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IL VOCABOLARIO DEL CIBO DI SLOW FOOD
Come mangiare
in cento parole
Saggistica
VI
MARCO BARDAZZI
PIERO BIANUCCI
P
uò capitare che un libro di fisica «dura» arrivi nella classifica dei
saggi più venduti. Capita perché la fisica
cerca di rispondere a una domanda antica: com’è fatto il mondo? E questa domanda riguarda
tutti. Forse si spiega così il successo del libro di Carlo Rovelli,
che la risposta, sia pure per
esclusione, la serve già nel titolo:
La realtà non è come ci appare.
Il primo ad affermarlo fu il filosofo greco Democrito 2500 anni
fa. A noi la realtà appare come
qualcosa di continuo. Un tavolo
sembra un oggetto solido e liscio.
Democrito fece un esperimento
mentale: immaginò di suddividere
un pezzo di materia in frammenti
sempre più piccoli. Si può fare all’infinito? No, perché arriveremmo a frammenti infinitamente piccoli, cioè a punti senza dimensione. Ma se i punti sono senza dimensione, puoi metterne insieme
quanti vuoi, non avrai mai un oggetto dotato di volume. Dunque la
materia deve essere fatta di pezzetti piccoli ma non infinitamente
piccoli, e non ulteriormente divisibili. Democrito li chiamò atomi.
Cinzia Scaffidi
«Mangia
come parli»
Slow Food
Editore
pp. 192, € 14,50
LEZIONI DI LEADERSHIP
I
ndagare sul concetto di leadership è sempre stata una passione
americana. Non c’è personaggio
pubblico di un qualche spessore
che non si confronti con questo
tema. Le immancabili biografie a cui
ogni presidente degli Stati Uniti si dedica, non appena diventato un pensionato, sono soprattutto trattati sulla leadership. L’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, per raccontare come
aveva ripulito Manhattan a colpi di
«tolleranza zero», scelse di scrivere un
libro autobiografico, nel quale le sue
mosse da primo cittadino diventavano
regole pratiche per dirigenti, manager
e boss vari. Titolo, non particolarmente
fantasioso: Leadership.
Non sorprende dunque veder comparire nello «scaffale dei leader» quello
che probabilmente è stato l’imprenditore più geniale che l’America abbia
prodotto negli ultimi decenni: Steve
Jobs. Se un tempo scienziati e imprenditori studiavano le biografie di Thomas Edison e Henry Ford alla ricerca di
ispirazione, oggi è ragionevole vedere
come punto di riferimento il fondatore
della Apple, scomparso nel 2011. Chi conosce un po’ la figura di Jobs, però, può
legittimamente interrogarsi su quale
modello di leadership possa incarnare
un uomo che era noto per il caratteraccio e temuto da tutti i collaboratori.
In realtà Steve Jobs ha molto, moltissimo ancora da insegnare a tutti noi.
C’era del metodo anche nelle sue leggendarie esplosioni d’ira, o nel suo perfezionismo ai limiti del maniacale. A cogliere l’essenza del Metodo Jobs è stato
il suo biografo Walter Isaacson, che ora
ce la propone sotto forma di 14 regole
pratiche, supportate da esempi che attingono alla vita dell’uomo che ci ha dato il Mac, l’iPhone e l’iPad.
Le Lezioni di leadership, da tenere
sempre a portata di mano e non su uno
scaffale, sono nate come lunga inchiesta che Isaacson ha scritto non a caso
S
e Biancaneve avesse letto questo libro la
sua storia sarebbe andata in modo diver­
so. La mela non l’avrebbe mangiata, così
rossa, rotonda e lucida. Chissà quante ne avrà
scartate la strega prima di trovarne una tanto
perfetta. Perché c’è una parola che dà un senso
a tutte le altre: consapevolezza. Non figura fra i
100 termini scelti da Cinzia Scaffidi per il suo
Mangia come parli, ma è continuamente evo­
cata e fornisce la bussola per orientarsi in un
viaggio alla scoperta, come dice il sottotitolo, di «co­
m’è cambiato il vocabolario del cibo».
Senza intenti didascalici, ma con elementi storici,
scientifici, e volendo anche di buon senso, il percorso
di muove con un gioco di rimandi fra significati e ra­
gionamenti. Per arrivare a rendersi conto che, in fat­
to di alimentazione, estetico spesso non ha a che fare
con etico, anche se ci somiglia. Che ciò che è bello,
non è necessariamente anche buono. Ci sono parole
antiche (e quindi più affascinanti dell’ancora sotto­
valutato vecchie) come «Comunità”, o come quei
prodotti che accompagnano la nostra vita da tempo,
che parlano di passato e tradizioni, ma anche di futu­
ro, con un bagaglio di competenza, profumi e sapo­
ri. Parole a rischio di estinzione, come «Conserva», o
che fanno fatica, basti pensare a «Cura». Altre susci­
tano interrogativi. Avremo ancora «Insetti», per spe­
Walter
Isaacson
«Steve Jobs.
Lezioni di
leadership»
Mondadori
pp. 104, € 12
Jobs: vuoi il successo?
Fa’ le cose belle e semplici
Le 14 regole che il fondatore di Apple seguiva e imponeva
dal perfezionismo maniacale per i dettagli alla libertà della fantasia
Concentrati
Attribuisci
valore
al prodotto
Pensa
ai prodotti
prima che
ai profitti
Semplifica
Punta
alla perfezione
Diventa responsabile
dell’intero processo
Lavora
con i migliori
Quando resti indietro
fai un salto in avanti
Favorisci
il faccia a faccia
Mantieni la
visione generale
senza dimenticare
i dettagli
Non essere
schiavo dei focus group
Coniuga discipline
classiche
e scientifiche
Plasma
la realtà
Stay hungry,
stay foolish
LA FISICA DI ROVELLI
Il tempo gocciola
come un rubinetto
Tra stringhe che vibrano, “loop” e particelle di Dio:
il funzionamento dell’universo nella gravità quantistica
Carlo Rovelli
«La realtà
non è come
ci appare»
Raffaello
Cortina
pp. 241, € 22
In 2500 anni il concetto di atomo è molto cambiato. E’ rimasta
però l’idea di base: la struttura
profonda della materia è granulare. Se potessi guardare il tavolo ingrandendolo un milione di miliardi di volte vedrei che è fatto essenzialmente di vuoto, la distanza tra
un «grano» e l’altro (i nuclei atomici) è enorme rispetto ai grani.
Se i grani fossero palloni da calcio,
ne troveremmo uno ogni qualche
chilometro. E in mezzo che c’è?
Lo spazio. Non però quello di
Newton, che ricorda una scatola
vuota nella quale possiamo mettere degli oggetti. Con la teoria della
Carlo Rovelli,
insegna fisica
teorica
all’Università
di Aix-Marseille,
è uno dei padri
della gravità
quantistica a loop
relatività speciale (1905) e generale (1916), Einstein ci ha spiegato
che materia ed energia sono intercambiabili, che anche l’energia è
granulare, che tempo e spazio sono intimamente connessi e che a
dettare la forma dello spazio-tempo è la massa-energia. Lo spazio,
dunque, non è la scatola vuota di
Newton ma il «campo» che la massa-energia crea intorno a sé, come
una calamita crea il campo magnetico visualizzabile con la limatura di ferro. Due grandi sistemi di
idee regolano il tutto: la meccanica quantistica rende conto con
estrema precisione delle particel-
per la Harvard Business Review, una rivista-cult per la classe dirigente ma anche un serbatoio di idee per creativi di
ogni settore.
Due imperativi riassumono meglio
di altri le lezioni di Jobs: «Concentrati»
e «Semplifica». Il primo non è un invito
a saper scegliere cosa davvero è importante, a concentrarsi sulle priorità senza disperdere energie. «Decidere quello che non si deve fare - secondo il fondatore di Apple - è non meno importante di decidere cosa si deve fare». È la
filosofia che Jobs impose al suo rientro
in azienda per salvare la Apple dalla
bancarotta ed è il motivo per cui, da allora, la società di Cupertino si è concentrata su pochi prodotti d’eccellenza, invece di puntare su una vasta gamma di
modelli come fa la rivale Samsung.
Saper scegliere le proprie priorità è
una regola che si accompagna a un altro dei 14 comandamenti di Jobs secondo Isaacson: non fidarsi dei focus
group. Cioè, non essere schiavi di ciò
che pensa o di ciò che piace alla gente,
per un semplice motivo: «I clienti non
sanno quello che vogliono finché non
glielo abbiamo mostrato noi». Un concetto che potrebbe essere pericoloso
nelle mani di un politico, ma che ha una
sua razionalità nei campi d’azione dell’innovazione. Quando a metà degli an-
le elementari (nipotine degli atomi
di Democrito) e delle loro forze
(elettromagnetica, interazione debole e interazione forte); la relatività generale rende conto del cosmo a grande scala e della sua forza, la gravità.
Purtroppo c’è un problema: per
la meccanica quantistica il mondo
è granulare, per la relatività generale no. Oggi la sfida è mettere
d’accordo queste visioni del mondo costruendo una teoria quantistica della gravità.
Fin qui Carlo Rovelli si muove
su fisica consolidata. Il resto è un
cantiere aperto. In una teoria
quantistica della gravità anche lo
spazio-tempo dev’essere granulare, altrimenti ricadiamo nel paradosso della divisibilità all’infinito
già affrontato da Democrito.
Quindi lo spazio dev’essere per
così dire fatto di «atomi di spazio»
e il tempo non scorre come un fiume ma gocciola come un rubinetto. In altre parole, c’è un limite alla distanza più breve e al tempo
più breve. Per motivi di meccanica quantistica che tralasceremo,
tali limiti sono la lunghezza di
Planck, pari a 10 alla meno 35 metri, il tempo di Planck, pari a 10
alla meno 43 secondi.
A questo punto i teorici si divi-
LA STAMPA
SABATO 5 APRILE 2014
UMBERTO FIORI
Il diario
di
lettura
L’ex voce degli Stormy Six raccoglie 30 anni di poesie:
la quotidianità in versi, tra Montale, Baudelaire e Rita Pavone
ELENA MASUELLI
ni 2000 si cominciò a parlare di smartphone, non era chiaro che cosa significasse davvero per un telefono essere «intelligente».
Vennero fuori tanti modelli, in buona parte
basati sulle indicazioni dei focus group. Poi,
un giorno del 2007, Steve Jobs tirò fuori
dalla tasca un iPhone e tutti capirono come
doveva essere uno smartphone: le caratteristiche le aveva decise la Apple, rispondendo a esigenze che in larga parte gli utenti
non sapevano neppure di avere.
«Semplifica» è l’altro mantra di Jobs.
Chi lavorava con lui era continuamente sfidato a rivedere i prodotti, rendendoli più
semplici senza perdere niente in efficienza:
meno spazi, meno tasti, meno viti. Per i progettisti ogni nuovo prodotto era un incubo,
E mai inseguire i gusti della
gente: «I clienti non sanno ciò
che vogliono finché non glielo
abbiamo mostrato noi»
reso ancora più complicato dalla tendenza
di Jobs a «deformare la realtà» per pretendere l’impossibile (o quantomeno ciò che ai
collaboratori sembra impossibile, e che però alla fine si avverava). Il risultato finale
era un minimalismo che si è tradotto in bellezza: il design Apple è da tempo materiale
da musei di arte contemporanea.
Il perfezionismo di Jobs - un’altra delle
sue 14 regole - si estendeva anche alle parti
del prodotto che nessuno vedrà mai. Ai progettisti del Mac impose di realizzare circuiti interni di particolare bellezza, con i chip
perfettamente allineati, come se fossero
un’opera d’arte. Era il frutto di un insegnamento ricevuto dal padre quando era piccolo, che gli raccontava come i bravi falegnami fossero quelli che usavano il legno buono
anche per realizzare la parte posteriore
dell’armadio, che nessuno avrebbe visto.
Un modo di lavorare - e di essere leader che fa di Steve Jobs un erede degli scalpellini delle grandi cattedrali, quelli che realizzavano con cura le statue sulle guglie più
alte e nascoste. Là dove nessuno all’epoca
poteva vederle. Eccetto Dio.
dono. Da un lato abbiamo i fisici della
gravità quantistica a «stringhe»: il
mondo sarebbe fatto di «cordicelle»
della lunghezza di Planck che con le
loro vibrazioni darebbero origine a
particelle e forze fondamentali. Dall’altro lato abbiamo i fisici della gravità quantistica a loop, nella quale lo
spazio è quantizzato da linee chiuse
(loop) in una rete costituita dal pullulare di quanti di gravità.
Carlo Rovelli sta dalla parte (minoritaria) dei loop. Witten e molti altri
dalla parte delle stringhe. Il fatto che
al Cern abbiano trovato il bosone di
Higgs ma non particelle supersimmetriche farebbe pendere la bilancia dalla parte dei loop. Chi vivrà, vedrà.
Tornando al libro, è notevole che
Rovelli, capo del gruppo di ricerca in
gravità quantistica all’Università di
Aix-Marseille e autore di importanti
contributi alla teoria a loop, sia riuscito a divulgare concetti così esoterici.
L’ha fatto con uno stile lievemente paternalistico: «caro lettore», uso del
«noi inclusivo», analogie tratte dalla
vita quotidiana, toni confidenziali tipo
«vorrei fare una pausa». Ma l’ha fatto.
C’è forse una svista. Rovelli scrive che
tra la lunghezza di Planck e le dimensioni dell’universo ci sono 120 ordini
di grandezza. Sommessamente, dovrebbero invece essere 61. Assai meno, ma sempre tanti.
“Mi lascio possedere
dal canto delle parole”
MARCO BELPOLITI
I PREFERITI
L
a stanza dove lavora
Umberto Fiori è uno
studiolo stretto e lungo, fasciato su tre pareti di libri che arrivano fino al soffitto. Nella quarta un’ampia finestra, che s’affaccia su una
strada di Milano solcata da
platani. Il tavolo è incassato
dentro la libreria come se
fosse un cubicolo nel cubicolo: cella monacale. Computer,
fotografie, disegni, libri e riviste aperte. La sua carriera
di autore è partita in due parti. Nel 1973 entra negli Stormy Six, gruppo musicale fondato in anni precedenti, di
cui diviene il cantante, ma
anche autore. Sono dieci anni
in giro per l’Italia e l’Europa.
Poi nel 1983 si scioglie il gruppo. Fiori va a insegnare. Ha
trentaquattro anni e dietro le
spalle un pezzo consistente
della propria vita. Tre anni
dopo da San Marco dei Giustiniani, un piccolo e raffinato editore, esce Case suo primo volume di poesie. Nel decennio successivo Marcos y
Marcos stamperà Esempi,
Chiarimenti, Parlare al muro,
Tutti, La bella vista, raccolte
poetiche ne fanno di Fiori
una delle voci più significative della nuova poesia italiana. Poi nel 2009 Voi da Mondadori, che ora pubblica l’intera serie dei suoi versi in un
Oscar intitolato semplicemente: Poesie 1986-2014.
La poesia di Fiori parla
una lingua quasi quotidiana,
semicolloquiale, sulla scia di
poeti come Vittorio Sereni e
Giovanni Raboni, poesia civile, ma senza la tonalità aulica
di tanta poesia italiana; contiene infatti una vena comica,
quasi parodica, inquieta,
senza dubbio. Del passato di
cantante e musicista con il
gruppo milanese degli anni
Settanta, conserva un impianto antiretorico. Parla
del quotidiano vivere e del
suo immancabile logoramento. Nel volume di Mondadori sono ospitati i primi
versi di un testo Il conoscente
che s’annuncia uno straordinario romanzo in versi sui
nostri anni, della post-politica, del berlusconismo, dell’ubriacatura leghista, dove
il personaggio principale
porta il medesimo nome dell’autore: Umberto Fiori.
Che cosa ha fatto dopo la fi­
ne del gruppo musicale?
«Mi sono disperato. Non
avevo più un lavoro né una
prospettiva. Era crollata la
vicenda politica e quella musicale. Mi sono ritrovato solo, a rispondere in prima
persona di cose che prima
erano collettive».
Perché allora la poesia?
«Ho cominciato ben prima
a scrivere versi, prima di cantare, anche se nel panorama
della poesia italiana sono
l’unico ad aver fatto il cantante e il poeta; a parte, forse, solo Claudio Lolli».
Charles
Baudelaire
«Opere»
Mondadori
pp. XLIX-1798,
€ 65
Franz Kafka
«La
metamorfosi e
altri racconti»
Garzanti
pp. XXVII-204,
€8
E allora perché continua a far­
lo, scrivendo persino un ro­
manzo in versi?
«Credo nella funzione della
poesia: arrivare alla parola. Come si dice in altro contesto: arrivare alle mani. Chi scrive di
scienza sa che la sua parola può
essere spiegata con altre parole. La parola poetica non ha altra spiegazione: è assoluta. La
società vuole parole che sappiano spiegare, convincere, sedurre. Tuttavia la poesia ci
mette di fronte a esperienze
che tutti facciamo».
Il cantante­poeta
rimentare energetici piatti esotici, dopo il massiccio
uso di pesticidi? Ci verrà «Sete» mangiando una bi­
stecca di carne rossa e pensando che per produrla oc­
corrono 15.000 litri d’acqua?
E fra concetti diventati meno oscuri, grazie anche
al lavoro di Slow Food, da «Biodiversità» a «Etichet­
ta», si è colti da un brivido ad «Autentico», chiarendo
la differenza fra estratto o aroma, per esempio di va­
niglia, tutt’altro che una sfumatura: genuino il pri­
mo, ricavato dai semi, sintetico il secondo, ottenuto
dagli scarti della lavorazione della carta. E arrivando
a «Biologico» c’è spazio anche per la nostalgia, con la
citazione di Pier Paolo Pasolini e della sua fotografia
di quando , per l’ambiente, tutto è cambiato, con «la
scomparsa delle lucciole».
VII
.
IL SUO LIBRO
Umberto Fiori
« Poesie
1986-2014»
Oscar
Mondadori
pp. 272, € 20
Ma chi giudica la parola poeti­
ca?
«Fare poesia è rischiare la
parola. Non c’è un giudizio
obiettivo. Sia il dilettante che il
poeta laureato sono sullo stesso
piano».
E il riconoscimento, come fun­
ziona?
«Non c’è niente di sicuro. Nella poesia c’è qualcuno che parla
degli affari suoi, ma la grande lirica è quella che attraverso le vicende personali riesce a fare
qualcosa di esemplare».
Nella sua poesia ci sono imma­
gini di case, muri, cose quoti­
diane, perché?
una voce: un destino. Mi sono
reso conto che la poesia rischiava di essere solo una tecnica letteraria. I veri cantanti
poi non sono quelli che cantano bene, ma quelli che sono
posseduti da una voce: Edith
Piaf o Rita Pavone».
Ha scritto di recente un saggio
su un racconto di Kafka, «Giu­
seppina la cantante ovvero il
popolo dei topi». Kafka è uno
dei suoi autori preferiti?
«Sì. I topi del racconto amano Giuseppina per il suo fischio.
Non sanno cosa è il canto, tuttavia lei li incanta. Il canto non è
un’attività estetica, ci dice
Kafka, ma l’avventura di chi si
espone con il proprio corpo».
Tra i poeti chi le piace?
«A dodici anni mi regalarono
Ossi di seppia di Montale. Ho
«Scrivere versi in Italia
è come amare il baseball
in un Paese che vive di solo calcio»
NellaprefazionedellibroAn­
drea Afribo cita una sua fra­
se: «per essere poeta occorre
saper cantare».
imparato lì che nella poesia la
parola assume un ruolo straordinario».
«Vuol dire che occorre
«Negli anni Ottanta frequen-
E i poeti più giovani?
tavo Sereni e Fortini. Allora il
ruolo del poeta era prestigioso,
poi è decaduto».
Perché non ha più quel credi­
to?
«Per me è un discorso politico, un modo per essere con gli
altri. Il poeta nel Novecento
era un soggetto privilegiato:
D’Annunzio, Montale, Pasolini.
Una voce che si distingue dagli
altri. Nei miei versi non c’è la
prima persona. Il poeta non si
stacca dagli altri».
«Tante ragioni. La poesia
Nel passaggio dalle canzoni al­
stessa si è scavata una nicchia
la poesia cosa è cambiato?
e ha elaborato un linguaggio
«Nelle canzoni c’è una diper pochi. Ma anche perché mensione epica, la comunità è
negli anni Ottanta ha perso cre- «Carlo Emilio Gadda usa l’italiano
dito la figura e la
funzione pubbli- come una tastiera infinita,
ca dell’intellet- per rivelare un disperato isterismo»
tuale. Si pensi a
Pasolini: prima i poeti veniva- già data. Nella poesia no; è una
no chiamati a pronunciarsi sui comunità a venire».
fatti sociali. Ora no».
Tragliautoricheleinteressano
La poesia oggi non ha neppu­
re un valore auratico, gli dico.
«Baudelaire, uno dei miei autori preferiti, letto attraverso
Walter Benjamin, aveva capito
che alla poesia era stato ritirato
il suo mandato. Certo, ci sono
stati D’Annunzio e ancora Pasolini, ma poi basta. Forse solo
Raboni, per stare all’Italia. I poeti si sono chiusi in un giardino
d’infanzia, separati dal dibattito sociale, politico. In Italia fare
il poeta è come essere amante
del baseball in un paese in cui
prevale il calcio».
c’è Baudelaire, perché?
«Per via della centralità dell’immagine nella sua poesia: i
ciechi, il cigno, il passante, sono
immagini memorabili».
E tra gli autori italiani?
«Gadda. Usa l’italiano come
una tastiera infinita, non in
modo estetico, ma per rivelare
una soggettività disperatamente isterica. Lo sa e la offre
agli altri. Si ride e si piange
nello stesso tempo».
E Kafka?
«Un maestro. Di più un sapiente. Un mitografo».