1 LA COMUNICAZIONE COME FORMA D'AMICIZIA. Prof. Juan José García-Noblejas, Pontificia Università della Santa Croce. Non è un caso che il titolo di quanto esporrò di seguito sia “La comunicazione come forma di amicizia” e non il contrario, “L’amicizia come forma di comunicazione”. Voglio infatti trasmettere l’idea che sappiamo già abbastanza riguardo all’amicizia, mentre invece sappiamo abbastanza poco della comunicazione. La questione che viene posta è questa: i mezzi di comunicazione, al di là del fatto di pretenderlo o sembrarlo, possono essere umanamente amichevoli? Il proposito di queste parole consiste non tanto nell’occuparsi degli aspetti o delle manifestazioni comunicative dell’amicizia, quanto piuttosto nell’osservare in che misura l’amicizia possa essere predicata come qualità propria dell’avvicinamento delle forme e dei mezzi di comunicazione pubblica ai cittadini. Cosa che presuppone, in un certo senso, che ciò che segue rientra più appropriatamente nel contesto dell’Epistemologia della Comunicazione pubblica, e non direttamente nel contesto dell’Etica o dell’Antropologia filosofica. Una genuina prospettiva epistemologica per la Comunicazione pubblica è quella che risulta capace di almeno due cose: 1) considerare insieme tutti i mezzi, le forme e i testi comunicativi e 2) farlo in quanto questi ultimi hanno come obiettivo prioritario il parlare veridicamente della realtà. Oggigiorno, tanto nelle argomentazioni giornalistiche quanto nelle creazioni poetiche, si può notare una convergenza nell’interesse a dare notizia del male reale e possibile che si osserva nel mondo in cui viviamo, e del male reale e possibile che si osserva all’interno del mondo che ciascuno di noi rappresenta. All’interno di questa prospettiva epistemologica, ci sono due premesse che daremo per conosciute. La prima –come ricorda Lausberg- è questa: che secondo i classici dell’oratoria, della politica, della retorica e della poetica, quando si prende la parola e se ne fa uso in pubblico, lo si fa per cambiare uno stato di cose. La seconda premessa, come afferma Paul Ricoeur1, è questa: bisogna operare una distinzione tra l’amicizia come emblema delle relazioni interpersonali, e la giustizia come emblema delle relazioni istituzionali. Dove non arriva l’amicizia, appare la giustizia. In questa sede, pertanto, ci disponiamo ad esplorare nel nome dell’amicizia, alcuni territori che a rigor di logica si trovano sotto il dominio della giustizia. Ben sappiamo, fin dai tempi di Aristotele, che non vale la pena avere giustizia senza amicizia. In questo senso, il discorso comunicativo delle notizie e delle finzioni è sempre attento e associato, attivamente o passivamente, ad affrontare da vicino le libere azioni umane e i loro difetti. E le loro condizioni di possibilità, sia il capriccio o la regolarità e l’impegno che le genera e mantiene abitualmente. Si tratti del loro aspetto fisico o politico, psicologico, morale o trascendentale. Non esiste altra fonte di novità, al di là della libertà personale, se non ciò che in essa incide e da essa nasce. I mezzi di comunicazione, in ciò che hanno di poetico, sono capaci –da parte loro- di generare e purgare nel pubblico dosi sufficienti di timore e pietà, convertendo in piacere conoscitivo la coscienza di tanti mali morali propri e altrui, che è ciò che deve avvenire perché con proprietà si possa parlare, con la Poetica aristotelica, del tratto catartico della comunicazione pubblica. Oggi, 1 Cfr. Paul Ricoeur, La persona, Morcelliana, 2002, p. 46. 2 tuttavia, non basta più menzionare solo le tragedie, ma bisogna parlare di speranza e di redenzione o di necessità di salvezza. Anche la prospettiva epistemologica della comunicazione pubblica tiene in considerazione il fatto che buona parte di questa comunicazione si presenta come “amichevole” per lettori, ascoltatori o spettatori. A tutti è capitato di dire che un buon libro è come un amico, e tutti abbiamo sentito parlare di televisioni che vorrebbero essere “amiche”. E questa stessa prospettiva è consapevole della convenienza di caratterizzare fortemente questa dichiarazione unilaterale di amicizia da parte dei mezzi di comunicazione. Perché potrebbe essere un’allusione strumentale, gratuita, o sofistica. Anche se non necessariamente. Basta ricordare, ad esempio, come i mezzi pubblici di radiotelevisione abbiano svolto un ruolo importante nella socializzazione e nella consolidazione dell’identità di molte nazioni e di molti popoli. E allo stesso tempo, basta ricordare che i mezzi commerciali di comunicazione agiscono come corporazioni che necessariamente producono ed offrono programmi per attirare audience, che è ciò che esse offrono ai pubblicitari o propagandisti come “target” più o meno selezionato ed abbondante per i loro prodotti o le loro ideologie. Ebbene, se vogliamo osservare in che misura l’amicizia possa essere predicata come qualità propria delle forme e dei mezzi di comunicazione pubblica, conviene non precipitare il giudizio e fare un breve excursus sull’argomento in questione, che può risultare arricchente per poi affacciarci ad essa con un minimo di cognizione di causa. 1. Paradossi della dimensione pubblica dell’amicizia e della scrittura del dialogo comunicativo C’è una ragione per comprendere che, nel presentare la Comunicazione come fenomeno pubblico, la sto direttamente avvicinando a ciò che per Aristotele presuppone l’amicizia, la “philia”, una “hexis”, una disposizione abituale intorno ad una “koinonía”, una “comunione di discorsi e di pensiero” che in fin dei conti significa “vivere insieme” o partecipare ad una “vita associata” (Eth. Nic., 1171 b 32). Ma si tratta di un “vivere insieme” o di una “vita associata” che a prima vista può sembrare paradossale, in quanto non è in nulla somigliante a ciò che accade nel mondo animale, quando “le bestie mangiano riunite in uno stesso luogo”. E si tratta di un “vivere insieme” che può essere inteso sia sotto il punto di vista dell’utilità o del piacere, sia della virtù, come nel caso della “teleia philia”, l’amicizia perfetta. Proprio per il gioco delle apparenze e del contrasto tra la nozione del “vivere insieme” quando si tratta di animali che mangiano e quando si tratta di persone amiche, Aristotele afferma che non è amicizia la “benevolenza che rimane occulta” (Cfr. Eth. Nic., 1155 b 34 – 1156 a 5) 2. L’amicizia, con i legami concreti che stabilisce al condividere discorso e pensiero, non è qualcosa di nascosto, ma ha un carattere pubblico manifesto. Un tratto in comune con ciò che oggi denominiamo Comunicazione pubblica. Possiamo accettare inizialmente per “comunicazione pubblica” quell’insieme più o meno eteroclito costituito da alcune attività pratiche che nella vita e nel linguaggio comune riconosciamo con i nomi generici di “stampa, radio, televisione”, in quanto associate al giornalismo e all’intrattenimento, quanto ciò che rientra sotto la denominazione di “letteratura, cinema, teatro”, associato alla finzione e ancora una volta all’intrattenimento in generale. Detto in altre parole, la “comunicazione pubblica”, vista da una prospettiva epistemologica, considera questi suoi oggetti e contenuti sia DANANI, Carla, L’amicizia degli antichi. Gadamer in dialogo con Platone e Aristotele, Vita e Pensiero, Milano, 2003. Per il riferimento, vid. p. 258. 2 3 “peri ta pragmata” (in quanto azioni umane reali) sia “peri dunaton” (in quanto azioni umane possibili: logicamente, moralmente e poeticamente possibili). Per questo, al menzionare questi compiti della Comunicazione come “attività pratiche”, ritengo che rientrino con proprietà nell’orbita aristotelica dei modi prudenziali di sapere propri dell’etica e della politica, in prima istanza, ma senza dimenticare la loro compenetrazione comunicativa con la poetica, la retorica e l’estetica, intese come modi prudenziali di sapere e non come semplici tecniche strumentali. Fermo restando che non è questa la sede per parlare di questo plesso così ricco di relazioni, tratterò sinteticamente e forse in modo un po’ superficiale i due tratti più evidenti. Il primo è quello che prende in considerazione la comunicazione da una prospettiva retorica, associata al giornalismo ed orientata al discorso epidittico, che mira ad allontanarsi –senza riuscirvi- dal discorso giudiziale e da quello deliberativo. Poi, più brevemente, per concludere, vedremo le aperture di senso offerte dalla prospettiva poetica, associata alla finzione. In questa posizione (e senza dimenticare i tratti etici, politici ed estetici) possiamo riferirci direttamente alle attività di Comunicazione pubblica in quanto direttamente associate a deliberazioni (“boulesis”), ad elezioni del “desiderio deliberativo o intelletto che desidera” (“prohaíresis”) e a giudizi prudenziali che determinano con indulgenza ciò che è giusto e ciò che è equo (“gnomé”) 3. E scoprire quali forme di amicizia favoriscono o praticano “de re” queste attività pratiche di comunicazione pubblica. Precisando che, essendo una questione rilevante, non avremo qui occasione di esaminare anche quali forme di amicizia presentano, o rappresentano figurativamente “de dicto” queste attività e questi mezzi di comunicazione. Sono perfettamente conscio del fatto che una cosa è ciò che fanno effettivamente determinati mezzi di comunicazione concreti, in un luogo e in un momento concreti, e un’altra cosa è ciò che permettono e consigliano le loro virtualità, in quanto contribuiscono o meno al raggiungimento di una vita migliore, in una società che con proprietà chiamiamo “società della conoscenza”, e non solo “società dell’informazione”. Ebbene, se abbiamo evidenziato il tratto pubblico –e apparentemente paradossale- che l’amicizia offre, dobbiamo anche sottolineare il tratto paradossale presente nel dialogo amichevole, circostanza in cui compare la verità, come paradigma della comunicazione. Di questo troviamo testimonianza fin dalla Lettera VII di Platone, che ci ha fatto considerare il famoso paradosso racchiuso nella sua condizione di lettera scritta che denigra la stessa scrittura. Prima troviamo la lode al dialogo amichevole: “soltanto dopo che si sono sfregati faticosamente gli uni con gli altri nomi e definizioni, percezioni visive e sensazioni, solo dopo che si sono analizzati in discussioni benevole, in cui l’invidia o l’interesse non dettano né la domanda né la risposta, solo allora la saggezza e l’intelligenza sprizzano su ogni cosa con tutta l’intensità che la forza umana può sopportare”. Sono affermazioni accattivanti che stimolano la pratica del dialogo amichevole. Ma ecco che emerge il paradosso, quando a continuazione ci imbattiamo nel vituperio della scrittura, laddove Platone ci dice che: “E’ per questo che ogni persona seria si guarda bene dallo scrivere cose serie per non esporre il proprio pensiero alla malevolenza e all’incomprensione degli uomini. Quando si vedono opere scritte di qualcuno, siano esse di un legislatore sulle leggi, o di chiunque altro su 3 Cfr. AUBENQUE, Pierre, La prudencia en Aristóteles, Crítica, Barcelona, 1999. 4 qualunque altro argomento -prosegue Platone- si deve concludere che queste cose scritte non erano per l'autore la cosa più seria, se questi è veramente serio" (Lettera VII, 344 b-c). Non si tratta qui di sottolineare la contraddizione interna di queste affermazioni né di insistere con possibili ironie in merito. Platone scrive qui seriamente di cose serie, aspettando che siano seriamente lette da Dioniso, il suo amico tiranno di Siracusa, probabile impostore intellettuale, al quale le dirige come denuncia di falso sapere. 2. Metafore per comprendere l’odierna situazione della Comunicazione pubblica. Ritengo che non sia un’esagerazione presentare la Comunicazione pubblica come un fenomeno duro, forte e soprattutto complesso, che di solito è trattato come se non lo fosse. E non essendo solitamente affrontato nella sua enorme complessità, quando in una situazione culturale non si affronta il senso della propria condizione, osserva Leonardo Polo 4, -perché pensare non è curativo, perché la volontà termina nella pragmatica del puro successo invece che nell’amore, perché la superficialità sentimentale satura i sensi-, allora ci si ritrova stanchi e si tende a lasciarsi trascinare dal mero accadere dei fatti, delusi. E’ quel che succede con i mezzi di comunicazione: qualcuno ritiene forse che possano o meritino di essere considerati amici? Non è un’esagerazione dire che nella nostra situazione è diffuso un certo il timore di fronte al potere della scienza e della tecnologia. Timore che, poiché essi hanno a che vedere con la manipolazione della vita umana, con le risorse energetiche, e dunque anche con i processi di comunicazione pubblica, possano scoperchiare diversi inferni che potrebbero sconvolgere il nostro futuro. Se non l’hanno già fatto, come reputano i più pessimisti. Ebbene, in una situazione nella quale risulta difficile analizzare fenomeni complessi, e quello della Comunicazione pubblica è uno di questi, possono essere utili le metafore. Anche se bisogna sempre fare attenzione a scegliere quelle che dovranno essere utilizzare, perché tutti sappiamo che l’uso delle metafore è pericoloso quanto l’uso di un martello. Non è una novità ricordare che quando qualcuno ha un martello in mano, qualsiasi cosa gli sembra o vorrebbe che fosse un chiodo. Le metafore esplicative tendono a fagocitare e ad adattare qualunque cosa si trovi alla loro portata. 2.1. Metafore tecnologiche : tra “superautostrade” ed “ecosistemi” Riporterò di seguito alcune delle metafore che permettono di farsi un’idea di quanto sia in gioco con la comunicazione pubblica, tanto dal punto di vista tecnico, quanto da una prospettiva pratica, senza fare riferimenti inutili al carattere amichevole che solitamente presentano. 2.1.1. Quando nel 1993 Al Gore, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti, generalizzò e rese popolare l’espressione di Superautostrade dell’informazione, con la fortuna mondiale che conosciamo, quasi immediatamente si innalzarono voci d’allarme. Barry Diller5, ex-presidente della Fox e della Paramount, capì subito che la crescente “velocità” suggerita dalla metafora, richiedeva un analogo incremento della comprensione, poiché è evidente che “informazione non è sinonimo di conoscenza”… Con i giornali e le televisioni tradizionali “ci voleva un po’ di tempo perché venissimo a conoscenza di un fatto, e qualcosa di più perché ne considerassimo le conseguenze, in seguito all’analisi e alla comprensione della sua portata. Il 4 5 Cfr. POLO, Leonardo, Presente y futuro del hombre, Rialp, Madrid, 1993, pp. 62-113. Citato da Todd Oppenheimer, “Reality bytes”, Columbia Jounalism Review, september - october 1996, pp. 40-42. 5 problema, oggi, sta nel fatto che il semplice arrivare più velocemente sul luogo dei fatti non ci rende più intelligenti”. James Carey6 ricorda che nei processi di comunicazione esistono due modelli basilari: quello di trasmissione, che considera il passaggio d’informazione da un luogo all’altro secondo criteri d’utilità, e il modello di partecipazione o “rituale”, secondo il quale la comunicazione crea esperienze condivise senza che in questo processo ci sia necessariamente un’apparente utilità. Qualcosa di affine all’amicizia, insomma. Tuttavia, sostiene Carey, con la metafora delle superautostrade questo secondo modello partecipativo è stato dimenticato, a causa del fascino prodotto dall’immaginare le possibilità del modello di pura trasmissione dei dati. 2.1.2. Harmeet Sawhney7 ritiene –con una metafora ecologica- che le infrastrutture tecniche di comunicazione siano strumenti di abitazione. Costituiscono a pieno diritto l’ambiente in cui viviamo o andremo a vivere, e per tanto non si tratta di qualcosa di completamente esterno a noi stessi. Neil Postman8 insiste su questo modo ecologico di intendere i cambiamenti tecnologici di comunicazione pubblica, perché –dice- non sono semplici additivi: “Cosa succede se mettiamo una goccia di colorante rosso in una provetta da laboratorio piena di acqua cristallina? Otterremo acqua cristallina più una goccia di colorante rosso? Ovviamente no. Otteniamo una nuova colorazione in ogni molecola d’acqua. E’ proprio questo che intendo per cambiamento ecologico. Un nuovo mezzo non aggiunge qualcosa; cambia tutto. Nel 1500, dopo l’invenzione della stampa, non avevamo la vecchia Europa più la stampa. Avevamo un’Europa diversa. Dopo la televisione, l’America non era l’America più la televisione. La televisione ha dato un nuovo colore ad ogni campagna politica, ad ogni casa, ad ogni scuola, ad ogni chiesa, ad ogni industria, ecc.” I cambiamenti tecnici incidono sulla vita pratica. La questione da affrontare, il punto d’arrivo continua ad essere, pertanto, la considerazione di quel che avviene nella comunicazione pubblica dal punto di vista pratico delle relazioni personali e, in concreto, dell’amicizia. 2.2. Metafore pratiche: tra “terzi luoghi” e “giochi a somma positiva” 2.2.1. Alcuni anni fa ho manifestato –con scarso successo, a onor del vero- l’interesse ad incorporare la nozione di terzi luoghi per considerare i mezzi di Comunicazione pubblica come “luoghi di incontro e di dialogo personale”, piuttosto che come “autostrade di circolazione”, e anche meglio di “ecosistemi di abitazione”. E anche di combinare questa metafora con la “teoria dei giochi”, per sottolineare il fatto che la comunicazione pubblica è parte integrante della trama sociale che invita alla cooperazione come criterio per far sì che tutti traggano profitto dal nostro “vivere insieme”. La nozione di “terzo luogo” viene quasi descritta nell’enunciato che dà il titolo al libro di Ray Oldenburg9, “Il gran bel posto: caffè, caffetterie, centri comunitari, istituti di bellezza, grandi 6 J. Carey, Communication as Culture, Unwin Hyman, Boston, 1989. H. Sawhney, “Information superhighway: metaphors as midwivies”, Media, Culture & Society, 18 (1996) pp. 291314. 8 Cfr. “Defending Ourselves Against the Seductions of Eloquence”, in K. Dyson y W. Homolka, Eds., Culture First! Promoting Standards in the New Media Age, Cassel, London, 1996, pp. 32-34. 9 R. Oldenburg, The Great Good Place: Cafés, Coffe Shops, Community Centers, Beauty Parlors, General Stores, Bars, 7 6 magazzini, bar, ritrovi e come ti aiutano a trascorrere la giornata”. Si tratta di una nozione associata a luoghi d’incontro sociale informale, allo stesso tempo inclusivi e locali, diversi dagli altri due grandi “luoghi”: le grandi organizzazioni, corporazioni, ambienti di lavoro, da un lato, e i piccoli ambiti familiari o i circoli di amici intimi, dall’altro. Qualcuno ha pensato che considerare i mezzi di comunicazione come “terzi luoghi” fosse un modo diverso di parlare della “democrazia virtuale” elaborata da Leo Scheer 10, e quindi della “isegoria” o pari diritto di tutti di parlare nella nuova grande assemblea audiovisiva pubblicizzata dai supporti digitali. Non è così. Credo piuttosto, come Christopher Lasch 11, che la trovata di Oldenburg implichi il fatto che le “società informali” che nascono nei terzi luoghi pubblici abbiano per loro stessa natura una forte dose di imprevedibilità: né sono luoghi in cui tutti possono “entrare”, senza alcun problema, né assomigliano alle “sfere” associative descritte dal comunitarista Robert Bellah12. Penso che, per dirlo in maniera più semplice, Chesterton abbia ragione su questo punto, quando dice che “mentre è Dio colui che fa i nostri vicini, siamo noi coloro che facciamo i nostri amici e i nostri nemici” (Heretics, XIV). Essere luoghi d’incontro imprevisto trasforma i mezzi di comunicazione in luoghi di carattere politico, non esattamente in istituzioni intermedie tra individuo e Stato, ma piuttosto in un “foro pubblico del povero”, nel quale –come dice Oldenburg- “la comparsa di qualsiasi abbozzo di gerarchia deriva dalla decenza umana”, ma mai dalla ricchezza, dal glamour, dall’aggressività o dall’intelligenza. E ci avviciniamo nuovamente all’idea di amicizia. Il nostro problema è che oggigiorno, quando nell’ambito pubblico vige il criterio del mercantilismo, i “terzi luoghi” smettono di essere ciò che viene descritto da Oldenburg, e si trasformano in qualcosa di simile a degli “shopping centers”, vale a dire, in luoghi “essenzialmente commerciali”. Forse il difetto delle nostre forme dominanti di comunicazione pubblica è che nascono con un’eccessiva zavorra d’interessi industriali e finanziari che le orienta ad una rendita a breve termine. Ciò significa, in un certo senso, che sono incapaci di sviluppare e di promuovere inequivocabilmente le pratiche di decenza proprie dei “terzi luoghi”, di per se stessi vicini all’idea di amicizia. Da questa prospettiva, è chiaro che –di per sé- i nuovi mezzi e le nuove pratiche professionali, incentrate su diversi usi di internet, sembrano maggiormente in grado di costruire un tessuto di relazioni più o meno stabili di solidarietà e di amicizia. Sono capaci di presentare progetti stabili e plurali di “colonizzazione” del nostro futuro, di ampliare orizzonti comuni come ambiti di crescente libertà d’azione. L’impegno, dice Hannah Arendt13, è qualcosa di affine all’amicizia, e consiste nella ferma capacità di possedere se stessi nel presente e di disporre di se stessi in una proiezione futura. Il tempo umano è propriamente l’ambito della crescita della capacità di acquisire (e non solo esercitare) abilità, come certamente direbbe Peter Geach. 2.2.2. La “Teoria dei giochi” è oggigiorno uno strumento quasi universalmente valido. Anche per considerare le azioni comunicative come possibili “giochi a somma positiva”, come sistemi di relazioni nei quali tutti i partecipanti vincono. Tali sono i mezzi di comunicazione, se vengono visti come “terzi luoghi”. Perché qualcuno vinca, nessuno deve perdere, come succede nelle competizioni sportive, o nelle elezioni politiche, per fare qualche esempio. Hangouts and How They Get You through the Day, Marlowe & Co., New York, 19972. 10 L. Scheer, La démocratie virtuelle, Flammarion, París, 1994. 11 C. Lasch, La rebelión de las elites, Paidós, Barcelona, 1996. 12 R. Bellah et alii, Habits of the Heart, University of California Press, Berkeley, 1985. 13 H. Arendt, “El pensar y las reflexiones morales”, in De la historia a la acción, Paidós, Barcelona, 1995, pp. 109-137. 7 Considerare i mezzi di comunicazione come “terzi luoghi” implica che la solidarietà e l’amicizia dei professionisti –se sono di natura genuina- portano con sé questa considerazione di “gioco a somma positiva”. In ogni collettività esistono due situazioni estreme stabili: la cooperazione o la diserzione generalizzate. Non voglio dire che attualmente la seconda tendenza è quella predominante. Credo che sia invece utile dire che, di fronte al dilemma di agire a proprio beneficio o a beneficio del bene comune, a giorno d’oggi le cose non sono propriamente definite con chiarezza, per lo meno nell’ambito professionale ed accademico della comunicazione pubblica. Gli studi sulla teoria dei giochi, applicati alla dinamica sociale, come quello di Glance e Huberman14 tra gli altri, mettono in risalto due osservazioni. Una, che esiste una legge, dettata quasi dal senso comune, che fa sì che i “disertori” che inizialmente cercano il proprio beneficio, tendono a cooperare proporzionalmente al numero dei cooperanti che effettivamente sono identificabili in quanto tali. La seconda osservazione rileva che nei grandi gruppi sociali “ciò che porta alla cooperazione è la presenza nella collettività di membri che hanno prospettive, motivi o orizzonti di lunga durata nei propri atteggiamenti, poiché queste persone sono le prime a cambiare dalla diserzione alla cooperazione. Gli altri gruppi seguono sistematicamente i primi”. Da questa prospettiva, dobbiamo dire con Leonardo Polo che “ci sono due modi di intendere la società: come un gioco a somma zero o come un gioco a somma positiva. Per gioco a somma zero si intende quel tipo di relazione umana nel quale, affinché qualcuno guadagni, un altro deve perdere. E’ la visione competitiva del gioco agonistico, tra opposti. (…) Il gioco sociale è un gioco nel quale tutti giocano e tutti guadagnano. Questa convinzione è alla base della appartenenza ad un gruppo sociale. Un essere umano appartiene ad un gruppo sociale se e fino a quando questo gruppo sociale ne trae beneficio, e viceversa. (…) Perché la società è un gioco a somma positiva e non un gioco a somma zero? La ragione è questa: la società è un sistema di cooperazione (…) La condizione umana è cooperante. L’uomo non entra nella società per essere preso a schiaffi o per essere lasciato in un angolo, ma per cooperare. Ogni volta che si verifica un deficit di cooperazione, bisogna protestare, e sforzarsi a correggerlo” 15. 3. L’amicizia, tendenza naturale alla cooperazione in comunicazione. L’amicizia, come tendenza sociale a “dare ciò che si è”, nel senso di “dare se stessi” e non solo “dare ciò che si ha” (questo sarebbe liberalità) può trovare il suo terreno di coltivazione nella società intesa come cooperazione. E il suo sviluppo entra a pieno titolo in questo gioco a somma positiva che culmina nella vita felice aristotelica, la vita dell’uomo buono circondato da amici, vale a dire, circondato dal riconoscimento e dall’amore dei più simili a lui in virtù, non necessariamente da tutti i suoi simili. Se non c’è amicizia, è possibile che il gioco sociale finisca per essere a somma zero (alcuni guadagnano, e per questo altri devono perdere), o anche a somma negativa (perdono tutti), quando la mancanza di solidarietà, la sfiducia e il “si salvi chi può” si instaurano come presupposto delle regole del gioco. Un amico è infinitamente di più di un alleato o di un compagno. Gli amici vengono descritti e rappresentati sempre insieme, con lo sguardo rivolto allo stesso interesse comune, alla stessa verità fattibile che forse altre persone non vedono ancora. Per questo C.S. Lewis afferma che “chi non va da nessuna parte non può avere compagni di viaggio” 16. Per N.S. Glance y B.A. Huberman, “The dynamics of Social Dilemmas”, Scientific American, march 1994, pp. 76-81. Leonardo Polo, Quién es el hombre, Rialp, Madrid, 1991, in particolare, "Las virtudes sociales", pp. 127-153. 16 C. S. Lewis, “La amistad” (pp. 69-102), in Los cuatro amores, Rialp, Madrid, 1991, p. 78. 14 15 8 questo accade anche che –avendo un fine comune- l’amicizia, a differenza del semplice cameratismo o “clubismo”, sia fonte di solidarietà e fiducia di intensità e estensione crescenti: “la vera amicizia è il meno geloso degli amori. Due amici si sentono felici quando un terzo si unisce a loro, e tre quando ne arriva un quarto, sempre che il nuovo arrivato sia qualificato per essere un vero amico. Possono allora dire, come dicono le anime benedette di Dante, ecco che giunge uno che aumenterà il nostro amore, perché in quest’amore condividere non è togliere” 17 . Non sembra tutto ciò un contesto –certamente ideale, ma in alcun modo utopico- per comprendere meglio le relazioni tra i mezzi di comunicazione e i gruppi sociali? Ad ogni modo, questo è il tipo di mutua relazione che i comunicatori e i loro interlocutori sociali –per dirla così- cercano di stabilire tra di loro. Se si accetta il parallelo delle relazioni d’amicizia tra i mezzi di comunicazione e le società, bisogna anche convenire sul fatto che l’amicizia non è strettamente necessaria alla mera sopravvivenza. Lewis lo spiega in questi termini: “l’amicizia non è indispensabile, come la filosofia, come l’arte, come lo stesso universo, perché Dio non aveva bisogno di creare. Non ha valore di sopravvivenza; è piuttosto una di quelle cose che danno valore alla sopravvivenza (…) Quando l’amicizia dà frutti che la comunità può utilizzare, lo fa accidentalmente, come con un sottoprodotto. I piccoli circoli di amici che voltano le spalle al “mondo” sono quelli che lo trasformano veramente. La matematica degli egiziani e dei babilonesi aveva un senso pratico e sociale, era al servizio dell’agricoltura e della magia; ma la matematica dei greci, praticata da amici nei momenti d’ozio, è stata molto più importante per noi”18. Non c’è dubbio che i mezzi di comunicazione e il loro uso sociale si pongono, la maggior parte delle volte, con un forte senso utilitario, o se si preferisce, con senso pratico sociale, inteso allo stile egizio e babilonese della matematica. E non precisamente allo stile ozioso e amichevole di coloro i quali –voltando le spalle al mondo- svilupparono la matematica greca. 3. L’opera poetica come testo ha come riferimento la persona. Se invece di parlare di matematica parliamo di comunicazione e di opere poetiche, è possibile continuare a seguire il ragionamento di Lewis riguardo al “voltare le spalle al mondo”, almeno nel senso di prescindere dalla utilità immediata. Credo che sia nota la posizione di Annah Arendt, secondo la quale “la persuasione e la violenza possono distruggere la verità, ma non possono sostituirla. E questo vale tanto per la verità razionale e religiosa, quanto –in maniera più evidente- per la verità di fatto. Considerare la politica dalla prospettiva della verità significa collocarsi al di fuori dell’ambito politico. Questa è la posizione di chi dice la verità. Posizione che si perde quando si cerca di interferire direttamente nelle questioni umane, ricorrendo al linguaggio della persuasione o della violenza (…) La posizione esterna all’ambito politico è chiaramente uno dei vari modi di essere solo. Importanti modi di dire la verità sono la solitudine del filosofo, l’isolamento dello scienziato e dell’artista, l’imparzialità dello storico e del giudice, 17 18 C. S. Lewis, “La amistad”, cit., p. 73. Ibid., pp. 80-81. 9 come pure l’imparzialità e l’indipendenza di chi indaga sui fatti, quella del testimone e del cronista” 19. Una volta segnalati i diversi tipi di solitudine di chi si appresta ad attenersi alla verità, che non sono tanto lontani da quel che sostiene Gadamer, Arendt osserva in un altro punto di questo stesso testo che: “Solo dove, per principio, una comunità si è imbarcata nella bugia organizzata, la sincerità in quanto tale, non sostenuta dalle forze deformanti del potere e degli interessi, può tramutarsi in un fattore politico di primaria importanza. Quando tutti mentono riguardo a cose importanti, chi dice la verità, lo sappia oppure no, ha cominciato ad agire. Si è impegnato in questioni politiche, dato che –nell’improbabile caso in cui sopravviva- ha fatto un primo passo verso il cambiamento del mondo” 20. “Voltare le spalle al mondo” è una qualità di relazione amichevole, non in quanto pretende di incontrare una vera spiegazione della realtà, ma in quanto pretende di farla vedere a coloro che non sono propriamente amici. Se la rigida argomentazione politica, di consistenza fondamentalmente retorica, riesce soltanto a dare verosimiglianza a ciò che si considera vero, rimane l’argomentazione poetica, che nei suoi tratti sostanziali non considera il mondo quale riferimento diretto e si dirige alle persone prendendole come proprio riferimento, nel nucleo della propria attività, nel lavorare facendo e rappresentando la verità dell’essere umano nel proprio lavoro di “mimesi di prassi”. A questo punto non è necessario giustificare –alla fine del percorso- il parallelo tra “l’autarchia dell’uomo buono” 21 (cosa che i viziosi non sono) e quella dell’opera poetica come “allos o heteros autos”, come pure l’idea di “philauthia” che possono condividere. Sarebbe stato forse più produttivo per sapere qualcosa di più sull’amicizia, ma avremmo appreso di meno sulla comunicazione pubblica. Penso che in questa sede basti ricordare che i testi poetici sono privi del riferimento estensivo empirico che posseggono gli enunciati assertivi nel linguaggio ordinario. Che questi testi assumono –problematizzando filosoficamente la comunicazione, come ricorda Ricoeur22- il compito di creare un nuovo riferimento, un mondo peculiare che ha un senso proprio. E questo senso proprio è qualcosa che appare soltanto nella “rifigurazione” se 1) esiste come qualcosa di assimilabile alla stabilità della “intentio operis” di Umberto Eco23, e 2) se c’è qualcuno che –senza appropriarsene come Richard Rorty24- è capace di attualizzarlo, confrontandolo con il 19 A. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, p. 71. Ibid., p. 61. 21 Cfr. Etica Nicomachea, IX, 9. Si veda Carla Danani, L’amicizia degli antichi, cit, p. 261ss., e anche i rinvii agli studi di S. Stern-Gillet, Aristotle’s Philosophy of Friendship, State of NY Press, Albany, 1995; e F. Wolff, L’ami paradoxal, in L’amitié, Autrement, Paris, 1995. 22 RICOEUR afferma che “problematizzare la comunicazione” è un compito proprio della filosofia. E la ragione è accettabile: perché “la comunicazione è in se stessa una trasgressione, se si intende nel senso proprio di superamento di un limite, o di una distanza che è in qualche modo insuperabile” [in Discours et communication, in La communication, Actes du XV Congrès de l’Association des Sociétés de Phliosophie de langue française, Montréal, 1971. (Montmorency, Montréal 1973, II, p. 25). Tratto da RICOEUR, Paul, Filosofia e linguaggio (a cura di JERVOLINO, D.), Ed. Guerini, Milano, 1994, p.XVII.]. 23 Eco rifiuta la posizione critica di RORTY che pretende che l’unica esistenza di un testo sia quella che offertale dalla catena di risposte che provoca, o –per dirlo con l’ironia di T. TODOROV- rifiuta che un testo sia solo “una specie di pic-nic in cui l’autore mette le parole e i lettori mettono il senso” (Cfr. ECO, Umberto, “Interpretation and History”, in COLLINI, Stefan (Ed.), Interpretation and Overinterpretation, Cambridge, 1996, p. 24). 24 RORTY sostiene che “a noi pragmatisti piace molto sfumare la distinzione tra il trovare un oggetto e il farlo”, (Cfr. RORTY, Richard, “The Pragmatist’s Progress”, in COLLINI, Stefan (Ed.), Interpretation and Overinterpretation, cit., pp. 97-106). Ma c’è una distanza, che conviene mantenere, tra la capacità di “comprendere” e quella di “appropriarsi” o “ridescrivere” quando ciò che è in gioco è il senso di una comunicazione dialogica o semi-dialogica, come quella che costituisce la lettura di un testo. Lo dice bene E. GOODHEART: “RORTY comprende i rischi della ridescrizione e cerca di ovviarli confinando questo compito all’interno del suo ambito privato. Ma come mette in rilievo la sua stessa 20 10 senso vitale, “come proposta di un mondo nel quale io –il lettore, lo spettatore- potrei vivere e progettare i miei propri poteri” 25. E potrei anche promettere e perdonare, come sostiene H. Arendt. Con la sospensione ludica dei “riferimenti che determinano l’esistenza attiva e preoccupata” 26, non rimangono in sospeso tutti i riferimenti finali. Questi ultimi sussistono attraverso la capacità e l’attualizzazione del soggetto di giungere all’incremento del proprio essere che “la comprensione di se stesso di fronte al testo” presuppone. Che è poi l’obiettivo dell’ermeneutica e delle scienze umane. E’ possibile considerare alcuni testi comunicativi, in particolare quelli sorretti da forti e stabili criteri poetici, come un alter ego delle persone. Si ha dunque l’amicizia tra persone e testi comunicativi. Anche se di solito succede solo in casi eccezionali. Credo che dovremmo terminare qui le nostre riflessioni sull’amicizia –emblema delle relazioni interpersonali- nel contesto della comunicazione pubblica, che –come abbiamo potuto vedere- tende a presentarsi solitamente, nonostante la forte dimensione poetica, più che come una genuina amicizia, nella maniera istituzionale retta dalla giustizia. Segno del fatto che le opere realmente poetiche sono eccezionali. Come lo sono gli amici simili in virtù. Segno anche del fatto che è auspicabile ampliare il circolo degli amici veri e la qualità delle opere poetiche. Tutto questo senza insistere sul fatto evidente che la comunicazione pubblica può avvicinarsi all’amicizia, andare al di là della mera giustizia, ma senza scavalcare quest’ultima. E’ questa l’idea che volevo trasmettere. Goethe affermava che “così come i silenzi formano parte del ritmo musicale, a pari diritto delle note, può accadere a volte che nell’amicizia sia utile stare un po’ zitti”. Credo che –nel mio caso- sia arrivato il momento di seguire il consiglio di Goethe, e di stare un po’ in silenzio. Grazie per la vostra amichevole attenzione. Juan José García-Noblejas Roma, 24 febbraio 2005 ------------------------------------------------------Pontificia Università della Santa Croce Facoltà di Filosofia XIII Convegno di Studio La necessità dell'amicizia "Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici" (Etica Nicomachea VIII, 1) " Roma, 24-25 febbraio 2005 pratica, la ridescrizione ha implicazioni pubbliche che sono potenzialmente coercitive. Il problema di RORTY aumenta con la sua identificazione della ridescrizione con la vita intellettuale. E una conversazione tra ridescrittori può essere come un dialogo tra sordi, che non è nessun tipo di dialogo reale. Come hanno sottolineato J. HABERMAS ed altri pensatori dell’Illuminismo, gli intellettuali hanno anche la capacità di ascoltarsi tra di loro, di rendere ciò che qualcun altro dice con termini propri e anche di cambiare di parere. La vita intellettuale è una tensione tra comprensione e appropriazione. Nella posizione di RORTY esiste solo l’appropriazione, vale a dire, la ridescrizione” (GOODHEARTH, Eugene, The Reign of Ideology, Columbia Un. Press, NY, 1997., p. 51). 25 RICOEUR, Paul, Tiempo y relato, I, cit., p. 122. 26 Cfr. GADAMER, Hans-Georg, Verdad y método, Ed. Sígueme, Salamanca, 1977, p. 144.