STREGA / 5 Studi Testimonianze Ricerche

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STREGA / 5
Studi
Testimonianze
Ricerche
Educazione
Genere
Antropologia & arti
STREGA
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Testimonianze
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Educazione
Genere
Antropologia & arti
Quando leggo di una strega gettata nel fiume,
mi dico che siamo sulle tracce
di un romanziere perduto,
di un poeta costretto al silenzio
Virginia Woolf
Questa collana di studi sulle donne è dedicata
alla memoria di una donna meravigliosa,
Eileen Tyack–Lignot
Intento della collana
Donne non si nasce, si diventa. È ciò che scriveva
Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso. L’intento della
presente collana è indagare quell’habitus multiforme nel
quale, da più di duemila anni, il femminile continua ad
immergersi per divenire e rimanere tale.
Un habitus fatto non solo di precetti ufficiali, talvolta persino giuridici, ma anche e soprattutto di formanti
simbolico - culturali occulti, eppur non meno efficaci.
Formanti anche taglienti come lo stigma, donde il
nome provocatorio di “Strega”, epiteto che si rivolge alle
donne che escono dai parametri tradizionalmente pensati per loro, e che è anche un acronimo in grado di riassumere la connotazione volutamente multidisciplinare e
pluridisciplinare di questa raccolta di studi, testi—testimonianze, ricerche, inchieste sociologiche, antropologiche, educative e pedagogiche, preziosi contributi storiografici, riflessioni sull’arte e sulla letteratura.
Una collana pensata per cercare di ricostruire il
mosaico dai tasselli disparati che ha disegnato, e ancora
oggi disegna, la femminilità.
Direzione
Margherita Musello
Coordinamento scientifico
Clelia Castellano
Ogni volume viene sottoposto a doppio referaggio anonimo.
Il Comitato scientifico svolge anche le funzioni di comitato dei referee.
Comitato scientifico
Margherita Musello (Università degli Studi di Napoli Suor Orsola
Benincasa), Tassadit Yacine (E.H.E.S.S. Parigi) Lucio d’Alessandro
(Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa) Jacqueline
Kelen, Nathalie Heinich (E.H.E.S.S. Parigi), Catherine Fahri,
Françoise Bonardel (Università di Parigi La Sorbonne), Annamaria
Rufino (Seconda Università di Napoli), Giuseppe Zanniello
(Università degli Studi di Palermo), Cosimo Laneve (Università degli
Studi di Bari, Università degli Studi di Napoli Suor Orsola
Benincasa), Ferdinando Raffaele, Jacques Donzelot, Clelia
Castellano (Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa),
Ilario Belloni (Università degli Studi di Pisa), Pejman
Abdolmohammadi (Università degli Studi di Genova), Silvio
Lugnano (Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa),
Fabrizio Manuel Sirignano (Università degli Studi di Napoli Suor
Orsola Benincasa), Maria Valeria del Tufo (Università degli Studi di
Napoli Suor Orsola Benincasa), Gioia Angeletti (Università degli
Studi di Bologna).
In copertina: Elena Di Gregorio, Ricordo smemore di collina kabyla (acquerello), 2013.
Giovane artista trentina, Elena Di Gregorio alterna opere di ispirazione classica (figure umane e paesaggi realizzati in olio su tela) ad opere sperimentali (clip art, manufatti primitivi di ispirazione etnica eseguiti in tecnica mista - graffi, spatolate e inserimento di elementi preziosi). La sua pittura è come in bilico fra memoria e futuro,
come la sua tecnica, che alterna l'urgenza naturalista e realista alla dispersione cromatica, in cui la dimensione figurativa compie un esodo cromatico–dimensionale
senza ritorno, alla ricerca della vita vera.
Fadhma Aïth Mansour Amrouche
STORIA DELLA MIA VITA
Prefazione, traduzione e cura dell’edizione italiana di
Clelia Castellano
Copyright © MMXIII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133/A–B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–5962–3
Titolo originale dell’opera
Histoire de ma vie, Paris, Découverte, 2000
Traduzione dal francese di Clelia Castellano
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: aprile 2013
Ringraziamenti
Desidero ringraziare, innanzitutto, l’editore La Découverte,
in particolare nella persona di Madame Delphine Ribouchon, la
cui disponibilità e professionalità hanno reso possibile questa
pubblicazione in lingua italiana.
La mia gratitudine va poi a Tassadit Yacine, profonda conoscitrice della Kabylia e degli Amrouche. Lei, che per prima mi
fece conoscere Taos, dicendomi che me ne sarei innamorata. E
così è stato: mi sono innamorata di Taos, di Fadhma, di Jean,
della Kabylia.
Ringrazio la direttrice della collana, la professoressa Margherita Musello, che ha creduto in questo progetto.
Infine, la mia gratitudine e la mia tenerezza vanno a Fadhma. Alla sua memoria, dedico questa poesia.
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Ringraziamenti
Pour Fahdma!
O Kabylie la Belle,
Terrible et blessée !
De loin je te regarde,
alourdie par mon occident,
où je ne sais plus vivre sans me demander
pourquoi il a fallu meurtrir tes enfants.
De loin je me penche sur tes paysages oubliés
trainant mon ignorance, mes-arrières pensées
de fille de l’Europe qui parle son français
et tend une oreille sourde à la berberité.
Rachète-moi, Kabylie, rends-moi l’ingénuité
du courage qui se gaspille sans jamais s’user.
Je voudrais, Kabylie, parler avec tes gens
Serrer leurs mains, apprendre leurs chants.
L’ethnographie m’a appris ta tradition de cruauté
Mais j’ai besoin de la poésie qui jaillit de tes oliviers.
Je voudrais découvrir que Jean n’est pas mort en vain,
que Fahdma et Taos auront leur lumière, demain.
Attends-moi Kabylie, je marche lentement
Alourdie par les concepts, par le droit.
Dévoile-moi tes secrets, ta magie ancienne,
indomptable,
qui ne veut point d’alphabet.
Apprends-moi la force inattendue
de tes femmes à genoux
aux pieds d’un destin
qui pourrait être le mien.
Je connais la solitude des mères non aimées
le courage de leur fantaisie, leur beauté.
Nos femmes aussi blanchissent les murs de leurs maisons
Et chantent un izli intérieur, silencieux
pour défier la boue
pour espérer encore
pour vivre le bleu lorsque l’aurore
s’enfuit
Viva la Kabylie!
INDICE
SCRIBA DEL CAOS. PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA ..........9
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE FRANCESE DI VINCENT MONTEIL 15
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE FRANCESE DI KATEB YACINE ......21
LETTERA DI JEAN AMROUCHE ..................................................27
DEDICA A JEAN AMROUCHE .....................................................29
I - LA STRADA DELLA SCUOLA .................................................31
1. Mia madre ........................................................................31
2. Taddert-ou-Fella...............................................................39
3. Il Corso normale...............................................................48
4. Il mio villaggio come l’ho conosciuto..............................61
5. L’ospedale degli Aïth-Manegueleth.................................78
II – INGRESSO NELLA FAMIGLIA AMROUCHE ...........................93
1. Il mio matrimonio ............................................................93
2. Ighil-Ali..........................................................................108
3. Morte di nonno Hacène-ou-Amrouche e decadenza della
famiglia ..........................................................................124
III - L’ESILIO DI TUNISI ..........................................................141
1. I trapiantati .....................................................................141
2. Da una casa all’altra .......................................................160
3. Rue de la rivière .............................................................173
4. L’Oasi di Radès..............................................................186
IV - EPILOGO ..........................................................................200
POESIE.....................................................................................213
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Scriba del Caos. Prefazione all’edizione italiana
Il richiamo della poesia è struggente.
Quasi esoterico, si impone alla mia volontà di ascoltatrice,
soggiogata dal terribile meraviglioso di cui le pagine di Fadhma
sono pervase sin da principio. È struggente, perché è il richiamo
della Vita, il cui senso più autentico è ramingo e si può intuire
solo deponendo la volontà come arma ed assumendola invece
come compagna di viaggio – un viaggio che è già in sé mèta, se
si accetta di vagabondare.
Vagabondare, forse come i leggendari wanderers, nell’anima, negli spazi e nella memoria.
La scrittura di Fadhma è una lezione di etica e di estetica
raminga, tanto più importante in una stagione della civiltà occidentale nella quale l’inatteso è sopraffatto dall’efficienza della
programmazione. Risparmiamo migliaia di secondi e di minuti,
eppure spesso sentiamo confusamente di non avere un attimo
per noi stessi; un attimo appena, per abitare quei dubbi e quei
silenzi che ci renderebbero così straordinariamente umani…
Per fortuna, non sappiamo ancora fare a meno delle storie.
La naturale inclinazione cognitivo-emozionale del pensiero in
una direzione narrativa ci sospinge verso l’ascolto, verso il racconto.
Il successo e il prestigio della Libera Università dell’ Autobiografia di Anghiari, con la sua Accademia del silenzio, e il
proliferare di convegni (non ultimo quello di Trento, svoltosi lo
scorso settembre) sulla Narrazione, sembrano dirci che il clima
delle scienze umane, in Italia, è pronto ad accogliere assai favo-
9
Prefazione all’edizione italiana
10
revolmente queste memorie. Tuttavia, per quanto importante ciò
sia per me in qualità di curatrice e traduttrice della loro edizione
italiana, quel richiamo struggente di cui scrivevo da principio
mi impone come di sollevare quest’autobiografia verso qualcosa di più alto ed universale di un contesto di riflessione o di ricerca accademica. Per quel richiamo, che è più forte dell’antropologia e della sociologia, che le precede, le suscita e le motiva
ponendole al servizio dell’umano, desidero servirmi di questa
prefazione per trasportare idealmente questa vecchia cartografia
esistenziale su ali d’aquila, come nel sogno dell’autrice. Come
in quel sogno, vorrei salire verso il cielo, più in alto delle alte
mura delle valutazioni qualitative che ogni traccia umana pare
oggi chiamata a soddisfare, magari a dispetto della sua stessa
verità, dentro un quadro etnografico. Perché quello di Fadhma è
un libro che cattura la vita e vita e ricerca si possono e si devono fondere, quando si lavora sulle storiografie “minori”, preziosi frammenti che posseggono una parte del segreto dell’insieme.
Il valore della testimonianza di Fadhma è senz’altro etnografico, sociologico, antropologico-culturale ed antropologico- giuridico. Fa luce, con disarmante onestà, sull’universo culturale
kabylo, con le sue crudeltà e i suoi sentimenti1, sulla condizione
delle donne, la cui identità di genere è perpetuamente costruita e
decostruita dallo sguardo comunitario2, sulle consuetudini berbere, in equilibrio fra patriarcato e matriarcato3, segnate da
commistioni inattese, a livello locale e personale, fra islam e
cristianità (i marabutti consigliano di recitare i rosari, il culto
mariano non è sconosciuto a quelle contrade, sui tappeti berberi
si ricamano i segni della tradizione giudaico-cristiana…); la
Storia della mia vita fa luce anche sulla condizione di esilio in
cui versarono migliaia di altri maghrebini, sulle complicazioni
etniche, biografiche, geopolitiche ed intime che possono condizionare gli attori sociali in quanto locutori e sul senso, infine, di
1
Clelia Castellano, La dimensione simbolico-narrativa e comunitaria nel droit coutumier civile kabylo, Napoli, Edizioni Suor Orsola, 2011.
2
Ibid.
3
Clelia Castellano, Costruzione sociale dell’identità femminile e pluralismo giuridico, Roma, Aracne, 2007.
Scriba del caos
11
una scelta espressiva precisa: la scrittura, pur venendo da una
tradizione orale, e la lingua francese. Se Tassadit Yacine fosse
qui, mi direbbe che i berberi per secoli non hanno avuto modo
di scrivere e crearsi un vero alfabeto, che solo da pochi anni sta
nascendo una scrittura della berberità, dentro un grande progetto di un “Dictionnaire Kabyle”, fra le altre cose. Ma se Tassadit
fosse qui ammetterebbe anche che per tanti la lingua francese è
stata una scelta consapevole e voluta, poiché era come un territorio nuovo in cui essere e raccontarsi in modi altrimenti impossibili, per questo fu poi la lingua di Jean e Taos, ma anche di
Assia Djebar, Malika Mokheddem, Tahar Ben Jelloun, Leila
Marouane, Mouloud Mammeri…Ho indicato in nota le sedi in
cui ho chiarito tutti questi punti. In questa, mi preme dare spazio al valore immenso dell’autobiografia di Fadhma, che ho desiderato tradurre da quando la lessi la prima volta, nel 2006. Ero
a Parigi in occasione di una giornata organizzata dalla Rivista di
Studi berberi Awal e dalla Société des Gens de Lettres. Nel
bell’hôtel particulier sito al numero 38 della Rue du Faubourg
St. Jacques, si rendeva omaggio a Taos con una tavola rotonda
attorno al tema “Taos Amrouche et les mots”. Un memorabile 8
marzo, in compagnia di Zineb-Ali Ben Ali, Tassadit Yacine,
Hervé Sanson, Denise Brahimi, Clothilde Gharsa. Giovane dottoranda, ero partita dalla figlia, dal giacinto nero dalla voce ardente. E avevo incontrato la figlia di Taos, Laurence Bourdil. Si
coglieva qualcosa di sontuoso, in quell’essere donne, qualcosa
capace di bucare la tela degli anni da una generazione all’altra.
Circolarmente, ero rinviata alla madre. E così il giorno dopo
lessi Fadhma, che avevo presentito negli interventi di alcuni relatori e nella scrittura della figlia. Avevo in mano quelle memorie da pochi minuti e in un attimo il terribile meraviglioso della
cultura kabyla, quello immaginato ascoltando i canti di Taos e
leggendo gli studi di etnografia e i Kanoun, mi aveva invasa in
tutta la sua forza. Nella prima pagina del libro, che comincia
dalla madre di Fadhma, si narra di una natura che quasi in un
guizzo di giustizia naturale, si offre copiosamente in un formidabile raccolto, che sembra festeggiare la morte di un assassino.
Sappiamo dagli etnografi francesi del silenzio di queste donne,
12
Prefazione all’edizione italiana
ma quanto poco si sa, del loro fitto chiacchiericcio con una natura che sempre accompagna le loro vicende, quanto poco si sa
dei loro canti, dei loro segreti che infrangono i divieti dei patriarchi. Certo, sono donne che versano in una condizione terribile, spesso fatta di mortificazione fisica e sociale, di solitudine,
di miseria, di duro lavoro. Ma quanta soave eleganza e quanta
fedeltà, fra madri e figlie. La madre di Fadhma, bandita dalla
sua famiglia per aver concepito una creatura fuori dal matrimonio, ogni mercoledì si incontra segretamente al fiume con la
nonna di Fadhma e per un’ora parlano e si scambiano tutte le
cose buone che sono riuscite a mettere da parte l’una per l’altra.
La madre di Fadhma non riuscirà a dare alla sua l’ultimo saluto,
le sarà vietato di avvicinarsi alla casa della defunta; Fadhma
racconterà come quella sia stata la prima volta che aveva visto
piangere sua madre, il cui tatuaggio di hennè sul mento “è meglio della barba degli uomini”.
Fadhma è figlia di questa storia di coraggio solitario e disperato, di questa forza di volontà e di questa capacità di fede tutta
femminile.
Bellissima, Fadhma è condannata al disprezzo, marchiata
dalla colpa materna, destinata a non trovare l’amore. Eppure,
mentre la realtà suggerisce un finale spinoso per la sua esistenza
già difficile, Fadhma fa un sogno. Sogna di essere sollevata in
alto da un’aquila che la depone, dopo aver sorvolato tanti villaggi, sul tetto di un edificio dalle immense arcate. Si tratta
dell’ospedale dove conoscerà l’uomo della sua vita.
Ecco come lo racconta:
Le giornate trascorrevano monotone, e vivevo sempre nel passato e nel
timore del futuro. È in quel momento che feci un sogno che da quel momento
considerai una profezia.
•
Mi trovavo in un burrone profondo; l’acqua colava, chiara, e, dai due lati,
a destra come a sinistra, vedevo due muri di ghiaccio liscio. Provavo invano
ad arrampicarmi lungo questi muri.
I miei sforzi essendo rimasti vani, mi ero sdraiata sul bordo del ruscello,
aspettando, probabilmente, la morte. Improvvisamente, vidi planare sulla mia
Scriba del caos
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testa un uccello immenso con le ali spiegate. Lo guardavo volteggiare con terrore. Lo vidi infine scendere dai cieli, avvicinarsi a me e sollevarmi. Ignoro
quanto tempo restai sulle sue ali; sorvolò vari villaggi, vari ruscelli, e mi posò
infine su un altopiano dove si ergeva l’ospedale di Michelet con le sue arcate.
Allora mi svegliai.
Solo molto più tardi ho compreso il mio sogno: era in quell’ospedale che
si sarebbe compiuto il mio destino.
Elena Di Gregorio, l’artista autrice di tutte le copertine della
nostra collana di studi sulla costruzione del genere,
S.T.R.E.G.A., dopo aver letto l’autobiografia di Fadhma Amrouche, commossa, ha voluto provare a rappresentare quel soizli
in un’opera che riassume l’essenza di questa storia di vita. Perché infondo in questo sogno, in questa capacità di leggere e
scrivere la vita e il mondo in bilico fra presagio, vaticinio e speranza, dolore e tenerezza, si risolve e si comprende tutta Fadhma. Si comprende come la sua capacità di visione possa trasfigurare l’orrore di essere nata come reietta, gettata nelle spine,
la tragedia di perdere tanti suoi figli e farne poesia.
Senza Fadhma, non ci sarebbe Taos.
Senza Fadhma, non ci sarebbe Jean.
Dal nulla di una storia che la prepotenza avrebbe voluto minore e silente, si è levata in tutti e tre la voce di una Poesia che
non si può tacere, che si insinua nella Sociologie de l’Algérie di
Pierre Bourdieu e la completa.
Concludo quindi questa prefazione con uno scritto che accompagna il sogno di Fadhma così come a sua volta sognato
dalla straordinaria sensibilità di Elena Di Gregorio, che ha capito che Fadhma fu una prodigiosa scriba del caos della vita: ella
non vi mise ordine, ma lo incantò.
Clelia Castellano
Napoli, aprile 2013
14
Prefazione all’edizione italiana
Scriba del caos, aquila mia, tu sei, mentre mi mostri il dolce domani,
dove chiodi insanguinano colui che amo. Egli, che mi sta accanto, mentre mi
strappano grappoli dalle mani, e la luce dal petto. Lui vedo, nella solitudine di ieri.
Lui ancora, in quella del tramonto.
Amore fu scriba del mio Caos,di terra in terra, fra perdute genti.
Amore fu un chiodo che trafisse, fu sangue costretto a tacere.
Amore fu tenera rondine ed aquila coraggiosa.
Prefazione all’edizione francese di Vincent Monteil
Una vita. Una semplice vita, scritta con lucidità da una grande donna kabyla, nel 1946 e poi ancora nel 1962, prima che la
morte la cogliesse in Bretagna, il 9 luglio 1967, a novantacinque
anni. Fadhma Aïth Mansour Amrouche, madre di Taos e di Jean, ha lasciato questa terra, ma vi resta presente grazie a queste
pagine dove si ritrovano i travagli e i giorni, le nascite, le morti,
il freddo crudele, la fame, la miseria, l’esilio, la durezza di cuore, i costumi brutali di un paese rude nel quale le maledizioni,
gli omicidi, le vendette erano moneta corrente, per delle persone
così povere che le ghiande dolci fungevano da nutrimento di base, come la castagne al Limousin di mio nonno. Fadhma Amrouche non è più: thekhla taddart - e il villaggio è vuoto.
Zigh … Come si dice in kabylo: «ed ecco che mi accorgo
che» tante immagini, ricordi vengono a galla. Ho qui il quadernetto nero sul quale, trent’anni fa, scrivevo i miei primi appunti
di kabylo, presi con i miei esploratori in Dordogna. Penso ai
miei amici kabyli, al povero Mouloud Feraoun, vigliaccamente
assassinato dall’O.A.S. a El-Biar, il 15 marzo 1962, al «figlio
del povero» sepolto a Tizi Hibel, di fronte alla casa delle Suore
Bianche. La neve diventa blu sui pendii delle montagne e il
bambino kabylo, l’aqshish, urla proprio forte: d ul-iu, dayem diJerira (il mio cuore è sempre nel Djurdjura). Zigh… Come dimenticare lo straordinario Belaïd Aït- Ali, morto nel 1950, il cui
ricordo prezioso è preservato dallo schedario berbero dei Padri
Bianchi? Sottufficiale debole, ubriacone, barbone, disertore, «la
cui volontà era tanto debole quanto la sua intelligenza era bel-
15
16
Prefazione all’edizione francese di Vincent Monteil
la», scriveva in francese come in kabylo, e i bei testi che ci ha
lasciato vanno incontro a quelli di Fadhma Amrouche. Non è a
lei, che ha perso cinque figli, che bisogna insegnare che «nulla
vale quanto l’amore materno» (ulash, am yemma-k lehqiq). Sa,
meglio di chiunque altro, lei che fa tanta fatica a far vivere i
suoi, che il proverbio ha proprio ragione:«dimmi come ti vesti e
ti dirò come ti nutri!» ( ml-iyi d-ashu telsid, a-k-emlegh d-ashu
tettshid). E, attraverso tutto il suo libro, risuona l’eco della saggezza degli anziani: «inutile dire all’orfano che deve piangere!»
(agujil, ur-t-ettwessi ara gheff imettawen).
Una vita semplicissima, legata alle gioie e ai dolori, una vita
di coraggio, di lotta, il cui motto avrebbe potuto essere quello di
un Gallieni: “a testa alta”. La piccola bastarda rifiutata da una
società chiusa, impietosa, si batte, giorno dopo giorno, per la
sua dignità. Nel 1899, a sedici anni, riceve insieme il battesimo
e il matrimonio con Belkacem-ou-Amrouche. Entra quindi nel
clan Amrouche, il cui patriarca ha fatto la campagna di Crimea
e parla di Sebastopoli, che chiama “la città del rame”. Descrive
senza compiacenza l’ambiente familiare nel quale le co-spose si
odiano, dove i bambini muoiono per mancanza di cure, dove
ogni giorno si lotta contro la fame e ogni notte contro il freddo
delle montagne. Ma Fadhma ha un’energia indomabile, e sa
leggere: ha quindi in sé una possibilità di evasione, di comunicazione, di apertura verso la libertà. Le prime scuole francesi in
Kabylia risalgono al 1873 e Fadhma Aïth Mansour fu una delle
primissime a frequentarle. All’epoca fece scandalo. Ma il ruolo
di queste scuole fu molto grande: basta sfogliare, ad esempio
l’annuario degli ex allievi e amici della scuola di Aït-Larba.
Certamente, è deplorevole che l’amministrazione francese sia
rimasta, fino alla fine, secondo la parola di Louis Massignon,
“ortodossa ma oscurantista”: stupidamente opposta all’insegnamento arabo, lingua nazionale di tutti gli Algerini. Il risultato (auspicato?) non poteva essere che di rinchiudere i kabyli in
un particolarismo testardo, che la Guerra dei Sette Anni sarebbe
riuscita a domare: si conosce il considerevole ruolo assunto dai
Kabyli nella Battaglia di Algeri e nella Resistenza nazionale.
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