Metodi di ricerca e documentazione archeologica in grotta

Metodi di ricerca e documentazione archeologica in grotta
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Metodi di ricerca e documentazione archeologica in grotta
Piera Terenzi
L
etteralmente il termine archeologia significa “studio e conoscenza dell’antichità”, anche se nel corso del tempo ha acquisito un
significato più ampio che lega la conoscenza delle civiltà dei popoli antichi alla ricerca
e all’analisi dei loro monumenti, dei loro prodotti artistici
o d’uso comune.
Dell’interesse per il passato nelle sue manifestazioni materiali si trovano alcune tracce già in antico. Per citare solo
gli esempi più noti, lo storico ateniese Tucidide, vissuto ad
Atene nel V secolo a.C., ricorda come a Delo, durante il
riassetto del famoso santuario, si fossero individuate delle
tombe che erano state riconosciute come “carie” a causa
del loro corredo e, in età romana, sappiamo dalle fonti
che l’imperatore Claudio (10 a.C - 54 d.C.) era noto come
studioso per avere scritto un trattato sugli Etruschi1.
L’interesse per il passato diventò più vivace a partire dal
Rinascimento quando si sviluppò un collezionismo di antichità greco-romane. L’attività principale era concentrata
sulla raccolta e sul recupero degli oggetti e difficilmente si
passava dall’ammirazione dei resti e delle loro peculiarità
alla ricostruzione storica del passato, che si riteneva fosse
ancora legata in gran parte all’attenta lettura e interpretazione delle fonti scritte.
Questo tipo di studio, definito “antiquaria”, ebbe il merito di attirare l’attenzione sui dati materiali e di offrire
lo spunto per la realizzazione di ampie collezioni che si
provvide a corredare di cataloghi, repertori, elenchi che
costituirono il primo passo per un’analisi anche critica dei
vari oggetti raccolti. Dalle osservazioni delle differenze tra
oggetti dello stesso tipo nacquero, in primo luogo, classificazioni di carattere tipologico, alle quali si sentì ben presto la necessità di affiancare dati di carattere cronologico,
come appare evidente dai documenti di alcuni studiosi del
XVIII secolo che avvertivano l’esigenza di trarre informazioni dai reperti, secondo una metodologia sperimentale,
come in ambito scientifico2.
Con l’inizio del XIX l’archeologia fu codificata come disciplina universitaria e vennero istituite alcune cattedre
prima all’università di Leida (1818) e poi di Berlino (1823)
(Manacorda 2004, pp. 22-23). Gli studi si arricchirono con
seriazioni di materiali che assumevano valenza cronologica, costruite tenendo conto non solo delle caratteristiche
dei singoli oggetti, ma anche del luogo di provenienza e
delle caratteristiche della natura del terreno in cui i reperti
erano stati rinvenuti.
L’archeologia si avvalse, in questo preciso momento storico, dei progressi avvenuti nella ricerca geologica dove,
con la pubblicazione dei Principles of Geology di C. Lyell
(1830), furono codificati i principi fondamentali della stratificazione geologica, mediante i quali potevano essere
determinate le sequenze relative agli strati della terra.
Facendo proprie le istanze consolidate in geologia, nel
1865 J. Lubbock pubblicò l’opera Prehistoric Times in cui
poneva l’accento sulla legge della sovrapposizione degli
strati (lo strato che copre un altro strato è più recente di
quest’ultimo) e sulla possibilità di datare i vari depositi
su base paleontologica, in relazione allo studio dell’evoluzione delle specie vegetali e animali in essi contenute.
Lo stesso principio, sosteneva Lubbock, poteva essere applicato a quelle stratificazioni in cui l’intervento umano
aveva avuto parte attiva utilizzando, al posto dello studio
dei fossili propriamente detti, quello dei manufatti e delle
tracce lasciate dall’uomo. Con questa semplice constatazione Lubbock aprì la strada allo sviluppo del metodo dello scavo stratigrafico e dell’indagine archeologica quale
viene attualmente praticata nelle attività di ricerca. Il metodo dello scavo stratigrafico, come viene oggi applicato
nello svolgimento delle attività di scavo, si deve essenzialmente alle osservazioni e alle leggi teorizzate da Edward
Harris (Harris 1983).
La stratigrafia archeologica
Tutte le forme di stratificazione, sia geologiche sia archeologiche, sono il prodotto di due azioni fondamentali (Leonardi 1982, p. 106) (fig. 1) che causano movimentazioni
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Fig. 1. Schema esemplificativo della corrispondenza tra azioni (o processi)
naturali e antropici (da Leonardi 1982, p. 106).
Fig. 2. Il diagramma stratigrafico: esemplificazione da Carandini 1991, p. 83.
di volumi di materiale: "asporto" (erosione, distruzione,
scavo) e "apporto" (deposito, accumulo, costruzione), a
cui possiamo aggiungere un’ulteriore azione: "trasformazione", che non comporta dislocazione di materiale, ma
solo modificazioni di materiali già esistenti.
Un’azione di deposito, accumulo o costruzione comporta
sempre la formazione di uno strato, con un suo volume e
delimitato nello spazio. Un’azione di erosione, distruzione
o scavo comporta invece una lacuna in uno strato o in una
serie di strati, che possiamo definire “superficie in sé”. La
“superficie in sé” rappresenta sia l’azione che ha portato
alla sua realizzazione sia la funzione o l’utilizzo della superficie stessa.
Le varie azioni si susseguono nel corso del tempo: il compito dell’archeologo consiste nell’identificare ciascuna
azione, strati o superfici in sé, e ricostruire la loro successione asportando gli strati e documentando le superfici in
ordine inverso alla loro formazione e, quando possibile,
risalire alle dinamiche della loro formazione. Al momento
dello scavo, quindi, le unità stratigrafiche di apporto (definite anche “positive”) devono essere asportate, mentre
quelle di asporto (definite anche “negative”) devono essere identificate e documentate. Lo scavo delle unità di
accumulo ne causerà la distruzione e, contestualmente,
consentirà il recupero dei reperti in esse contenuti.
Lo scavo stratigrafico è quindi un’operazione distruttiva
e irripetibile ed è per questo che è di estrema importanza
effettuare le diverse operazioni correttamente, mostrando
attenzione in primo luogo all’individuazione delle distinte
unità, e, nello stesso tempo, alla raccolta di tutti i dati e le
informazioni che ciascuna unità stratigrafica può fornire,
in maniera che chiunque possa prendere visione dei risultati ottenuti e ricostruire il percorso compiuto dall’archeologo sul campo.
Per semplificare le operazioni di registrazione dei dati a
ciascuna “unità stratigrafica” (abbreviata per semplicità
in US) viene attribuito un numero sequenziale (1, 2, 3, 4,
5, ……). Identificata ciascuna unità, è necessario stabilire
il sistema di relazioni che la lega alle altre. Le prime osservazioni riguardano i rapporti fisici tra le varie unità (es.
copre/è coperta), che possono poi essere letti anche in
chiave cronologica (per es. l’unità che copre è più recente
dell’unità coperta).
Tra due distinte unità può verificarsi, in sintesi, un rapporto di contemporaneità (uguale a, si lega a), di successione
nel tempo (copre/è coperto, si appoggia a/gli si appoggia,
taglia/tagliato da, riempie/riempito da) o nessun rapporto
fisico. In alcuni casi unità stratigrafiche prive di rapporto fisico diretto possono essere poste in relazione le une
alle altre in base alle osservazioni di chi effettua lo scavo
archeologico, osservazioni relative sia alle caratteristiche
dello strato stesso che alla sua posizione in relazione alle
evidenze circostanti. Analizzando i vari rapporti tra le US
è possibile valutare, per ciascuna unità, quella immediatamente precedente e quella immediatamente successiva
e identificare una sequenza stratigrafica, che è possibile
semplificare in un diagramma stratigrafico (fig. 2) nel quale alla rappresentazione figurata di ciascuna US è sostituito il numero che la identifica.
Lo scavo archeologico e la
sua documentazione
Dopo aver identificato, numerato le US e averne stabilito
le relazioni stratigrafiche, è necessario sia darne una descrizione sia documentarne i vari aspetti. La descrizione è
stata attualmente codificata in schede prestabilite in cui
sono previste una serie di voci da riempire al momento
dell’identificazione della US e da completare attraverso le
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Fig. 3. Scheda di Unità stratigrafica, fronte.
varie fasi di lavoro, così da consentire una documentazione minima che sia uniforme e confrontabile nell’ambito
di tutti gli interventi archeologici (Parise Badoni - Ruggeri
1984).
La scheda che sta alla base della documentazione cartacea è la “Scheda di Unità Stratigrafica” (figg. 3-4) alla
quale se ne aggiungono altre più specifiche da compilare,
se ritenuto necessario, in presenza di evidenze o reperti
particolari (schede di US Muraria, di US di Rivestimento, di
US Lignea, di US di Deposizione Funeraria) o altre di sintesi
(schede di Sito, di Monumento Archeologico, di Saggio
Archeologico Stratigrafico).
Nella scheda di unità stratigrafica compaiono una serie
di voci:
1.Unità stratigrafica: numero attribuito in corso di scavo;
2.Codici di catalogazione: voci da compilare quando la
scheda entrerà a far parte del catalogo generale dei
beni culturali;
3.Localizzazione: località, ambiente, settore, quadrato,
oggetto;
4.Documentazione effettuata: piante, sezioni, prospetti,
foto, tabelle materiali;
5.Descrizione dello strato/dati analitici: definizione e posizione, criteri di distinzione, modo di formazione, componenti, consistenza, colore, descrizione, dati quantitativi dei reperti, elementi datanti;
6.Descrizione dello strato/dati critici: osservazioni, interpretazione, datazione, periodo o fase;
7.Elementi raccolti per studi interdisciplinari: campionature, flottazione, setacciatura;
8.Compilazione.
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Fig. 4. Scheda di Unità stratigrafica, retro.
Localizzazione
Identificata l’area di intervento (località) si può decidere di
suddividere la superficie che si intende scavare in settori
più piccoli (area, saggio) per semplificare le operazioni di
scavo e distribuire l’organizzazione del lavoro in gruppi
diversi coordinati da una persona che svolgerà il ruolo di
responsabile dello scavo.
Documentazione
L’inizio delle operazioni di scavo implica la rimozione del
manto erboso, dove sia presente, o di tutta quella porzione di terreno che ha subito rimaneggiamenti in età recente o contemporanea. Dopo aver identificato una superficie in cui il deposito sia privo di elementi di disturbo, si
procede all’identificazione delle unità stratigrafiche e alla
loro numerazione.
Identificata ciascuna unità, si procede al rilievo della sua
superficie tramite fotografie e disegni. La documentazione grafica può essere piuttosto varia: l’elemento dal quale
non si può prescindere è la planimetria (pianta) dove vengono riportati i limiti delle superfici che identificano le US
e le loro quote. Per reperti particolari, come le murature,
può rendersi necessaria una documentazione più dettagliata, come ad esempio i “prospetti”, cioè il rilievo delle
superfici verticali. Nel caso delle “superfici in sé” non è
possibile procedere a ulteriori operazioni, nel caso di strati
si procede invece con lo scavo vero e proprio, effettuandone la rimozione con gli strumenti che si riterranno più
opportuni, a partire dal bisturi fino alla cazzuola, al piccone o, in casi particolari, al mezzo meccanico.
Lo scavo deve tuttavia presentare un buon grado di accuratezza, soprattutto in presenza di depositi partico-
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Fig. 5. Alba (CN), loc. San Cassiano, tomba 39. Documentazione fotografica
in corso di scavo (Archivio Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie).
Fig. 6. Alba (CN), loc. San Cassiano, tomba 39. Documentazione grafica
(Archivio Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo
Antichità Egizie).
larmente ricchi di materiale o direttamente correlati alla
vita quotidiana dei gruppi umani che ne hanno causato
la formazione. In qualche caso sarà necessario effettuare
delle planimetrie o delle foto anche durante lo scavo di
una singola US, quando si riscontreranno delle disposizioni particolari di reperti o dati tali che possano aiutare a
capire la natura dello strato o la sequenza di eventi che ne
hanno causato la formazione.
Nel caso rappresentato in figg. 5-6 sono state documentate sia fotograficamente che graficamente le varie fasi
di scavo di una tomba ad incinerazione dell’età del Ferro
per evidenziare la presenza di un rituale funerario complesso che aveva previsto la frammentazione volontaria
di alcuni elementi accessori di corredo e la rideposizione degli stessi all’interno del pozzetto (Gambari 2004, p.
421). Nella tavola è stata disegnata anche la “sezione” del
pozzetto al momento del ritrovamento: le sezioni infatti
sono uno spaccato della sequenza stratigrafica e possono
essere utili a restituirne una sintesi immediata, per quanto
incompleta.
discorsiva, caratteri che altrimenti non potrebbero essere
messi in evidenza, quali la densità dei manufatti, la loro
disposizione nel corpo dello strato, la presenza di concentrazioni significative di materiale o una loro particolare
inclinazione. Nel corso dello scavo, e ad ultimazione dello stesso, è possibile inoltre completare il quadro relativo
alle sequenze dei rapporti fisici tra l’unità scavata e quelle
circostanti e di enfatizzare nel settore “sequenza stratigrafica” le unità anteriori immediatamente (già scavate)
e quelle immediatamente posteriori, che saranno scavate in sequenza. I materiali prelevati nel corso dello scavo
devono essere conservati con attenta indicazione della
loro provenienza (località e numero di US): spesso i reperti
vengono divisi per categorie (ceramica, elementi litici, materiali da costruzione) in modo da facilitare le successive
operazioni di studio e da consentirne una conservazione
ottimale. I dati relativi alla quantificazione possono essere,
a scavo ultimato, riportati alla voce corrispondente.
Descrizione dello strato - dati analitici
A scavo ultimato l’archeologo può essere in grado di
proporre un’interpretazione dello strato scavato e, dopo
un’analisi del materiale, dare rilevo ad alcuni elementi
che, a suo parere, possano consentire una datazione della US, quali oggetti che presentano un preciso riscontro
in sequenze cronologiche già note (datazione assoluta) e
il suo inserimento nella sequenza stratigrafica in un momento ben preciso della stessa (periodo, fase).
Tali dati coinvolgono, almeno in parte, l’opinione di chi
scava e, in alcuni casi, sono legati all’esperienza e alle capacità critiche di chi ha effettuato la rimozione, per questo motivo sono stati definiti "dati critici".
Dopo aver definito sinteticamente l’unità stratigrafica, è
necessario, durante lo scavo, annotare in scheda gli elementi da cui è composta, ponendo attenzione sia alle
componenti inorganiche (terreno, manufatti, inclusi litici)
che organiche (carboni, radici, reperti osteologici) e annotarne le caratteristiche peculiari (consistenza, colore,
misure). Il semplice elenco delle componenti dello strato
e delle sue caratteristiche non rende spesso ragione della
sua complessità, motivo per cui è stato inserito il campo
“descrizione”, nel quale è possibile esprimere, in maniera
Descrizione dello strato - dati critici
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Campionature
Oltre ai reperti identificabili a occhio nudo, durante le
operazioni di scavo è spesso consigliabile la raccolta di
campioni di terreno sia indisturbati sia disgregati, per consentire il recupero di dati in un momento successivo. L’archeologia si avvale infatti in maniera piuttosto significativa
di discipline scientifiche non direttamente connesse allo
scavo, ma che consentono di integrare i dati stratigrafici
con elementi relativi all’ambiente, all’economia e alle attività svolte nei siti oggetto di indagine. Le campionature
sono rappresentate da:
–– Campioni disgregati di terreno: il recupero del terreno
scavato viene effettuato in particolar modo per poter
poi procedere, in un momento successivo allo scavo, ad
operazioni di setacciatura (a secco o ad acqua) e di flottazione. In tal modo, utilizzando setacci a maglie sottili, è
possibile recuperare reperti di minute dimensioni, difficilmente o non visibili ad occhio nudo. Tramite questi procedimenti è possibile recuperare resti antracologici (carboni), carpologici (semi, frutti) e elementi di microfauna.
–– Campioni indisturbati: utili per lo studio dei pollini e le
analisi micromorfologiche del terreno.
L’archeologia: un approccio
multidisciplinare
L’analisi dei reperti e dei manufatti ha spesso richiesto che
i dati provenienti dallo scavo e dall’osservazione sul campo fossero integrati con analisi e apporti provenienti dalle
scienze naturali o dalle scienze esatte. La determinazione
della cronologia assoluta dei reperti, la caratterizzazione
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delle materie prime, l’individuazione di dati relativi all’ambiente e alle attività di sussistenza sono alcuni degli aspetti
fondamentali per le ricostruzioni storico-ambientali.
La storia dell’umanità si è da sempre sviluppata in interazione con il mondo naturale: soprattutto per i momenti
più antichi della storia dell’uomo non è possibile scindere
lo studio dei manufatti e dei contesti dalle ricostruzioni
ecologiche o dalle dinamiche geologiche. La struttura delle società del passato, il loro modo di vita e anche le dinamiche sociali non possono inoltre prescindere da campi
di indagine quali l’antropologia fisica, l’archeozoologia e
l’archeobotanica e, negli ultimi anni, la genetica.
Analisi antropologica dei resti umani
L’analisi antropologica consente di connotare con ricchezza di particolari le persone che agirono nel contesto archeologico preso in esame, di determinarne nello specifico il sesso, l’età, il regime alimentare (paleonutrizione), lo
stato di salute (paleopatologia) ed in qualche caso anche
elementi caratterizzanti usi e stato sociale.
Si riporta come esempio lo studio effettuato a Collegno
(Bedini et al. 2006) dove, nell’ambito di una necropoli
gota, sono stati riconosciuti due casi di deformazione cranica artificiale del cosiddetto “tipo fronto-occipitale trasverso”. Questa pratica, comune in Europa nel cosiddetto
“periodo delle migrazioni” in popolazioni mongoliche e
germaniche, è stata osservata in un adulto di età matura
o senile sepolto all’interno di una tomba monumentale
ed in un soggetto infantile. La deformazione cranica (fig.
8), le caratteristiche strutturali della tomba (fig. 7), gli oggetti di corredo, i marcatori di stress tipici della cosiddetta
Fig. 7. Collegno (TO). Struttura monumentale della tomba 4 (da Bedini et al. 2006, fig. 3).
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Fig. 8. Collegno (TO). Particolare del cranio dell’inumato della tomba 4 (da
Bedini et al. 2006, fig. 2).
“sindrome del cavaliere” e i risultati delle analisi paleonutrizionali (dieta ricca di proteine di origine animale) hanno
portato ad identificare in questo individuo il capo militare
o un funzionario di alto rango dell’insediamento altomedievale.
particolari caratterizzati da climi umidi o secchi che ne favoriscono la conservazione. I resti di legni e carboni sono
l’oggetto di studio della antracologia, semi e frutti della
carpologia, pollini e spore della palinologia.
L’esame dei resti botanici informa sia sulle abitudini alimentari delle varie comunità sia sulla variazione della flora
di una località, secondo dinamiche che spesso dipendono
dall’azione umana.
Ad esempio, nel sito di Tetto Chiappello (comune di Valgrana, prov. di Cuneo) (Motella de Carlo - Venturino Gambari 2004; Castelletti - Motella de Carlo 2005), collocato a
circa 960 m s.l.m, la setacciatura del terreno ha consentito
il recupero di una notevole quantità di resti botanici, il
cui studio ha consentito di far luce su numerosi aspetti delle attività svolte nell’insediamento. L’analisi dei resti
carpologici (fig. 9) ha permesso di identificare le cariossidi
di numerose qualità di cereali (frumento comune, piccolo
farro, farro, orzo, spelta) che venivano presumibilmente
coltivate in prossimità del sito durante l’estate e lavorati sul posto, come testimoniano i frammenti combusti di
elementi particolari che si eliminano durante la “battitura” dei cereali. Ulteriori resti di semi e frutti (leguminose,
mele, pere, sambuco) hanno permesso inoltre di ipotizzare uno sfruttamento dell’insediamento anche durante il
periodo autunnale.
I molti residui antracologici mostrano poi la presenza di
legno di specie forestali sia di pianura che di alta quota,
a testimoniare un probabile fenomeno di deforestazione
in atto sia nella zona collinare adiacente al sito, sia nella
zona pianeggiante alla base dei rilevi.
Archeozoologia
L’archeozoologia si occupa dei resti animali, sia di specie
domestiche sia selvatiche; gli studi effettuati su tali reperti
possono offrire un quadro delle dinamiche di domesticazione delle varie specie, informare sulle abitudini alimentari e sull’economia della popolazione e, in presenza di un
consistente numero di specie selvatiche, anche sull’ambiente circostante l’insediamento in esame.
L’analisi dei resti ossei animali comprende anche le tracce
di macellazione: questo studio coinvolge sia aspetti funzionali-economici che rituali ed è di estremo interesse per
comprendere modelli ed aree di caccia.
In alcuni casi la presenza di animali può essere riconosciuta dalla traccia indiretta del loro passaggio, attraverso lo
studio dei coproliti o delle impronte che possono essersi
conservate in particolari contesti archeologici. Di grande
rilievo è inoltre lo studio della microfauna (recuperabile
solo tramite setacciatura ad acqua o flottazione dei depositi) la cui variazione è strettamente legata a cambiamenti
climatici anche di debole entità che non sono altrimenti
leggibili.
Archeobotanica
L’archeobotanica si occupa dello studio dei resti vegetali che si conservano in ambito archeologico in seguito a
processi di mineralizzazione, carbonizzazione o in contesti
Fig. 9. Valgrana (CN), loc. Tetto Chiappello. Cariossidi carbonizzate.
Metodi di ricerca e documentazione archeologica in grotta
Geoarcheologia
La geoarcheologia è l’applicazione ai depositi archeologici
delle metodologie e delle tecniche proprie delle scienze
della terra, sia a livello macroscopico per l’inquadramento del contesto ambientale del sito (geomorfologia), sia
a livello dello studio di dettaglio, per l’esame di suoli e
sedimenti (pedologia, sedimentologia, micromorfologia).
Metodologie archeometriche
Le metodologie archeometriche consentono di rilevare
dati puntuali legati a caratteristiche fisico-chimiche dei
reperti: rientrano in questa categoria i metodi di datazione assoluta e le analisi degli elementi in traccia per l’individuazione della provenienza delle materie prime e delle
fonti di approvvigionamento.
Studio delle tracce d’uso
Lo studio delle tracce d’uso conservate consente di identificare, su manufatti litici e in osso, tracce minute, visibili
solo al microscopio, in base alle quali è possibile individuare le parti utilizzate di ciascun manufatto e le sostanze
manipolate.
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niche, archeozoologiche e antropometriche che consentiranno di proporre un’adeguata descrizione delle attività
economiche e di sussistenza, dell’ambiente che caratterizzava il contesto del ritrovamento e un quadro di relazioni
con ambienti e territori circostanti, testimoniato per esempio dalla presenza di materie prime di provenienza esotica
o di oggetti di pregio di altri territori e culture.
L’insieme di informazioni organicamente elaborate dovrà
quindi essere reso noto con dovizia di particolari, dando
ragione sia dei dati puntuali raccolti, sia delle interpretazioni soggettive di chi ha proceduto all’operazione di
sintesi.
Solo a questo punto, quando i dati di scavo saranno
fruibili e noti, il lavoro dell’archeologo potrà dirsi compiuto. La conclusione del procedimento di indagine è quindi
la pubblicazione dei dati (fig. 10): si propone come esempio la tomba 39 della necropoli di Alba, San Cassiano
(Gambari 2004, VI.9.1, p. 421) della quale abbiamo proposto sia la documentazione fotografica in corso di scavo
(fig. 5), sia la rielaborazione dei dati per la consegna della
documentazione (fig. 6) in modo da rendere comprensibile in tutte le sue tappe il percorso di ricerca e di studio
che, partendo dai dati dello scavo archeologico, porta alla
ricostruzione e alla conoscenza del passato del territorio.
L’interazione con queste discipline rende necessaria, per
l’archeologo, una preparazione che vada oltre la semplice tecnica di scavo e che gli consenta di valutare tutte le
opportunità di conoscenza che possono nascere dall’osservazione e dal recupero anche di materiali o elementi
che non risultano, ad una prima indagine, prettamente
“archeologici”.
La sintesi dei dati di scavo:
pubblicazione e divulgazione
Le attività di scavo e di raccolta dei dati di immediata percezione costituiscono solo una parte dell’attività dell’archeologo che deve essere in grado, sulla loro base, di ottenere un’immagine più articolata del contesto di scavo.
In un procedimento quasi piramidale, le singole unità stratigrafiche vengono poste in relazione le une con le altre
a costruire la sequenza stratigrafica: entro la sequenza
stratigrafica possono essere identificate più azioni che
concorrono a uno stesso fine (per es. una serie di buche
di palo che delimitano il profilo di una capanna) e che, affiancate ad altre serie simili (per es. ulteriori serie di buche
di palo organizzate), permettono di identificare un contesto archeologico più complesso (per es. un villaggio costituito da diverse capanne disposte regolarmente attorno
ad uno spazio aperto).
Il contesto archeologico potrà poi essere arricchito da ulteriori particolari: il restauro e lo studio dei reperti archeologici
consentiranno di identificare caratteristiche tipologiche e
classi di materiali da confrontare con serie note per ottenere dati di cronologia sia relativa che assoluta, la cui conferma potrà magari venire da datazioni archeometriche.
Il quadro emerso dallo studio dei soli manufatti potrà inoltre essere arricchito dai risultati delle analisi archeobota-
a
b
Fig. 10. Alba (CN), loc. San Cassiano, tomba 39. I reperti dopo il restauro (a)
e il disegno (b) (Archivio Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie).
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Lo scavo archeologico in grotta
L’esplorazione in grotte e ripari ha una tradizione consolidata sia nel campo degli studi archeologici, in particolare
in ambito preistorico, sia naturalistici. L’interesse non è
tanto rivolto alle grotte profonde, ambienti nei quali i processi di superficie agiscono in modo piuttosto marginale,
quanto ai ripari sottoroccia e alla parte atriale delle cavità.
Grotte e ripari, infatti, sono stati frequentati piuttosto
intensamente dall’uomo, fin dalle sue origini, in quanto
si trattava di rifugi naturalmente disponibili e di qualità
talvolta superiore a quelli che potevano essere allestiti artificialmente; per questa ragione i loro depositi contengono
spesso tracce dell’attività umana. La conformazione delle
grotte, inoltre, consente una maggiore conservazione dei
depositi, sia naturali che antropici, dal momento che li
protegge dalla maggioranza dei fenomeni di erosione e di
asporto che si manifestano all’aperto. Per questo motivo
le stratificazioni identificate nelle cavità naturali e nei ripari mostrano spesso una successione molto serrata di strati
e risultano particolarmente preziose per la quantità di informazioni che possono restituire, in particolare in quei
casi in cui le sequenze mostrano continuità sedimentaria
su di un ampio arco cronologico.
Analogamente a quanto già osservato, i depositi sono ricchi di informazioni legate alle attività umane, ma anche di
evidenze paleontologiche (ossa di animali cacciati o allevati) e di resti vegetali (cibo, foraggio, combustibile).
La formazione dei depositi
La formazione delle serie stratigrafiche all’interno delle
grotte è legata essenzialmente a due diversi fattori:
–– apporti esterni
–– deterioramenti e crolli della volta della grotta.
Gli apporti esterni possono essere sia di origine naturale
(apporti colluviali, eolici), sia artificiali, legati a frequentazioni da parte dell’uomo. Oltre i normali fenomeni
“meccanici” di genesi degli strati negli ambienti ipogei si
registrano depositi di formazione chimica, legati alla dissoluzione o alla precipitazione dei carbonati, in relazione
alla temperatura, alla pressione e al chimismo delle acque
circolanti. In particolare il deposito di carbonati comporta
la formazione di concrezioni che, oltre a dare origine a
Fig. 11. Il significato paleoclimatico dei depositi di grotte e ripari (da Cremaschi 2000, p. 262)
stalattiti e stalagmiti, possono talvolta permeare gli strati
formatisi per sedimentazione meccanica alterandone la
consistenza e cementificandoli. La formazione di depositi di crollo o di concrezioni con caratteristiche morfologiche, geologiche e chimiche particolari è stata posta in
rapporto a ben precise situazioni climatiche (fig. 11) che si
rivelano di grande interesse soprattutto per lo studio delle sequenze stratigrafiche più antiche, formatesi durante
il succedersi delle glaciazioni e legate in particolare allo
studio delle frequentazioni umane durante il Paleolitico
(fino a 10.000 anni a.C.). Gli apporti antropici sono generalmente di debole entità e si traducono, nell’ambito
delle successioni sedimentarie, in strati di spessore poco
potente, caratterizzati da un forte apporto organico (fig.
12), dovuto all’accensione di focolari, allo svolgimento di
attività domestiche, alla presenza di resti di pasto o, dopo
la domesticazione degli animali, alla presenza di residui
della stabulazione. Dato l’esiguo spessore degli strati, si
rivela di estrema importanza il recupero di campioni di
terreno, con le modalità già descritte, al fine di consentire
analisi di laboratorio più approfondite.
Lo scavo
Lo scavo archeologico in ambienti di grotta prevede l’applicazione delle stesse metodologie già descritte in precedenza. La dinamica di formazione dei depositi rende
tuttavia necessario, per un loro studio esaustivo, avvalersi
della collaborazione di professionisti quali geologi e naturalisti, che sappiano fornire all’archeologo un quadro
particolarmente chiaro dell’interazione tra frequentazione
antropica ed eventi di carattere ambientale.
* Arkaia S.r.l. - Piazza Borgo Pila 65 - 16129 Genova (GE)
E-mail: [email protected]
Fig. 12. Riparo di Pian del Ciliegio (SV). Panoramica dell’area di scavo.
Metodi di ricerca e documentazione archeologica in grotta
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Note
1
2
Celebre rimane il frammento di un’iscrizione di Lione, sua città natale, che trascrive un discorso pubblico di Claudio in cui si
faceva riferimento alla storia degli antenati dallo stesso amata e studiata per decenni, in particolare al periodo del sesto re di
Roma, da lui nominato Mastarna: C.I.L. XIII, 1668.
Conte di Caylus: Manacorda 2004, p. 22.
Bibliografia
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