purchè “diretta al fine indicato nell’articolo 513 c.p.” (Manzini, 211). Ritenendo “eccessivamente dilatato” (Bricola, 157) il criterio teleologico, è stato alternativamente proposto il criterio obbiettivo dell’idoneità dei mezzi “a generare una situazione di inganno che vizia le scelte del consumatore, e perciò a produrre uno sviamento di clientela e un danno per l’azienda concorrente” (Bricola, 156, s), col risultato, maggiormente selettivo, di espellere dell’area dell’art. 513 c.p. tutte quelle ipotesi di concorrenza sleale pur volte a danno del concorrente, ma non caratterizzate dalla effettiva fraudolenza dei mezzi in rapporto ai consumatori (Bricola, 156), come lo storno dei dipendenti, ed anzi financo utili alle loro scelte d’acquisto, come la rivelazione di segreti o la denigrazione veritiera (Bricola, 157). Su tale presupposto la più recente dottrina, affermata la natura intrinsecamente fraudolenta delle condotte confusorie delineate dal n. 1 dell’art. 2598 c.c. – ritenute riconducibili all’art. 513 c.p. in assenza dei presupposti delle più gravi incriminazioni ex artt. 473, 474 c.p. (Ruga Riva, 4) – focalizza l’attenzione su quelle denigratorie previste dal n. 2, circoscrivendo la riconducibilità al concetto di mezzo fraudolento, e dunque l’applicabilità dell’art. 513 c.p. – salvo l’assorbente integrazione del più grave delitto di diffamazione aggravata dal mezzo della stampa o da altro mezzo di pubblicità (Ruga Riva, 6; Vitarelli, 543; Seminara, 489) – alle sole ipotesi, come la pubblicità menzognera, “in cui le notizie o gli apprezzamenti siano almeno parzialmente falsi o tendenziosi” (Ruga Riva, 4; Pedrazzi; Turbativa, 286; Seminara, 489). V. nt. 49, che precede. Specificamente Bucci, Arioli, Manuale pratico del giudice di pace nel processo penale, Padova, 2002, pp. 181 ss.; p. 275; in generale, Marzaduri, Le disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, in Bargis, Della Casa, Grevi, Illuminati, Marzaduri, Orlandi, Scaparone, Compendio di procedura penale, Appendice di aggiornamento al 1 giugno 2001, a cura di Conso, Grevi, Padova, 2001, pp. 174 ss. L’originaria pena edittale prevista sanzionava l’inottemperanza con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a lire cinque milioni. Deve rilevarsi, per completezza, che il successivo decimo comma dell’art. 7 del citato D.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 prevede che Al proprietario del mezzo di diffusione del messaggio pubblicitario che omette di fornire le informazioni di cui al comma 3, ossia quelle idonee ad identificare il committente del messaggio pubblicitario ingannevole o comparativo illecito, può essere irrogata 50 51 8 appare costruita secondo la logica del “modello ingiunzionale”52 spesso utilizzata dal legislatore penale per garantire la tutela delle funzioni delle diverse Autorità di controllo sull’attività economica e produttiva53, il cui regolare ed effettivo funzionamento – bene strumentale immediatamente protetto dalla norma incriminatrice – è “essenziale alla tutela – mediata – dei beni finali”54. La norma, sanzionando non già fatti di pubblicità commerciale denigratoria, ma condotte di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità amministrativa, sposta il discorso, dunque, dall’orizzonte della tutela immediata della lealtà della concorrenza, oggetto di approfondimento delle pagine che seguono, al differente problema della tutela strumentale della funzione amministrativa di controllo sul mezzo pubblicitario. Pur stimolante come prova tecnica di nuovi modelli di coordinamento tra controllo amministrativistico ed intervento penale in materia, la questione si pone nettamente al di fuori degli strumenti penali direttamente evocabili nel contesto – ad oggi tutt’altro che recessivo, se le cifre non ingannano – di una tutela giudiziaria classica, a fronte della realizzazione dei fatti descritti dal primo comma, n. 2, dell’art. 2598 c.c.. 3. IN PARTICOLARE : LA VERITÀ DELL ’ADDEBITO SFAVOREVOLE NELLA DENIGRAZIONE COMMERCIALE E NEL DELITTO DI DIFFAMAZIONE Il più delicato nodo interpretativo relativo ai rapporti tra la pubblicità commerciale denigratoria ed il delitto di diffamazione attiene, come visto, al problema delle conseguenze giuridiche della verità del fatto screditante sull’applicabilità delle sanzioni previste dall’art. 595 c.p. e dall’art. 2598, n. 2 (in relazione agli artt. 2599 e 260055), c.c.. Si registra infatti, sul punto, un evidente conflitto tra il diritto dell’imprenditore alla tutela della propria reputazione commerciale e l’interesse del pubblico dei consumatori a ricevere, anche a discapito degl’interessi dei produttori, ogni informazione – utile al conseguente giudizio di scelta – sulle caratteristiche e qualità dei prodotti e sulle loro modalità di realizzazione56, conflitto che si riverbera sulle diverse soluzioni proposte in tema d’effetti giuridici della verità dell’addebito, ammantati di più o meno pregnanti valenze lato sensu giustificanti a seconda che si ritenga prevalente – secondo i peculiari princìpi, funzioni e sensibilità esegetiche maturate in ambito penalistico e civilistico – l’uno o l’altro dei due contrapposti profili di tutela enunciati57. dall’Autorità una sanzione amministrativa da due a cinque milioni di lire, ossia, in definitiva, un’afflizione pecuniaria più elevata, nel minimo edittale, della pena prevista – a seguito della introduzione della competenza penale del Giudice di Pace, per chi non ottemperi ai provvedimenti dell’Authority. 52 Alessandri, Parte generale, pp. 38 ss. 53 Si rinvia in materia a Alessandri, Parte generale, pp. 23 ss.; pp.38 ss., e , più ampiamente a Stella, Giustizia e modernità, passim, e Cocco L’uso della punibilità, passim. 54 Alessandri, Parte generale p. 24. 55 Per un quadro di sintesi dell’operatività dei diversi meccanismi sanzionatori ex artt. 2599, 2600 c.c. in raffronto al delitto di diffamazione si rinvia a Manca, pp. 670 ss. e alla dottrina ivi citata. 56 In generale sul punto Vanzetti, Di Cataldo, pp. 66 ss. 57 E’ nelle motivazioni poste a corredo di talune decisioni dei giudici penali di merito che, peraltro, si rinvengono i più evidenti ondeggiamenti ed imbarazzi argomentativi – e dunque il più forte bisogno di definizione delle linee portanti della materia – nell’individuazione degli strumenti di diritto penale sostanziale evocabili a sostegno o esclusione della sanzionabilità ex art. 595 c.p. della denigrazione portata all’impresa concorrente attraverso la propalazione degl’illeciti – veri – da quest’ultima compiuti; ciò soprattutto nei casi limite in cui l’imputato abbia reagito denunciando pubblicamente la concorrenza sleale precedentemente subìta e le condanne o inibizioni d’urgenza comminate dal giudice civile al concorrente aggressore: emblematici in tal senso Trib. Cagliari, 26 luglio 2000, Cincotta, inedita (in cui la questione viene risolta preferendo alla tesi finale dell’accusa di una “azione lecita costituente esercizio del dovere spettante all’agente di tutelare gli interessi della società amministrata” quella dell’ “esimente prevista dall’art. 599, c. 2, c.p., quantomeno sotto il profilo della putatività”), e Trib. Cagliari, 28 giugno .2002, Barrago, inedita, in cui in un’identica vicenda di denigrazione veritiera – determinata dall’esigenza di elidere, nella considerazione degli utenti, gli effetti della concorrenza sleale subìta – la condivisibile esigenza assolutoria viene invece soddisfatta addirittura ritenendo, in prima battuta, l’assenza degli elementi essenziali dell’art. 595 c.p. 9 Il più netto orientamento della dottrina penalistica58 afferma che “ove l’atto di concorrenza comparativa abbia ad oggetto la divulgazione di notizie ed apprezzamenti diffamatori ma al contempo veritieri, non si avrà più coincidenza tra la disciplina civilistica e la normativa penale”59. La netta divaricazione tra disciplina della responsabilità civile ex art. 2598, n. 2, c..c. e della responsabilità penale ex art. 595 c.p. deriverebbe dal fatto che, mentre “la concorrenza sleale attuata mediante la diffusione di notizie veritiere”60 sarebbe “comunque reprimibile, ai sensi dell’art. 2598, n. 2, c.c., o quanto meno, ove l’azione non sia da considerarsi denigratoria, ai sensi del n. 3 del medesimo articolo”61, invece in materia penale “diversamente, il reato di diffamazione ammette, entro certi limiti, quale scriminante, l’exceptio veritatis”62. Conclude la citata dottrina che “la veridicità delle notizie diffuse con mezzi idonei a ledere la reputazione dell’impresa concorrente può dunque operare quale discrimine tra la disciplina civilistica della concorrenza sleale e la ravvisabilità degli estremi del reato di diffamazione”63. Una così drastica esegesi – per quanto cautamente espressa in termini di possibilità – pare a chi scrive incondivisibile, perchè fondata su erronei presupposti. In realtà, infatti, i rapporti tra le conseguenze civilistiche e quelle penalistiche della verità dell’attribuzione diffamatoria compiuta in ambito concorrenziale dovranno essere ricostruiti in termini diametralmente differenti da quelli proposti dalla citata dottrina: la verità della notizia, come vedremo, riveste proprio in sede civile il ruolo di limite generale alla sussumibilità stessa del fatto concreto nell’illecito concorrenziale tipizzato dall’art. 2598, n. 2, c.c., mentre più misurati sono gli effetti da essa dispiegati in materia penale, laddove, lungi dall’escludere ab origine l’integrazione del fatto tipico del delitto di diffamazione, la verità dell’attribuzione può al massimo costituire la causa giustificante di un fatto altrimenti penalmente illecito64. Rivolgendo brevemente lo sguardo – ai soli fini di un raffronto col percorso penalistico – all’orientamento dominante nell’esegesi giusindustrialistica, è ormai superata la tesi, legata all’originaria concezione pre-costituzionale della disciplina ex art. 2598 c.c. in funzione di mera tutela degl’interessi d’impresa, che negava alla verità dell’allegazione denigratoria effetti limitativi della responsabilità per concorrenza sleale65: sul citato presupposto di utilità sociale ex art. 41 Cost., la miglior dottrina di settore66 è giunta alla fondazione di un vero e proprio obbligo di verità67 dell’imprenditore nel dichiarare Lemme, La repressione penale della concorrenza sleale, in Trattato di diritto penale dell’impresa, a cura di A. di Amato, vol. IV, Bocchini, Lemme, Rossi Vannini, Cocco , Il diritto penale industriale, Padova, 1993, p. 41. 59 Lemme, p. 41. 60 Lemme, p. 41. 61 Lemme, p. 41. 62 Lemme, p. 42. 63 Lemme, p. 42. 64 È appena il caso di ricordare la rilevante differenza, nitidamente chiarita da autorevole dottrina, tra il fatto ab origine lecito, perchè non sussumibile nella condotta descritta da alcuna norma penale incriminatrice, e quello originariamente tipico e dunque penalmente rilevante, ma reso obbiettivamente conforme a diritto dalla presenza di una causa di giustificazione: “l’uccisione di una mosca è fatto penalmente irrilevante, non offensivo di alcun bene giuridico, mentre l’uccisione di un uomo in difesa legittima resta pur sempre un fatto offensivo di un bene giuridico tutelato” (Padovani, Diritto penale, Milano, 1995, p. 182). 65 Per un esempio di tale risalente impostazione App. Venezia 28 maggio 1935, soc. Anglo it. Carboni c. soc. Adriatica Carboni, RFI., 1935, c. 502, secondo cui “è atto di co ncorrenza sleale la denigrazione del prodotto di un concorrente anche quando essa sia attuata mediante propalazione di notizie vere, che, diffuse in determinate circostanze di tempo e di luogo, possono ledere la sfera di attività giuridica e patrimoniale altrui”; più recentemente, in tal senso, App. Torino 8 febbraio 1986, Cgr corp. c. soc. Afa, GDI, 1986, p. 380; Pret. Roma, 28 novembre 1985, Ass. Naz. Ind. Vetro c. soc. Afe, GM, 1987, p. 664. 66 Specificamente sul punto Bocchini, pp. 22 ss. . L’Autore prende le mosse dalla prospettiva di fondo che attribuisce al diritto industriale, alla luce della Costituzione economica e di un’istanza generale di “trasparenza del mercato” in funzione di tutela dei consumatori, la funzione di “studiare la concorrenza sleale …come sistema non solo di diritti, ma anche di limiti alla libertà degli imprenditori, nell’informazione economica del mercato. Si rifletta. Concorrenza, segni distintivi, brevetti di invenzioni potrebbero…essere studiati nell’ottica dell’informazione e, perciò, tradursi in informazioni economiche al mercato (la concorrenza), in informazioni distintive d’impresa al mercato (i segni distintivi), in informazioni tecnologiche inventive d’impresa al mercato (brevetti d’invenzioni)”. Da tali principi l’Autore perviene all’individuazione di un diritto all’informazione economica del consumatore (Bocchini, p. 21), ricomprendendo, all’interno dell’oggetto di studio del diritto industriale, la problematica inerente alla fondazione di un’autonoma categoria concettuale relativa all’interesse del consumatore (qualificabile giuridicamente, nelle ipotesi vagliate dall’Autore, quale interesse diffuso, interesse legittimo e financo diritto sociale e diritto soggettivo), ed in generale della collettività, a conoscere il maggior numero di informazioni sulle 58 10 non solo, ex art. 2332 c.c., la propria identità68, ma anche il contenuto della propria attività e le caratteristiche dei propri prodotti69, agganciando così il parametro di lealtà e “correttezza professionale” anche al rispetto dell’interesse dei consumatori70 alla conoscenza di informazioni veritiere sui prodotti e produttori presenti sul mercato, anche se contrarie agl’interessi di questi ultimi. In tal senso l’art. 41 Cost. costituisce un limite esegetico all’applicazione dell’art. 2598 c.c., paralizzandola quando sanzionerebbe atti sì civilisticamente tipici, ma consoni agli interessi dei consumatori, ossia in definitiva dell’intera collettività71. Rimane perciò esclusa in radice la tipicità stessa ex art. 2598, n. 2, c.c. dell’allegazione di fatti veri72, e profili d’illiceità riemergono solo in ragione dell’eventuali modalità tendenziose, sproporzionate, o abusive nel fine, di comunicazione del messaggio73. caratteristiche e qualità dei prodotti immessi sul mercato e sulle imprese produttrici. Una base di diritto positivo all’impronta sistematica impressa dall’Autore all’area disciplinare del diritto industriale, che da diritto regolatore degli interessi degl’imprenditori diviene disciplina garante di tutti i soggetti che – a diverso titolo, anche solo di consumatori – si affacciano al mercato, è individuata dall’Autore nella convergenza di “sette fonti normative: a) l’art. 41 Cost.; b) gli artt. 2423 ss. c.c. dettati in tema di bilanci d’impresa, che impongono la verità, la chiarezza, la correttezza, dell’informazione patrimoniale economica e finanziaria dell’impresa al mercato; c) l’art. 2598 n. 3 c.c. che impone la correttezza professionale della concorrenza; la L. 25 gennaio 1992 n. 74, che attua la dir. CEE n. 84/450, entrata in vigore il 14 febbraio 1992, che prescrive l’obbligo che l’informazione d’impresa al mercato, attraverso la pubblicità, sia “palese”, “veritiera”, “corretta”…..” (Bocchini, pp. 24 s.). Conclude l’Autore: “V’è quanto basta perché prenda corpo una clausola generale di trasparenza informativa…..come un principio generale della nostra “Costituzione economica””, clausola generale articolata in “tre contenuti precettivi concreti: a) l’obbligo di verità; b) l’obbligo di chiarezza; c) l’obbligo di correttezza degli operatori nell’informazione economica del mercato” (Bocchini, 25). Un dovere di verità dell’imprenditore, ad esempio, è esplicitato – e fornito di specifica tutela penale – nell’ordinamento spagnolo: il recente Artículo 282 del Código penal prevede Serán castigados con la pena de prisión de seis meses a un ano o multa se seis a diecioho meses los fabricantes o comerciantes que, en sus ofertas o publicidad de productos o servicios, hagan alegaciones falsas o manifiesten caracteristicas inciertas sobre los mismos, de modo que puedan causar un perjuicio grave y manifesto a los consumidores, sin perjuicio de la pena que corrisponda aplicar por la comisión de otros delitos”. La recente norma costituisce, in quell’ordinamento, la “punta de lanza, o cuando menos el más directamente orientado, de todos los delitos económicos para tutelar los derechos de los consumidores y usuarios (Valle Muniz, Comentario, in Quintero Olivares, Valle Muniz, Comentarios a la Parte Especial del Derecho Penal, Pamplona, 1996, pp. 663 ss. 67 Bocchini, p. 25. 68 La nullità comminata dalla legge civile alla società di capitali che manchi di denominazione è l’elemento di base, per Bocchini, p. 23, della ricostruzione di un dovere di trasparenza dell’imprenditore non solo sulla propria identità ma anche su quella dei propri prodotti: “Si rifletta: la società senza segno di identificazione (ditta), è nulla; l’imprenditore può immettere sul mercato prodotti anonimi? Chi opera sul mercato deve dichiarare la propria identità, non può operare con la celata abbassata”. 69 “Mutatis mutandis”, osserva Bocchini, p. 23, “analogo discorso si può porre per la concorrenza sleale: la confusione non è solo un attentato al diritto del concorrente sulla propria clientela, ma è la creazione di una falsa informazione sul mercato ed anche per ciò è sanzionata”. Per la conseguente diatriba, interna agli studi industrialistici, in ordine ai profili e limiti di estensibilità alle associazioni dei consumatori della legittimazione processuale ex art. 2601 c.c., da ultimo, Petrelli, Interessi collettivi e responsabilità civile, Padova, 2003, pp. 73 ss. 70 Santagata, pp. 200 ss. In giurisprudenza si veda Trib. Torino, 21 marzo 1983, Giur. ann. dir. ind., 1983, n. 1657, secondo cui “la concorrenza attuata mediante una pubblicità obiettiva …ha il suo fondamento costituzionale nel principio per cui l’iniziativa economica è libera purché compatibile con l’utilità sociale, la sicurezza, la dignità umana (art. 41 Cost.)”. 71 Pare ormai acquisita per le scienze sociali l’estensione della qualità di consumatore a tutti gli esseri umani, sottoposti fin dall’infanzia, come osserva Codeluppi, Il potere del consumo, Viaggio nei processi di mercificazione della società, Torino, 2003, passim, a “processi di mercificazione” e di “educazione al consumo” giunti ormai a regolare il funzionamento dell’intera società, ormai imperniata su di una “legge che impone a tutti di comportarsi sempre e comunque da consumatori”. “Sono così diventati anche più labili i confini tra adulti e bambini, sempre più considerati “piccoli adulti” o meglio “piccoli consumatori”, allo stesso modo in cui gli adulti sono considerati unicamente in quanto consumatori e non più in quanto cittadini” (Codeluppi, p. 28). 72 Auletta, Giudizio sul prodotto altrui, critica scientifica, legittima difesa, FI., 1948, I, c. 506; Auletta, Mangini, pp. 235 ss; Vanzetti, Di Cataldo, pp. 67 s. 73 Uniforme da decenni, nell’accogliere il principio, la giurisprudenza: Cass., 10 agosto 1966, n. 2172, MGI., 1966, p. 64; analogamente, tra le altre, Cass., 02 aprile 1982, n. 2020, Renzacci c. soc. Donini, GDI 1983, p. 3; Cass. 13 giugno 1962 n. 1477, RDI., 1964, II, 24; Cass., 10 maggio 1958, n. 1545, MGI 1958, 352, Cass. 24 ottobre 1968 n. 348, GI., 1958, p. 352; Cass., 24 ottobre 1968 n. 3448, GI 1969, I, 1, p. 1934. Esclude la mera configurabilità in termini d’automatismo della liceità della diffusione di notizie denigratorie veritiere App. Torino, 30 aprile 1997, soc. Italgas c. Federpetroli, DI., 1997, p. 1039. Osserva peraltro Ghiaini, pp. 225 s., che, se all’enunciazione di principio conseguono, in realtà, statistiche giurisprudenziali assai poco indulgenti nel ravvisare ipotesi lecite di denigrazione veritiera, ciò non inficia il principio, ma deriva dal “fatto che il criterio della “tendenziosità” viene per lo più assunto in un significato tale da rendere rarissima, se non da escludere, la possibilità di qualificare non tendenziosa, e quindi lecita, una comparazione commerciale” (Ghidini, p. 226). 11 Nettamente differente è la prospettiva penalistica di partenza: il delitto di diffamazione non offre, infatti, tutela penale diretta alla lealtà della concorrenza, anzi non afferisce alla tutela dell’economia privata o pubblica74: delitto contro la persona, appresta tutela all’onore in sé considerato, come “attributo originario della persona umana”75. È evidente che, in tale prospettiva, anche l’attribuzione diffamatoria di un fatto vero costituisce, obbiettivamente, una lesione penalmente rilevante dell’altrui reputazione: non sussiste infatti alcun interesse generale dell’ordinamento alla divulga zione d’informazioni – tanto più se screditanti – sui privati76; prevale anzi, in linea di principio, un’opposta, sempre più consapevole e matura esigenza di tutela della riservatezza77 e della reputazione personale78, sviluppo in chiave costituzionalmente e socialmente orientata della più tradizionale esigenza d’ordine pubblico, propria della più risalente dottrina 79, di repressione della maldicenza in sè, fenomeno non solo privo di utilità, ma dalle evidenti conseguenze dannose e disgreganti sul tessuto sociale80. L’oggetto di tutela del delitto di diffamazione è ormai concordemente individuato, superate le originarie istanze intimistiche, nel concetto di “onore oggettivo”81, o, nella più recente evoluzione esegetica, “fattuale - sociale” – consistente nella opinione o la stima di cui l’individuo gode in seno alla società per carattere, ingegno, abilità professionale82. La verità del fatto attribuito, conseguentemente, “non legittima, come tale, alcuna offesa all’onore, il quale, come attributo della personalità in quanto tale, è tutelabile, di principio, oggettivamente e indipendentemente dalla falsità o veridicità delle attività o delle Si richiama in proposito il già più volte citato Nuvolone, Relazione introduttiva, p. 35. Mantovani, Diritto penale, Delitti contro la persona, Padova, 1995, p. 260. 76 Come recentemente sottolineato dalla Suprema Corte (Cass., Sez. V, 18 febbraio 2002 n. 10135, Gutierres, Guida al diritto, Il sole 24 ore, n. 23 del 15 giugno 2002, p. 58), anche nell’ipotesi di “esercizio del diritto di cronaca e quello di critica su un processo di pubblico interesse”, l’espositiva non può legittimamente spingersi fino a coinvolgere “informazioni (nella specie, afferenti alla salute psichica di una delle parti del processo) che rientrano nell’ambito della tutela prevista dall’articolo 22 della L. 31 dicembre 1996 n. 675”. Analogamente in dottrina Mazzacuva, Delitti contro la persona: le altre ipotesi di tutela, in Canestrari, Gamberini, Insolera, Mazzacuva, Sgubbi, Stortoni, Tagliarini, Diritto penale, lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, p. 357; Marini, Delitti contro l’onore, Torino, 1996, p. 222. 77 Per tutti De Cupis, Riservatezza e segreto (diritto a), in NN. D. I., XVI, Torino, 1969, 121; Palazzo, Considerazioni in tema di tutela della riservatezza, in Ridpp., 1975, pp. 128 ss; Patrono, Privacy e vita privata, in ED., XXXV, Milano, 1986, p. 565; Giacobbe, Riservatezza (diritto alla), in ED, XL, Milano, 1989, p. 1252; Garavelli, Libertà e segretezza delle comunicazioni, in Digesto pen., VII, Torino, 1993, pp. 429 ss.;.Mazzacuva, Delitti, 385; Morelli, Tecniche di tutela dei diritti fondamentali della persona, Padova, 2003, pp. 113 ss.; sia inoltre consentito rinviare a Manca, Commento all’art. 616, in AA. VV., Codice penale ipertestuale, a cura di Ronco e Ardizzone, Torino, 2003. 78 Morelli, p. 116. 79 Per tutti Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VIII, Torino, 1985, p. 583. 80 Manzini, p. 583. 81 Cass., 22 maggio 1984, Folli, RP., 1985, p. 617; Cass., Sez. III, 7 ottobre 1998, Faraon, CP., 2000, p. 1226; Cass., Sez. V, 30 gennaio 1998, Sandri, DII, 1999, 438; Cass., Sez. V, 16 gennaio 1986, Simeoni, RP., 1986, p. 891; Pret. Siracusa, 13 gennaio 1984, Giudice, FI., 1985, II, 125: Trib. Roma, 19 gennaio 1984, Cavallari, Ridpp., 1986, 308; Cass., Sez. V, 11 marzo 1980, Novi, GP., 1980, II, 703. Parallelamente, in sede civile, Cass. Sez. III, 3 marzo 2000, n. 2367, soc. Seta c. soc. Bieffe MeditalMGI., 2000; Trib. Milano, 21 gennaio 1999, Fondazione Centro San Raffaele Monte Tabor c. Vimercati, GM, 2000, p. 339; Cass., Sez. I, 5 dicembre 1992, soc. Racino pictures c. Ambasciata Rep. Iran, MGI, 1992; Cass., Sez. I, 14 gennaio 1999 n. 334, Fabiani c. soc. Bortalozzi Stei, DII., 1999, 648; in dottrina Siracusano, Ingiuria e diffamazione, Digesto pen., VII, Torino, 1993, 42; analogamente Bricola, pp. 141 ss.; Vitarelli, La diffamazione: elementi costitutivi e forme di manifestazione, in Collica, Gullo, Vitarelli, I delitti contro l’onore, Torino, 2001, 44; Villa, I delitti contro l’onore, Padova, 1992, pp. 2 ss.; Corrias Lucente, pp. 3 ss. ; Vassalli, Libertà di stampa e tutela penale dell’onore, AP., 1967, pp. 3 ss.; pp. 19 ss.; Mantovani, p. 273; Lemme, p. 41; Concas, Il partito politico come soggetto passivo del delitto di diffamazione, RP., 1979, 449 ss.; Florian, Ingiuria e diffamazione, Milano, 1939, 137; Messina, Teoria generale dei delitti contro l’onore, Roma, 1953, 265. M. Gallo, Capacità penale, NNDI, II, Torino, 1958, 889; Conso, Capacità processuale penale, in ED, VI, Milano, 1960, 150; Spasari, Diffamazione e ingiuria, ED., XII, Milano, 1964, p. 483; Palazzo, Persona (delitti contro), in ED., XXXIII, Milano; 1983, pp. 299 s.; Polvani, La diffamazione a mezzo stampa Padova, 1998, 37 s.; Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, I, Milano, 1999, p. 194; Bellantoni., p. 96; Collica, I soggetti: attivo e passivo, Collica, Vitarelli, I delitti contro l’onore, pp. 25 ss. 82 Nemmeno una reputazione già compromessa, infatti, è suscettibile di ulteriori aggressioni diffamatorie: “deve allora concludersi che anche una cattiva reputazione possa peggiorare e che, anche se già compromessa, non possa essere oggetto di ulteriori illecite lesioni. Infatti, anche per una persona imputata di alcuni reati, non può non risultare lesiva la notizia – non vera – che essa è stata condannata per altri gravi reati ed anzi tale notizia fa apparire in una luce diversa e peggiore anche l’esistenza di quell’imputazione sulla cui fondatezza il giudice non si è ancora pronunciato” (Polvani, p. 54). 74 75 12 qualifiche addebitate”83: “la regola è quella dell’irrilevanza della verità o notorietà del fatto attribuito alla persona offesa, in modo che il soggetto attivo della condotta diffamatoria non può pretendere di invocare l’autenticità dell’addebito per scriminare la sua condotta, per l’illiceità della “censura privata offensiva” e per la dannosità sociale della maldicenza”84. Come osservato comunemente in dottrina85, coerentemente con l’enunciata funzione di tutela del delitto in esame, il terzo comma dell’art. 596 c.p.86 espressamente esclude, in linea di principio, la rilevanza a favore del reo della verità dell’attribuzione diffamatoria: “il colpevole dei delitti preveduti nei due articoli precedenti non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa”. Mentre, dunque, in linea di principio, in sede d’illecito concorrenziale la verità del fatto denigratorio attribuito all’imprenditore concorrente esclude di per sé la responsabilità del soggetto agente (come visto, financo escludendo la tipicità ex art. 2598, n. 2, c.c.) in funzione dell’interesse pubblico, connaturato alla struttura stessa del mercato, alla conoscenza delle informazioni vere sulle caratteristiche e qualità dei prodotti e dei loro produttori, invece nella differente prospettiva del delitto di diffamazione la verità dell’attribuzione diffamatoria non esclude affatto, di per sé, la tipicità e la rilevanza penale della condotta87, non sussistendo alcun interesse generale alla diffusione di informazioni sfavorevoli sulle altre persone, né, specularmente, alcun dovere generale della persona di far conoscere circostanze lesive della propria reputazione. 4. L’EXCEPTIO VERITATIS EX ART. 596 C.P. E IL DIRITTO DI CRONACA QUALI STRUMENTI DI ATTRIBUZIONE DI RILEVANZA IN SEDE PENALE ALL ’INTERESSE GENERALE ALLA CONOSCENZA DELLE INFORMAZIONI VERITIERE SUI PRODOTTI ED I PRODUTTORI Solo eccezionalmente, il terzo e il quarto comma dell’art. 596 c.p. – introdotti dall’art. 5 del D.lg.lt. n. 288 del 194488 – ammettono l’exceptio veritatis89, consentendo la prova della verità dell’allegazione diffamatoria a condizione che l’offesa sia consistita nell’attribuzione di un fatto determinato90 e che si sia verificata una delle ulteriori condizioni che seguono: 1) che la persona offesa sia un pubblico ufficiale, e che il fatto attribuitogli attenga all’esercizio delle sue funzioni; 2) che per il fatto attribuito alla persona offesa sia già aperto o si inizi un procedimento penale; 3) che il querelante chieda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto a lui attribuito. A parte l’ipotesi sui generis91 – fondata sul riconoscimento di un del tutto peculiare potere dispositivo dell’offeso92 – dell’iniziativa del querelante, l’eccezionale recupero di rilevanza della verità dell’attribuzione coincide in effetti con l’eccezionale insorgenza – per la qualità pubblica dell’offeso e la “Pertanto”, nel notissimo passaggio argomentativo di Mantovani, 263, “come non è lecito dare dello “sciancato” o dello “schizofrenico” a chi presenta tali difetti fisici o tale malattia psichica, così non è lecito dare del “ladro” o dell’”omicida” all’autore di un furto o di un omicidio”. Parimenti, “la notorietà dei fatti offensivi non esclude l’offensività della loro attribuzione” (Mantovani, 263). Diffusamente, Polvani, pp. 52 ss., 84 ss., p. 91; nello stesso senso Mazzacuva, Delitti, 361; Collica, L’exceptio veritatis, in Collica, Gullo, Vitarelli, p. 231; Marini, p. 222, Bricola, p. 141. 84 Polvani, p. 56. 85 Osserva, specificamente, Collica, L’exceptio veritatis, p. 231: “L’art. 596, comma 3, c.p. contempla la c.d. exceptio veritatis, riconoscendo la rilevanza della prova liberatoria della verità o della notorietà del fatto solo in alcune ipotesi particolari. A differenza di altri ordinamenti, come ad esempio quello tedesco, in cui la verità dell’addebito offensivo costituisce una sorta di elemento negativo inserito nel fatto tipico, di Üble Nachrede (p. 186 StGB), e la prova relativa è ammessa tendenzialmente senza limiti, la soluzione operata dal legislatore italiano è decisamente diversa. Di regola, infatti, la prova della verità è inammissibile”. 86 Si veda specificamente, sul punto, il paragrado seguente. 87 “Nei reati contro l’onore, la verità della qualifica o del fatto attribuito non elimina di per sè il carattere offensivo dell’azione”, osserva Cass., Sez. V, 19 giugno .1992, Monelli, CP., 1994, I, p. 595; si veda anche Cass., Sez. VI, 21 dicembre 1978, Cingoli, CP., 1980, p. 1270. 88 “Nell’originaria impostazione del Codice Rocco, la verità dell’addebito offensivo non aveva”, rammenta infatti Corrias Lucente, p. 107, “alcuna efficacia scriminante del reato di diffamazione”. 89 Bricola, 141, pp. 145 s; Mantovani, pp. 278 ss.; Polvani, pp. 52 ss., p. 91; Mazzacuva, Delitti, pp. 361 s.; Collica, L’exceptio veritatis, in Collica, Gullo, Vitarelli, p. 231; Marini, p. 222. 90 Specificamente Mantovani, Il “fatto determinato” nella problematica dei delitti contro l’onore, Modena, 1967, pp. 78 ss. 91 Mazzacuva, Delitti, p. 362. 92 Corrias Lucente, p. 108. 83 13 natura delle attribuzioni, nonché per la presenza di un procedimento penale – “di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti”93 attribuiti all’offeso94, prevalente sull’interesse individuale alla tutela, comunque, della personale reputazione. “Sono ipotesi”, si è autorevolmente osservato in dottrina 95, “che possono verificarsi anche sul terreno della diffamazione commerciale. Quanto al n.1 si pensi ad es. ad una forma di denigrazione di un dirigente di un ente pubblico economico attuata mediante l’attribuzione di un fatto determinato inerente l’esercizio delle sue funzioni” 96; “quanto al n. 2 è agevole pensare ad una denigrazione mediante réclame, con la quale si accusi l’imprenditore concorrente di fabbricare il prodotto con materiali di contrabbando…il n.3 potrà verificarsi in tutti quei casi in cui il querelante sappia di giocare carte sicure”97. Si tratta di ipotesi di esclusione della responsabilità penale, che – ove occorse, come sopra ipotizzato, in materia di concorrenza sleale – si sovrappongono, in realtà, ad ipotesi già civilisticamente sottratte ab origine, come visto nella trattazione che precede, alla sussumibilità nel tipo civilistico d’illecito. Su tali presupposti non pare dunque assumere eccessiva rilevanza, agli specifici fini del presente lavoro, la determinazione della natura giuridica scriminante o meno delle cause di non punibilità ex art. 596 c.p.. Com’è noto, le cause di giustificazione, a differenza delle altre cause di non punibilità, si caratterizzano per la “rilevanza extrasistematica”98, che rende il fatto coperto “lecito in qualsiasi settore normativo”99, mentre le altre cause di non punibilità operano limitatamente alla materia penale. Nell’ipotesi in esame, tuttavia, caratterizzata dall’originaria liceità civilistica della denigrazione veritiera del concorrente, l’applicazione della disciplina ex art. 596, terzo e quarto comma, c.p., produrrebbe effetti modificativi comunque apprezzabili limitatamente all’ambito penale100. Alla stregua degli elementi fin qui esaminati, la verità dell’attribuzione denigratoria al concorrente da un lato esclude – salvo le sleali modalità di comunicazione – l’applicabilità della disciplina ex art. 2598 c.c., e dall’altro ordinariamente convive, invece, con la responsabilità penale ex art. 595 c.p., salva l’evenienza eccezionale, dovuta all’eccezionale rilevanza pubblica del singolo caso, delle cause di non punibilità tratteggiate dal terzo e dal quarto comma dell’art. 596 c.p. Lo studio comparativo dei criteri di rilevanza penale, e civile ex art. 2598 n. 2 c.c., della verità dell’attribuzione diffamatoria non può tuttavia esaurirsi – in particolare con riferimento alla materia dei profili diffamatori della pubblicità commerciale – nell’esegesi del meccanismo dell’exceptio veritatis delineato dall’art. 596 c.p., polveroso strumento preesistente all’entrata in vigore della carta costituzionale, ed oggi ritenuto residualmente applicabile alla “limitata area operativa”101 in cui non Polvani, p. 57. “La ratio della previsione”, osserva Corrias Lucente, p. 108, “è da rinvenirsi nella superiore necessità di dimostrare la fondatezza-infondatezza dell’addebito, quando l’interesse statuale alla conoscenza del fatto prevalga su quello individuale”. 95 Bricola, pp. 145 ss. 96 “L’ipotesi non è irreale” prosegue Bricola, pp. 145 ss: “la concorrenza sleale tra imprese private e imprese pubbliche è ammessa dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Piuttosto qualche ragione di dubbio sembra nascere per la qualificazione dei dirigenti di imprese pubbliche come pubblici ufficiali e non come incaricati di pubblico servizio”. 97 Bricola, p. 146. 98 Padovani, p. 182. 99 Padovani, p. 182. 100 La questione della natura giuridica e della collocazione sistematica della causa di non punibilità in commento, naturalmente, assume invece rilevanza determinante alla stregua della contrapposta tesi – sostenuta dal Bricola, Profili penali, cit., p. 146, e più recentemente riportata dal Lemme, 41 – secondo cui “l’art. 2598 n. 2 c.c. ricomprende i casi di denigrazione mediante notizie vere” (Bricola, p. 146). In tal caso l’ammissione, ex art. 596 c.p., della prova liberatoria potrebbe o meno estendere i propri effetti anche all’illecito concorrenziale a seconda della qualificazione giuridica cui l’istituto sia ricondotto: una ricostruzione in termini di causa di giustificazione, infatti, comporterebbe – in virtù della particolare natura propria di tale strumento (Padovani, p. 182) – la liceità del fatto di fronte a tutti i rami dell’ordinamento, e spiegherebbe dunque i propri effetti anche in sede civile; una ricostruzione in altri termini, rimarrebbe invece esclusivamente interna al diritto penale, pervenendo alla conseguenza, autorevolmente sostenuta, per cui “i casi di exceptio veritatis non operano anche nel settore civilistico” (Bricola, p. 146). Per completezza, pare opportuno brevemente ricordare che la prevalente esegesi in ordine alla natura giuridica delle cause di non punibilità ex art. 596, commi 3 e 4, c.p., “rinuncia ad una definizione necessariamente “unitaria”, e …ritiene, invece, preferibile nelle prime due ipotesi di prova liberatoria – addebito rivolto ad un pubblico ufficiale, pendenza di un procedimento penale contro l’offeso – l’inquadramento come vere e proprie cause di giustificazione, mentre nell’ultima ipotesi – concessione della facoltà di prova – si ravvisa una causa (sui generis) di estinzione del reato” (Mazzacuva, Delitti, p. 362). 101 Corrias Lucente, 107. 93 94 14 assuma rilievo, ex art. 51 c.p., la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica102, che la dottrina103 e la giurisprudenza104 ormai uniformi hanno costruito intorno alla libertà di manifestazione del pensiero riconosciuta alla persona umana dall’art. 21 Cost. “La cronaca è la narrazione obiettiva di fatti divulgata con lo strumento della stampa quotidiana o periodica, della trasmissione radiofonica o televisiva, o di altri mezzi di comunicazione di massa”105; “la critica consiste invece in un’attività eminentemente valutativa, in un dissenso – o in un consenso per lo più ragionato rispetto alle opinioni o alle condotte altrui”106. Cronaca e critica sono accomunate – e questo è, ad avviso di chi scrive, il nodo centrale della questione – dal fatto che “entrambe concernono gli accadimenti di pubblico interesse ed i soggetti che vi sono coinvolti”107. E’ dunque evidente che la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto prevista dall’art. 51 c.p. è chiamata ad operare proprio nell’ipotesi di diffamazione aggravata, prevista dal terzo comma dell’art. 595 c.p., in cui l’offesa all’altrui reputazione è “recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, nonché nelle ipotesi speciali previste nell’art. 13 L. stampa e 30 L. radiotelevisione: a ben vedere nella specifica materia della pubblicità commerciale diffamatoria – ossia in quelle ipotesi di denigrazione commerciale che non si limitano ad una circoscritta propalazione, ma si avvalgano di mezzi di diffusione pubblicitari – è l’art. 51 c.p., e non già il vecchio strumento dell’exceptio veritatis, ad assumere la funzione esegetica di parametro della rilevanza giustificante della verità dell’addebito diffamatorio. E’ solo al di fuori di tale ipotesi – ossia, in definitiva, nei casi di diffamazione semplice (per la cui integrazione è sufficiente la comunicazione a due persone) nonché aggravata ex art. 595, comma 2, c.p.– che sopravvive lo spazio residuo della disciplina del terzo e quarto comma dell’art. 596 c.p.. In definitiva, il discrimine tra applicabilità dell’esimente ex art. 596 c.p. e della causa di guistificazione ex art. 51 c.p. corrisponde tendenzialmente a quello tra la diffamazione semplice, o meramente attributiva di fatti determinati, e le ipotesi di più ampia propalazione dell’attribuzione denigratoria attraverso il mezzo della stampa, delle trasmissioni radiotelevisive, o attraverso altri canali “La rilevanza del tema è...sfumata sino ad esaurirsi a seguito del riconoscimento dell’efficacia scriminante dei diritti di cronaca e di critica e l’ampia orbita operativa assegnata alla verità del fatto attraverso l’art. 51 del codice penale” (Corrias Lucente, 109). Diffusamente, sul fenomeno “in virtù del quale lo jus narrandi si sostituisce all’exceptio veritatis”, Tomassi, p. 52. 103 I limiti di trattazione della presente sede non consentono una ricostruzione sistematica delle cause di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica, per cui si rinvia, in dottrina, a Nuvolone, I reati di stampa, Milano, 1951; Delitala, I limiti giuridici della libertà di stampa, Justitia, 1959, pp. 397 ss.; Mantovani, I limiti della libertà di manifestazione del pensiero in materia di fatti criminosi, Ridpp., 1966, p. 627; Nuvolone, Cronaca, ED, XI, Milano, 1962; Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971; Amato, Osservazioni in tema di critica, GM, 1973, II, 407; Barile, La libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1975; Conso, Libertà di espressione e tutela dell’onore nei mezzi di comunicazione di massa, Milano, 1979; Bertoni, Diffamazione a partito politico, diritto di querela e libertà di critica, CP, 1984, 1278; Manna, Diritto di cronaca: realtà e prospettive nel delitto di diffamazione a mezzo stampa, GC., 1984, I, 770; Fois, Il c.d. decalogo dei giornalisti e l’art. 21 Cost., DII 1985, p. 152; Armati, La Cute, Profili penali delle comunicazioni di massa, Milano, 1987; Musco, Stampa, ED., XLIII, Milano, 1990; Pulitanò, voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, Digesto pen., IV, Torino, 1990; Mantovani, pp. 283 ss.; Albamonte, Attività di divulgazione scientifica e reato di difffamazione a mezzo stampa, CP., 1995, p. 1202, Zeno Zencovich, Clemente, Lodato, La responsabilità professionale del giornalista e dell’editore, Padova, 1995; Polvani, L’incerta tutela della reputazione dalle aggressioni dei mass media: vecchie e nuove questioni sulla diffamazione a mezzo stampa, CP., 1996, p. 2202; Carletti, I reati a mezzo stampa, in AA. VV., Giurisprudenza sistematica di diritto penale, parte generale, a cura di Bricola, V. Zagrebelsky, II, Torino, 1996, p. 124; Polvani, La diffamazione, 84 ss Boneschi, Etica e deontologia del giornalista nella cronaca giudiziaria: qualche regola da rispettare, DII 1999, p. 569; Corrias Lucente, passim. 104 La giurisprudenza uniforme riconduce all’esercizio del diritto di cronaca, ex art. 51 c.p., la pubblicazione di notizie pregiudizievoli dell’onore – ma oggettivamente vere – in presenza dei due ulteriori requisiti della pertinenza, cioè l’ “interesse pubblico alla conoscenza del fatto” e della continenza, ossia “correttezza formale dell’esposizione”: tra le tante, Cass, Sez, III, 9 aprile 1998, FI., 1998, I, p. 1834; App,. Napoli, 10 febbraio 1998, Danno e resp., 1998, p. 793; Cass, Sez. V, 10 dicembre 1997, CP., 1999, p. 3135; Cass., Sez. III, 4 luglio 1997, MGC., 1997, p. 1138: Trib. Roma, 26 febbraio 1997, FI., 1997, I, p. 1958: Cass. Sez. V, 29 gennaio 1997, CP., 1998, p. 808; Cass., Sez. I, 12 gennaio 1995, CED Cass., 200472; Trib. Milano, 17 dicembre 1995, RP., 1996, p. 350; Cass. Sez. I, 7 febbraio 1996, GI., 1997, I, p. 658; Cass. Sez. I, 14 dicembre 1993, CP., 1995, p. 558; Trib. Milano, II.1.1991, DII., 1991, p. 606; Trib. Roma, 2 dicembre 1988, FI., 1989, II, p. 40; Cass. Sez. V, 16 giugno 1983, CP., 1984, 1938. 105 Polvani, La diffamazione, p. 89. 106 Polvani, La diffamazione, p. 177. 107 Polvani, La diffamazione, p. 177. 102 15 di pubblicizzazione: nell’area della pubblicità commerciale denigratoria, dunque, gli effetti della verità dell’attribuzione diffamatoria dovranno essere valutati attraverso lo strumento offerto dall’art. 51 c.p., che interviene a ricoprire anche le ipotesi di denigrazione commerciale veritiera originariamente riconducibili – come nel summenzionato caso della “denigrazione mediante réclame, con la quale si accusi l’imprenditore concorrente di fabbricare il prodotto con materiali di contrabbando”108, nell’alveo disciplinare dell’art. 596 c.p. Con particolare riferimento all’esercizio del diritto di cronaca109, l’uniforme dottrina110 e giurisprudenza111 in materia di diffamazione col mezzo della stampa ritengono, in particolare, giustificata dall’esercizio del diritto di cronaca l’attribuzione di una circostanza screditante, ma vera, in presenza dei due ulteriori requisiti della “continenza espositiva” e dell’”utilità sociale”, o “rilevanza sociale”, del fatto narrato. Dal raffronto di tali requisiti con le ragioni d’interesse generale che, nell’esegesi civilistica, portano all’esclusione della tipicità ex art. 2598, n. 2, c.c. in caso d’attribuzione al concorrente di fatti veri, emerge, in realtà, un parametro sostanzialmente unitario di rilevanza giuridica della verità dell’addebito: l’eccezionale esclusione di rilevanza penale ex art. 595 c.p., per esercizio del diritto di cronaca, è fondata, infatti, proprio sulle stesse ragioni di continenza, e soprattutto di utilità e rilevanza sociale, ritenute dalla miglior esegesi civilistica connaturate alla più matura concezione del mercato, al cui corretto funzionamento è necessaria, nell’interesse dei consumatori, la circolazione di informazioni veritiere, interesse prevalente sulle contrapposte esigenze imprenditoriali di tutela della propria immagine commerciale. Si perviene, in definitiva, a ritenere giustificati in sede penale quegli stessi fatti già originariamente sottratti alle sanzioni civili ex art. 2598 c.c. In particolare, i criteri giustificanti ex art. 51 c.p. appaiono palesemente fondati sulla sussistenza di requisiti assimilabili a quelli che, in sede civile, escludono la tipicità stessa ex art. 2598, n. 2, c.c. della concorrenza denigratoria ma veritiera: la “continenza espositiva” si sostanzia, in particolare, in un equipollente in negativo di quella scorrettezza e tendenziosità che in sede civile comportano la reviviscenza della responsabilità per denigrazione veritiera; e l’”utilità sociale”, eccezionalmente ravvisabile nel fatto in sè della lesione dell’altrui reputazione, è proprio l’elemento che rende lecita ab origine, in sede civile, la circolazione d’informazioni economiche vere in ordine alle imprese presenti sul mercato e sulle caratteristiche e qualità dei loro prodotti. Non manca, del resto chi si spinge a proporre, limitatamente alla materia della diffamazione col mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, l’esplicita estensione del tradizionale bene giuridico dell’onore a quello – marcatamente attinente al diritto dovere d’informazione connaturato alla lealtà della concorrenza – della “tutela della libera formazione della pubblica opinione”112. Bricola, p. 146. Per il differente e marginale atteggiarsi, in materia, della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica, e per la delimitazione – in materia di denigrazione commerciale – dell’ambito di operatività di quest’ultimo rispetto al diritto di cronaca, si rinvia a quanto specificamente trattato nel par. X. 110 Nuvolone, I reati di stampa, passim; Delitala, pp. 397 ss.; Mantovani, p. 627; Nuvolone, Cronaca, passim.; Nuvolone, Il diritto penale della stampa, passim; Amato, 407; Barile, passim; Conso, passim.; Bertroni, p. 1278; Manna, p. 770; Fois p. 152; Armati, La Cute, passim; Musco, voce Stampa, passim; Pulitanò, voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, passim.; Mantovani, I limiti, 283, ss.; Albamonte, p. 1202, Zeno Zencovich, Clemente, Lodato, passim; Polvani, L’incerta tutela della reputazione dalle aggressioni dei mass media: vecchie e nuove questioni sulla diffamazione a mezzo stampa, p.2202; Carletti p. 124; Polvani, La diffamazione, pp. 84 ss Boneschi, 1999, p. 569; Mazzacuva, passim; Corrias Lucente, passim. 111 Cass., Sez. V, 20 gennaio 2003 n. 2358, Baldi, Guida al Diritto, Il Sole 24 ore, Dossier n. 5 del maggio 2003, p. 59; Cass., Sez. V, 31 gennaio 2003 n.4712, Mondino, Guida la Diritto, Il Sole 24 ore, n. 17, del 3 maggio 2003, p. 66; Cass., Sez. V, 8 luglio 2002, n. 34613, Martinelli, Guida al Diritto, Il Sole 24 ore, n.48, 21 dicembre 2002, 85; Cass, Sez, III, 9 aprile 1998, Foro it., 1998, I, p. 1834; App,. Napoli, 10.2.1998, Danno e resp., 1998, p. 793; Cass, Sez. V, 10 dicembre 1997, Novi, CP., 1999, p. 3135:, Cass., Sez. III, 4 luglio 1997, MGC., 1997, p. 1138: Trib. Roma 26 febbraio 1997, FI., 1997, I, p. 1958: Cass. Sez. V, 29 gennaip 1997, CP., 1998, p. 808; Cass., Sez. I, 12 gennaio 1995, CED Cass., 200472; Trib. Milano, 17 dicembre 1995, RP., 1996, p. 350; Cass. Sez. I, 7 febbraio 1996, GI., 1997, I, p. 658; Cass. Sez. I, 14 dicembre .1993, CP, 1995, p. 558; Trib. Milano 11 gennaio 1991, DII., 1991, p. 606; Trib. Roma 2 dicembre 1988, FI., 1989, II, 40; Cass. Sez. V, 16 giugno 1983, CP., 1984, p. 1938. 112 Tomassi, p. 18. Spiega l’Autore: “ogni reato commesso a mezzo stampa ha un ulteriore bene tutelato. Infatti, per questa categoria di reati, la diffusione del messaggio è così vasta da far ritenere che anche nella legge vi sia un ulteriore bene protetto” (Tomassi, pp. 17 ss). 108 109 16 5. LIMITI DI OPERATIVITÀ DELLA CAUSA DI GIUSTIFICAZIONE DELL’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI CRITICA IN MATERIA DI PUBBLICITÀ COMMERCIALE DIFFAMATORIA. È del tutto estranea alla problematica della verità o meno dell’attribuzione diffamatoria la questione relativa ai margini d’operatività in materia di pubblicità denigratoria della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica. Come condivisibilmente osservato dalla miglior dottrina, infatti, “mentre la cronaca è esposizione di fatti ed il suo scopo è informare il lettore, per cui dev’essere fondata sulla più scrupolosa obiettività, la critica consiste invece in un’attività eminentemente valutativa”113: perciò “dal concetto di critica esula il requisito dell’obiettività...perché essa si risolve pur sempre in un’interpretazione soggettiva, ed è quindi manifestazione di una lettura individuale dei fatti...tanto che può ben dirsi che, in un’ottica di critica, un medesima circostanza può ben essere oggetto di valutazione tanto positiva quanto negativa e dunque, se l’obiettività deve essere richiesta nell’attività di cronaca, non è – invece – connaturata ai commenti” 114. Si conclude, perciò – condivisibilmente – per l’estraneità all’esercizio legittimo del diritto di critica del requisito della verità: “questo, infatti, mal si attaglia all’espressione di un’opinione, che non è idonea ad essere accertata come vera o falsa, ma, al più, fondata o infondata, persuasiva o non persuasiva. Se correttamente inteso, allora, il requisito della verità rimane estraneo all’individuazione dei limiti del diritto di critica, perché per i giudizi di valore la prova della verità non si presta ad essere fornita”115. I limiti del legittimo esercizio del diritto di critica dovranno perciò circoscriversi a quelli “della continenza della forma espositiva e della rilevanza sociale dell’argomento”116. Ne consegue, trasponendo le riflessioni di cui sopra ai rapporti tra il delitto di diffamazione e le ipotesi di concorrenza denigratoria tipizzate dal n. 2 dell’art. 2598 c.c., la chiara riferibilità – in linea di principio – del diritto di cronaca (nei termini sopra delineati) alla sola diffusione di “notizie”, e, per contro, del diritto di critica alla diffusione di “apprezzamenti” – modalità espressiva non avente di per sè valenza informativa, e perciò di per sè avulsa, come visto, da ogni questione di verità o falsità – relativamente alla quale non potrà, dunque, configurarsi un’originaria liceità civilistica analoga a quella tratteggiata in ordine alle “notizie” vere (non paiono potersi rinvenire, nel nostro ordinamento, materiali per la costruzione di un interesse generale – parallelo a quello di ricevere informazioni economiche sul mercato117 – a ricevere critiche e opinioni sfavorevoli sui prodotti e i produttori) e potranno risultare invece originariamente integrati sia l’illecito civile ex art. 2598, n. 2, c.c., sia il delitto di diffamazione, salva la contestuale operatività in entrambi i campi, in caso di continenza espositiva e di rilevanza sociale, della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica. In realtà, tuttavia, la causa di giustificazione in questione appare di assai inconsistente applicabilità ai profili penali e civili della concorrenza denigratoria. La dottrina 118 e la giurisprudenza119, Polvani, La diffamazione, p. 177. Analogamente, Vassalli, 1; Bellantoni, p. 25; Gullo, p. 180; Corrias Lucente,p. 96. Ritengono, invece, che il requisito di verità attenga anche all’esercizio legittimo del diritto di critica Villa, p. 101; Mazzacuva, 357. Conformemente alla prevalente dottrina, osserva Cass., Sez. V, 4 febbraio 2002 n.13160, Liguori, Guida al Diritto, Il Sole 24 ore, n.31, del 10 agosto 2002, 96, che “Il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l’altro, nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio, o, più genericamente, di un’opinione ch e, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti”. Analogamente, tra le più recenti, Cass., Sez. V, 2 febbraio 2002, n.15174, Scialoja, in Guida al Diritto Il Sole 24 ore, n.27, del 13 luglio 2002, 75; Cass., Sez. V, 18 febbraio 2002, n. 10135, Gutierres, in Guida al Diritto, Il Sole 24 ore, n.23, del 15 giugno 2002, 58; Cass., Sez. V, 24 novembre 1993, GP., 1994, II, p. 496. 114 Polvani, La diffamazione, p. 178. 115 Polvani, La diffamazione, pp. 186 s. . 116 Polvani, La diffamazione, p. 187. In giurisprudenza così Cass., Sez. V, 22 febbraio 2002, Scialoja; Cass., Sez. V, 24 novembre 1993. Paesini, DII., 1995, p. 145. 117 Bocchini, pp. 22 ss. 118 Bricola, p. 148; Bellantoni, pp. 355 ss.; Ghidini, p. 216; Gullo, p. 214. 119 Cass., Sez. III, 4 febbraio 1992, soc. Frigodaunia c. Rai Tv, FI, 1992, I, c. 2127; Trib. Roma 18.06.1997, soc. La Giara c. soc. ed. Periodici culturali, DII, 1998, 283; Trib. Roma 23 luglio 1984, soc. Berec Superpila c. Rai Tv, FI, 1984, I, c. 1963. 113 17 in particolare, paiono riportare all’esercizio del diritto di critica la pubblicazione dei Warentests. Secondo la più condivisa definizione, “il Warentest è una verifica o sperimentazione, da parte di istituti, associazioni o riviste specializzate, di gruppi di prodotti dello stesso genere, tra loro fungibili; i risultati di tali esami vengono poi, di regola, sintetizzati in un giudizio complessivo che, anche quando non raccomanda o sconsiglia esplicitamente l’acquisto del prodotto preso in esame, è destinato comunque ad esercitare un’influenza determinante sulle scelte del consumatore”120. In realtà, come si vedrà tra breve, le uniche ipotesi d’operatività in materia di Warentests della scriminante del diritto di critica sono proprio quelle in cui la pubblicazione del Warentest esula dall’area della pubblicità commerciale denigratoria. E’ pur vero che i risultati di tali sperimentazioni possono tradursi in un’espressione di valutazioni negative su di un prodotto presente sul mercato: autorevole dottrina inquadra tali pubblicazioni, in linea di principio, come “un’attività di informazione e di critica scientifica”121, riconducendo la pubblicazione del Warentest proprio alla scriminante ex art. 51 c.p. dell’esercizio del diritto di critica in presenza dei tre requisiti dell’ “esattezza del test”122; “l’imparzialità dell’ente o dell’associazione o rivista che lo compie” 123, e della “continenza” 124 dell’esposizione. Deve però sottolinearsi, agli specifici fini della nostra analisi comparativa, che proprio la compresenza dei tre summenzionati requisiti pone l’applicabilità della scriminante in commento necessariamente al di fuori dal campo d’indagine del presente studio. La possibile 125 sussistenza di un’ipotesi – scriminata dal diritto di critica ex art. 51 c.p. – di diffamazione col mezzo della stampa o altro mezzo di diffusione, non potrebbe infatti comunque riguardare fatti contestualmente rilevanti ex art. 2598, n. 2, c.c., per la carenza del presupposto soggettivo della concorrenza tra imprenditori, esclusa in radice dal requisito di imparzialità dell’autore del test126: la causa di giustificazione in commento andrebbe ad incidere in sede civile, a ben vedere, unicamente su di un’ipotesi di comune responsabilità aquiliana 127. La coincidenza tra l’area di rilevanza penale ex art. 595 c.p. e quella d’applicabilità della fattispecie civile ex art. 2598, n. 2, c.c. si realizza invece proprio nell’ipotesi in cui il Warentest venga occultamente commissionato o pilotato, fin dapprincipio, da un imprenditore concorrente128, oppure qualora, a posteriori, l’imprenditore i cui prodotti siano stati favorevolmente giudicati dalla seria e imparziale analisi sperimentale inserisca in una comunicazione pubblicitaria129 i risultati già resi noti Bonasi Benucci, Liceità del Warentest (Divagazioni in margine al convegno di Vienna), RDC, 1963, I, p. 473. Bricola, p. 148; Ghidini, p. 216. 122 Bricola, p. 148. Come è agevole notare, non è richiesta la verità, ma l’esattezza del test , nel senso della mera correttezza metodologica (“la serietà e la scientificità del metodo impiegato”, per Trib. Roma, 23.07.1984, soc. Berec Superpila c. Rai Tv) dell’indagine scientifica e dei protocolli sperimentali applicati. L’assenza di un’attendibilità metodologica dei risultati negativi dell’analisi – presentata come scientifica – del prodotto di un concorrente è ritenuta integrante l’illecito di concorrenza denigratoria ex art. 2598, n. 2, c.c., da Trib. Roma, Sent. 29 settembre 1993, soc. Colgate Palmolive c. soc. Procter Gamble Italia, in RDI., 1993, II, p. 382. Osserva del resto Polvani, La diffamazione, p. 187, in linea generale, che “può...dirsi che il requisito della verità esuli dall’ambito di ricerca dei limiti del diritto di critica, anche quando questa” – assumendo i connotati della “critica fattuale” (Polvani, La diffamazione, 178) – non si limita all’espressione di mere opinioni ma “trae lo spunto da fatti presentati come reali”. 123 Bricola, p. 148. 124 Bricola, p. 149. Specifica, in particolare, l’illustre Autore che “la liceità del Warentest è condizionata...a taluni presupposti: l’esattezza del test, che può essere compromessa quando il raffronto viene, ad es., operato fra prodotti appartenenti a categorie di prezzi diversi opporre dalla particolare relatività nel tempo dei criteri scientifici assunti quale parametro del raffronto; l’imparzialità dell’ente o dell’associazione o rivista che lo compie: Tale requisito che può essere compromesso dalla tacita connivenza con uno degli imprenditori concorrenti, viene salvaguardato tramite il ricorso a pareri scientifici pro veritate. Una miglior garanzia si avrebbe, almeno potenzialmente e senza badar troppo ai tempi presenti, affidando quei tests ad enti pubblici. L’ultimo requisito cui è condizionata la liceità è quello della continenza: il test e la critica che esso implica devono mantenersi entro i limiti del dovere d’informazione del consumatore. Al di fuori di questi limiti l’attività impinge nell’illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ., ovvero nell’art. 595 c.p. qualora la denigrazione si traduca, caso se non frequente almeno possibile, in un’offesa alla reputazione commerciale.” 125 Bricola, p. 149. 126 Bricola, p. 149. 127 Bricola, p. 149. 128 E’ l’ipotesi, sollevata dal Ghidini, p. 215: “Va da sè – è troppo ovvio – che ci riferiamo a ipotesi di giudizi “pilotati” - e non a vere e libere (e lecite e utili) espressioni di critica e “controllo sociale” sui beni e servizi immessi sul mercato”. 129 Bricola, p. 150: “Il momento pubblicitario compare, cioè eventualmente, in un secondo tempo, allorché i predetti giudizi vengono estratti dalla rivista che li ha pubblicati e inseriti dall’imprenditore i cui prodotti ne risultano favoriti, in un annunzio reclamistico”. 120 121 18 dallo sperimentatore o dall’ente, associazione o rivista commissionante. In tali ipotesi, peraltro, come condivisibilmente sintetizzato, l’illiceità in sede civile e penale – e in ogni caso l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica – emergerebbe “in modo evidente, anche alla luce dei principi enunciati in precedenza: cade il requisito dell’imparzialità e l’attività si rivolge non più al fine pubblico di informare i consumatori, ma ad un fine egoistico di lucro. Dal terreno dell’informazione e della critica obbiettiva si passa a quello della propaganda”130, in cui, dopo l’imparzialità, è immancabilmente destinato a perdersi anche il requisito dell’utilità sociale, sostituito da quello “individualistico...di lotta commerciale”131. 6. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. L’analisi comparativa dell’atteggiarsi, in materia di verità dell’addebito lesivo, del delitto di diffamazione tipizzato dall’art. 595 c.p. e dell’illecito concorrenziale disciplinato dall’art. 2598, n. 2, c.c. ha evidenziato il coerente percorso interpretativo maturato – pur sulla base di differenti strumenti e funzioni di tutela – nei due pur distinti ambiti disciplinari: percorso improntato, in entrambi i campi, all’esigenza di traghettare la vetusta disciplina della materia al di fuori delle secche del principio di esclusiva tutela dell’interesse imprenditoriale cui è storicamente legata, a vantaggio di una ricostruzione che tenga conto dell’interesse del pubblico dei consumatori alla conoscenza di informazioni relative ai prodotti e/o servizi loro proposti e alle imprese che li immettono sul mercato. Tanto l’apparato civilistico ex art. 2598, n. 2, c.c., che quello penalistico ex art. 595 c.p., risultano infatti aver sviluppato peculiari strumenti di limitazione dell’operatività delle rispettive fattispecie in modo tale da consentire – sia in materia di pubblicità commerciale denigratoria, sia nelle più comuni ipotesi di denigrazione integrante una diffamazione semplice o aggravata dalla sola attribuzione di fatti determinati – un consistente margine di riconoscimento dell’interesse generale alla circolazione d’informazioni veritiere sulle caratteristiche dei prodotti presenti sul mercato e dei loro produttori: a quella limitazione dell’area d’illiceità alla sola attribuzione di addebiti falsi, cui si perviene in sede civile escludendo la tipicità stessa ex art. 2598 n. 2 c.c. dell’allegazione di fatti veri, si perviene in materia di diffamazione – delitto contro la persona, di per sè estraneo alle logiche di tutela di beni giuridici economici, e che di per sè incrimina anche l’attribuzione offensiva di fatti veri – attraverso l’operatività del vecchio strumento ex art. 596 c.p. quanto alle ipotesi estranee all’ambito pubblicitario, e della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca ex art. 51 c.p. quanto alle ipotesi di diffamazione caratterizzata dal mezzo della stampa, o radiotelevisivo, o da altro mezzo di pubblicità, recuperando così anche in sede penale, quantomeno in “seconda battuta”, la liceità del fatto a fronte dell’interesse generale – quale è, nel nostro caso, quello dei consumatori alla verità delle informazioni circolanti nel mercato – alla conoscenza della notizia. Si realizza in via esegetica, conclusivamente, un equilibrato sistema di tutela giudiziale della lealtà della concorrenza e della correttezza professionale degli operatori del mercato, in cui l’interesse dell’imprenditore alla tutela della propria immagine commerciale riceve protezione, attraverso gli esaminati strumenti sanzionatori civili e penali, finché la tutela di siffatta istanza non contrasti con l’interesse generale – che alfine emerge in termini di tendenziale prevalenza sul primo – alla conoscenza della verità sulle qualità e caratteristiche dei soggetti imprenditoriali presenti sul mercato e dei loro prodotti. Questo, in sintesi, il punto d’arrivo dell’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale sui vecchi strumenti repressivi della concorrenza – ed in particolare della pubblicità commerciale – denigratoria, trascurati dal legislatore a vantaggio della parziale attribuzione di nuove funzioni di controllo a nuove istituzioni amministrative, ma persistentemente ridestati, nel diritto vivente, a colmare esigenze e vuoti di tutela fatti persistere dall’assenza di un’organica riforma dell’intero sistema d’intervento giudiziale, penale ed extrapenale, sulla concorrenza sleale. Giovanni Manca Dottorando di ricerca in Diritto Penale Università di Macerata 130 Bricola, p. 150. 131 Bricola, p. 150. 19