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1648-1764
La pace di Westfalia, che nel 1648 concluse la guerra dei Trent’anni, inaugurò
una stagione difficile nella storia dell’Italia moderna. Fu un periodo di ripiegamento, nel quale pesò la crisi della monarchia spagnola e la perdita di influenza politica del papato in Europa, che conobbe il suo acme nei decenni di passaggio tra xvii e
xviii secolo. I letterati avvertirono con consapevolezza la portata dei cambiamenti
in atto, che si riverberarono nell’ambito intellettuale mettendo in discussione la consolidata primazia internazionale della cultura italiana. In particolare, gli attacchi provennero dalla Francia di Luigi XIV, che attraverso la querelle des anciens et des modernes aveva spezzato la dipendenza che la legava all’umanesimo italiano e si era imposta come la nuova cultura egemone nel continente europeo. La crisi segnava soprattutto i generi tradizionali, quelli che avevano accompagnato l’affermazione della lingua e della letteratura della penisola nei due secoli precedenti: la lirica, la tragedia, la commedia, il poema in ottave; ma la crisi – a testimonianza dell’ampiezza
della mutazione in corso – si estendeva fino all’oratoria sacra, che già intorno alla
metà del Seicento gesuiti come Daniello Bartoli avevano cercato di riformulare, prendendo le distanze dal concettismo barocco.
Da più parti, i letterati reagirono a questa perdita di prestigio e nel contempo
provarono a rilanciare le produzioni poetiche come quelle in prosa, adeguandole a
una sensibilità oramai mutata. La fondazione dell’Accademia dell’Arcadia (1690), i
Primi disegni della Repubblica letteraria d’Italia composti da Ludovico Antonio Muratori (1703), la polemica antifrancese condotta dal marchese Giovanni Giuseppe
Orsi, l’impresa editoriale progettata nel 1721 dal conte Giovanni Artico di Porcìa,
che intendeva mandare alle stampe una raccolta di autobiografie letterarie, in maniere diverse e talora divergenti fra loro attestano dei dibattiti e degli sforzi di rinnovamento che caratterizzarono la lunga fase di transizione. Talora attuate, talaltra
incompiute o solo vagheggiate, si trattò di proposte che per la prima volta formularono un’idea unitaria, nazionale, della comunità letteraria della penisola, e prepararono la strada alle vere e proprie riforme che avrebbero trovato attuazione nel pieno
Settecento: a seguito della diffusione sempre maggiore dell’illuminismo e, per quanto riguarda la produzione teatrale, attraverso la rifondazione del genere comico a
opera di Carlo Goldoni.
La crisi di fine Seicento si tradusse in uno stimolo al cambiamento e, insieme,
rappresentò una cesura profonda. In effetti, poiché la letteratura costituiva il comune riferimento identitario dei ceti colti di un paese politicamente frammentato
quale era l’Italia, la perdita del primato culturale fu vissuta con un’intensità emotiva particolare e, tra le varie conseguenze, ne provocò almeno una destinata a segnare
la percezione che gli italiani avevano del proprio passato: fu pronunciata nei confronti del Seicento una condanna indiscriminata. Facendo un solo fascio del marini-
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smo, della dominazione spagnola e della Controriforma, tale condanna identificava
il secolo appena trascorso con il punto più basso della recente storia italiana. Un picco negativo, dal quale era necessario riprendersi appunto seguendo la via delle riforme: le quali, d’altronde, si sarebbero mosse lungo il difficoltoso crinale del rapporto con una tradizione pur sempre autorevole e avvertita come ancora vitale.
Se però si cambia il punto di osservazione geografico, abbandonando l’Italia centro-settentrionale per focalizzare l’attenzione sul regno di Napoli, e si amplia l’orizzonte dello sguardo a comprendere altri generi e discipline che il linguaggio settecentesco considerava anch’essi parte della letteratura – dalla filosofia al diritto, alla
scienza, fino al più popolare teatro d’opera –, se infine si legge la stagione compresa tra xvii e xviii secolo come epoca a sé stante, e non soltanto in qualità di preparazione delle riforme illuministiche (nonché di formazione della coscienza nazionale), allora il panorama diventa più ricco e diversificato. Accanto ai generi in crisi ne
compaiono altri che non erano toccati dal ripiegamento e il cui sviluppo seguitava a
dispiegarsi per il tramite di un franco dialogo con l’Europa. Se la si guarda da Napoli, la transizione italiana dal Seicento al Settecento appare segnata non dalla discontinuità, bensì dalla progressiva evoluzione maturata attraverso il passaggio generazionale.
Napoli, dunque: la capitale del Regno era la più popolosa città d’Italia e la terza
in Europa dopo Parigi e Londra; i suoi abitanti erano mezzo milione prima della peste del 1656, che li dimezzò, e nel 1742 tornarono a superare quota trecentomila.
Analogamente alle altre metropoli europee, Napoli attirava a sé le energie di tutto
il territorio dello stato: pochi erano, fra i dotti e i letterati operanti in città, quelli
che vi erano nati; molti provenivano dalle province campane, pugliesi, calabresi, e
si erano trasferiti in cerca di fortuna. Una gran parte di loro andava a gremire il già
fin troppo florido «ceto civile» della capitale. Era questo lo strato sociale intermedio tra la nobiltà e il popolo formato da avvocati, magistrati e medici, che sbarcavano il lunario tra insegnamento, esercizio delle professioni e impieghi nella pubblica amministrazione, talora imboccando luminose carriere, e che costituivano il
nucleo dell’intellettualità napoletana: adusa riunirsi nelle accademie e presso le case private per discutere di filosofia e di diritto, discettare di storia e di scienze sperimentali, leggere i più affermati autori della cultura internazionale (da Locke, a Gassendi e Montesquieu), i cui libri erano reperibili in specie presso alcune collezioni
private come quella del bibliofilo Giuseppe Valletta, accreditato esponente della Repubblica internazionale delle lettere. D’altro canto, il mondo intellettuale di Napoli manteneva stretti legami con altre capitali italiane: basti pensare alla figura dell’economista e matematico toscano Bartolomeo Intieri, o ai soggiorni romani di Celestino Galiani e Gian Vincenzo Gravina, che non interruppero i loro rapporti con le
cerchie partenopee. Napoli era del resto abituata alla presenza di dinastie e di amministratori forestieri, che a loro volta cercarono di orientare il dibattito culturale:
come nel caso del viceré duca di Medinacoeli, promotore a fine Seicento dell’accademia a lui intitolata.
Popolosa e segnata da variegate presenze, la Napoli tra Sei e Settecento fu funestata da un susseguirsi di congiunture di crisi, della più diversa natura. Innanzitutto la rivolta di Masaniello (1647-48), che manifestò il rifiuto del fiscalismo spagnolo e della diuturna supremazia locale del baronato, e la peste del 1656, che fece emergere le disfunzioni sanitarie, annonarie e amministrative di una metropoli cresciuta
in maniera tumultuosa. A seguire, il cosiddetto processo agli ateisti (1688), che cercò
di ridurre al silenzio la componente più innovativa degli intellettuali napoletani,
quella che si era accostata allo studio delle teorie materialistiche. Inoltre, la lunga
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transizione dinastica, durata un trentennio, dalla corona spagnola all’Impero asburgico, fino alla conquista effettuata nel 1734 da Carlo di Borbone, che ricostituì un
regno napoletano indipendente da stati stranieri. Infine, la crisi economica del 17641765, causata dai cattivi raccolti, che innescarono l’ennesima spirale di pauperismo
e di epidemie, ancora una volta mettendo a nudo i problemi irrisolti nel governo della città.
In ogni occasione, e soprattutto durante gli anni successivi a queste «catastrofi», la parte più avvertita dell’intellettualità napoletana si confrontò con la concretezza degli avvenimenti e soprattutto con le loro implicazioni politiche e istituzionali. Passandosi il testimone di maestro in discepolo, da Francesco D’Andrea a Domenico Aulisio e Gaetano Argento, attraverso Gravina, Galiani, Valletta, Giambattista Vico, per arrivare fino a Pietro Giannone e infine ad Antonio Genovesi, gli intellettuali napoletani misero gradualmente a punto un metodo di indagine storicocritico che identificava l’origine prima dei problemi che affliggevano il Regno nel
plurisecolare sovrapporsi di dinastie conquistatrici. Al fine di ottenere il consenso e
la legittimazione a governare, ognuna di esse era scesa a patti con i poteri locali, rappresentati dalle corporazioni, dall’aristocrazia e dalla Chiesa: il risultato era l’esistenza di un intrico di norme e di privilegi che ostacolava qualunque cambiamento strutturale dello status quo. La Chiesa soprattutto divenne l’oggetto delle proposte riformatrici, che solo in maniera parziale furono attuate dai sovrani asburgici e borbonici: la Chiesa napoletana, che occhiutamente teneva sotto controllo l’università e
la produzione libraria, e la Chiesa di Roma, la cui sovranità feudale sul Regno era annualmente messa in scena con il rito della chinea, il cavallo bianco che, assieme a un
tributo in denaro, il re di Napoli donava al papa in segno di vassallaggio.
Nella capitale del Regno, l’intensità e la reiterazione delle crisi produssero una
consapevolezza particolarmente profonda del significato degli avvenimenti, che
venne trasmessa dalle generazioni di metà Seicento a quelle settecentesche che vissero la stagione dell’illuminismo maturo. Queste ultime affinarono ulteriormente
le indagini e le proposte di cambiamento attraverso un confronto incessante con il
resto d’Italia – nel quale si andavano conducendo le medesime riflessioni – e con
il resto d’Europa. Tale confronto rendeva ancor più patenti i problemi del Regno,
ma fu condotto senza risentimenti nei confronti dei paesi più evoluti. Ne è esempio la precocità con la quale a Napoli trovarono accoglienza i Principia di Isaac Newton: la prima edizione del libro apparve nel 1687, e già l’anno dopo Valletta ne possedeva una copia, diffondendone la lettura tra i frequentatori della sua dimora. Questa sensibilità per le novità scientifiche trovò conferma in seguito, tra gli anni venti e i sessanta del xviii secolo, quando proprio Napoli divenne uno dei maggiori luoghi di stampa della ricca messe di testi che misero in circolazione nella penisola le
teorie newtoniane.
Napoli, però, non era solo una città che cercava il cambiamento, senza tuttavia
riuscire a compierlo sino in fondo – una condizione, peraltro, comune anche agli altri stati di antico regime, italiani o stranieri. La sua qualità di grande capitale europea la rendeva innovativo laboratorio artistico (si pensi alla costruzione della reggia
di Capodimonte), nonché palcoscenico dei maggiori eventi teatrali e musicali, due
generi fra i più caratteristici della sociabilità culturale settecentesca. Accanto ai teatri, che ospitarono fra l’altro il debutto di melodrammi di Pietro Metastasio, e oltre
alle attività dei quattro conservatori della città, fiorì il genere dell’opera buffa napoletana, musicato da Giovan Battista Pergolesi e da Alessandro Scarlatti. Il simbolo incarnato di questo splendore teatrale fu proprio Metastasio, geniale verseggiatore ma umile suddito pontificio, che Gravina scoprì a Roma e inviò a formarsi nel-
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la capitale del Regno, da dove in seguito spiccò il volo verso il suo destino viennese
di poeta cesareo.
Se dunque l’età di Napoli può essere racchiusa tra i due poli rappresentati dalla
produzione filosofica e scientifica e dalle messe in scena operistiche, un punto d’incontro fra queste così diverse creazioni dell’ingegno può rintracciarsi nella condivisa scelta espressiva della lingua italiana. In un’epoca nella quale il francese stava
diventando l’idioma internazionale della cultura, soppiantando in questo sia l’italiano sia il latino, che tuttavia era ancora uno strumento di comunicazione fra i dotti nonché la lingua della liturgia cattolica, la scelta di molti fra i maggiori trattatisti
del tempo – la decisione di pubblicare in italiano – colpisce per le motivazioni che
la guidarono. Non fu soltanto un portato inevitabile dell’età, fu qualcosa di assai più
meditato. L’italiano era la lingua per eccellenza del melodramma, conosciuta nelle corti e applaudita nei teatri europei: in specie nei territori dell’Impero asburgico,
come dimostra la geografia delle rappresentazioni della Didone di Metastasio andate in scena tra il 1724 e la fine del secolo. L’italiano era apprezzato al di fuori delle
ristrette cerchie dei colti e dei cortigiani, presso un novero crescente di spettatori.
In tal senso, nella penisola, era divenuto da molto tempo la lingua giusta per farsi conoscere. Ma soprattutto, chiusa la stagione della Controriforma, si era nuovamente
radicato fra i dotti il convincimento che per diffondere novità culturali anche in
campo filosofico e scientifico bisognasse rivolgersi alla comunità del pubblico.
Così, pur avendo dato alle stampe numerosi scritti latini, per la sua Scienza nuova
Vico adoperò l’italiano; Giannone compose in italiano tutte le sue opere principali;
la prolusione iniziale dell’insegnamento di «commercio e meccanica» pronunciata
da Genovesi nel 1754 creò scalpore tra i tradizionalisti perché fu svolta in lingua italiana. Scegliere l’italiano voleva dire, dunque, schierarsi dalla parte degli innovatori, di quanti chiedevano cambiamenti (della politica, dell’economia, del sistema universitario, della cultura). Non a caso, nel mondo degli studi, tra i più decisi sostenitori dell’italiano furono gli scienziati: cioè gli eredi di Galilei, che era incorso nelle censure ecclesiastiche anche per avere mandato sotto i torchi volumi composti in
italiano. In un accogliente universo «letterario» nel quale la scienza non aveva ancora divorziato dalla cultura umanistica, fu per motivi di fruibilità presso il pubblico
che il filosofo toscano Alessandro Marchetti tradusse Lucrezio in italiano – e infatti, proprio perché reputata pericoloso tramite di eresie, la stampa di questo volume,
proibita in Italia, venne realizzata a Londra. Per un’analoga volontà di andare incontro al pubblico, molti dei testi che divulgarono le teorie newtoniane furono composti in italiano, a cominciare dal più celebre prodotto sul tema, il Newtonianismo per
le dame di Francesco Algarotti (1737).
In tutta Italia, molti dei protagonisti dell’età di Napoli incontrarono numerosi
ostacoli sul loro cammino, e forse dubitarono che le loro proposte riuscissero a imporsi come una tendenza condivisa e inarrestabile (è il caso di Giannone, morto in
un carcere di Torino); altri, come Metastasio, credettero di incarnare una gloriosa
tradizione poetica e non l’avanguardia della modernità. Ma come tutte le epoche di
crisi, la stagione compresa tra Sei e Settecento racchiudeva dentro di sé un universo nuovo già compiutamente formato. Un universo a tal punto mutato da avere deciso di volersi esprimere sempre e comunque in italiano.
erminia irace
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eventi
sistemi
Roma, 23 dicembre 1655. Cristina di Svezia entra trionfalmente in città
Napoli, aprile-agosto 1656. Eruzioni, rivolte, epidemie, e l’immaginazione barocca
reti
La predicazione nel Seicento
L’Italia spagnola
Pisa, prima metà del 1668. Il matematico galileiano Alessandro
Marchetti traduce Lucrezio in endecasillabi sciolti
Newton in Italia
Napoli, marzo 1694. Pietro Giannone si trasferisce nella capitale del Regno
I luoghi della cultura nella Napoli di Vico e Metastasio
Bologna, 1703. Il marchese Orsi risponde alle accuse straniere
contro la cultura italiana
Roma, 21 luglio 1711. Uno scontro all’interno dell’Accademia
dell’Arcadia ne provoca la scissione
La fortuna europea dell’opera
lirica italiana e l’arte del libretto (1600-1750)
Porcìa, 24 luglio 1721. Il conte di Porcìa intraprende a raccogliere le vite dei maggiori dotti italiani
I classici italiani (xiv-xvii secolo) e le loro prime traduzioni
Vienna, 17 aprile 1730. Pietro Metastasio è nominato poeta
cesareo da Carlo VI d’Asburgo
Il successo di Metastasio in Europa: il caso della Didone
Venezia, febbraio-maggio 1740. Carlo Goldoni si cimenta nel
genere teatrale più apprezzato, la tragedia
Piazze d’Italia: i teatri del Settecento
Napoli, 5 novembre 1754. Antonio Genovesi inizia l’insegnamento di commercio e meccanica all’università
Le riforme settecentesche dell’istruzione superiore
Venezia, 1757. Carlo Gozzi pubblica la parodia di un almanacco veneziano
La penetrazione delle letterature moderne in Italia (xiv-xx
secolo)
L’Accademia dell’Arcadia
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L’età di Napoli
1530
1648
1563
L’età di Trento
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1764
L’età di Napoli
L’età di Roma
Vienna
Porcìa
Venezia
Bologna
Pisa
Roma
napoli
Le dimensioni dei cerchi sono proporzionali al numero di “eventi” che si svolgono in quel luogo.
In maiuscoletto sono indicate le città per le quali si offre un approfondimento nelle “reti”.
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L’età di Milano