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LA “ NORMA ” DI VINCENZO BELLINI
E IL RITUALE DELLA CARBONERIA
“ You would sacrifice anybody, Harry, for the sake
of an epigram. ”
“ The world goes to the altar of its own accord, ”
was the answer.
( Oscar Wilde )
Il 26 dicembre 1831 andò in scena alla Scala di Milano la Norma di Vincenzo
Bellini e fu un insuccesso. L’autore in una lettera all’amico Florimo, datata 26
dicembre 1831,scrive: “ Vengo dalla Scala; prima rappresentazione della Norma.
Lo crederesti?… fiasco!!! fiasco!!! solenne fiasco!!! ” . La sera seguente,
però,l’opera incontrò il favore popolare, che durò per tutte le successive
rappresentazioni, in tutto trentaquattro: un record. Quali furono le cause del
clamoroso insuccesso della prima? Alcuni pensano che la colpa stesse nelle novità
della composizione; altri a un’indisposizione della protagonista, la celebre
Giuditta Pasta, che si sarebbe ripresa già nella seconda serata. Ma c’è anche chi
sostiene che non si trattasse di un’indisposizione della cantante, bensì del
nervosismo provocato in lei da una scenata di gelosia del marito, causata dalla
presenza di Bellini nel camerino della moglie. Questa tesi risalirebbe al fratello
del compositore Carmelo, come riferisce Vincenzo Ricca: “ Vincenzo era entrato
mezz’ora avanti che cominciasse lo spettacolo nel camerino della celebre cantante
Giuditta Pasta; e, che sorpreso dal di lei marito, costui provocò una scena di
gelosia, ingiusta ed inopportuna , perché il colloquio di Bellini con la Pasta ( … )
era del tutto innocente. Fu tale lo sdegno della grande cantante da porla in forte
orgasmo da irritare i di lei nervi, con una sensibile ripercussione sui suoi
meravigliosi organi vocali ” ( V. Ricca , Vincenzo Bellini. Impressioni e
ricordi,Catania 1932, p. 105 ). Bellini dal canto suo scrive allo zio Vincenzo
Ferlito due giorni dopo la prima: “ A dispetto di un partito formidabile, a me
contrario, perché suscitato da una persona potente e da una ricchissima la mia
Norma ha sbalordito, e più ieri sera, che fu la seconda rappresentazione, che la
prima….io soddisfattissimo, doppiamente contento perché ho sconfitto tanti miei
vili e potenti nemici ”. Si sono voluti riconoscere in questi potenti nemici Carlo
Visconti di Modrone, soprintendente dei teatri milanesi, il suo seguito e la
contessa Giulia Samoiloff, amante del compositore Pacini, che sarebbe stato
acerrimo rivale del suo concittadino Bellini.
Il successo dell’opera fu tale che il libretto venne imitato e trasposto in quattro
atti da Francesco Regli (1802-1866) con lo stesso titolo. Nell’introduzione del
dramma, pubblicato a Milano nel 1832, si legge: “ Sebbene non residente in
Milano puoi tu non sapere che nello scorso carnevale l’opera più applaudita sulle
nostre regie scene della Scala si fu la Norma? Norma poesia del chiaro Romani,
musica dell’egregio Bellini, il quale ebbe la bella sorte di poter affidare la parte
della protagonista alla Pasta, rinomatissima attrice, che nella divina arte del canto
impassibili allori raccolse con istupore di quasi tutta Europa? ”. L’intenzione del
Regli, attirato dal contenuto del libretto, fu quella di “ adattare alle (..) comiche
scene l’opera medesima ”. La Norma in prosa venne rappresentata nel 1832 a
Milano otto volte e a Brescia due volte: un discreto successo.
La rappresentazione dell’opera di Bellini scatenò le polemiche dei rossiniani
contro i belliniani. Eco significativa di tale battaglie verbali è un’operetta in
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dialetto milanese del poeta dialettale Carlo Angiolini, il quale, belliniano fervente,
scrisse un poemetto, intitolato La Norma resiada (“ La Norma contestata ” ), in
cui della musica del grande compositore siciliano si dice: “ Lè ona musega donca
che va al coeur ”( “ È una musica dunque che va al cuore ” ). Ma l’opera dovette
suscitare anche altri sentimenti. Il possente coro del secondo atto “ Guerra!
Guerra! ”, che tanto piaceva a Verdi, suscitò infatti bellicosi sensi nell’Angiolini,
il quale scrisse ( vv. 235-240 ) : “ Quando arriviamo a quel grande pezzo persino i
sensali ( … ) non discutono più di grano, di donne, di guerra e di cavalli; e io,
guarda, tante volte sono saltato in piedi, per incanto, con stretto in mano il
cappello, per fare la guerra, anch’io, insieme con i cantanti ”. Questa testimonianza ci indica un’altra strada interpretativa dell’insuccesso della prima e poi del
successo di popolo della Norma nelle numerosissime repliche: i reazionari
austriacanti si accorsero subito del messaggio rivoluzionario dell’opera e poi se ne
accorsero nelle serate successive i patrioti, che si infiammarono di amor patrio.
Nel 1831, sull’onda della rivoluzione di luglio di Parigi del 1830, che depose
Carlo X di Francia e mise sul trono Luigi Filippo d’Orléans, erano scoppiati moti
carbonari a Modena, capeggiati da Ciro Menotti, a Parma , nelle Romagne, nelle
Marche e in Umbria, soppressi nel sangue dagli Austriaci . Il Menotti venne
arrestato nella notte del 4 febbraio, giudicato, condannato e impiccato nella
fortezza austriaca di Mantova, divenendo un martire della causa dell’indipendenza
italiana dal giogo degli Austriaci. Nel 1830 venne scarcerato il carbonaro Silvio
Pellico, l’autore del celebre libro autobiografico Le mie prigioni ( 1832 ) dopo
dieci anni di carcere nella fortezza dello Spielberg, assieme ad altri eroici
carbonari quali Pietro Maroncelli e Andrea Tonelli. Giuseppe Mazzini, affiliato
alla carboneria nel 1827 ventiduenne, venne arrestato dalla polizia sabauda con
l’accusa di cospirazione carbonara; dopo un periodo di carcerazione a Savona,
venne esiliato in Francia: a Marsiglia fondò la Giovine Italia, società segreta che
propugnava l’unità d’Italia e fomentava rivolte contro gli oppressori della libertà
della patria italiana. Questa situazione esplosiva impregnata di patriottismo spiega
la testimonianza dell’Angiolini.
Il 6 aprile 1831 andò in scena al Théãtre-Royal-de-l’Odéon di Parigi il dramma
Norma ou l’infanticide di Alexandre Soumet . Bellini in una lettera all’amico
Lamperi, datata Como 23 luglio 1831, scrive: “ Ho scelto di già il soggetto per la
nova mia opera ed è una tragedia intitolata Norma ossia l’infanticidio di Soumet,
adesso rappresentata a Parigi e con esito strepitoso ”. Alexandre Soumet, entrato
nell’Académie Française nel 1824, fondò insieme con Victor Hugo, Alfred de
Vigny e altri la rivista La Muse Française, che divenne l’organo del Romanticismo francese nascente; fece poi parte delle Soirées de l’Arsenal, un cenacolo
al quale parteciparono, oltre agli scrittori già citati, altri artisti di tendenze liberali,
quali Alexandre Dumas, Honoré de Balzac , Alfred de Musset, Charles Augustin
Sainte-Beuve, Eugène Delacroix. Era un autore drammatico innovatore e ottenne
successi con opere quali Clytemnestre ( 1822 ). Nella Norma la protagonista
uccide i due figli e si suicida. Il modello del personaggio era Medea, la cui
vicenda era stata più volte messa sulla scena tra la fine del Settecento e l’inizio
dell’Ottocento: dopo la famosa Médée di Luigi Cherubini ( 1797 ), che ottenne
uno straordinario successo, si ricordano la Medea di G.B. Niccolini ( scritta nel
1810 e rappresentata a Firenze nel 1825 ) e la Medea di F. Grillparzer ( scritta
verso il 1820 e rappresentata a Vienna nel 1822 ). Felice Romani, librettista di
Bellini, aveva scritto una Medea in Corinto per Simone Mayr ( 1813 ). Nella
Norma di Romani-Bellini, però, ci sono delle sostanziali differenze rispetto al
modello di Soumet: la più importante sta nel fatto che la protagonista non uccide i
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figli e sale sul rogo di sua spontanea volontà. Questo cambiamento ha sempre
costituito un enigma: perché il compositore impose al librettista una tale
soluzione?
La Norma di Soumet è preda della follia: “ Son orgueuil insultant, même quand il
supplie,/donne à ses passions le cri de la folie ” ( Pollion ) ; “ Clotilde, la démence
entrerait dans mon ãme./La rage, la folie ( ... ) / Je sens que ma raison ne tient
qu’à mon amour ” ( Norma ) ; “ O délire !... ô fureur !...” ( Norma ) ; “ le ciel a
frappé son ãme de démence ”( Ségeste ) ; “ Oh ! sors de ton délire ”( Pollion ) ;
“Tu vivras en proie à sa démence ”( Orovèse ). Ma ci sono spunti patriottici chiari
nel dramma del francese : “ Où cacher nos projets, s’il faut dans les lieux saints /
voir l’hydre impériale infecter nos mystères? ” ( Sigismar ) ; “ Le chemin des
combats mène à la liberté ” ( Sigismar ). C’è persino una citazione della
marsigliese : “ Aux armes ! fiers Gaulois !... ”. Echi liberali della Rivoluzione del
luglio 1830 di Parigi?
A dire il vero, ci sono anche nell’opera di Romani-Bellini chiari spunti
patriottico-rivoluzionari. All’inizio del primo atto Oroveso si esprime con accenti
sibillini:
Sì: parlerà terribile
da queste quercie antiche:
sgombre farà le Gallie
dall’aquile nemiche.
L’accenno alle Gallie risulta strano. Perché non dice la Gallia? Alla Gallia
Transalpina ( la Francia vera e propria ) si contrapponeva ai tempi dei Romani la
Gallia Cisalpina ( l’Italia del Nord ). Napoleone, dopo avere strappato il nord
dell’Italia al dominio degli Austriaci, fondò nel 1797 la Repubblica Cisalpina, che
si diede una Costituzione ( 9 luglio 1797 ), il cui testo comincia con il seguente
preambolo: “ La repubblica Cisalpina era da parecchi anni sotto il dominio della
casa d’Austria. La repubblica francese è succeduta a questa per diritto di
conquista. Essa vi rinunzia da questo giorno, e la repubblica cisalpina è libera ed
indipendente. ” E più avanti : “ Ben da molti anni non esistevano più repubbliche
in Italia. Il sacro fuoco di libertà vi era soffocato, e la più bella parte dell’Europa
viveva soggetta al giogo degli stranieri.” La Costituzione stabiliva poi i diritti
dell’uomo, che erano quelli della Rivoluzione Francese. L’articolo 1 recitava: “ I
diritti dell’uomo in società sono la libertà, l’uguaglianza, la sicurezza e la
proprietà”. Questa repubblica ebbe vita breve in seguito alla controffensiva
austriaca. Ma restò nei patrioti italiani il suo ricordo e la speranza di ottenere un
giorno la liberazione dell’Italia dal giogo austriaco.
L’accenno alle aquile nemiche, poi, si spiega col simbolo dell’Impero AustroUngarico: l’aquila bicipite. Si capisce nell’ottica patriottica il coro “ Guerra, guerra ” del secondo atto. Adalgisa come Norma, amando Pollione, aveva tradito la
patria:
Qual giuramento io fea!... fuggir dal tempio…
tradir l’altare a cui io sono legata…
abbandonar la patria…
Poi Norma dice:
Una spergiura
sacerdotessa i sacri voti infranse,
tradì la patria, il Dio degli avi offese.
La donna, in quanto spergiura, merita il castigo, ma non i figli, che sono innocenti. Il castigo inevitabile sono le fiamme del rogo. Il destino implacabile si compie, come nelle antiche tragedie greche.
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Quindi Norma nell’opera belliniana non è pazza per amore come l’eroina di Soumet, ma, ben consapevole del proprio fatale errore, è disposta a pagare il fio della
sua colpa, salendo sul rogo, dopo aver prima salvato i figli, che ha affidato ad
Adalgisa. Questo spiega l’intenso, straziante pathos di cui è pervasa l’opera.
Bellini era dunque un fervente patriota?
Quando era studente a Napoli nel 1820 scoppiarono i moti carbonari capeggiati
dal generale Guglielmo Pepe; Ferdinando I fu costretto a concedere la Costituzione. Secondo la testimonianza di Florimo, raccolta da M. Scherillo ( Vincenzo
Bellini. Note aneddotiche e critiche, Ancona 1882, pp. 37-43 ), Bellini e il suo
fraterno amico Florimo si affiliarono alla carboneria. Ma quando Ferdinando I
tornò sul trono ed abolì la costituzione, ristabilendo la monarchia assoluta, i due
giovani ebbero paura di essere espulsi dal collegio; così, consigliati dal rettore
don Gennaro Lambiase , cercarono di porre rimedio inneggiando in pubblico al re
in occasione del suo onomastico. In tal modo si salvarono. Confessarono il loro
peccato, ma si rifiutarono di fare i nomi degli altri affiliati al confessore che li
chiedeva. In genere i biografi di Bellini danno poca importanza all’esperienza
rivoluzionaria del musicista. Il Tintori ( Bellini, Milano 1983 ,p.18) dice: “ i due
giovanotti (..) non avevano temperamento di cospiratori né convinzioni politiche
profonde ”. Dal canto suo John Rosselli ( Bellini, Milano 2001, p. 54 ) osserva: “ I
biografi non hanno (..) fatto notare che nel momento culminante della rivoluzione
più o meno un uomo su cinque era associato alla Carboneria. Le logge erano
divenute tanto un’istituzione riconosciuta quanto un fenomeno di moda, e
l’adesione di Bellini può anche non aver significato granché ”. Bellini quindi non
avrebbe avuto sensibilità politica alcuna e avrebbe aderito ai moti rivoluzionari
per seguire la moda.
Ma non si è tenuto conto di un fatto importante e cioè che affiliarsi a un società
segreta quale la Carboneria era ben diverso che dall’iscriversi a un partito. Il
neofita era sottoposto infatti a una vera e propria iniziazione, al termine della
quale faceva un giuramento che lo legava per tutta la vita. Bellini quindi fece un
giuramento, il cui testo ho rintracciato in un manoscritto dell’Archivio di Stato di
Firenze, riferito alla Carboneria Napoletana dei tempi di Bellini (ASF-Segreteria
di Gabinetto. Pezzo 163.Inserto 7, p.243: vedi illustrazione ):“ Alla Gloria del
Gran Maestro dell’Universo,io (Vincenzo Bellini) giuro, e prometto sopra gli
Statuti dell’Ordine in generale, e su questo ferro punitore dei spergiuri di
custodire scrupolosamente i segreti della Rispettabile Carboneria, di non scrivere,
incidere, o dipingere cosa alcuna senza averne ottenuto il permesso dell’Alta
Vendita; Giuro di soccorrere i miei buoni Cugini per quanto lo permettono le mie
facoltà, e di non attentare al loro onore, né a quello delle loro famiglie. Se divengo
spergiuro sono contento, che il mio corpo sia fatto in pezzi, indi abbruciato e le
ceneri sparse al vento, acciò il mio nome sia in esecrazione a tutti i buoni Cugini
Carbonari sparsi sulla superficie della terra. Così Dio mi sia di aiuto ”.
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Questo è il giuramento che l’iniziando faceva per il conseguimento del primo
grado, quello di apprendente carbonaro, che il compositore sicuramente acquisì:
non fece a tempo, forse, a raggiungere i due gradi successivi ( Maestro Carbonaro
e Gran Maestro Carbonaro ). A parte il luogo dove si riunivano i Carbonari
simbolicamente, la foresta, la Norma è piena di riferimenti al rituale carbonaro
che si legge nei documenti dell’Archivio di Stato di Firenze. Norma, dopo l’aria
“ Casta Diva ”, dice :
Fine al rito; e il sacro bosco
sia disgombro dai profani.
Significativo è il termine rito; l’accenno ai profani conduce alla cerimonie segrete
iniziatiche. La prima preoccupazione del Gran Maestro, che presiede la seduta, è
quella che la riunione sia segreta. Il termine indicante chi non è ancora iniziato è
pagano, che corrisponde a profano.Gli scopi di fratellanza universale della
Carboneria vengono illustrati al candidato o neofita e viene sottolineato in
particolare il mezzo con cui si raggiungerà l’idea di eguaglianza: l’abbattimento
dei tiranni. Lo scopo politico è evidente. Si capisce perché Bellini e Florimo si
rifiutarono di denunciare gli altri affiliati alla loro loggia: si sentivano legati al
giuramento fatto. Anche Felice Romani doveva essere carbonaro. Rifiutò infatti la
carica di poeta cesareo offertagli da Vienna, perché questa implicava l’obbligo di
farsi suddito austriaco. Due anni prima della rappresentazione scaligera della
Norma si doveva dare la Zaira a Parma ( 16 maggio 1829 ). Romani portava
barba e baffi, che sapevano di rivoluzionario, e si dovette concedergli un
permesso speciale di portarli per consentire al drammaturgo il soggiorno nel
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ducato (Tintori, opera citata, p. 123, n. 2 ). Quindi tra Bellini e il librettista c’era
perfetta concordanza di idee. Tenendo presenti tutti questi fattori, l’interpretazione della Norma cambia. Si capisce infatti bene perché sia stato eliminato l’assassinio dei figli dal dramma. L’attenzione dello spettatore doveva incentrarsi
sulla protagonista: il fatale innamoramento della sacerdotessa per il nemico
Pollione comportava il tradimento del suo popolo e costituiva un pericolo per la
libertà della patria. Il giuramento, che Bellini non aveva mai dimenticato, porta la
colpevole ad immolarsi di sua volontà, risparmiando i figli innocenti. Il fato si
compie e la purificazione avviene attraverso le fiamme del rogo. La musica,
colma di un pathos disperato ed elegiaco, esprime in modo potente lo spirito della
tragedia greca, che si corona col sacrificio dell’eroe protagonista voluto dal
destino.
Olimpio Musso