Puglia, identità, globalizzazione intervento di Daniele Maria Pegorari Scegliere la letteratura come campo di prova di ogni interpretazione della realtà e affidare, in particolare, alla disciplina critica il compito di praticare con rigore e severità la valutazione, la storicizzazione e il discernimento di quelle forme di pensiero (visioni del mondo o testimonianze soggettive) che si comunicano attraverso un codice linguistico, significa avvertire un preciso senso di responsabilità nell’uso delle parole, di ogni singola parola. Significa avvertire il brivido e la vertigine di un’ipotesi sul mondo che diviene testo, transitando dall’aleatorietà della fantasia alla perentorietà di una formulazione stabile e, almeno qualche volta, destinata a durare nel tempo. È questa la premessa che m’inchioda, allorché da critico guardo alla storia della Puglia e comincio a riflettere sull’ipotesi che essa abbia avuto fino al giorno d’oggi una direzione più che casuale e che da essa siano ricavabili dei caratteri riconoscibili, una natura secunda (oltre quella bio-geologica così ben evidente), una ‘identità’, insomma. E scopro che è precisamente questa la parola che mi ha costretto a quella premessa. Parlare di identità al termine di un secolo che ha posto fine al cosmopolitismo moderno con la violenza delle mitologie particolaristiche e identitarie, e mentre inizia un nuovo secolo altrettanto protervamente impegnato a fare scempio dei valori di universalismo, fratellanza e internazionalismo, parodiandoli in quelli di occidentalismo, conservatorismo e globalizzazione, significa rischiare di intonarsi al coro di chi canta l’inno alla patria, piccola o grande che sia, al pensiero unico e all’integralismo di ritorno. Per chi come me si è occupato per primo fra gli italianisti dell’Università di Bari – strano, ma vero – di letteratura dialettale 2 contemporanea, nasce persino la tentazione di ripudiarne l’importanza, dacché il dialetto è stato brandito come clava di uno scontro non solo politicamente pericoloso, ma anche – qualora volessi limitarmi ai confini del mio lavoro letterario – culturalmente così sprovveduto e mistificante. E invece provo a resistere a ogni tentazione che non sia quella di descrivere e raccontare, dunque ‘fare storia’ di un territorio che, con i suoi dialetti e con la sua letteratura in lingua, con le sue riviste a volte gloriose e la sua editoria solitamente vivace e soprattutto con i suoi autori sempre più decisamente inseriti in un contesto nazionale di primissimo piano, ogni qualvolta si cimenta con la propria identità, le proprie radici, non può che ritrovarle nella contaminazione di culture, religioni, lingue e immaginari, molto prima che tutto ciò divenisse un tema à la page, per taluni da sfruttare, magari economicamente, accentuandone gli elementi cari al post-modernismo, per altri da stigmatizzare come fosse un attentato alla purezza di una identità che si vuole esclusivista. Per me storico della letteratura non si tratta di prendere posizione: si tratta di registrare che in Puglia non esiste ‘identità’ nel senso etimologico di ‘proprietà del medesimo’, ma una ricca civiltà della differenza, manifestata addirittura dal suo essere attraversata – unica fra le regioni italiane – da una linea di demarcazione glotto-antropologica che la taglia nettamente in due (la Puglia centro-settentrionale e il Salento) e poi costruita attraverso la millenaria storia di culti cristiani ed emirati arabi, comunità arbëreschë, grecaniche e provenzali, emigrazioni intellettuali verso Napoli, Firenze, Parigi e gli Stati Uniti e la trasformazione, persino, del suo santo più venerato nell’archetipo di Babbo Natale. La contaminazione fra l’alto e il basso, l’indigeno e l’allotrio, il metropolitano e il contadino non potrà mai essere ostacolata in virtù di scelte politiche o religiose: se ‘costruire l’identità’ dovesse sciaguratamente significare 3 l’aspirazione al consolidamento di una costituzione morale dei caratteri pugliesi, ciò sarebbe non solo improprio, ma, ciò che è peggio, fallimentare. Però confido che ciò non sia nelle intenzioni di tanti – scrittori, intellettuali e operatori delle istituzioni culturali – che da tanti anni hanno in questa splendida terra parlato di identità e avuto a cuore la ‘costruzione’ e il progresso della regione. Penso alla realtà stessa della Biblioteca del Consiglio regionale che con la sua ormai più che decennale attività (scandita da convegni, rassegne e iniziative editoriali) crea continue occasioni di incontri fra intellettuali pugliesi, italiani, mediterranei e persino extraeuropei. E penso alle migliori riviste pugliesi, «l’immaginazione», «La Vallisa» e soprattutto quel semestrale che sin dal suo nome, «incroci», esibisce il bisogno di una ricerca multidisciplinare e interculturale. Tutto nasce da quel Sessantotto, immediatamente seguito dalla fondazione degli enti regionali, che ha favorito la creazione di un ceto colto non solo ‘professionale’, ma anche creativo finalmente ‘residente’, arginando, dunque, la secolare diaspora intellettuale e infondendo una nuova fiducia nella trasformabilità degli assetti sociali non solo per le prevedibili vie dell’economia e dell’amministrazione politica, ma anche attraverso quelle libertarie e progressive della ricerca storica e della creazione artistica. Se l’aggettivo, un po’ ironico ma molto vezzoso, di barisien all’inizio del secolo era stato riservato a un luminoso esponente della ‘fuga dei cervelli’ pugliesi a Parigi, quel Ricciotto Canudo di Gioia del Colle che divenne uno dei protagonisti della vita culturale della Ville Lumière dove fu tra i primi teorici mondiali del cinema, negli anni Settanta esso indicò, all’opposto, una école di giovani sociologi, filosofi, storici e critici che dai corsi di Scienze Politiche, Filosofia e Lettere di Bari seppe parlare con coraggiosa originalità e nuova problematicità allo sclerotizzato panorama 4 del marxismo italiano. La storia di quell’aggettivo, dunque, mi pare simbolica di una trasformazione della figura dell’intellettuale pugliese e delle sue condizioni di lavoro in questo territorio, il cui segno più continuativo e, a mio avviso, più foriero di risultati non effimeri, è nei sodalizi letterari e teatrali che cominciarono a coagularsi intorno alla metà degli anni Settanta, dal movimento di ‘Interventi culturali’ – incunabolo della poetica del postrurale di Raffaele Nigro e Lino Angiuli e del minimalismo popolare di Daniele Giancane ed Enrico Bagnato – al vivaio teatrale del Cut e dell’Abeliano da cui sono fioriti gli itinerari di Nicola Saponaro e Rino Bizzarro. Ed è almeno dagli anni Ottanta, molto prima, dunque, che nascessero appositi e meritori interventi di finanziamento politico e molto prima che il crollo di muri (e ponti) rendesse possibile (e necessario) il contatto con l’Est europeo, che proprio nelle riviste pugliesi animate da questi e molti altri intellettuali anche più giovani si stabilivano relazioni privilegiate con scrittori e traduttori balcanici (e non solo). È così che la Puglia ha potuto scrollarsi di dosso il complesso di essere solo una ‘provincia dell’impero’ e ha scoperto il risvolto positivo di essere ‘periferia’: un luogo di confine (geografico, antropologico, epistemologico) e per questo più aperto all’ascolto e alla sperimentazione.