neX Xus Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Gruppo Interstizi & Intersezioni NewsMAGAZINE n. 21 Inverno 2010/2011 Il segreto dell’attività creativa sta nel conservare la giovinezza. Il segreto della genialità, nel conservare l’infanzia, la disposizione d’animo dell’infanzia per tutta la vita. (Pavel Florenskij) Cari destinatari, non è questa la sede in cui affrontare un’analisi della recente legge di riforma dell’università, che personalmente ritengo precarizzante e punitiva nei confronti dei ricercatori e docenti, trentamila persone che svolgono un ruolo chiave in un grande paese di sessanta milioni di abitanti, unico al mondo per la sua storia e la sua cultura. Mi limito a rilevare la grande assente da questa riforma: la ricerca e la passione della ricerca, senza la quale – come scriveva Max Weber un secolo fa – non è possibile intraprendere questa professione che è anche vocazione, Beruf. E’ solo questa passione, unita ad un lavoro diuturno, che può portare alla scoperta in campo scientifico così come ad analisi creative per affrontare i problemi sociali, compito quest’ultimo delle scienze umane. E vorrei osservare che nel giorno dell’approvazione della riforma al Senato, nel dicembre scorso, gli studenti universitari hanno sorpreso tutti andando a manifestare, in modo non violento, non nel centro blindato di Roma ma nelle periferie: i giovani hanno messo al centro la periferia, rivalutando simbolicamente le zone povere e marginali, i luoghi di passaggio, i terrains vagues dei suburbi. Mi sembra un esempio di creatività, di pensiero che ben si accorda alla logica degli “interstizi” a cui si ispira la nostra impresa. Con i migliori auguri. Giovanni Gasparini SSO OM MM MA AR RIIO O 1. Forum su “2010/2000 – Un decennio di cambiamenti”, a cura di Giovanni Gasparini (Giovanni Gasparini, Maurice Aymard, Elena Riva, Laura Balbo, Stefano Angeli, Domenico Bodega, Fausto Colombo, don Antonio Torresin) 2. Incontri • Nicoletta Polla-Mattiot, Appuntamento col silenzio 3. Libri & Scritti • • • Pierantonio Frare, Il potere della parola. Dante, Manzoni, Primo Levi Maddalena Colombo, Una ricerca sugli early school leaver guarda all’innovazione nelle politiche per il successo formativo Antonella Occhino, Il tempo libero nel diritto del lavoro 4. Arte & Comunicazione • Gigi Cotichella, Una Giornata da Dio (Ammesso che sia in casa) 5. Vita quotidiana • • Giovanni Gasparini, La leggerezza insostenibile dell’email Marco Ermentini, Tre voci da “Architettura timida. Piccola enciclopedia del dubbio 6. Rubrica “Le città interstiziali” • Francesca Maci, Hong Kong Pubblicazioni recenti Prossimi eventi 1. Forum su “2010/2000 - Un decennio di cambiamenti” a cura di Giovanni Gasparini, Università Cattolica, Milano @ Introduzione – Norme e normatività nella vita quotidiana Introducendo questo Forum, che non mira certo all’esaustività ma che vuole offrire su alcune aree della vita associata una serie di flash, indico a mia volta un tratto sociostrutturale che nell’ultimo decennio ha assunto proporzioni via via più ampie e invasive. Si tratta dello sviluppo inarrestabile delle norme che reggono la vita quotidiana dei singoli e la loro partecipazione alle organizzazioni e istituzioni della società contemporanea (aziende, unità produttive, servizi, pubblica amministrazione e così via). Un elemento decisivo al riguardo mi sembra lo sviluppo delle tecnologie moderne della comunicazione, e in generale dell’elettronica, informatica e telematica, che oltre a condizionare i nostri comportamenti (si pensi ad es. alla normatività inaggirabile insita nei computer) controllano in misura crescente e impressionante la nostra attività, fotografando e cineriprendendo, registrando i nostri movimenti e comunicazioni, ricostruendo da tracce indelebili (come l’uso di una carta di credito o di un badge) le nostre azioni nel tempo. Fra altri esempi cito il rapporto con l’automobile, specie in ambito urbano. Salire in macchina e mettersi a guidare comporta obbligatoriamente allacciare la cintura di sicurezza, altrimenti la suoneria non cessa di inviare i suoi segnali di avvertimento, e avvalersi di ogni altro sistema di controllo previsto (come i seggiolini per i bambini); rispettare in ogni dettaglio regole che talvolta sono impossibili da rispettare (come il limite dei 50 kmh in città), l’interdizione di zone ZTL o Ecopass, i sensi vietati e i lunghi giri per raggiungere certi luoghi, il divieto di penetrazione in vaste zone pedonali… il tutto con continui controlli elettronici sull’accesso alle zone proibite e sulla velocità (Autovelox). Anche le sanzioni sono diventate molto più severe e ansiogene: l’introduzione della patente a punti ne è una prova. Il parcheggio in città è un vero azzardo, e in ogni caso sottoposto di regola a pagamento, persino nelle zone periferiche come dimostra il caso recente di Milano. Continuando con l’esempio della guida e del traffico veicolare, tutto questo non ha avuto risultati apprezzabili sulla sicurezza personale dei pedoni, sempre sottoposti al rischio di incidenti gravi nelle aree urbane, e ha generato effetti collaterali trasgressivi, come quelli dei ciclisti che percorrono in bici i marciapiedi riservati ai pedoni: si tratta di una pratica ormai corrente e non sanzionata in diverse città italiane. Concludo con alcuni altri accenni sulla vita quotidiana. Anzitutto, si è moltiplicato il numero degli oggetti senza i quali “non si può uscire di casa”, salvo essere fortemente penalizzati: non solo le chiavi di casa e della macchina ma il documento d’identità, la carta di credito oltre al denaro contante, il telefono cellulare, la chiavetta usb ed eventualmente il computer portatile, una serie di badge per accedere ai luoghi consueti di lavoro, parcheggio ecc., il tesserino sanitario, il tesserino fiscale, altre tessere varie. In secondo luogo, gli scambi commerciali e di servizi esigono certificazioni date da scontrini, ricevute e fatture, oltre che il ricorso al codice fiscale. In terzo luogo, si assiste ad una moltiplicazione capillare dei controlli burocratici in tutte le attività della pubblica amministrazione, tra cui l’Università stessa. Il paradosso è che, in questo contesto sempre più fitto di norme e di procedure da seguire in ogni ambito individuale e organizzativo, continuano a manifestarsi forme di devianza clamorose, quelle che vengono indicate come scandali e che in questi anni hanno investito i campi più diversi: politica, amministrazione, edilizia e urbanistica, aziende in genere, sport, evasioni fiscali perpetrate da singoli. Si direbbe che nel decennio trascorso in Italia si sia proceduto su due binari divaricati: da un lato l’aumento implacabile delle norme che incidono sulla vita quotidiana a tutti i livelli, dall’altro forme di devianza che in certi contesti socioprofessionali e territoriali assumono valenza diffusa e persino di scandalo, allorché vengono messe in luce. Giovanni Gasparini @ Dall’Europa al mondo: la una sfida per le scienze sociali «Non c’è una storia di Francia, c’è soltanto una storia d’Europa», scriveva Marc Bloch negli anni 1930. Quarant’anni dopo, citando Marc Bloch, Fernand Braudel aggiungeva: «Non c’è una storia d’Europa, c’è soltanto una storia del mondo». Tutti e due avevano anticipato un mutamento necessario sia della storia, sia delle altre scienze sociali, di cui pensavano che dovevano condividere la stessa esigenza e lo stesso rapporto colle società nelle quali si sviluppavano. Per dirlo in termini che sono più quelli di Braudel che di Bloch, ma che Bloch, difensore del metodo regressivo - dal più conosciuto, perchè più vicino 2 a noi, al meno conosciuto, perchè più lontano – avrebbe potuto accettare, il presente rinnova sempre le domande che fa al passato. E il passato, pure se non basta a spiegare il presente, aiuta a capirlo, perchè vi è sempre almeno in parte presente. Lo dobbiamo confessare: da storici e scienziati sociali, abbiamo seguito con ritardo e lentezza questi suggerimenti. Abbiamo aspettato la fine degli anni 1960 per adattare le nostre discipline alla nuova dimensione europea che il processo d’unificazione all’ovest, prima, poi l’allargamento all’est dopo il 1989 ci imponevano. Abbiamo dovuto superare le nostre abitudini, i limiti delle nostre lingue, delle nostre istituzioni e delle nostre tradizioni scientifiche nazionali. A poco a poco, la circolazione dei professori, ricercatori e studenti e il moltiplicarsi degli incontri scientifici hanno imposto il quadro europeo come orizzonte delle nostre ricerche. Non bastava però questa prima tappa. Concentrando la nostra attenzione sull’Europa, abbiamo lasciato in secondo piano il resto del mondo. Il riferimento alla globalizzazione di cui potevamo misurare ogni giorno gli effetti non ci ha spinto ad affrontare subito la seconda tappa della strada: il superamento dell’eurocentrismo concettuale delle nostre discipline, confortato dal peso delle nostre istituzioni di formazione, di valorizzazione e di legittimazione della ricerca. Non si trattava soltanto di pensare il mondo, ma anche di confrontare i nostri punti di vista, le nostre interrogazioni e le nostre problematiche con quelli delle nuove comunità scientiche che, dall’Asia all’Africa e all’America Latina. si moltiplicavano e affermavano il loro dinamismo, la loro autonomia, e l’originalità delle loro culture e delle loro società. Abbiamo tardato a riconoscere che questa «diseuropeanizzazione del mondo», messa in evidenza da Wolf Lepennies a Singapore più di quindici anni fa, apriva la strada a una rifondazione delle nostre discipline a scala mondiale, su una base che non poteva essere, in un primo tempo, che multilaterale e aperta alla diversità delle culture e delle situazioni locali. Tale svolta, iniziata intorno al 2000, comincia a far sentire i suoi primi effetti positivi. Ma siamo soltanto all’inizio della strada. Maurice Aymard, EHESS, Parigi @ 10 anni di vita italiana Dieci anni fa cominciavano il ventunesimo secolo e il terzo millennio, ma sembrano passati secoli tanti sono i cambiamenti, le innovazioni e le vere e proprie rivoluzioni che hanno modificato drasticamente il modo di vivere degli Italiani. E se a primeggiare è sicuramente la tecnologia che ha subito incessanti trasformazioni anno dopo anno, non mancano quegli elementi, come i brand e i marchi, che hanno saputo modificare lo stile di vita anche in settori come l’alimentazione e la gastronomia, il mondo del divertimento e del tempo libero, la moda e, infine, il modo di informarsi, conoscere e apprendere. Questi brand non si sono imposti solo come status symbol, ma piuttosto come elementi di forza che hanno mutato la vita del paese, rendendola più facile e comoda e fornendo veri e propri stili di vita alternativi, divertenti e mai visti, non solo per i giovani. Se nella classifica speciale spicca la tecnologia con gli iPod, gli iPhone e gli iPad, a ruota ne seguono altri. In primis il food-fenomeno del brunch che ha mutato la domenica a tavola degli italiani, soprattutto nelle grandi città, oltre a quello degli agriturismi che hanno fatto loro riscoprire la natura e il cosiddetto cibo biologico. Ultima rivoluzione gastronomica è quella del commercio equo e solidale che, a piccoli passi, ha trovato spazio anche nella grande distribuzione italiana, facendosi conoscere al grande pubblico. Un’altra rivoluzione culturale è rappresentata dalla filosofia del low cost che non solo ha imposto un nuovo modo di viaggiare rivoluzionando i cieli con prezzi convenienti e appetibili a tutti, ma ha imposto importanti variazioni anche al mondo dell’industria della moda con riflessi a cascata sulla comunicazione pubblicitaria. Ma i primi dieci anni del XXI secolo sono anche gli anni del boom di un nuovo format televisivo: i reality che hanno rivoluzionato i palinsesti delle tv generaliste italiane, insieme con la pay-tv che offre con centinaia di programmi monotematici e ha portato in Italia l’HD, l’High Definition delle immagini: un’innovazione nell’approccio al mezzo di comunicazione di massa più amato dagli italiani che inizia a coinvolgere tutti con l’avvento del “digitale terrestre”. Rivoluzioni anche nell’informazione e nell’industria dell’intrattenimento. Nata il 15 gennaio 2001, Wikipedia, l’enciclopedia multilingue collaborativa, online e gratuita, è diventata il punto di riferimento per tutti i naviganti che hanno abbandonato negli anni le polverose e mastodontiche enciclopedie, lasciate a far “libreria” sugli scaffali. Con una media di 60 milioni di accessi al giorno, più di 10 milioni di voci, 34 milioni di pagine e con la sua filosofia di “pubblicazione aperta a tutti” si è imposto come uno dei dieci siti più visitati al mondo. Viaggia sempre sul World Wide Web il fenomeno d’intrattenimento del momento, il social network per antonomasia, ovvero Facebook, capace di 3 attirare l’attenzione di giovani e adulti, che è stato in grado di modificare i rapporti interpersonali e di annullare le distanze in maniera immediata con amici e parenti. Tuttavia, in cima alla mia personale graduatoria delle rivoluzioni culturali più importanti, svettano gli sms (acronimo di short message service), il servizio messaggi brevi che ha trasformato le modalità di comunicazione di miliardi di persone, facilitando i contatti personali, ma impoverendo la lingua propria della comunicazione verbale. Mi chiedo spesso, da storica, cosa penseranno e scriveranno di noi i miei colleghi del futuro quando utilizzeranno i nostri sms come fonti storiche per spiegare ai posteri come erano i loro avi. Forse è meglio non porsi questo genere di domande! Elena Riva, Università Cattolica, Milano @ La politica Il futuro è una parola oggi al centro dell’attenzione (all’ attenzione della politica, ma anche di tutti noi, nel vivere quotidiano). Alcune rapide riflessioni. Nei percorsi scolastici – dalle elementari in avanti – viene dato molto spazio all’ insegnamento della storia: si comincia con il paleolitico, e poi il neolitico, e gli ittiti e i sumeri e i babilonesi; e avanti, la storia greca e romana e si arriva agli etruschi, via via si arriva al Medio Evo. Il punto però è questo: mancano lo spazio e il tempo per avvicinarsi al presente. Non ricevono, le “nuove generazioni”, non soltanto adeguate informazioni ma nemmeno un quadro della società in cui sono collocati. E nessuna attenzione, nessun interrogativo, sugli anni che abbiamo davanti. Dico le “nuove generazioni”. Ma se ci pensiamo tutti siamo in tanti modi tenuti lontani, distratti, da conoscenze e riflessioni sufficientemente approfondite sui processi in corso. Resi preoccupati, impauriti e rassegnati. E non siamo messi nelle condizioni di portare uno sguardo consapevole, attento, su scelte e proposte e scenari del futuro. Dunque, impegnarci a farlo maturare, questo sguardo, è una urgente questione “politica” (nel senso ampio della parola). Lo dico anche così: impegnarci a lavorare sociologicamente a una “cultura del futuro”. Certo non a livello “nazionale” o “locale”: è ovvio che il riferimento deve essere alla dimensione europea (perlomeno). O possiamo anche dire “globale”, ma in un senso articolato, come suggerisce Saskia Sassen, che parla di “nuova realtà in divenire”, dei “nuovi attori” e degli “attori emergenti”. Il tema della cultura del futuro potrebbe essere un riferimento. E penso che ci sono sedi e occasioni di incontro e di dibattito per lavorare in questo modo sui processi in atto: ci sono le reti, i siti; anche i media (almeno alcuni). Portarli nelle istituzioni della formazione scolastica e universitaria; al “pubblico” – in crescita – della formazione permanente, che sempre più diventerà importante negli anni che abbiamo davanti. Laura Balbo, Università di Ferrara @ Il libro (l’editoria) Secondo dati recentemente resi pubblici dall’Associazione italiana editori (rielaborazioni di fonti Istat) dal 2000 ad oggi quanti dichiarano di aver letto almeno 1 libro all’anno sarebbero passati da 21.140.000 a 26.440.000 individui (dal 38,3% al 46,8% della popolazione italiana, con un incremento de 15%). Inoltre all’interno di questo universo quanti avrebbero letto almeno 1 libro al mese (i lettori “forti”) sarebbero cresciuti con un incremento ancora maggiore (da 2.558.000 a poco più di 4.000.000, +49%). Si tratta di dati sorprendenti, variamente spiegabili (la crescita della scolarizzazione), che dovrebbero diffondere ottimismo tra quanti il libro amano e in vario modo con esso o attorno ad esso operano. Eppure non è affatto questo il sentimento che qui si respira. Anzi, il contrario è sicuramente vero e i motivi sono innumerevoli, ma tutti cooperano per addensare sul futuro nubi di una tempesta imminente (in certe realtà già presente: nei paesi anglosassoni l’editoria – come prima l’industria musicale e poi l’informazione quotidiana – è oggi vissuta come un settore in crisi strutturale). Alle radici sta la pervasività dei cambiamenti che la digitalizzazione e la rete promettono di produrre non solo sui modi di distribuire (libro cartaceo/vs ebook), ma (il che è socialmente assai più rilevante) su un certo modo di creare, organizzare, riflettere e condividere i contenuti del pensiero. Il libro è stato per secoli il modello con cui apprendere tanto a disciplinare il proprio pensiero quanto ad entrare con rispetto ed empatia nell’immaginario e nei sentimenti altrui. Senza nulla togliere allo straordinario valore partecipativo e di immediatezza delle nuove comunicazioni possono assicurare (da ultimo gli eventi nei paesi arabi lo testimoniano), la mia speranza è che si riesca ad imparare in un futuro prossimo a far convivere equilibratamente questi valori con quelli che una tradizione di lavoro intellettuale (di cui il libro è la concretizzazione) ci ha trasmesso: l’importanza della responsabilità e della riflessione individuale, la pratica metodica del dubbio, del ragionamento critico e della verifica (in specie delle fonti). E quindi il mio augurio è che si riesca a mantener vivi (con i libri) anche questi valori presso le generazioni digitali, insegnando loro ad apprezzare e utilizzare i nuovi 4 media per quel che offrono: che è molto, ma non è tutto. Stefano Angeli, editore @ L’azienda L’immagine prevalente oggi è una combinazione di mercato e di gruppo. Questo dualismo crea un interessante paradosso: il mercato privilegia individui intraprendenti, imprenditori con mano libera, mentre la “squadra” richiede specialisti con vincoli comuni, sociali e professionali. Mercato e comunità sono così differenti? La comunità si fonda sulle virtù morali di cooperazione e di fiducia, anche il mercato possiede al fondo assunti impliciti di fiducia e di mantenimento di promesse. Senza questi fondamenti morali pre-contrattuali il mercato fallirebbe con l’aumento dei costi di transazione tipici dei sistemi altamente politicizzati. Questa opposizione binaria lascia spazio alla simultaneità e alla compresenza di ciò che crea esperienza nelle organizzazioni: l’accentramento e il decentramento, il lavoro di gruppo e la responsabilità individuale, il bisogno di cambiamento e la necessità di continuità, la visione di lungo termine e i risultati gestionali di breve termine; tutti evocati con eguale convinzione. Questa compresenza è essenzialmente l’equilibrio entro cui avvengono le scelte gestionali delle imprese: la ricerca simultanea di controllo e di consenso, di ottimizzazione e di integrazione, di coerenza e di adattamento tra persone, strategie e obiettivi aziendali. Questi opposti non sono scelte tra alternative, la cui appropriatezza dipende dalla specificità del contesto, ma rappresentano dualismi che richiedono di essere riconciliati e bilanciati in modo dinamico. Forze opposte come il breve e il lungo termine, la differenziazione e l’integrazione, gli orientamenti all’interno o all’esterno, la gerarchia e la rete, il controllo dei costi e la qualità totale cambiano con continuità, quasi senza possibilità di essere riconciliate definitivamente e generano tensioni. Nei contesi ambientali del passato, queste tensioni assumevano la forma di picchi, di cicli di stabilità e di cicli rivoluzionari, come nei modelli di equilibrio puntuato. Nei contesti moderni complessi e a rapido cambiamento, caratterizzati in alcuni settori da ipercompetizione, le tensioni sono permanenti, la variabile dipendente diventa la tensione tra opposti, più che la coerenza rispetto a risultati difficilmente definibili. Molte organizzazioni appaiono oggi in equilibrio precario tra forze opposte accuratamente identificate. Domenico Bodega, Università Cattolica, Milano @ Un evento nel decennio: il campionato del mondo del 2006 Il 9 luglio 2006 la nazionale italiana di calcio vinse (per la quarta volta nella storia della manifestazione) il campionato mondiale, che si disputava in Germania. Sembrava aprirsi una stagione di svolta per il nostro Paese: l’Unione di Centrosinistra aveva vinto le elezioni dopo il primo quinquennio di governo berlusconiano, che era stato controverso e aveva scontentato molti. Qualcuno osservò che la concomitanza richiamava un’altra stagione di rinascita (gli anni Ottanta), aperta ufficialmente nel 1982 dalla precedente vittoria ai Mondiali. Le cose, naturalmente, non stavano così, e vale la pena di rileggere brevemente quella vicenda, nelle sue radicali differenze dal 1982, per coglierne i brividi premonitori di una stagione invece buia, da cui il nostro Paese non è ancora uscito. Prima di tutto, la nazionale di calcio del 2006 usciva dal terremoto appena incipiente di Calciopoli: la testimonianza di una passato prossimo di corruzione e di vicende poco chiare in cui parevano invischiati alcuni dei giocatori-simbolo di quella squadra (a cominciare dal suo capitano). La squadra si giocava non soltanto una vittoria sportiva, ma anche un tentativo di riscatto, o forse più propriamente di amnistia. Se la mitica nazionale del 1982, allenata da Enzo Bearzot, aveva fatto quadrato nel proprio silenzio stampa per difendere la propria compattezza e azzerare spiacevoli gossip, quella di Lippi si chiuse a riccio in un risentimento solo vagamente comprensibile, sapendo di poter riconquistare la propria dignità solo con una vittoria finale che avrebbe riscattato i singoli giocatori. Un segnale di individualismo collettivo su cui occorrerebbe riflettere, per comprendere molto dell’Italia di oggi. Secondo punto: come la vittoria dell’Unione alle elezioni, quella della Nazionale ebbe qualche punto oscuro. L’Unione vinse sul filo di lana, dopo una grande rimonta berlusconiana. Fu subito chiaro che la coalizione sarebbe stata a rischio, e governare avrebbe rappresentato un’impresa difficilissima. Anche la nazionale vinse con la Francia ai rigori, dopo un episodio oscuro, quello della testata di Zidane a Materazzi, che probabilmente lo aveva duramente provocato. Zidane fu espulso, e la Francia ebbe un prezioso rigorista in meno…Rispetto alla trionfale battaglia con la Germania del 1982, la finale 2006 fu tignosa, difficile, risolta come si risolvono le partite ai penalties, quando non ci si libera mai dal controfattuale (se qualcuno dei nostri avesse sbagliato…). Il calcio italiano visse dopo quel trionfo momenti difficili, da cui non può dirsi del tutto uscito ancora oggi, malgrado i trionfi 5 interisti. Come il nostro Paese, che dal 2008 è sprofondato in un altro ottimistico incubo…Terzo punto: i festeggiamenti. Che nel 2006 furono – senza esagerazione – simili a un trionfo pagano: i giocatori furono accolti a Roma come vincitori di una campagna militare e letteralmente celebrati come gli antichi vincitori dei giochi olimpici (salvo con meno buon gusto). I campioni del mondo del 1982, per la cronaca, erano stati accolti al Quirinale e a Palazzo Chigi, e poi erano fuggiti a casa, per cominciare le meritate vacanze con le famiglie…La morale di questo aspetto è che la sinistra al governo celebrò la nazionale in modo assolutamente berlusconiano. E tutti sappiamo come andò a finire quell’esperienza politica. Qual è il messaggio che quella vittoria ci lascia? Aveva detto Sandro Pertini, intervistato sul significato dei Mondiali 1982: questa è la nostra domenica. Veniamo da una lunga settimana, e sappiamo che un’altra verrà, non meno impegnativa. Almeno, godiamoci la festa. Il 2006 invece fu come il leopardiano sabato del villaggio: sembrava annunciare una felicità che non venne, semplicemente perché poi smettemmo tutti di cercare di costruirla. Fausto Colombo, Università Cattolica, Milano @ Cosa è cambiato nelle nostre chiese Difficile descrivere i cambiamenti di luoghi e ambienti che sono stati familiari nel panorama di senso e fede di lunga tradizione. Ad un approccio teorico preferisco uno descrittivo a partire dalla finestra più accessibile. Quando una persona qualsiasi entra in una chiesa, dopo 10/20 anni cosa potrebbe notare? Anzitutto la diminuzione dei fedeli e l’aumento dei capelli bianchi. Una Chiesa invecchiata, che affronta una stagione che sembra più quella di un tramonto che non di un inizio. Correlativamente poi vedrebbe la mancanza di bambini e di giovani: qualcuno ha parlato di un grembo sterile, e comunque di una Chiesa che vive il distacco sofferto da una generazione giovanile che le sembra estranea, tangenziale. Certo, tutto questo ha a che fare con la statistica e un invecchiamento che riguarda tutta la società italiana. Il dato andrebbe circostanziato meglio, ma colpisce. Non solo invecchiano i fedeli ma anche la “classe dirigente” in perfetto parallelismo con quella sociale economica e politica. Meno preti, più spostamenti: a chi entra in Chiesa interessano poco queste faccende, ma forse percepisce cambiamenti in atto nelle strutture, nelle configurazioni delle parrocchia. Cose che si capiscono poco e sembrano “affari interni” ma che s’intuisce stanno consumando non poche energie in chi ha una responsabilità ecclesiale. Andando oltre i numeri probabilmente bisognerebbe parlare di un cambio di linguaggio: non si sente più parlare di temi classici della teologia preconciliare (grazia e peccato, sacrificio e espiazione, morte e colpa…) ma si nota un nuovo linguaggio. Da una parte certamente più biblico, ma non senza una nuova retorica dove molto si parla di senso, meno di verità, di amore, solidarietà, comunione, missione… le parole sono sempre delicate: alcune si perdono, altre si consumano in un uso eccessivo. In ogni caso non sembra che la retorica ecclesiale goda di ottima salute: chi frequenta la chiesa non sempre vi trova in un clima di ascolto. A volte si percepisce un po’ di noia. Tutto negativo? In realtà non è così. Oggi chi pratica non lo fa più per inerzia sociale. Chi c’è in chiesa è mosso da una domanda sincera, magari da una nostalgia di un Dio perduto, forse da un desiderio di ricominciare, ma non è lì a caso. Per questo è più esigente, chiede di più. Molti sono proprio quelli che ricominciano. Se si provasse a raccontare le storie, troveremmo diversi di questi nuovi inizi: chi da una ferita, chi da un incontro, chi da un passaggio delicato della vita. Un cristianesimo della “soglia”, che attende di incontrare qualcuno e una parola che accompagni i passaggi della vita. Qualcosa di nuovo accade, ma è ancora presto per coglierne i tratti di una nuova forma di cristianesimo: il travaglio è in atto ma c’è ancora vita. Don Antonio Torresin, parroco, Milano 2. Incontri Appuntamento col silenzio (Casa della Cultura, Milano, 9 marzo 2011) Scuola, laboratorio, occasione di incontro e confronto, vacanza dal rumore: è nata l’Accademia del silenzio. Un luogo dove condividere esperienze di riflessione e creatività legate al silenzio, uno spazio didattico in cui 6 apprendere ed esercitare le sue potenzialità comunicative, ideative, relazionali e terapeutiche, ma soprattutto un viaggio di ricerca, che parte da una semplice convinzione: che “fare silenzio” è un’arte, con delle regole che si possono imparare, trasmettere, condividere. E che riscoprire il silenzio significa ricostruire un rapporto diverso con il tempo delle proprie esperienze. Nata da un’idea di Duccio Demetrio e Nicoletta PollaMattiot, l’Accademia del silenzio (www.lua.it/accademiasilenzio) ha già raccolto oltre quattrocento adesioni e ha riunito, con il coordinamento scientifico di Emanuela Mancino, un gruppo promotore di cui fanno parte esperti di discipline diverse: Angelo Andreotti, Ada Ascari, Giorgio Bert, Giampiero Comolli, Valentina D’Urso, Marco Ermentini, Emanuele Ferrari, Daniela Finocchi, Gianni Gasparini, Giorgio Ieranò, Giorgio Macario, Francesco Marchioro, Antonella Parigi, Gian Piero Quaglino, Giampaolo Nuvolati, Luigi Perissinotto, Luigi Spina, Francesca Rigotti, Manuela Trinci. I lavori inaugurano il prossimo 9 marzo, con una Maratona del silenzio alla Casa della Cultura di Milano: dalle 17 alle 23, una no-stop di professionisti si alternano sul palco, con relazioni di 15 minuti, per confrontare esperienze, prospettive e studi silenziosi. Tanti gli spunti diversi, dalla fruizione artistica all’ascolto musicale, dal dialogo filosofico alle tecniche di comunicazione pausata, dalla sintassi cinematografica alla ricerca spirituale. Secondo appuntamento e seconda giornata dedicata al silenzio: il 30 aprile a Torino, al Circolo dei lettori. Poi nell’estate inizia una vera e propria “scuola di silenzio”: le attività didattiche si svolgeranno nel bel borgo medioevale di Anghiari, presso la Libera Università, nei mesi di giugno e agosto. La sfida di chi si iscrive all’Accademia? Promuovere una nuova militanza e una nuova ecologia del silenzio, nel rispetto dei luoghi e delle persone, come occasione per rivalutare il dialogo, l’ascolto, la riflessione, il giusto tempo. Nicoletta Polla-Mattiot, giornalista e scrittrice 3. Libri & Scritti Pierantonio Frare, Il potere della parola. Dante, Manzoni, Primo Levi, Novara, Interlinea, 2010. Perché un libro dedicato al Potere della parola? Perché mai, come nei nostri anni, si assiste ad un fenomeno tanto diffuso quanto preoccupante: l’abitudine “in politica, ma non solo in politica; in Italia, ma non solo in Italia” non tanto a mentire nel senso proprio del termine, quanto a falsificare il significato delle parole, le proprie e quelle degli altri, piegandole a dire altro rispetto al loro senso originario: e quindi facendone delle vere e proprie armi, puntate contro la verità e quindi contro l’uomo, vissuto come avversario. Tale falsificazione non può non avere una ricaduta dal punto di vista morale, sociale e politico – nel senso alto del termine – poiché, revocando in dubbio il legame tra linguaggio e verità, genera una complessiva e pervasiva sfiducia nei rapporti umani. Ne scaturisce il bisogno di recuperare una cura amorevole per la parola, e per una parola che sia tanto bella quanto indirizzata al bene; e ne scaturisce la necessità di tornare ai grandi autori della tradizione letteraria italiana, che ha spesso saputo coniugare etica ed estetica, bene e bello. I testi di Dante, di Manzoni, di Levi che qui si esaminano sono i canti I e II della Commedia, i capp. IX e X dei promessi sposi (la vicenda di Gertrude), il cap. Il canto di Ulisse di Se questo è un uomo. Essi sono degli esempi sempre vivi di una cura assidua e scrupolosa della parola giusta perché veritiera, di una continua preoccupazione per la responsabilità insita nella scelta di ogni parola, di una profonda consapevolezza del potere delle parole e di una precisa volontà di usarne per il bene. Guidati dall’analisi dell’autore, i lettori di questo libro potranno trovare in questi testi lo stimolo a riflettere criticamente sulle parole che ascoltano e a fare un uso responsabile di quelle che pronunciano; e potranno anche trovare in essi dei modelli e degli esempi di come la parola – innanzitutto quella di ciascuno di noi – possa significare, per l’altro, salvezza o dannazione, a volte non solo metaforiche. Dante, Manzoni e Primo Levi “mettono a tema il potere della parola, mostrandone il volto salvifico ma anche quello terribile”; e ci forniscono gli esempi e gli strumenti per rinsaldare quel legame originario tra verità e linguaggio che costituisce il fondamento dei rapporti umani e che consente di dare vita a un nuovo umanesimo integrale. Pierantonio Frare, Università Cattolica, Milano Una ricerca sugli early school leaver guarda all’innovazione nelle politiche per il successo formativo Un’indagine qualitativa, svolta in provincia di Brescia nel 2007-2008 e pubblicata ora per il Centro Studi Erickson di Trento, formula un quadro complesso e dinamico di un fenomeno tra i più sommersi nell’Italia produttiva: l’abbandono degli studi di una quota consistente della popolazione giovanile (circa 1 giovane su 5), sia 7 nel periodo della scuola secondaria, sia in quello successivo, dopo l’immatricolazione universitaria. Questo fenomeno appare condizionato non più solo da fattori classici (marginalità, disagio, disorientamento) ma anche dal richiamo della domanda di lavoro e da una eccessiva frammentazione delle proposte formative, che rendono scarsamente attraente l’impegno dello studio, anche per giovani che provengono da condizioni non svantaggiate. La ricerca (basata su una cinquantina di interviste semi-strutturate, singole e in gruppo) si colloca nell’ambito delle azioni di sistema che gli enti locali hanno promosso nel quadro delle politiche europee per il successo formativo. Mediante la Strategia di Lisbona l’Unione europea ha infatti dato supporto agli Stati membri nel tentativo raggiungere entro il 2010 l’ambizioso obiettivo del 10% massimo di early school leavers, ma diversi paesi tra cui l’Italia ne sono ancora ben lontani (il nostro tasso di Esl è fermo al 19,8% per il 2009). Alla luce del nuovo quadro socio-economico e politicoistituzionale, tale obiettivo è evidentemente rilanciato con la strategia 2020, che mira inoltre ad aumentare la quota di giovani-adulti 20-34 anni in possesso di istruzione terziaria oltre il 40%. Dall’indagine bresciana emerge che vi sono 1) cause dirette dell’abbandono (collocate nella scelta errata della scuola e nell’autoreferenzialità degli operatori scolastici), a cui si associano 2) cause remote, in cui è protagonista la famiglia dell’allievo che, da un lato, può svalutare la cultura associata al titolo di studio pur dichiarandosi disposta ad investire perché i figli lo ottengano, dall’altro, può eccedere in pretese irrealistiche che fanno sentire i figli inadeguati rispetto al mandato ricevuto; infine 3) cause nascoste, ciò che viene chiamato «sogno lavoristico» del giovane, che però si rivela ambiguo e contraddittorio se non è supportato da sufficiente apertura mentale e successo imprenditoriale. La tesi sostenuta al termine dell’analisi è che, al di là delle misure generali che il sistema-Italia può approntare per sostenere la motivazione formativa dei giovani e le aspettative delle famiglie, occorre innovare le politiche locali, poiché è a questa scala che si è in grado di far leva sulle cause reali dell’abbandono, coinvolgendo alla pari tutti i “terminali” del processo di abbandono: le scuole, le famiglie e le imprese. A livello nazionale, esistono già dei casi virtuosi di pratiche innovative, come quello della stessa provincia di Brescia (che ha avviato una interessante Campagna di comunicazione sociale nel 2008), ma vengono citati anche il piano territoriale della Provincia di Milano (Dispositivo provinciale di lotta alla dispersione) e il progetto SPES-GOAL sostenuto dalla Provincia di Napoli, improntato direttamente all’obiettivo dell’innovazione attraverso la relazione di partenariato tra insegnanti e professionisti esterni. Un attento esame dei risultati concreti ottenuti da queste buone pratiche potrebbe senz’altro stimolare la loro messa a sistema in altre aree ugualmente interessate dal fenomeno: la lotta all’abbandono,infatti, se pur condotta meglio a livello locale, rimane un target comune e fondamentale per l’intero Paese. Per maggiori riferimenti: Maddalena Colombo, Dispersione scolastica e politiche per il successo formativo, Erickson, Trento, 2010. Maddalena Colombo, Università Cattolica, Milano Antonella Occhino, Il tempo libero nel diritto del lavoro, Giappichelli, 2010. Una riflessione sull’agire umano come quella in esame è uno sguardo non solo giuridico sulla condizione della persona alle prese con la temporalità dell’azione, e quindi sulla coscienza della propria libertà. Il tema si presta bene all’analisi giuridica, non solo sul piano lavoristico ma anche del diritto costituzionale, poiché i molti diritti fondamentali della persona (racchiusi nella felice formula dei “diritti inviolabili dell’uomo” nell’art. 2 della nostra Costituzione) attendono un progressivo e mai completo sviluppo delle condizioni sociali e normative nelle quali poter essere svolti. Tra i tempi di lavoro e non lavoro, liberi e di riposo, poi, si inserisce con sempre maggior frequenza il caso dei tempi di disponibilità, “tempi interstiziali” dove l’orario è sostituito concettualmente da un tempo in cui il lavoratore si mette a disposizione di una eventuale chiamata, rendendosi responsabile in cambio solo di una “indennità di disponibilità”. E’ il caso del lavoratore interinale che è assunto dall’agenzia di lavoro a tempo indeterminato, sopportando direttamente il rischio della mancata occasione di lavoro (missione); o del lavoratore intermittente, anche detto a chiamata, legato al datore di lavoro da una sorta di contratto di job on call. Costui, peraltro, secondo la disciplina vigente, può anche legarsi al datore di lavoro solo nel senso che assumerà il ruolo di un normale lavoratore dipendente solo se accetterà di rispondere positivamente alla chiamata, senza esservi però obbligato, e quindi senza percepire la relativa indennità. A questi casi, dove le persone accettano complessivamente uno schema contrattuale dove lo scambio è tra disponibilità e denaro, si possono accostare altre situazioni che si verificano 8 occasionalmente nel corso di normali contratti di lavoro part time, quando il lavoratore abbia accettato (tramite le cosiddette clausole elastiche o flessibili) di sottostare alla decisione del datore di modificare a determinate condizioni i tempi di estensione o di collocazione della prestazione lavorativa; eventualità che può anche non determinarsi mai, ma che costringe il lavoratore a tenersi comunque libero. Un caso analogo, per certi aspetti, a quello in cui il lavoratore è tenuto per contratto (individuale o collettivo) a prestare un certo numero di ore di straordinario a richiesta del datore di lavoro. Diverso è il caso dei turni di reperibilità che molti contratti collettivi impongono a gruppi di lavoratori per esigenze di sicurezza degli impianti o di continuità del servizio assicurato (tipicamente nel campo medico); qui la questione si presenta più come un aspetto della garanzia dei minimi di riposo giornaliero che come un fatto di introduzione di schemi interstiziali nella struttura dei contratti di lavoro. Queste formule offerte dall’ordinamento portano a riflettere sul fatto che il lavoro, come attività obbligatoria in orario, si definisce nella sua estensione entro il tempo di vita della persona ma non individua un tempo residuale che è per definizione sempre libero. Antonella Occhino, Università Cattolica, Milano 4. Arte & Comunicazione Una Giornata da Dio (Ammesso che sia in casa) L’idea di uno spettacolo per riflettere sul tempo, credo che sia nata da due suggestioni. Da un lato l’urgenza dell’argomento. Dall’altra l’esperienza continua del tempo dello spettacolo, il tempo dell’arte come momento “mistico” in cui siamo in presenza di un atto creativo e continuamente viaggiamo altrove, dove quell’atto ci suggerisce di andare. Il processo creativo non poteva allora che partire al contrario: come viviamo il tempo, dove il tempo ci interroga e ci lascia a volte sgomenti. Ecco che nascono allora i primi nuclei, lo sketch del tribunale, dove la condanna di un uomo divenuto ormai un pupazzo perché ha perso tempo ci fa riflettere sul tanto tempo perso altrove, fino a scoprire che il vero tempo perso è non realizzare se stessi. Ed è proprio la scelta di come vivere il tempo il tema del primo atto reso attraverso musiche, coreografie, clownerie e sketch comici. Cuore pulsante la ripresa del mito di Crono, dio del tempo misurato, che scorre senza senso e spesso senza pietà, con il concetto di Kairos, il tempo della bellezza: i due vengono uniti come fratelli gemelli in una storia inventata che ripropone al pubblico il dilemma di mettere nel tempo che scorre un tempo personale, che sia il proprio modo di attuare la vita. Il secondo atto è compreso tra due fuochi: il primo lo devo all’incontro con gli interstizi. L’intuizione che la frase “non ho tempo” è mendace solo perché ci si riferisce a certi tempi, mi ha portato a riflettere su quante cose possiamo fare di bello e di prezioso nel “poco” tempo che abbiamo. La sfida è sta quella di costruire un elenco delle azioni che si possono fare in un minuto, in cinque minuti e in dieci minuti. Ne è nato uno sketch e un monologo che spingono lo spettatore a pensare che non tutto il tempo è perduto, che finché abbiamo un po’ di tempo, possiamo prenderci del tempo e renderlo più umano, più vivo e nostro. Il secondo è l’incontro con Dio. È un Dio che non è in casa perché è andato alla ricerca non dell’uomo, ma proprio di quell’uomo che doveva passare una Giornata da Dio, ma poi preso da mille cose proprio di Dio si è dimenticato. Ecco allora che Dio arriva, non fa prediche, non giudica (non è ancora quello il tempo) ma racconta una favola, il suo messaggio sul tempo tutto incentrato sulla speranza: la speranza che ogni giorno che inizi possa essere una Giornata da Dio, la speranza che i tanti tempi organizzati e i tanti interstizi tra di essi possano vederci attori e non semplici spettatori1. Gigi Cotichella, regista e operatore teatrale 5. Vita quotidiana La leggerezza insostenibile dell’e-mail La posta elettronica, strumento divenuto in pochi anni indispensabile alla nostra comunicazione quotidiana, sta forse diventando obsoleta? Me lo chiedo a partire da un dato di esperienza reale condiviso da moltissimi utenti: la quantità sempre più ampia di messaggi e-mail – disparati, di provenienza e qualità ben diversa ma tutti tenuti insieme nella schermata della “Posta in arrivo” del computer – che vengono ricevuti quotidianamente. Il secondo elemento di esperienza condivisa è il fatto che parecchi utenti non rispondono alle e-mail, professionali o personali che siano, o lo fanno a malincuore se 1 Una Giornata da Dio (Ammesso che sia in casa): Spettacolo di varietà scritto da Gigi Cotichella, con Gigi Cotichella, Giovanna Avataneo, Lorenzo Tiengo e gli Artisti Terrestri- Realizzato da AnimaGiovane. Lo spettacolo gira l’Italia da 4 anni. Su www.animagiovane.org tutte le informazioni e le date delle prossime rappresentazioni. 9 sollecitati più volte da chi gli aveva scritto. Perché la gente non risponde facilmente alle mail? E’ solo per un fatto di cattiva educazione? Scartando questa ipotesi semplicistica, vorrei indicare sinteticamente due possibili vie di risposta: la prima è che vi sia un intasamento oggettivo nelle comunicazioni e-mail, al quale si uniscono un agglutinamento che rende difficile sceverare la qualità dei messaggi e la leggerezza immateriale dell’email, dove i messaggi più recenti scalzano e fanno letteralmente scomparire quelli precedenti; sappiamo bene che dopo 2 o 3 giorni è difficile andare a ripescare una mail per rispondere, se non l’abbiamo messa in evidenza. La seconda ipotesi va più alla radice del mezzo di comunicazione: in altri termini, l’e-mail mette in discussione pericolosamente le diseguaglianze – di statusruolo, di gerarchia, di valori persino – tra emittente e ricevente. Con l’e-mail lo studente si rivolge direttamente e senza interposizioni al professore, il lettore al giornalista o scrittore, un impiegato al direttore, un utente qualunque ad un personaggio della politica o dell’economia. L’email è in se stessa uno strumento che tende ad abolire le distanze e stimola ad attuare una comunicazione a due vie su base paritaria, una vera e propria inter-azione, e per di più in termini veloci: ma proprio per questo essa va incontro a resistenze da parte di chi non si sente tenuto a rispondere perché si reputa per qualche aspetto superiore a chi lo ha interpellato, al quale non concede in sostanza il diritto di rivolgersi a lui su basi di parità o di chiedergli qualcosa. Viene in mente la geniale interpretazione che uno storico americano, Stephen Kern, diede tempo fa riguardo alla sconfitta dell’Impero austro-ungarico nella prima guerra mondiale: si tratta del fatto che Francesco Giuseppe detestava il telefono, ritenendo inammissibile che dei sottoposti (sia pure dei generali che gli chiedevano urgentemente decisioni) si rivolgessero a lui direttamente. E, del resto, ancora oggi capita che il telefono venga usato come strumento a una via sola, quando chi parla “attacca la cornetta” e cioè interrompe la comunicazione prima di aver ascoltato a sua volta l’altro, negando in radice il dialogo verbale: non accade solo tra privati, in Italia è successo nel corso di un programma televisivo al quale la telefonata di un uomo di governo in diretta è rimasta una esternazione a una via sola, senza possibilità di risposta da parte del conduttore. Giovanni Gasparini Tre voci da “Architettura timida. Piccola enciclopedia del dubbio” (Nardini Editore, Firenze 2010) di Marco Ermentini • Abbaino “Moltissimi grandi uomini sono vissuti negli abbaini e alcuni di essi vi sono anche morti. Haydn crebbe in un abbaino e Chesterton morì di fame in un altro abbaino e vissero così anche Dickens e Andersen. Gli abbaini hanno sempre rappresentato la culla del genio.” Forse non ce ne siamo accorti ma con il tramonto dell’abbaino e la sua sostituzione con il piatto lucernario complanare abbiamo perso qualcosa. E’ un luogo di transizione come l’atrio, il vestibolo, il corridoio, l’intercapedine e l’antibagno e proprio per questa sua caratteristica incerta è candidato a divenire il simbolo della nostra condizione esistenziale. Jerome K.Jerome aveva proprio ragione. • Antibagno Poesia del disimpegno: non è l’ultimo film sentimental-natalizio, ma il curioso libro di Andrea Bortolon. Un saggio su un luogo che è entrato di prepotenza nella nostra vita: l’antibagno. Imposto dai pignoli regolamenti di igiene è un vero incubo per gli architetti. E’ un piccolo spazio incerto e indefinito tra due porte che si aprono. E’ un posto ambiguo e che ci inquieta, uno spazio dubbioso. Viene da domandarsi il perché della sua esistenza. Forse fa parte dei luoghi inutili, veri paradossi delle case degli uomini. Nella storia dell’architettura non c’è alcuna traccia; si tramanda solo il ricordo di una lite furibonda tra la proprietaria della villa Savoye e Le Corbusier che, di antibagni proprio non ne voleva sapere. • Intercapedine Stanotte ho sognato una casa fatta di lunghe intercapedini. Camminavo in fretta con una lampada in mano e non riuscivo a trovare la fine. La penombra era interrotta dalla poca luce che filtrava dalle poche grate del marciapiede soprastante. Mi sono svegliato di colpo ed ho pensato alla casa di Angelo Spettacoli in Sardegna: è fatta di sole intercapedini interrate che circondano la cantina. Il bello è che la cantina non c’è: è un locale quadrato senza accesso. Così scendendo la ripida scala verso il basso si percorre il perimetro dell’intercapedine senza sosta alla ricerca di una porta di accesso che non c’è. Marco Ermentini, architetto2. 2 Marco Ermentini è presidente della Shy Architecture Association www.shyarch.it che raggruppa il movimento per l’architettura timida. Le azioni della SAA sono provocatorie ( l’invenzione del miracoloso farmaco Timidina), ironiche (la parente a punti per il 10 6. Rubrica “Le città interstiziali” @ Hong Kong “La dottoranda va a Hong Kong”…parafrasando un libro di Marianella Sclavi potrebbe essere questo il titolo di un breve racconto sul viaggio a Hong Kong che mi ha visto protagonista l’estate scorsa in occasione di un Convegno sul Servizio Sociale internazionale. Molta umidità, una miriade di colori, odori, suoni, una moltitudine di persone e luoghi! signore sedute nelle portinerie delle guest house o che camminano lentamente per la strada osservano straniti la frenesia che li circonda, pensando nostalgici ai loro tempi e desiderosi di una buona tazza di tea preparato in modo tradizionale. Oriente e occidente convivono uno accanto all’altro in un paesaggio armonicamente sgraziato, circondati dal mare. Francesca Maci, Università Cattolica, Milano Pubblicazioni recenti • • Edgar Morin, La mia sinistra. Rigenerare la speranza, Erickson, Trento 2011. Sonia Livingstone, Ragazzi online. Crescere con internet nella società digitale, trad. it. a cura di Piermarco Aroldi, Vita e Pensiero, Milano 2010. Prossimi eventi • Un’affascinante confusione. Grattacieli ipermoderni, illuminati da luci e insegne sfavillanti, accanto a palazzi altrettanto alti ma diroccati dove i panni stesi si perdono tra le crepe dei muri e le persone vivono stipate come api negli alveari. L’ordine nel caos: strade grandissime dove macchine e biciclette scorrazzano in maniera disordinata con regole proprie non curanti dei pedoni; sottoterra la metropolitana asettica e rigorosa dove frecce nere sul pavimento indicano la direzione di accesso ai treni. L’odore di Mac Donald e di Pizza Hut si mischia a quello intenso di spezie e ricette locali cucinate in maniera tradizionale nei piccoli ristoranti a gestione familiare. A colazione zuppa con polpette di carne o cappuccino - maxi e muffin in un caffè di una delle tante famose catene occidentali. Uomini e donne vestite di tutto punto corrono freneticamente da un lato all’altro della città rincorrendo i loro impegni lavorativi. Ragazzi in abiti originali e dai tagli stravaganti vendono articoli di alta tecnologia. Anziani signori e • Il Gruppo Interstizi & Intersezioni organizza un Workshop multidisciplinare a più voci sul tema della Creatività, previsto a Milano in Università Cattolica, il 12 maggio 2011, dalle ore 14.00 alle ore 19.00. Maggiori informazioni saranno reperibili alla pagina online del Gruppo: http://dipartimenti.unicatt.it/sociologia_20 72.html, oppure scrivendo una email a [email protected] L’Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche organizza il 2° Convegno Nazionale AIEMS, previsto a Roma il 27 marzo 2011 sul tema Attraverso ed oltre i confini disciplinari: una sfida necessaria. Per ulteriori informazioni: www.aeims.eu restauro) e meravigliosamente sconclusionate. L’architettura timida si occupa di tutti quegli aspetti che l’architettura tradizionale trascura come l’antibagno, l’intercapedine, l’abbaino, il vespaio, la bocca di lupo, il sottotetto, il controtelaio e i luoghi incerti e inquieti. 11 I nostri recapiti: Giovanni Gasparini (Il coordinatore) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.2547 Cristina Pasqualini (La segreteria) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.3976 I corrispondenti: Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi (Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara (Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università Cattolica – Milano (Teatro); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia); Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, Torino (Montagna); François Cheng, Académie Française – Parigi; Giacomo Corna Pellegrini, Università degli Studi di Milano (Geografia); Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca (Antropologia); Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica); Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare Kaneklin, Università Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia); Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta, Milano (Paesaggio); Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia); Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi (Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica); Luigi L. Pasinetti, Accademia dei Lincei – Roma; Alberto Ricciuti, Milano (Medicina); Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia); Detlev Schild, University of Göttingen (Biologia); Cesare Segre, Accademia dei Lincei – Roma; Dan Vittorio Segre, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Politologia); Pierangelo Sequeri, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione); Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia); Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Viaggio); Serena Vitale (Letteratura russa). Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia (www.aissociologia.it) e sul sito del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano (http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=15524). Il contenuto degli articoli è liberamente riproducibile citando la fonte. Numero chiuso il: 10 marzo 2011