PREFAZIONE Uno degli effetti collaterali dell’attacco terroristico alla redazione di Charlie Hebdo è stato il dibattito che si è aperto in tutta Europa sulla libertà di espressione. Per la prima volta in molti anni ci si è seriamente chiesti se l’attuale disciplina del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero sia adeguata alle rapide trasformazioni che contraddistinguono il contesto sociale europeo. Alla moltitudine di persone che hanno inalberato la scritta “Je suis Charlie” per manifestare la solidarietà con le vittime si sono contrapposti altri che hanno replicato con lo slogan “Je ne suis pas Charlie”, per indicare che – pur condannando nei termini più fermi l’attentato – essi non si identificavano con i contenuti e le forme del materiale satirico pubblicato da questo settimanale. La satira di Charlie Hebdo è indirizzata in particolar modo contro le religioni (la copertina del primo numero del 2016 contiene una raffigurazione di Dio con le mani insanguinate ed un mitra sulle spalle, con la scritta “1 an après l’assassin court toujours”) ed è su questo terreno che la polemica è stata particolarmente vivace e ha alimentato interrogativi che hanno diviso l’opinione pubblica. Una vignetta che rappresenta il dogma della Trinità in termini di rapporti sodomitici tra Padre, Figlio e Spirito Santo oppure un’altra che contiene la scritta “Le Coran c’est de la merde” costituiscono una manifestazione del pensiero che è protetta dal diritto di libertà di espressione? Dove si colloca il confine che neppure questo diritto può valicare? Il libro di Cristiana Cianitto arriva dunque al momento giusto per cercare – se non di dare una risposta definitiva a questi interrogativi (nessuno è oggi in grado di farlo) – almeno di mettere un po’ d’ordine nell’analisi del problema, depurandolo delle sue pesanti incrostazioni ideologiche. Il suo primo merito è quello di mostrare che non esiste una risposta univoca alle crescenti tensioni tra libertà di espressione e libertà di religione e che la disciplina del rapporto tra queste due libertà affonda le sue radici nelle tradizioni culturali che contraddistinguono le diverse regioni del nostro XVII mondo. Certamente – e questo già si sapeva – esistono differenze importanti nella legislazione e giurisprudenza di ciascun paese, come è messo in luce nella comparazione tra il diritto italiano e quello britannico. Ma al di là di esse il libro pone in luce – e questo è un dato su cui non molti si sono soffermati fino ad ora – che esistono dei macro-modelli legislativi e giurisprudenziali corrispondenti alle diverse tradizioni culturali prevalenti nelle varie parti del mondo. Il libro di Cristiana Cianitto si sofferma su tre modelli, i più importanti e quelli a cui si riferisce il maggior numero di sistemi giuridici nazionali. Il primo di essi è quello statunitense, di un paese cioè che è tradizionalmente incline a privilegiare la libertà di espressione e quindi ad evitare qualsiasi limitazione finché la manifestazione del pensiero non concretizzi il pericolo della commissione di un reato. L’autrice pone esattamente in luce che “il Free Speech sta alla base della teoria liberale americana e dei diritti del singolo nei confronti del potere costituito” e sottolinea che, a partire da questa impostazione, “la libertà di parola del singolo può cedere davanti ad altri diritti costituzionalmente tutelati solo entro margini molto stretti”. In questa prospettiva si colloca la sentenza della Corte Suprema R.A.V. v. City of St. Paul che ha dichiarato illegittima la condanna di alcune persone che avevano bruciato una croce di fronte alla casa di una famiglia di colore seguendo un rituale che si ispirava chiaramente a quello del Ku Klux Kan. In questi casi non si può che concordare con l’autrice che si chiede come decisioni di questo tipo siano compatibili con “la dignità dei cittadini e il perseguimento della pace sociale attraverso la repressione delle condotte che ingenerano nella collettività, specie nelle minoranze, sentimenti di insicurezza e di mancata protezione da parte delle istituzioni”. All’estremo opposto si colloca il modello indiano che, per garantire la pace sociale e l’armonia tra le diverse comunità religiose, tende a limitare la manifestazione del pensiero ogni volta che il suo esercizio presenta il rischio di creare tensioni tra i diversi gruppi religiosi e culturali che vivono nel paese. Di conseguenza il diritto di libertà di espressione può essere limitato quando è assente non soltanto il concreto pericolo della commissione di un reato ma anche il fine di offendere o incitare all’odio verso una persona o un gruppo di persone a causa della religione che essi professano, della razza a cui appartengono, della casta di cui fanno parte. Un libro o un articolo di giornale che a giudizio delle autorità possa provocaXVIII re “disharmony or feeling of enmity, hatred or ill-will” fra i membri di differenti “religious, racial, language or regional groups or castes or communities” può essere ritirato dalla circolazione senza alcuna necessità di provare l’intento istigatorio del suo autore. Siamo assai lontani dagli Stati Uniti, non soltanto per la diversa ampiezza delle restrizioni alla libertà di espressione ma anche perché la tutela è in primo luogo garantita al gruppo anziché all’individuo. I due modelli riflettono profonde differenze storiche nel modo di gestire le diversità sociali, culturali e religiose: il melting pot statunitense prevede che le varie identità collettive che convivono nel paese si sciolgano e contribuiscano a creare un ethos condiviso, mentre il comunitarismo indiano tende a rispettarne e, in qualche misura, a irrigidirne le diversità. La maggior parte dei paesi europei segue una diversa strada che si colloca in posizione intermedia tra i due estremi ora identificati. Le legislazioni di quasi tutti gli Stati europei prevedono il reato di hate speech che limita le manifestazioni del pensiero che si traducano in espressioni offensive e/o incitino all’odio di una persona o un gruppo di persone identificati in ragione delle loro caratteristiche razziali, orientamenti sessuali, opinioni politiche, convinzioni religiose e di altri elementi ancora. A questo reato si aggiunge, in un numero limitato di paesi il reato di blasfemia, consistente nell’offesa rivolta ad una religione, direttamente o attraverso il medium dei suoi simboli, precetti, divinità, persone oggetto di venerazione. Mentre fino ad un recente passato questa tutela era assicurata soltanto alla religione che era professata dalla maggioranza dei cittadini di un paese, ora la stessa protezione tende ad essere garantita a tutte le religioni. Infine, in altri paesi, la sanzione penale contro gli hate speech si accompagna all’incriminazione delle manifestazioni di pensiero che, pur non essendo dirette contro una persona o un gruppo di persone, possano offenderne la sensibilità religiosa. Quest’ultima figura di reato è la più controversa perché, secondo alcuni, attraverso l’espressione generica e di difficile definizione di “sensibilità religiosa” essa finisce per tutelare la religione in se stessa, avvicinandosi alla fattispecie (altrettanto controversa) della diffamazione delle religioni. Decidere di imboccare una strada anziché le altre conduce ad esiti differenti. Le due vignette richiamate in apertura di questo scritto non sono incriminabili in base alle norme che puniscono gli hate speech perché non offendono direttamente una persona o un gruppo di persone; ma lo sarebbero in base ad una norma che tutelasse la sensibilità dei XIX fedeli di una religione, che difficilmente potrebbero non sentirsi offesi da simili raffigurazioni della divinità o di testi sacri. Il dibattito seguito al massacro dei redattori di Charlie Hebdo non ha in realtà portato ad alcuna soluzione e neppure a proposte che abbiano riscosso un significativo grado di consenso. Vi è però la diffusa sensazione che sia necessario riflettere più a fondo sulla funzione della libertà di espressione in una società democratica e recuperare il senso del richiamo ad un esercizio responsabile di questo diritto contenuto nell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le due vignette in questione sono state difese con l’argomento che, soprattutto quando si parla di satira, espressioni forti, violente, che esasperano il contenuto di un messaggio, rientrano comunque nel diritto di esprimere il proprio pensiero. Almeno in questi casi, però, i limiti che circondano l’esercizio di questo diritto, come di ogni altro diritto, andrebbero attentamente valutati. Se le modalità utilizzate per esporre il mio pensiero si traducono in un insulto gratuito delle convinzioni che animano altre persone è lecito chiedersi se tutto ciò giovi allo sviluppo di una società democratica. Questo è un altro punto che il libro di Cristiana Cianitto ha il merito di porre esattamente in luce. La crescente diversità culturale e religiosa dell’Europa, frutto di processi che hanno la loro origine sia all’interno che all’esterno del Vecchio Continente, richiede di riconsiderare il significato di espressioni come “doveri e responsabilità” e “misure necessarie in una società democratica” contenute nell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Queste responsabilità e queste misure, infatti, assumono significati e contenuti nuovi nel panorama culturale, sociale e religioso dell’Europa contemporanea. Nessuno, sia chiaro, intende ripristinare qualcosa che assomigli anche lontanamente a forme di censura verso cui probabilmente ci condurrebbe la reintroduzione dei reati di blasfemia e di offesa della “sensibilità religiosa” delle persone. Fermo restando che in una democrazia liberale è difficile prevedere una tutela speciale per la religione, la strada più promettente potrebbe essere quella che non va verso la protezione della persona o del gruppo di persone offesi da una manifestazione del pensiero ma che conduce a riconsiderare i limiti intrinseci a questa manifestazione. In questa prospettiva l’oggetto della attenzione del legislatore e della valutazione del giudice non è la violazione della sensibilità religiosa ma, a prescindere da questa, la violazione delle regole che presiedono alXX l’esercizio della libertà di espressione. In qualunque campo venga esercitato, il diritto di libertà di espressione va esercitato responsabilmente: bruciare una copia del Corano (o della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo) non è un modo responsabile di manifestare la propria convinzione che il contenuto del Corano (o della Dichiarazione universale) sia socialmente dannoso. Limitare queste manifestazioni della libertà di espressione non è contrario bensì è funzionale allo sviluppo di una società democratica, in cui il confronto – anche acceso – tra le differenti convinzioni politiche, religiose, culturali esistenti all’interno del corpus sociale si deve sempre svolgere in maniera rispettosa delle persone che sono animate da queste convinzioni. In questa prospettiva non si può che essere d’accordo, ancora una volta, con le conclusioni dell’autrice di questo libro, quando sottolinea che “il riferimento ai doveri e responsabilità inerenti all’esercizio del diritto di libertà di espressione (art. 10 CEDU) e l’affermazione dell’inviolabilità della dignità umana contenuta nell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” vanno coordinati poiché “i doveri e le responsabilità che la libertà di espressione porta con sé esprimono il rispetto della dignità umana che è il principio interpretativo forte dei diritti fondamentali sanciti in queste norme”. Questi sono i problemi che Cristiana Cianitto affronta attraverso un’analisi di ampio respiro ma al tempo stesso di grande rigore tecnico, capace di affrontare in modo chiaro e con proposte concrete problematiche nuove, diverse e complesse. Un libro che arricchisce con una dimensione realmente globale le ricerche che sono state dedicate a questo tema con riferimento alla legislazione e giurisprudenza di alcuni Stati europei e della Corte europea dei diritti dell’uomo, mostrando con assoluta chiarezza la necessità di superare i confini del Vecchio Continente e di spingersi non solo al di là dell’Atlantico ma anche in direzione dei paesi dell’Asia, che tanta importanza hanno assunto sul terreno dell’economia e molto probabilmente assumeranno su quello della cultura e del diritto. SILVIO FERRARI XXI SEZIONE I LA TUTELA DELLE RELIGIONI E DIRITTO PENALE. RIFLESSIONI SULL’EVOLUZIONE STORICA E GIURIDICA DEI REATI DI BLASFEMIA E INCITAMENTO ALL’ODIO RELIGIOSO 1 INTRODUZIONE I dati forniti dal Pew Research Center indicano che nel mondo contemporaneo l’84% della popolazione professa una religione. La grande maggioranza degli abitanti del nostro pianeta, dunque, si riconosce in forme e modi diversi in una comunità religiosa. Il 32.2% dei componenti di questo gruppo si dichiarano cristiani, il 23% musulmani, il 15% indù, il 7% buddisti, il 6% si riconoscono nelle cosiddette folk religions e solo lo 0.2% fa riferimento all’ebraismo. Il rimanente 16% si dichiara non affiliato ad alcun gruppo religioso e costituisce pertanto il terzo gruppo in ordine di grandezza dopo quello dei cristiani e dei musulmani. La distribuzione geografica dei membri di queste religioni non è omogenea. I cristiani costituiscono il gruppo maggiormente distribuito su tutto il globo, poiché sono presenti più o meno in egual percentuale in Europa (24%), in Sud America/Caraibi (26%) e nell’Africa Sub-sahariana (24%). I musulmani nel mondo sono invece prevalentemente concentrati in Asia (62%), e in minor misura in Nord Africa/Medioriente (20%) e nell’Africa Sub-sahariana (16%). Le persone che non si riconoscono in alcuna religione sono prevalentemente presenti in Cina e in Asia (76%) 1, contrariamente alla diffusa opinione che esse siano soprattutto concentrate in quelle parti del mondo, come l’Europa o gli Stati Uniti, dove il processo di secolarizzazione ha avuto maggiore sviluppo. Se si incrociano le cifre ora indicate con i tassi di fertilità dei diversi gruppi religiosi e con i dati relativi ai processi migratori, emerge un quadro che lascia intuire come il futuro del globo vada verso una sempre più marcata presenza di persone che aderiscono ad una religione. Più precisamente le proiezioni effettuate dal Pew Forum 2 1 I dati fin qui utilizzati sono tratti da PEW RESEARCH CENTER, The Global Religious Landscape, 2012, in www.pewforum.org. 2 I dati sulle proiezioni a lungo termine sono tratti da PEW RESEARCH CENTER, 3 mostrano che sulla base della distribuzione geografica dei diversi gruppi religiosi, dell’età media degli affiliati, dei tassi di fertilità e mortalità, nonché dei flussi migratori e delle possibilità di conversione, la comunità religiosa destinata a crescere più rapidamente è quella dei musulmani, il cui tasso di natalità si attesterà intorno al 73% (ben due volte quello medio della popolazione mondiale, stimato attorno al 35%). Di conseguenza entro il 2050 i musulmani saranno altrettanto numerosi dei cristiani e costituiranno il 10% della popolazione europea. Importanti cambiamenti interverranno anche all’interno del cristianesimo: i cristiani negli Stati Uniti passeranno dai tre quarti ai due terzi della popolazione, mentre 4 cristiani su 10 risiederanno nell’Africa Sub-sahariana. La parte della popolazione mondiale che non si identifica con alcuna religione, pur aumentando di numero in termini assoluti, è destinata a ridurre il proprio peso percentuale a causa dell’elevata età media degli appartenenti e del conseguente basso indice di natalità, dovuto anche alla concentrazione dei propri membri in aree del globo con un tasso di crescita demografica basso (Stati Uniti, Europa, Cina e Giappone) 3. Lo scenario che si profila, quindi, è quello di un mondo abitato da una popolazione sempre più «religiosa», pur con tutte le cautele ed i «distinguo» che debbono accompagnare questa definizione. Non lascia quindi sorpresi che la crescita della presenza della religione nello spazio pubblico vada di pari passo con l’incremento di tensioni e conflitti in qualche modo legati alla religione. Il recente rapporto del Pew Reserach Center 4 indica come i conflitti sociali a sfondo religioso siano una costante in quasi tutte le regioni del globo, anche se tra il 2012 e il 2013 il Social Hostilities Index 5 è lievemente calato passando dal 33% del 2012 al 27% del The Future of World Religions: Population Growth Projections 2010-2050, 2015, in www.pewforum.org. 3 Per approfondimenti sul tema si rinvia a P. JENKINS, The Next Christendom: The Coming of Global Christianity, Oxford, Oxford University Press, 2011. L’A. nel suo testo precede lo studio quantitativo del Pew Research Center ipotizzando un futuro in Africa per le religioni cristiane e identificando nell’Islam la religione delle prossime generazioni in relazione ai tassi di crescita demografica. 4 Si veda PEW RESEARCH CENTER, Latest Trends in Religious Restrictions and Hostilities, 2015, in www.pewforum.org, p. 4. 5 Ibidem, p. 6. Il Social Hostilities Index misura la conflittualità religiosa a livello sociale, cioè gli atti di intolleranza religiosa, di discriminazione e di violenza 4 2013. I cristiani (nel 52% degli Stati) e i musulmani (nel 50% degli Stati) sono tra i gruppi religiosi ugualmente discriminati nel mondo, sia ad opera dei governi sia di soggetti privati sia di gruppi più o meno organizzati 6. In particolare la situazione europea rivela come l’antisemitismo sia ancora un problema nel 76% degli stati, di pari passo con le discriminazioni a carico dei musulmani che rappresentano il 71% degli episodi di intolleranza. Vi è poi da rilevare come non siano infrequenti le molestie a carico delle donne a causa dell’abbigliamento religioso (42%) a testimonianza di come problemi, quali quello del «velo islamico», siano stati tutt’altro che risolti attraverso le recenti normative introdotte in molti Stati europei 7. Questa tendenza è stata evidenziata anche dal rapporto EU-MIDIS 8 sulla discriminazione delle minoranze, che evidenzia come gran parte degli immigrati in Europa provenienti sia da paesi CEE (Romania, Albania, Polonia), sia dal Nord Africa e dall’Africa Sub-sahariana lamentino di aver subito aggressioni a sfondo etnico o razziale in cui era presente un linguaggio offensivo determinato anche da motivi religiosi. Benché nelle statistiche su cui è basato il rapporto EU-MIDIS sia difficile separare il dato etnico da quello più specificamente religioso (non si dispone infatti dei dati disaggregati), risulta chiaro che l’impronta sempre più multiculturale e religiosa della società europea, e occidentale in generale, è un dato che i governi non possono più ignorare, se non altro per le tensioni ed i conflitti che sono connessi a questa trasformazione. posti in essere da privati o da gruppi più o meno organizzati, spesso a danni di minoranze religiose, nonché atti di terrorismo motivati da odio religioso. 6 Ibidem, p. 5. 7 Ibidem, pp. 28-29. 8 Si veda EU-MIDIS European Union Minorities and Discrimination Survey (Main Results Report) 2009, in http://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/ 663-FRA-2011_EU_MIDIS_EN.pdf. Nel rapporto la maggior parte delle vittime intervistate ha dichiarato di aver percepito motivazioni etniche o razziali nei fatti di cui sono state fatte oggetto, motivazioni a cui sono state associate espressioni offensive su base etnica o religiosa. In particolare si sono così espressi il 73% degli Africani sub-sahariani, il 41% degli immigrati CEE (rumeni, albanesi, polacchi), il 51% degli ex-jugoslavi, il 47% dei Nord Africani, il 67% dei Rom, il 32% dei Russi e il 58% dei Turchi. Per un commento generale al rapporto si veda S. ANGELETTI, Discriminazioni per motivi religiosi nell’ambito lavorativo: una breve analisi dei dati elaborati dall’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, in QDPE, 1/2013, pp. 19-28. 5 I cambiamenti che sono stati sommariamente indicati nelle pagine precedenti pongono un problema di libertà religiosa. Nonostante le molteplici affermazioni contenute nelle carte internazionali a tutela di questo diritto e nonostante l’attività di vari organismi che a diversi livelli si battono per il suo rispetto, la libertà religiosa è oggetto di restrizioni praticamente ovunque nel mondo, anche in Europa e negli Stati Uniti, dove meno si è inclini a pensare che questo diritto venga compresso. Su scala globale ben il 27% dei governi degli Stati del mondo (Goverment Restriction Index – GRI 9) attua politiche restrittive della libertà religiosa, con un lieve decremento rispetto al 2012 dove la percentuale si attestava intorno al 29%. Se si mette in relazione questo dato con quello sui conflitti sociali per motivi religiosi (Social Hostilities Index – SHI), la percentuale globale degli Stati dove la libertà religiosa è oggetto di restrizioni a vario titolo si attesta al 39% nel 2013 contro il 43% del 2012 10. Analizzando i dati del rapporto in relazione alla discriminazione di specifici gruppi religiosi, si scopre che gli ebrei sono ancora socialmente discriminati in molti Stati del mondo (72), mentre solo pochi governi (39) impongono loro misure restrittive della libertà religiosa. Al contrario cristiani e musulmani conoscono una tendenza opposta 11, soffrendo maggiori restrizioni statali, ma globalmente meno ostilità sociale. Se poi si leggono i dati relativi alle diverse macroaree nel mondo, posto un GRI medio mondiale del 2.4% nel 2013, la media europea di restrizioni governative si attesta al 2.5%, contro la media delle Americhe ferma a 1.5% e quella dell’Africa Sub-sahariana a 1.6%. La media dell’area mediorientale e nordafricana è la più alta con il 6%, seguita da quell’Asia e Pacifico al 4.2%. In ogni caso, il trend dal 2007 al 2013 si presenta sostanzialmente in crescita in tutte le aree. Il SHI medio mondiale è 1.6% nel 2013, quello europeo si attesta al 2.3% appena poco superiore a quello dell’Asia e Pacifico (2.2%). Notevolmente più basso è il tasso di conflittualità 9 Il Government Restriction Index rileva in quale misura le leggi di uno Stato, le politiche e le azioni governative incidono sulla libertà religiosa. In particolare si tiene conto di trattamenti preferenziali solo per determinati gruppi religiosi, proibizione delle conversioni, restrizioni sull’uso di simboli religiosi. Si veda PEW RESEARCH CENTER, Latest Trends, cit., p. 6. 6 10 Ibidem, p. 4. 11 Ibidem, pp. 17-18. sociale religiosamente connotata delle Americhe (0.1%) e dell’Africa Sub-sahariana (1.3%), mentre il più alto tasso di conflitti si registra nell’area mediorientale/nordafricana che si attesta al 5.8%. In questo caso l’andamento dal 2007 al 2013 è più discontinuo e soggetto a picchi e bruschi decrementi 12. Nonostante ciò, si può rilevare come, almeno in relazione alle macroaree, sembra sussistere una correlazione tra alti livelli di restrizioni governative e alti livelli di conflittualità sociale in relazione al fenomeno religioso, a conferma che, perlomeno sotto il profilo quantitativo, l’adozione di misure restrittive della libertà religiosa non appare proficua per favorire la sicurezza sociale e il progresso civile 13. Le violazioni del diritto di libertà religiosa sono dunque in aumento in tutto il mondo. Le cause di questo incremento sono molteplici e complesse e non è questo il luogo per analizzarle in dettaglio. Esse però pongono un interrogativo che è direttamente connesso al tema di questo libro. È compito degli ordinamenti giuridici nazionali (e di quello internazionale) proteggere la religione? La religione (o, se si vuole declinare la domanda al plurale, le religioni) richiedono una tutela speciale, diversa e più intensa di quella che il diritto assicura ad altre manifestazioni dello spirito umano 14? Non sono di certo interrogativi nuovi. La religione è sempre stata oggetto (e continua ad esserlo) di una protezione particolare da parte degli ordinamenti giuridici statali, ma nel mondo occidentale le forme ed i contenuti di questa protezioni sono profondamente mutati. Per secoli la tutela dell’ordinamento giuridico è stata accordata ad una sola religione, quella della maggioranza della popolazione, mentre tutte le altre religioni, anche quando non erano oggetto di misure ostili, non godevano dello stesso grado di libertà della prima. Soltanto in tempi relativamente recenti si è fatta strada l’idea che ad ogni comunità religiosa – non importa se 12 Ibidem, p. 22 ss. 13 Per alcuni studi approfonditi in materia si rinvia a B.J. GRIM, Growing religion and growing religious restrictions: A global overview, in International Area Studies Review, 17/2014, pp. 134-145; B.J. GRIM, Religion, Law and Social Conflict in the 21st Century: Findings from Sociological Research, in Oxford Journal of Law and Religion, 2012, pp. 1-23. 14 Per approfondimenti sul dibattito sul tema negli Stati Uniti si rinvia a A. KOPDefending American Religious Neutrality, Cambridge, Harvard University Press, 2013. PELMAN, 7 piccola, recente ed impopolare – dovesse essere assicurata la stessa protezione giuridica, almeno finché non fossero violati l’ordine e la morale pubblica ed i diritti delle altre persone. Se alla prima fase era sottesa l’idea che la protezione limitata alla sola religione di maggioranza, rafforzando l’identità comune di una popolazione, fosse la maniera migliore per assicurare la stabilità e la coesione sociale, al secondo periodo corrisponde l’idea che la protezione estesa a tutte le religioni sia la strada più opportuna per garantire il pluralismo sociale e la democrazia politica. In questa prospettiva muta il modo stesso in cui l’ordinamento giuridico considera il rapporto tra minoranze e maggioranze religiose: la dignità ontologica della tutela che va accordata al fenomeno religioso, sia esso di maggioranza o di minoranza, è la medesima, mentre la differenza numerica può assumere rilievo soltanto in relazione alle azioni positive che i governi pongono in essere nei diversi contesti sociali per garantirne l’effettività. A questo passaggio dalla protezione della religione di maggioranza alla protezione di tutte le religioni (un passaggio ancora largamente incompiuto negli stessi paesi occidentali a cui ci si riferisce in queste pagine) corrisponde una parallela trasformazione delle modalità con cui viene inteso e regolato il diritto di libertà religiosa. Per secoli era prevalsa una concezione istituzionale della libertà religiosa, che ne individuava il nocciolo nella libertà della Chiesa e delle sue istituzioni nei confronti del potere politico, di volta in volta impersonato dall’imperatore, dal sovrano o, da ultimo, dallo Stato. In tempi più recenti si afferma con maggiore vigore la dimensione individuale del diritto di libertà religiosa, sicché la protezione della religione in epoca contemporanea coincide sempre più con la protezione stessa della dignità dell’individuo. Questo ultimo aspetto è evidente nella forma che la tutela della libertà di religione assume nelle dichiarazioni e convenzioni internazionali che si susseguono dopo la seconda guerra mondiale. Dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 in poi esse spostano il baricentro della tutela dalla religione alla tutela delle persone che professano una religione. Ciò che viene protetto è il diritto alla libertà religiosa degli individui e, in misura più limitata, delle collettività: la protezione offerta dall’ordinamento giuridico al contenuto dottrinale ed alla struttura organizzativa di una religione è subordinata e funzionale a questo fine. Questo mutamento di prospettiva, che è sufficientemente chiaro nelle dichiarazioni e convenzioni universali (come il Patto Inter8 nazionale sui diritti civili e politici e la Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme di intolleranza religiosa e delle discriminazioni in base alla religione o al credo) è invece più incerto nei testi a carattere regionale. Se, infatti, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo 15 del 1955 e la Carta di Nizza 16 del 2000 sono sostanzialmente allineate nella forma delle enunciazioni e nella sostanza dei principi con la Dichiarazione Universale di Diritti dell’Uomo ed il Patto Internazionale sui diritti civili e politici, minore uniformità è rilevabile nelle norme sulla libertà di religione contenute nella Universal Islamic Declaration of Human Rights 17 del 1981, nella Cairo Declaration on Human Rights in Islam 18 del 1990, nell’Arab Charter on Human Rights 19 del 1994 e nella (Revised) Arab Charter on Human Rights 20 del 2004. Tutti questi documenti, pur muovendo dai principi espressi nella Carta del 1948 delle Nazioni Unite, subordinano la libertà di religione al rispetto della legge religiosa (nel caso specifico la shari’a). È questa la spia di una differenza profonda nel modo di intendere il diritto di libertà religiosa e di un conflitto che non appare di facile soluzione. Il dibattito sulla diffamazione delle religioni che ha impegnato il Committee of Human Rights delle Nazioni Unite per circa un decennio è stato alimentato proprio da questa diversità. Le stesse differenze che si riscontrano nelle norme sulla libertà religiosa contenute nelle dichiarazioni e convenzioni internazionali a carattere regionale ritornano nelle costituzioni e nelle leggi nazionali. In alcuni casi queste differenze emergono con grande nettezza, come nelle disposizioni relative alla apostasia, alla blasfemia ed al proselitismo che, abbandonate in quasi tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati occidentali, sopravvivono in quelli di alcuni paesi a maggioranza musulmana. In altri casi esse sono meno evidenti ma non per questo prive di importanza. Si pensi, per rimanere al tema di questo libro, all’International Covenant on Civil and Political Rights del 1966 che vincola gli Stati firmatari ad emanare una complessa legislazione attuativa del divieto di discri15 Cfr. art. 9. 16 Cfr. art. 10. 17 Cfr. artt. XII, XIII. 18 Cfr. artt. 10, 22. 19 Cfr. artt. 26, 27. 20 Cfr. artt. 30, 32. 9 minazione per motivi religiosi e ad introdurre sistemi di contrasto alla diffusione di hate crime e hate speech. Questo patto 21, infatti, pur essendo stato firmato da molti paesi a maggioranza musulmana, conosce un’applicazione differente a seconda delle legislazioni nazionali di riferimento. Mentre la sua attuazione in Occidente ha determinato un progressivo adeguamento dei diritti nazionali alle previsioni del diritto internazionale, nei paesi musulmani la normativa convenzionale viene filtrata in maniera più consistente dagli ordinamenti giuridici locali interrompendo, o comunque limitando fortemente, il processo di adeguamento del diritto nazionale a quello internazionale. Le differenze nella maniera di intendere e disciplinare il diritto di libertà religiosa (di cui quelle che intercorrono tra paesi occidentali e paesi musulmani sono un esempio, ma non l’unico esempio possibile) si riflettono ovviamente anche sul modo di intendere e disciplinare il rapporto tra libertà di religione e libertà di espressione. Nel mondo occidentale la tutela penale della religione e delle persone che professano una religione si è ormai attestata sul ridimensionamento o sul definitivo abbandono del reato di blasfemia con l’obiettivo di dare maggior risalto alla tutela delle libertà del singolo e, in particolare, della libera espressione del pensiero. Nel mondo musulmano, la situazione è diversa poiché il contenuto ed i limiti del diritto di libertà religiosa vengono interpretati alla luce della legge sacra. Ciò fa sì che la blasfemia costituisca un argine invalicabile per la libera espressione del pensiero. Sarebbe tuttavia errato concentrare l’attenzione esclusivamente sulle differenze tra paesi occidentali e paesi a maggioranza musulmana. Su di esse ci si è soffermati per chiarire che la nozione di libertà religiosa e la disciplina giuridica del diritto ad essa corrispettivo sono lontane dall’essere uniformi nelle diverse regioni geografiche e culturali del mondo. Ma differenze altrettanto profonde intercorrono all’interno dell’Occidente. Esse emergono nel confronto tra la disciplina repressiva dell’incitamento all’odio religioso in vigore negli Stati Uniti da un lato e nei paesi europei dall’altro, con i primi disposti a sacrificare (almeno in parte) il diritto di libertà religiosa per garantire il diritto di libertà d’espressione ed i secondi più in21 L’International Covenant on Civil and Political Rights del 1966, insieme con l’International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights del 1966 e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, costituisce l’International Bill of Human Rights. 10 clini a limitare quest’ultimo diritto tutte le volte che la manifestazione del pensiero assume le forme dell’hate speech. A sua volta la disciplina giuridica in vigore in India si stacca tanto dal primo quanto dal secondo modello, assumendo come criterio ispiratore della normativa la garanzia dell’armonia sociale e della pace interreligiosa. L’attenzione suscitata nell’opinione pubblica e nei mass media dai conflitti che, in materia di libertà di religione, contrappongono Stati occidentali e Stati musulmani non deve fare credere che il problema sia circoscritto a questi paesi. Si tratta invece di un fenomeno globale che segnala come la disciplina giuridica della libertà di religione sia oggi al centro di tensioni che non soltanto dividono le differenti tradizioni culturali e giuridiche del mondo ma che attraversano ciascuna di esse. La regolazione giuridica del rapporto tra libertà di religione e libertà di espressione e dei conflitti che ruotano attorno ad esso dipendono, quindi, da come ogni ordinamento interpreta questi due diritti fondamentali della persona umana. In alcune parti del mondo tanto il diritto di libertà religiosa quanto quello di libertà di espressione sono sottoposti a rigide limitazioni: è una soluzione che non solo è antitetica alle regole della convivenza democratica ma anche incapace di generare coesione e pace sociale, se è vero che proprio in queste parti del mondo la conflittualità religiosamente motivata è più forte. Ma anche in Europa, dove le restrizioni all’esercizio della libertà di religione e di espressione sono molto più ridotte, il risultato è tutt’altro che soddisfacente. Soltanto nell’ultimo decennio, e per limitarsi soltanto ai casi di cronaca più salienti, il conflitto tra libertà di espressione e libertà di religione ha fornito la cornice concettuale entro cui sono stati collocati ed interpretati i casi del film Submission, costato la vita al regista olandese Theo Van Gogh nel 2004, delle vignette danesi pubblicate dallo Jylland Posten a cavallo tra il 2005 e il 2006, del film pubblicato on line «L’innocenza di Maometto» nel 2012, e dell’attentato alla redazione del giornale satirico parigino Charlie Hebdo nel 2015. A partire da questi casi è lecito domandarsi se la chiave interpretativa fornita dal conflitto tra due libertà fondamentali – quella di religione e quella di espressione – costituisca lo strumento migliore per comprendere e regolare le esigenze dei fedeli di una religione che richiedono di non essere gratuitamente offesi nelle proprie convinzioni, da un lato, e le domande dei cittadini di potere esprimere liberamente le proprie opinioni anche sui temi più delicati, sensibili e controversi. Il semplice fatto che le persone che si trova11 no nell’uno e nell’altro campo siano nello stesso tempo cittadini di uno Stato e fedeli di una religione indica che qualcosa non funziona nell’ingranaggio giuridico che dovrebbe prevenire l’insorgere di questi conflitti. È possibile, anzi probabile, che il diritto non costituisca lo strumento migliore per risolvere tensioni e contrasti di questo tipo. Ma ciò non toglie che i giuristi abbiano la responsabilità di offrire il proprio – per quanto intrinsecamente limitato – contributo. Ciò significa analizzare l’evoluzione della tutela penale della religione e delle persone che professano una religione, valutare gli odierni modelli di riferimento e verificarne il grado di operatività e di efficienza. Una volta compiuto questo lavoro nella prima parte del presente scritto, verranno presi in considerazione alcuni ordinamenti giuridici per verificare concretamente, attraverso un analitico esame legislativo e giurisprudenziale, la disciplina vigente in materia di reati caratterizzati dall’odio religioso, hate crime, e dei discorsi di odio, hate speech. Tutto ciò nella convinzione che non vi sia una sola strada per affrontare i problemi posti da questi reati ma che esistano percorsi diversi: ciascuno di essi può essere meglio rispondente di altri al contesto culturale di un paese, ma tutti debbono rispettare un principio comune che è costituito dalla dignità della persona umana. 12