Cenni di storia economica

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ECONOMIA
L’economia politica prende in considerazione gli uomini come membri di una società e studia il complesso degli atti dell’uomo
aventi come fine ultimo il soddisfacimento dei propri bisogni, ossia analizza il comportamento umano di fronte al problema della
soddisfazione dei bisogni.
Oikos=casa + nomos=legge + polis=stato
La nascita dell’economia politica come scienza autonoma è piuttosto recente. In precedenza, era fatta rientrare nell’ambito della
filosofica morale e nella filosofia del diritto. Il problema che interessava i filosofi, non era quello di capire il funzionamento del
sistema economico, ma di dare prescrizioni su come l’uomo retto doveva comportarsi.
Con l’intensificarsi dei traffici nel XV sec. nasce la scienza economica.
Il primo periodo è usualmente indicato come mercantilismo (in Francia detto colbertismo) (dalla fine del feudalesimo alla prima
rivoluzione industriale).
Elementi fondamentali sono per i mercantilisti (ossia i borghesi):
lo scambio ed il relativo profitto, nella convinzione che la potenza di uno stato dipenda da una bilancia commerciale
favorevole, ossia da esportazioni prevalenti sulle importazioni (se aumenta l’oro aumenta la ricchezza di un paese) e
dall’abbondanza di metalli preziosi;
l’espansione coloniale al fine di procurare le materie prime a basso costo per la produzione delle industrie.
Ma l’adozione delle politiche mercantilistiche da parte dei diversi Paesi condusse inevitabilmente ad un crescente protezionismo
(chiusura del mercato delle importazioni), con conseguente stallo nei rapporti economici internazionali ed un relativo innalzamento
del livello dei prezzi interni.
Soltanto con la diffusione nel XIX sec. delle idee liberiste molti Paesi, ed in primo luogo l’Inghilterra, abbandonarono le politiche
protezionistiche e favorirono la ripresa delle relazioni economiche internazionali.
Nel XVIII secolo si verificò una profonda trasformazione nel modo di intendere la produzione: nel medioevo e nell’età classica,
infatti, la produzione era affidata ai servi della gleba ed agli schiavi ed era considerata solo un mezzo per soddisfare i consumi del
feudatario e del latifondista, i quali, invece, ponevano al centro dei propri interessi le uniche attività ritenute degne degli uomini
liberi (attività militare, politica e culturale), che niente avevano a che fare con l’economia.
Con l’avvento della borghesia al potere ed il definitivo imporsi del capitalismo1, l’attività economica fu posta, invece, al centro
delle attività della classe dirigente e non fu più intesa come il mezzo per assicurare i consumi, ma come lo strumento per
moltiplicare all’infinito il capitale ed incrementare la ricchezza.
L’economia divenne così oggetto di studio specifico, in quanto le teorie mercantilistiche non si erano preoccupate di dimostrare il
perché accadessero alcuni fatti e quali legami funzionali collegassero tra loro i fenomeni economici.
Scuola fisiocratica (physis, natura e krátos, potere). La scienza economica settecentesca si sviluppò in Francia per merito della
scuola fisiocratica, i cui economisti, estremamente fiduciosi nel potere della natura, ritenevano che l’unico settore economico
capace di generare un sovrappiù fosse l’agricoltura, mentre le altre attività fossero sterili.
A dare omogeneità scientifica a queste teorie fu un gruppo di riformatori francesi con a capo F.Quesnay, con l’opera Tableau
Economique. Egli fa derivare la ricchezza, intesa come flusso (e non stock come per i mercantilisti), da quei settori in cui il lavoro è
in grado di generare sovrappiù rispetto agli input impiegati, ossia solo dal settore agricolo: in agricoltura la produzione rinasce ad
ogni ciclo di coltivazione ed è l’unica che fornisce un prodotto netto, sicché seminando 100 kg di grano se ne ricavano anche 1000
kg, mentre il lavoratore dell’industria, del commercio e dell’artigianato pareggiava i fattori impiegati.
Benché ben presto anche queste teorie furono abbandonate, esse aprirono, con loro esempio di liberismo agrario, la strada al
liberismo economico generale propugnato alla fine del XVIII sec. dalla scuola classica.
Il liberismo della scuola classica (sistema economico capitalista: la maggior parte della produzione è svolta da imprese private
che la orientano al mercato; le decisioni dei singoli sono coordinate e rese compatibili dal meccanismo di mercato).
In sintesi, il pensiero liberista è così riassumibile:
- che vi sia libera concorrenza (Smith)
- che i prezzi delle merci e del lavoro siano determinati unicamente dalla domanda e dall’offerta
- che lo Stato si astenga dall’intervenire nelle questioni economiche (Smith)
- che i salari possano scendere fino al livello di sussistenza per consentire una maggiore accumulazione di capitali
(Ricardo)
- che il risparmio sia incoraggiato (quindi aumentato in quantità disponibile per le banche), al fine di far scendere
l’interesse e favorire gli investimenti, giacché l’offerta genera domanda (Say).
Negli altri sistemi economici, il denaro è un mezzo di scambio ed un equivalente universale dei valori. Ad esempio, se un calzolaio vende le
sue scarpe ed il denaro che ottiene lo utilizza per comprare due camicie, le camicie hanno lo stesso valore delle scarpe: è uno scambio equo.
Così funzionano tutte le economie definite “con mercato”.
Ma il capitalismo non è un’economia con mercato, bensì “un’economia di mercato”: ossia, l’attività economica non comincia con due persone
che realizzano un lavoro produttivo e vendono i prodotti sul mercato per riuscire a migliorare il proprio livello di consumo (M-D-M’ dove
M=M’). Il circuito economico comincia, invece, col denaro (D), il quale non è più il mezzo per organizzare il mercato e facilitare gli scambi, ma
diventa, invece, il principio e la fine dell’attività economica. Il denaro serve per comprare forza-lavoro e mezzi di produzione per realizzare un
processo produttivo al fine di fabbricare una merce (M) che si possa vendere, per ottenere una quantità di denaro che necessariamente deve
essere maggiore del valore che aveva all’inizio (D’).
D-M-D’ dove D<D’ (circuito capitalista)
Solo coloro che controllano il denaro controllano la loro vita, perché controllano la propria economia. Per questo motivo, nel capitalismo il
denaro è uguale a potere. Per cui si intuisce perché la popolazione non determina la propria attività economica, essendo per lo più forza
lavoro.
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Tra gli economisti classici, una posizione di rilievo ha Karl Marx.
Mentre in Europa occidentale venivano applicate le teorie liberiste, nasce una nuova scuola di pensiero economico che critica il
capitalismo ed è la Scuola marxista. Ad essa si ispiro’ la costituzione del sistema economico collettivista dell’URSS, il quale esclude
il mercato dei mezzi di produzione: imprese e materie prime sono di proprietà dello Stato e la distribuzione è sempre curata da un
organo statale che decideva cosa e con quali tecniche produrre, sottraendo tali poteri alle famiglie ed alle imprese. Esso, nato dalla
dittatura del proletariato, avrebbe dovuto essere una tappa transitoria destinata a preparare l’avvento del COMUNISMO
propriamente detto, nella quale doveva esserci la messa in comune di tutti mezzi di produzione ed anche di quelli di consumo ed
assenza della proprietà privata.
Fu utilizzato la prima volta in Unione Sovietica a seguito della rivoluzione bolscevica del 1917 e fino al 1985. Utilizzato anche in
Cina, Cuba e Vietnam.
LA RIVOLUZIONE MARGINALISTA
Intorno al 1870 si verificò un profondo cambiamento nella storia del pensiero economico con la cosiddetta "rivoluzione
marginalista", essenzialmente opera dell'inglese William Stanley Jevons, dell'austriaco Carl Menger e del francese Léon Walras.
Questi economisti contrapposero alla teoria marxiana del valore-lavoro la teoria dell'utilità marginale, che assegnò, dunque, al
marginalismo un ruolo di spartiacque tra la teoria classica e quella economica moderna.
Tutto ciò non impedì continue crisi di sovrapproduzione, fino a giungere alla CRISI ECONOMICA DEL 1929.
Se da una parte, in forza del processo di accumulazione capitalistica, il controllo delle risorse produttive tende a
restringersi nella mani di un numero limitato di capitalisti, dell’altra parte si determina un proletariato sempre più
povero e numeroso.
La capacità produttiva crebbe ad un ritmo superiore alla capacità d’acquisto della classe operaia, determinando
crisi periodiche di sovrapproduzione, fino alla crisi economico-mondiale dell’ottobre 1929.
In sintesi, le crisi di sovrapproduzione affievolirono fino ad annullare il profitto di molti imprenditori che non
furono più in grado di pagare i finanziamenti ricevuti dalle banche. Dette banche, a causa dell’assenza di regole,
avevano erogato finanziamenti e mutui per l’intero ammontare delle risorse raccolte grazie al risparmio delle famiglie,
per cui non ricevendo i pagamenti da parte delle imprese, si trovarono in una crisi di liquidità. La crisi fu poi aggravata
dal clima di sfiducia che si era diffuso e che aveva portato i risparmiatori a ritirare le somme risparmiate e depositate
presso le banche. Ciò provocò l’insolvenza delle banche ed il loro relativo fallimento. Ma anche nel mondo finanziario
il crollo era imminente: le azioni rappresentanti le aziende in crisi perdevano sempre più valore e la loro vendita
massiccia in borsa ne aveva finito col determinarne uno valore inferiore al costo della carta su cui erano stati
stampati. Fu così che il 29 ottobre 1929 (il venerdì nero della Borsa) crolla la Borsa di New York, trascinandosi dietro le
altre maggiori Borse mondiali.
La crisi economica parte, dunque, dal mondo reale finendo col coinvolgere anche quello finanziario e da essa ci si
riprenderà con la politica keynesiana adottata in Europa e con la New Deal di Roosevelt in America.
LA RIVOLUZIONE KEYNESIANA (sistema economico misto: riconosce la libertà di iniziativa economica e prevede forme di
intervento dello Stato nell’economia).
Il pensiero economico più seguito del dopoguerra e tutt’oggi utilizzato per le decisioni macroeconomiche e’ quello di
KEYNES (1883-1946). Keynes cercò di creare un modello che non era partito da uno stato di equilibrio di piena
occupazione.
Egli cercò di comprendere quali erano gli elementi che contribuiscono alla determinazione del livello di reddito e di
occupazione di un paese. Si trattava ancora di un problema legato all'incontro di offerta e domanda, anche se in
questo caso il termine "domanda" si riferisce all'intera economia e "offerta" indica la capacità produttiva complessiva
del paese considerato. Quando la domanda aggregata è inferiore all'offerta aggregata, ne conseguono disoccupazione e
depressione; mentre la situazione inversa genera inflazione. L'essenza dell'economia keynesiana consiste nell'analisi
delle variabili che influenzano la domanda aggregata. Se non si considera il commercio internazionale, quest'ultima è
composta essenzialmente dal consumo, dagli investimenti e dalla spesa pubblica.
Keynes riteneva che l'equilibrio tra domanda e offerta potesse essere raggiunto soltanto attraverso l'intervento dello
Stato: a suo avviso, infatti, nessun meccanismo automatico è in grado di portare allo stesso risultato. Questa
fondamentale implicazione keynesiana ebbe effetti sconvolgenti per la teoria economica tradizionale, che postulava
una tendenza automatica dei sistemi economici verso la condizione di piena occupazione.
Mentre il Europa si applicava la teoria keynesiana, in Usa parte il:
New Deal - Programma di provvedimenti interni realizzato dal presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt
tra il 1933 e il 1938 per fronteggiare gli effetti della Grande Depressione.
Fra le misure di rilancio dell’economia vi furono:
 riduzione dell’orario di lavoro, al fine di ridurre la disoccupazione
 legislazione contro la concorrenza sleale
 abbandono del gold standard (sistema monetario nel quale la moneta è in ogni momento scambiabile con il suo
equivalente in oro in qualsiasi banca che ha emesso i biglietti) e svalutazione del dollaro del 40,9%
 contratti collettivi con garanzia del mantenimento del potere d’acquisto degli stipendi
 politica di grandi lavori pubblici su base regionale
A partire dagli anni Settanta, tuttavia, la fiducia degli economisti nel proprio lavoro andò scemando, in primo luogo a
causa del verificarsi del fenomeno della stagflazione, ossia la contemporanea presenza di disoccupazione e inflazione,
che era in contraddizione con le implicazioni proprie dell'economia keynesiana, e in secondo luogo a causa della
proliferazione di scuole di pensiero in contrasto le une con le altre.
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IL NEOLIBERISMO
E’ in questi anni che viene in auge la teoria neoliberista basata sulle vecchie dottrine del liberismo economico che si
sono andate sviluppando a partire dagli anni ’50.
I neoliberisti disprezzano la teoria keynesiana, accusano lo Stato di essere il responsabile dell’inflazione esistente e
propongono un cambiamento nella forma d’intervento statale nell’economia, considerando come suo unico fattore
regolatore il mercato; infatti, promuovono:
- la diminuzione della spesa pubblica, argomentando che una spesa pubblica elevata è un fattore che non incentiva il
lavoro;
- la riduzione dell’indebitamento dello Stato, a causa del quale sono stati sottratti capitali agli investitori privati,
più efficienti e motivati e ridotto conseguentemente la domanda globale.
Lo Stato non deve adottare politiche di bilancio, fiscali o monetarie. Il suo unico ruolo è quello di garantire la libera
concorrenza e il libero formarsi di prezzi e salari.
All’interno di tale corrente si possono individuare diversi filoni teorici: monetarismo ed economia
dell’offerta (supply side economics).
Monetarismo – Teoria macroeconomica (con a capo Milton Friedaman ed i suoi allievi della scuola di Chicago) basata
sull'analisi dell'offerta di moneta e sul ruolo della moneta nell'influenzare i prezzi, la produzione e l'occupazione. Il
monetarismo sostiene da una parte che le variazioni nell'offerta di moneta esercitano nel breve periodo solo un
modesto impatto sul sistema economico; dall’altra che l'economia non tende automaticamente verso la piena
occupazione, il cui raggiungimento può essere favorito dalla politica fiscale.
Ciò che accomuna le diverse scuole monetariste è la convinzione dell'importanza dell'offerta di moneta nella
determinazione dei prezzi e l'esistenza di una stretta relazione tra l'offerta di moneta e il livello dei prezzi nel lungo
periodo, a condizione che questo sia sufficientemente lungo e che alcune altre variabili, come la natura delle
istituzioni finanziarie, rimangano costanti.
Il monetarismo ha una lunga tradizione nella storia del pensiero economico; già dalla metà del XVIII secolo il francese
Richard Cantillon e lo scozzese David Hume avevano fornito dettagliate e sofisticate studi di come una crescita nella
quantità di moneta agisca sui prezzi e sulla produzione nel breve periodo. Nel XX secolo, la riflessione monetarista ha
avuto al suo centro la "teoria quantitativa della moneta 2". Secondo Irving Fisher, la quantità di moneta in circolazione
ha effetto a lungo termine solo sul livello generale dei prezzi, non esercitando alcuna influenza sull’economia reale.
Negli anni Cinquanta, in particolare con Milton Friedman, la domanda di moneta da parte degli individui è analizzata
come la domanda di qualsiasi altra merce e quindi funzione della ricchezza e dei prezzi. Più esattamente, per
Friedman la domanda di moneta è considerata dipendente dal “reddito permanente”, dove ha un ruolo fondamentale
il capitale umano (esperienza e educazione) di un individuo e quindi l'utilità che egli si aspetta di ottenere detenendo
moneta.
In sintesi: FRIEDMAN, assertore che l’inflazione è sempre un fenomeno monetario e può essere causata solo da un
incremento della quantità di moneta superiore a quello di crescita della produzione.
Supply side economics – Negli stessi anni, per FELDSTEIN, BOSKIN E LAFFER (amministrazione Reagan) la riduzione
delle imposte indurrebbe ad un rapido aumento, e non alla diminuzione, delle entrate fiscali.
Tali economisti danno grande importanza agli effetti-incentivo della tassazione nel determinare l’andamento del
sistema economico. Il gruppo principale sottolinea l’importanza degli incentivi fiscali nella promozione della crescita
attraverso l’influenza esercitata sul risparmio e sugli investimenti.
L’ala radicale, più pubblicizzata, ha sostenuto: a) che la riduzione del livello di tassazione avrebbe avuto effetti così
potenti sull’attitudine al lavoro da accrescere il totale delle entrate fiscali; b) che le ripercussioni sul lato dell’offerta
avrebbero avuto potenti effetti nella riduzione dell’inflazione, attraverso l’aumento del tasso di crescita della
produzione.
Nel 1981, l’amministrazione Reagan presentò un quadro ottimistico per il futuro, che prevedeva crescita positiva a
bassa inflazione, sulla base di queste teorie. La storia non fu però d’accordo. L’inflazione diminuì, ma solo a causa di
una politica monetaria restrittiva, e non di una politica fiscale espansiva; la produzione diminuì, pur riprendendo nel
1983-84.
CONSEGUENZE DEL NEOLIBERISMO
Già nel 1970 la crescita economica e di espansione dei mercati era notevolmente rallentata e dal 1980 in mondo era
entrato in stagnazione. Da allora ad oggi i maggiori paesi capitalistici si sono preoccupati esclusivamente di gestire la
crisi nei due terzi del globo inventando nuovi sbocchi finanziari e dando una forte spinta verso i processi di
finanziarizzazione dell’economia. Il neoliberismo favorisce lo sviluppo internazionale a scapito dei mercati locali e
nazionali in nome dell’efficienza e le imprese internazionali sostenuti dai governi neoliberisti hanno visto una crescita
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TEORIA QUANTITATIVA DELLA MONETA : MV= PQ
P: livello generale dei prezzi
V: velocità di circolazione della moneta
prodotte
M: massa monetaria
Q: quantità
Analisi della relazione che lega il livello generale dei prezzi alla massa monetaria. Spiega le tendenze all’aumento dei prezzi
attraverso l’aumento delle unità monetarie in circolazione. Nel lungo periodo la velocità resta relativamente costante. Perché i
prezzi non aumentino, occorre che l’aumento della massa monetaria non superi quello del PIL. La teoria è controversa.
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verticale della loro quotazione in borsa. Si va, quindi, affermando in maniera sempre più spiccata una divaricazione tra
andamento dell’economia reale e le scelte di finanziarizzazione dell’economia, ossia decisioni che puntano su
investimenti finanziari scollegati dall’evoluzione dei processi produttivi reali, che seguono esclusivamente una logica
speculativa e che diventano una fonte di ricchezza facile per gli investitori e determinano elementi reddituali e
patrimoniali a bassa tassazione, ad evasione ed elusione.
In pratica, il neoliberismo si è dimostrato incapace di trovare un’uscita dalla crisi ed ho determinano una nuova crisi
economica mondiale a partire dal 2007 negli UsA e poi nel resto del mondo.
Le nuove forme di caos economico che ha generato a causa della deregolamentazione e della globalizzazione
finanziaria va distinto in tre tipi:
- il liberismo dottrinario (Thatcherismo: privatizzazioni ingenti e rapide)
- il social-liberismo (Germania e Svezia: liberismo temperato con un po’ di Stato Sociale.
In Germania, definita “economia sociale di mercato”, il mercato deve osservare minuziose regole del gioco,
dando luogo ad un’abbondante regolamentazione, flessibilità del mercato del lavoro ed assenza di inflazione
ed una politica monetaria che concede grande autonomia alla Bundesbank.
In Svezia, una forte apertura verso l’esterno, forte concentrazione industriale che assicura spiccato controllo
dei mercati, deregolamentazione dei tassi di interesse, forte protezione sociale e spesa pubblica ed entrate
fiscali a livello elevato)
- il liberismo di facciata (Giappone, USA reaganiana) perché dietro l’apparenza di grande economia liberale
nasconde un’economia perfettamente diretta e protetta. Sebbene l’economia finanziaria (i mercati di capitali)
sia liberalizzata, in Giappone, l’economia reale non lo è perché esiste un sistema gerarchizzato di riappalto
che permette alle grandi imprese di controllare con facilità tutta la produzione. In Usa, invece, una legge del
1988 permette al governo di adottare mezzi protezionistici, quando un competitore minacci la sicurezza
nazionale ed, inoltre, nessun provvedimento venne adottato circa l’equilibrio fiscale (principio essenziale del
liberismo).
La politica economica neoliberista, incentrata sui processi di privatizzazione, ha realizzato una quadro
macroeconomico che evidenzia tendenze recessive in molte aree, contrazione e precarizzazione dell’occupazione,
diminuzione dei salari reali, diminuzione dell’inflazione dovuta soprattutto al forte caldo della domanda, aumento
significativo delle fasce di povertà e di emarginazione, tassi di disoccupazione ufficiale ed “invisibili” altissimi e
l’emergere di nuove condizioni di disagio economico-sociale diffuso.
LIMITI DEL COMUNISMO E DEL CAPITALISMO
I limiti del comunismo marxista sono: lo stato ovviamente non è in grado di adeguarsi ai reali bisogni della
popolazione; impedisce l’iniziativa economica; soffoca le libertà personali degli individui. Ciò ha portato a proporre il
capitalismo come unica verità per l’umanità, sia nell’accademia, sia nella docenza che nei piani di studio dei corsi di
economia. Fino agli anni ’70 era tangibile la presenza di materia di critica al pensiero marxista che permetteva la
messa a fuoco globale dell’economia come scienza sociale. Negli ultimi anni, il sistema imperante di dominazione
ideologica ha portato anche molti studiosi a rinnegare il marxismo per non esser accusati di antiscientificità: questo è
stato il prezzo che molti hanno dovuto pagare per affermarsi, far carriera ed impedendo il confronto diretto tra
l’economia politica marxista e la micro e macro economia neoclassica.
Oggi, nell’attuale fase della competizione globale capitalista, vi è la propensione ad assoggettare il mondo
completamente, sotto ogni dimensione, alla configurazione d’impresa e del profitto e chi ne subisce le maggiori
conseguenze è l’individuo singolo e sociale, che si lascia omologare senza opporsi, rinunciando alla sua libertà e
personalità: cosa forse ormai scontata, poiché quotidianamente si ricevono stimoli a farsi massa omologata, ad
assimilarsi all’impero del capitale. E, infatti, spazi e tempi diventano sempre più brevi e funzionali alla diffusione
delle idee dominante del capitale comunicazione. I mass-media, i computer, la telefonia mobile hanno reso l’intero
globo un piccolo paese, non solo per motivi informativi e culturali, ma anche per far fronte alle esigenze di un mercato
sempre più mondiale e per diffondere ed inculcare nella lente ala mentalità della mercificazione: ogni cosa ha un
prezzo, un preciso valore di scambio.
Nella fase attuale, si assiste ad una globalizzazione dei mercati, o meglio ad una sempre più aspra competizione
globale, causa ed effetto dell’aumento di competitività del sistema economico nel suo complesso e dei singoli
operatori economici in particolare. Il miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni elettroniche, l’abbattimento
progressivo delle barriere doganali, anche per i rinnovati accordi internazionali politici ed economici apparentemente
a carattere liberalizzante ma nei fatti a forte connotazione protettiva e competitiva, hanno portato le imprese a
confrontarsi più direttamente ed a comportarsi come se operassero in un mercato senza alcun vincolo di confine
territoriale. Il mercato, divenuto sempre più dinamico e competitivo, appare oggi con una tendenza chiara ed
irreversibile a divenire un mercato unico; si tratta, invece, di un mercato avente una dimensione di aspra
competizione mondiale, in cui si vanno definendo le aree di influenza di almeno tre poli imperialisti: USA, UE e
Giappone.
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