Valore storico e radici antropologiche della poesia di Rocco Vincenzo Scotellaro L’idea di Rocco Vincenzo Scotellaro di mettere insieme le sue poesie in una raccolta organica (Le gemme promettono bene, Potenza, Paolo Laurita Editore, 2011) si rivela fruttuosa sotto più di un profilo; intanto, risolve il problema pratico della lettura ovviando alle difficoltà che sempre comporta il materiale disperso. Ma, soprattutto, ci offre la possibilità di guardare a tutto tondo dentro una personalità che presenta credenziali di tutto rispetto nel momento in cui decide di rappresentare le note di un’esperienza autentica. Sì, perché il primo ostacolo che insorge a voler trasformare oggi in contenuto poetico un mondo che ha radici profonde nel passato è quello della genuina aderenza, che significa poi la verità del racconto fuori dai condizionamenti degli stereotipi che si tramandano falsando l’anima e il colore della civiltà. Gioca a favore di Scotellaro l’aver vissuto direttamente il tempo in cui la civiltà contadina emetteva bagliori nelle sue estreme propaggini; il suo è un ruolo, dunque, di testimone e interprete che ha modo di procedere secondo un’ottica di osservazione partecipata. Il che alimenta una passione conoscitiva che non vuol dire cedimento a un’immagine distorta e soggettiva; anzi, è lui, il soggetto, a farsi garante del valore storico. Dirò di più: la vicenda personale che si colloca all’atto di esaurimento di un ciclo, punto di discrimine e di trapasso verso una nuova realtà, rende ancor più preziosa l’esperienza, venendo ad assumere una pregnanza ancipite. Il passato si presenta con il carico e la rugosità del tempo, ma proiettato verso l’avvenire di cui si colgono gli iniziali contraddittori passi, prima che si squaderni l’incredibile sviluppo. Sicché opportuna appare la stessa scansione strutturale che affida alle prime due sezioni il compito di evidenziare il processo appena delineato: ciò che accade “all’ombra degli annali” è fortemente legato al concetto di tempo ciclico, alle resistenze opposte per un progressivo mutamento, una sorta di cronaca in presa diretta della vita che volge lentamente e attenta alle forme della tradizione; Il vento delle malve racchiude la visione di quello stesso mondo colto con lo sguardo da lontano attraverso “i pensieri pellegrini” di un lucano che ha dovuto andar via; ma è presente anche la fase della contemporaneità. Va da sé che i contorni non sono nettamente definiti e c’è di sicuro la 218 possibilità di interscambio, ferma restando la veridicità centrale dell’assunto. Note e Rassegne L’arte come forma in cui si esercita un’austera moralità di sentire; è questa la chiave per cogliere il nucleo centrale della poesia di Rocco Vincenzo Scotellaro; ciò dipende dal particolare rigore con cui l’artista affronta i problemi del mondo. La radice etica connota e informa i rapporti tra gli uomini e per conseguenza anche l’ideale di società che si prospetta. Non è una formulazione astratta, ma qualcosa che deriva dal sostrato antropologico della terra di provenienza. L’amore per le cose espresse nella loro essenza di semplicità primigenia tende ad andare oltre l’immediatezza descrittiva per elevarsi a valore da trasmettere. In effetti, non si tratta della replica, del tutto improbabile, di un tessuto sociale precapitalistico quanto di estrarre valori e paradigmi che possano ancora oggi essere di ausilio. La voglia di comunità non come perenne frustrazione in atto, secondo la tesi di Bauman, ma principio attivo di virtù solidaristica che attutisca almeno l’egoismo imperante. Rocco Vincenzo Scotellaro si fa portatore di questa fiducia e può annunciare nel titolo ottimistico della raccolta che “le gemme promettono bene”, vale a dire che una nuova vita è possibile, se fa perno sul valore uomo che era alla base della civiltà contadina. Al di là delle soperchierie che prevalgono in superficie, si può cercare scampo nel profondo e nell’arcaico, che è poi la tesi leviana del “germoglio sotto la scorza”. Non è idoleggiamento del primitivo, ma attenzione privilegiata per ciò che in ogni tempo e luogo ha costituito l’ancora di salvezza per l’umanità: il ritorno alle origini, alla fonte primaria del suo stesso essere. Tutto questo non significa che dai versi promana una visione a senso unico, di compattezza ingaggiata a sostegno di una tesi precostituita; la poesia traduce la realtà, che ovviamente ha una fenomenologia complessa. E il realismo di Scotellaro sta proprio nella predisposizione a cogliere la molteplicità delle sfaccettature, il libero concorso degli elementi in gioco; in una parola, sta nell’atteggiamento di sana laicità che lo contraddistingue. Possono così emergere le debolezze e le cadute di una umanità che perfetta non è, specie se vista nelle sue prevaricazioni di classe. Il sarcasmo colpisce l’arroganza padronale che trasforma in “scettro” il “bastone” proprio nel giorno di Natale, Luigi si dice «stufo dei ragli del padrone»; e mentre si coglie la quiete bonaria dei cafoni «con le facce assoggettate agli umori dei padroni», sulla scorta di una tradizione di insofferenza nei confronti dei soprusi, «il vento incalza, scoperchia le case / e il vortice lontano risuona». È l’eco delle lotte contadine per la conquista della terra. Il poeta saluta “riverente” le donne che «siedono imposimate / sull’uscio di casa» «con i tuppi aggiustati»: in questa scena fermata con l’occhio del 219 Note e Rassegne pittore (coltiva non tanto in segreto la sua passione) Scotellaro ha voluto esprimere accettazione e rispetto per il mondo “degli antichi padri”, ma sa bene che tutto non può rimanere come prima. Il senso della precarietà incombe sulla fatica contadina; basta che sia «più profondo / il solco del maggese» per creare turbamenti e incertezza, l’uomo risponde «col fiaschetto e la zampogna», la donna «è pronta ai voti». Risposte ambedue consolatorie che certo non intaccano i meccanismi ferrei e violenti dell’economia. Eppure, su quanta importanza abbiano il canto-musica e la religione, che prende anche le sembianze della superstizione, nella weltanschauung delle classi subalterne, non sarà mai troppo insistere. E a ciò si unisca il motivo oraziano del bere insieme, del ritrovarsi magari attorno al focolare e nei momenti rituali come quello dell’uccisione del porco: sembra che il poeta voglia rivendicare l’impari e necessaria arma della coesione identitaria per opporsi alle avversità storiche. «Michele ha nella voce l’ansia / delle promesse», che si rivelano per lo più non mantenute. È un’altra costante della particolare psicologia contadina, che è poi la condizione del suo essere, in base alla quale intrattiene rapporti di ostilità e diffidenza nei confronti dello Stato, specie quello centrale: un elemento fondamentale nell’analisi di Carlo Levi. Il componimento Non è per egoismo s’impone per la delicatezza del tocco con cui delinea il pudore nella miseria e lascia intravedere una spiegazione del connotato antropologico dell’importanza assegnata alla famiglia, che altri, in sede teorica, ha voluto definire familismo amorale: «Tra questi vicoli non è per egoismo / se tratteniamo un raggio di sole / prima che bussi alla porta accanto». “Il vento delle malve” può aver luogo grazie a una distrazione che è tipica dei poeti, quella di addormentarsi “con gli occhi nel tiretto”; si mette così in moto il meccanismo della memoria che è capace di legare in una fertile attività passato e presente, ma anche regioni dell’anima tra loro distanti. Rocco Vincenzo Scotellaro subisce gli effetti del vento sconquassatore dell’emigrazione che seguì alla crisi del movimento contadino tra metà e fine degli anni Cinquanta; «come un passero ferito dalla fionda / dei monelli» partì anche lui. A Sud c’era poco o niente da fare, le speranze fiorite sullo slancio delle partecipazioni di massa svanirono e produssero una cocente delusione; il poeta canta: «Il giorno invecchia presto / da noi. La luna sopraggiunta / dà più sospiri che voci». È il tasto della tristezza che modula la voce e contrassegna i giorni degli addii: «Ti saluto cicala 220 sulla scorza / del vecchio mandorlo». Il mondo delle origini può essere Note e Rassegne guardato solo in lontananza e recuperato con dolcezza al cuore: «Mi è dolce l’inganno quando riaffiorano / spazi improvvisi di memoria». Non viene meno il dovere della fedeltà, anzi si colora dell’ansia di non farcela, come in quella struggente poesia dedicata a Rocco Mazzarone: «Non consumare da solo le strade, aspettami! / Avrò le scarpe nuove, e insieme / guarderemo le trecce d’aglio ai balconi, / seguiremo il volo delle taccole sul paese». Quelle stesse taccole che, impaurite, si sistemano addirittura nel letto in perfetta simbiosi naturale. Il rimorso corrode l’anima, quasi fossero sue le colpe che invece sono della Storia, degli uomini senza saggezza che coltivano gli interessi di parte e non il bene comune; Scotellaro si arrovella: «A me non danno pace questi ritornelli / scanditi dall’aria della pula lontana», «Sogno i vicoli nella notte». È degna di nota la figura della mamma, su cui si scarica il fuoco delle contraddizioni storiche, ed è lei, come tutte le mamme del Mezzogiorno, a veicolare i drammi e a renderli domestici, accettabili. Il “volto elusivo” stampa una nuova categoria d’approccio, quella di chi sa ma non dà a vedere, dominando dall’alto le situazioni. L’approdo definitivo al Nord, che fa prendere alla faccia del poeta “il colore della Dora”, crea col tempo un nuovo status per il quale non manca la gratitudine per “questa terra benedetta”; eppure ritorna in contrappunto l’immagine della madre. Ivrea, che pur è la città di Adriano Olivetti, suggerisce riflessioni sui limiti dello sviluppo e sulla condizione alienante dell’organizzazione del lavoro in fabbrica; insieme a una denuncia per l’infatuazione nei riguardi della civiltà elettronica in cui ha sfogo il delirio di onnipotenza dell’homo sapiens. Prende piede da ultimo un gruppo di poesie che sono specchio dei tempi per quel modo di porsi nei confronti della classe dirigente che si rivela non all’altezza del suo compito; una vera e propria satira politica in cui Scotellaro mette alla berlina comportamenti per niente dignitosi di potenti e clienti, onde provocare uno scatto di orgoglio che metta “al bando le fantastiche soggezioni”. La coda del gatto si configura come un vero e proprio canzoniere. Non penso certo di chiamare in causa l’alto e precipuo Archetipo, sì piuttosto di additare una diversa e articolata storia. L’amore è qui storia di formazione, di progressiva crescita che porta il segno di una maturità raggiunta; anche per il distacco e l’ironia con cui il poeta ama guardare i capitoli introiettati delle sue avventure. È slancio di vita che pulsa, freme e trova placamento solo quando ha raggiunto la 221 sua piena realizzazione. Note e Rassegne Si può dire che per Scotellaro la vicenda narrata richiama per lo più il tempo della giovinezza; il che comporta immediato il corollario che l’amore coincide con l’ordito circostante della civiltà contadina; è, per così dire, la lingua del paesaggio. Un modo originale per prospettare in controluce lo sfondo dell’ambiente senza sottrarre spazio alla fenomenologia amorosa, che una pruderie di comodo cerca di nascondere per perpetuare secolari tabù. Quando invece è risaputo che al momento opportuno la forza della sessualità esplodeva libera e franca in una società che poneva freni per rispetto formale delle convenzioni. La produzione amorosa esibisce tonalità e caratteristiche varie. “Il nibbio grifagno”, metafora efficace di una prepotenza di possesso, svolazza e agguanta le sue prede in un gioco di reciproca soddisfazione; un mondo di sensazioni inedite si spalanca nella fantasia che dura: «A ogni mossa di ciglio / c’è un lembo di cielo / che va e viene». E non manca la sorpresa, che sempre gratifica e tiene vivo ogni rapporto, nell’atmosfera antinomica di buio e luce: «Volle spegnere la luce. / E la vampata del ceppo la sorprese». Tra fuoco della passione e fuoco reale con intreccio metaforico si sviluppa lo scenario d’amore che trapassa nella favola bella del contesto: «Io so che ci stai / quando sfavilla il ceppo / e la grondaia chiacchiera col vento». Tono favolistico ancora presente in un inseguimento che ha più le sembianze di un gioco da bambini: «Ti inseguo galoppando sui cavalli / di canna nel groviglio dei boschi». Un mirabile esempio di reinterpretazione della tradizione popolare troviamo nella Storia della luna del pozzo che, nel suo stile epigrafico, racconta della luna gelosa, condiscendente sulle prime alle effusioni d’amore che si consumano in terra e vendicativa poi sino all’indicibile. Qualcosa di simile, sul versante della prosa, si può leggere anche in un racconto diVittorio Bodini. Alla tradizione colta, canonica direi, ci rinviano invece «i petali non si chiudono», «esala in mille dolcezze / il tepore del fiato»: una scoperta derivazione da Pascoli, che nel Gelsomino notturno ha raggiunto una delle vette più alte della poesia d’amore. Rocco Vincenzo Scotellaro preferisce la nitida secchezza del dettato che si indovina frutto di una progressiva cernita tesa a eliminare ogni elemento superfluo; questa operazione non si esaurisce in se stessa, ma, stabilendo un collegamento tra poesia e poesia, diviene strategia di un progetto che si nutre di essenzialità narrativa, come fosse il noumeno lirico a trasformarsi in racconto. E si tratta non solo della messa in partecipazione dei “fatti”, ma del coinvolgimento in un ritmo che nutre e fuoriesce dai 222 singoli componimenti. Note e Rassegne Quanto alla lingua, ci troviamo di fronte a un patrimonio che potremmo definire medio, se non fosse che presenta talvolta dei significativi sbilanciamenti, raramente verso il dato tecnologico e modernizzante per provocare effetto di ironia e addirittura di sarcasmo (si guardi, ad esempio, alle poesie Homo sapiens, Casi clinici, Modernità), e assai più spesso verso la cultura popolare e contadina (“insertare”,“abbeverata”,“pestatura”,“oggi mena tizzoni”, “sepali”, “scrippelle”, “panella”, “i cani paravano all’ovile”, “lo stipai all’addiaccio”,“la sciolta”,“si abbrustia il viso”,“lo zinale infarinato”,“incappanti”,“sanaporci”,“salaiolo”,“stricare i panni”,“cuccuma”, “focagna”, “beve a garganella”, “imposimate”, “tuppi aggiustati”, “gambe piene di salsicce”, “noveto”, “pitta”, “stava di casa”, “campanaccio”, “vadano cecate”,“zoccola”,“accasarsi”,“lampascioni”,“controra”,“il pastore sentenzioso”). Una presenza così pervasiva non può essere frutto del caso, tanto più che nell’uso si nota un gusto e una competenza straordinari; allora, l’intenzione sarà stata quella di consegnare alla lingua poetica un imprinting particolare che fosse il marchio delle origini: un recupero di nervi e venature per porre riparo alla omologante espressione compositiva. Franco Vitelli 223