IL VALORE DELLA VITA - LUISS University Press

Maffettone 04:Copertina
11-05-2016
17:45
SEBASTIANO MAFFETTONE
“Una vita non esaminata non è degna d’essere vissuta”
socrate
luissuniversitypress.it
IL VALORE DELLA VITA
Sebastiano Maffettone, ideatore del concetto
di “etica pubblica" e studioso del pensiero di
John Rawls, ha insegnato nelle più prestigiose università mondiali, tra cui Harvard, London School of Economics, Delhi University e
Sciences Po. È Professore di Filosofia politica
alla LUISS Guido Carli, dove dirige il Center
for Ethics and Global Politics. Autore di numerosi volumi e saggi sia specialistici che divulgativi, per LUISS University Press ha già
pubblicato Un mondo migliore. Giustizia globale tra Leviatano e Cosmopoli (2014) e Filosofia politica. Una piccola introduzione (2016).
Pagina 1
SEBASTIANO MAFFETTONE
IL VALORE
DELLA VITA
COSA CONTA DAVVERO
E PERCHÉ
In copertina:
Bertel Thorvaldsen
The Ages of Love, 1824
Thorvaldsens Museum
www.thorvaldsensmuseum.dk
€ 16,00
Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1910, a più
di ottantadue anni, Lev Tolstoj lasciò la sua
casa di Jasnaja Poljana. Dopo una fuga di quattro giorni, egli si ammalò e, costretto a fermarsi
alla stazione di Astapovo, vi morì la mattina
del 7 novembre.
Cosa aveva spinto il grande romanziere a un
gesto in apparenza tanto sconsiderato? Forse
la stessa ansia di vivere della giovane Anna Karenina, o forse la ricerca della solitudine che,
come aveva lasciato scritto alla moglie, gli sarebbe stata indispensabile per guardare indietro alla sua vita e forse accorgersi, come il
suo Ivan Il’ič, che “non era stata come doveva”.
Ma come deve essere una vita? Cosa conta davvero nell’arco della nostra esistenza? E se la
grande letteratura, da Omero a Shakespeare,
da Tolstoj e Dostoevskij a Beckett, ha affrontato più volte la questione del valore della vita
e del senso dell’essere, forse più difficile è il
compito di chi intende cercare una risposta
muovendo da una prospettiva e da interessi intellettuali diversi. In altre parole, di chi intende
discutere di tali questioni nell’orizzonte di scelte pubbliche di natura morale. In questo saggio Sebastiano Maffettone tenta, assumendo
un punto di vista filosofico laico e pluralista,
l’analisi di questioni spesso curiosamente trascurate dalla filosofia occidentale. costruendo una teoria del valore della vita che possa
servire per valutare la nostra stessa esistenza.
Sebastiano Maffettone
Il valore della vita
Cosa conta davvero e perché
Per la presente edizione italiana
© 2016 Sebastiano Maffettone
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-6105-238-3
LUISS University Press
Viale Pola 12
00198 Roma
Tel. 06 85225485
E-mail [email protected]
www.luissuniversitypress.it
Editing Spell s.r.l.
Progetto grafico e impaginazione HaunagDesign
Questo libro è stato composto in ITC Charter
e stampato su carta Favini Shiro Eco White da 80gr
presso Geca Industrie Grafiche
Via Monferrato 54, 20098 San Giuliano Milanese (Milano)
Finito di stampare: maggio 2016
Indice
Prefazione ..........................................................................pag.
ix
Introduzione ...........................................................................“
1
parte prima............................................................................“
17
capitolo primo
Una scelta cruciale ..............................................................“
1.1 Una neonata anancefalica.............................................“
1.2 Una fine difficile ............................................................“
1.3 Una fuga imprevedibile .................................................“
1.4 Filosofie della vita .........................................................“
1.5 Il vitalismo di Nietzsche ................................................“
1.6 Una sola questione con due soluzioni diverse ................“
1.7 Alla ricerca di un argomento sul valore della vita...........“
19
19
23
26
29
35
43
48
capitolo secondo
Il concetto di vita ................................................................“ 51
2.1 Diversi modi di riferirsi alla vita ....................................“ 52
2.2 Una metrica per la vita ..................................................“ 53
2.3 Rispetto per la vita ........................................................“ 55
2.4 La teleologia improbabile di Hans Jonas........................“ 59
2.5 La tutela della vita comune............................................“ 62
2.6 Un cerchio che si allarga (1): la vita vegetale .................“ 66
2.7 Le conseguenze etiche del biocentrismo ........................“ 69
2.8 Un cerchio che si allarga (2): la vita animale .................“ 75
2.9 Si può parlare di valore economico della vita? ...............“ 79
2.10 La visione religiosa......................................................“ 87
2.11 La concezione scientifica della vita ..............................“ 94
2.12 Ricapitolando..............................................................“ 105
vi
il valore della vita
parte seconda ..................................................................pag. 109
capitolo terzo
Etica e valore ......................................................................“
3.1 La natura del valore ......................................................“
3.2 Il dilemma etico ............................................................“
3.3 La natura della morale ..................................................“
3.4 Sulla struttura delle teorie morali..................................“
3.5 Alcune distinzioni significative ......................................“
3.6 Raccomandazioni di metodo .........................................“
3.7 Principali teorie morali..................................................“
3.8 La nozione di giustificazione .........................................“
3.9 Il concetto di valore.......................................................“
3.10 Una posizione sul valore..............................................“
3.11 Teoria del valore e valore della vita .............................“
113
113
116
120
122
125
129
132
135
138
141
151
capitolo quarto
Bioetica...............................................................................“
4.1 Le origini ......................................................................“
4.2 Alcuni casi significativi ..................................................“
4.3 La natura del dilemma ..................................................“
4.4 Bioetica tra politica e metafisica ....................................“
4.5 Bioetica e politica ..........................................................“
4.6 Bioetica liberale (1).......................................................“
4.7 Bioetica liberale (2).......................................................“
4.8 Critiche alla neutralità ..................................................“
4.9 Rispetto del pluralismo .................................................“
4.10 Una questione metafisica.............................................“
4.11 Da politica a metafisica................................................“
155
155
160
162
165
167
169
172
174
180
181
183
capitolo quinto
Metafisica pubblica .............................................................“
5.1 Un mare senza riva........................................................“
5.2 Critica dell’antimetafisica..............................................“
5.3 Metafisica speculativa e metafisica pubblica ..................“
5.4 Prolegomeni di una metafisica pubblica ........................“
5.5 Pluralismo ontologico ...................................................“
5.6 Contro lo scetticismo pragmatista .................................“
187
188
190
195
199
202
208
indice
vii
5.7 Verso un costruttivismo metafisico ...........................pag. 212
5.8 Valore della vita e metafisica pubblica ...........................“ 215
parte terza............................................................................“ 219
capitolo sesto
Morte..................................................................................“
6.1 La morte nella vita ........................................................“
6.2 La morte in una società secolarizzata ............................“
6.3 Una soluzione cristiana .................................................“
6.4 La visione esistenzialista ...............................................“
6.5 L’implausibilità delle due tesi precedenti .......................“
6.6 Morte e valore della vita................................................“
6.7 Una possibile critica alla mia tesi ...................................“
225
225
230
233
238
244
246
248
capitolo settimo
Eutanasia............................................................................“
7.1 La questione eutanasica ................................................“
7.2 Un problema complesso ................................................“
7.3 La disponibilità della vita umana...................................“
7.4 Alcune distinzioni fondamentali....................................“
7.5 Bioetica liberale ed eutanasia non volontaria ................“
7.6 Teoria del valore e scelta eutanasica ..............................“
7.7 La dignità del morente ..................................................“
7.8 Le dovute cautele ..........................................................“
251
251
253
256
258
261
265
268
271
capitolo ottavo
Aborto ................................................................................“
8.1 Pro-vita e pro-scelta ......................................................“
8.2 Critica della tesi di Dworkin ..........................................“
8.3 Due interpretazioni della vita ........................................“
8.4 Uno sfondo metafisico laico e liberale............................“
8.5 Argomenti antiabortisti .................................................“
8.6 Le potenzialità del feto ..................................................“
8.7 Una conclusione morale sull’aborto...............................“
275
275
277
285
287
290
292
295
Nota bibliografica .....................................................................“ 299
Prefazione
Il valore della vita viene pubblicato dopo circa venti anni dalla prima edizione. Sebbene, come spesso capita nei libri di filosofia, il contenuto non
riguarda di certo l’attualità, tuttavia bisogna ammettere che chi scrive
– posto di fronte a quanto aveva pensato in un altro periodo della sua
carriera e della sua vita – incontra qualche difficoltà a ripubblicare. Non
mi riferisco tanto al fatto che la bibliografia e gli stessi temi discussi nel
libro siano invecchiati, quanto al fatto che un’opera come questa aspira a una qualche forma di equilibrio tra autore e testo, equilibrio che giocoforza rispecchia il momento in cui il libro è stato pubblicato per la prima volta. Superata questa difficoltà iniziale, anche per l’affettuosa insistenza di quanti mi chiedevano di poter leggere ora un libro che non
si poteva più acquistare, mi sono trovato di fronte ai consueti problemi
di chi ripresenta un testo dopo parecchi anni: «lasciare tutto come era,
nella convinzione che il lettore sia in grado di scontare il tempo, oppure cambiare radicalmente?». Mi sono deciso per una soluzione intermedia.
Ho letto e riletto il tutto e apportato qua e là alcune modifiche che mi
sembravano indispensabili. La maggior parte di queste consiste in
cambiamenti molto semplici e di piccola entità, per esempio trasformando
espressioni come «il nostro secolo» in «il secolo scorso» (il libro è stato
scritto nel Novecento!). Ci sono poi alcune modifiche meno banali, là dove
mi sembrava che il testo non fosse sufficientemente chiaro. Ci sono, infine, un paio di modifiche più significative nel capitolo sull’etica, che è
poi quello in cui ho mutato in parte alcune tesi che avevo al momento
della prima edizione.
Sul tema centrale del libro sono invece rimasto dello stesso parere
di allora. Ancora oggi credo che valga la pena discutere en philosophe,
e che anzi bisognerebbe farlo di più, del «valore della vita». E tuttora sono
convinto che il migliore modo per farlo sia sulla scorta delle tesi prin-
x
il valore della vita
cipali di questo libro, sarebbe a dire che la questione sul valore della vita
non debba essere affrontata a partire da un’intuizione o comunque da
un accesso privilegiato alla vita in quanto tale, ma che la questione stessa necessiti di un detour attraverso quella che è per noi la migliore teoria filosofica in materia. Come si può sapere facilmente leggendo le pagine che seguono, quest’ultima – ai miei occhi – presuppone un’analisi
di problemi di natura etica e metafisica. L’esito di questa analisi è, ora
come allora, che la mia visione filosofica sul valore della vita si inquadra nell’ambito di una teoria morale basata sulla nozione di scelta critica e sulla struttura della metafisica pubblica. Se su tutto ciò non ho cambiato parere, devo ammettere che ci sono aspetti delle tesi principale che
oggi affronterei in maniera diversa da prima. Oltre alla già ricordata revisione del capitolo sull’etica, c’è un aspetto della metafisica pubblica su
cui rifletterei di più. In questo libro, la metafisica pubblica – cioè la condivisione di una filosofia di sfondo all’interno di una cultura – viene piuttosto rigidamente contrapposta a quella che io chiamo «metafisica speculativa», che partirebbe invece dal sé e dalle sue reazioni esistenziali.
Nel libro, l’importanza della metafisica speculativa viene – per quel che
credo adesso – sottovalutata. Convinto anche dall’esperienza dell’India,
oggi come oggi sarei più incline a rivalutare il rapporto tra la teoria del
valore in qualche modo universale e pubblica e l’esperienza del sé che
le dà un senso unico.
Certe volte ripubblicare un libro che per te è stato importante è davvero un’esperienza significativa, che assomiglia in qualche modo a quella di leggere da adulto un libro che ti ha colpito quando eri molto giovane. Ti prende lo stesso, ma in un altro modo! E nel fare questa esperienza tu capisci quanto passare di là sia stato decisivo per te stesso. Per
questa esperienza così intensa, devo un ringraziamento speciale a Daniele Rosa di LUISS University Press, che ha seguito il lavoro di pubblicazione de Il valore della vita in seconda edizione.
Dedico questo libro a mio figlio Pietro che ha iniziato da poco la carriera di professore e di padre con l’augurio che la sua vita sia piena di
valore.
Introduzione
Ci sono periodi della nostra esistenza in cui appare normale, se non addirittura indispensabile, riflettere sul valore della vita. Penso per esempio agli anni dell’adolescenza, quando si cresce al cospetto di un mondo che non si condivide ancora abbastanza, e a quelli della vecchiaia,
quando si ricorda un lungo passato nella prospettiva di un futuro che si
accorcia sempre più. Oppure ancora ai numerosi traumi, di cui l’esistenza
è inevitabilmente intessuta, fino ad arrivare alla morte, passando per amori e odi, successi e fallimenti, paci e guerre, unioni e divisioni. In certi
momenti speciali siamo così particolarmente consapevoli di noi stessi,
riflessivi e introspettivi. Non saprei dire se – in queste circostanze – siamo al meglio delle nostre potenzialità, intendo allo stesso tempo più ricchi di umanità e consapevolezza. È certo invece che, ripensandoci, tali
occasioni ci appaiono terribilmente importanti, anzi addirittura decisive per capire noi stessi e il senso della vita.
Proprio per ciò sembra strano che i filosofi occidentali non se ne occupino maggiormente nelle loro opere. Pochi sono, infatti, i testi – dall’Etica di Aristotele ai Saggi di Montaigne e all’Emilio di Rousseau, da qualche pagina di Nietzsche fino alla Vita pensata di Robert Nozick – nei quali un filosofo affronta esplicitamente il tema del valore della vita in maniera coerente con la propria visione del mondo. Naturalmente, si può
notare, questa scarsità di testi intorno all’argomento dipende soprattutto
dalla difficoltà dell’impresa. Soprattutto per chi sia intenzionato a evitare un tono oracolare, per chi voglia stare alla larga da un puro e semplice appello ai sentimenti o da una retorica fastidiosa, il tema in questione risulta impervio se non proibitivo. Sembra quasi, anzi, di essere
al cospetto di un ostacolo insormontabile, costituito dalla resistenza che
l’oggetto dei nostri interessi e della nostra curiosità intellettuale, e cioè
la vita stessa, pare offrire a ogni tentativo di razionalizzarla, di spiegarla,
2
il valore della vita
di comprenderla o di fornirle un senso. Insomma, la vita sembra essere un fenomeno troppo complicato perché noi possiamo discuterla razionalmente e pacatamente, sarebbe a dire con il linguaggio e i metodi
tradizionali dei filosofi. Anzi, a ben riflettere, la filosofia rischia di apparire, da questo punto di vista, tutt’al più una distrazione o una consolazione, in sostanza un modo per mantenersi alla larga dal cuore del
problema sul valore della vita. Quest’ultimo potrebbe essere invece affrontato, se si accetta una simile premessa, solo facendo appello alla letteratura, alla religione e all’arte.
C’è da aggiungere che la complessità intrinseca del tema non costituisce, come del resto è intuitivo, l’unica difficoltà che incontriamo se vogliamo parlare seriamente del valore della vita. Aristotele poteva infatti credere, ai suoi giorni, che ci fosse un modello unico di «vita buona»
cui ispirarsi, pressappoco quello degli happy few ateniesi del suo tempo.
Ma oggi chi mai potrebbe seriamente credere qualcosa del genere? Diversamente da lui, siamo infatti, e senza alcun bisogno di evocare sussulti postmoderni o nichilisti, del tutto convinti che il valore della vita
abbia un senso differente a seconda delle persone. Gauguin dovette lasciare la civiltà e andare nei mari del Sud per realizzarsi pienamente, e
Tolstoj scappò di casa a più di ottant’anni con l’ansia di vivere di una giovane Anna Karenina. La maggior parte della gente, per la verità, non fa
scommesse così impegnative sulla propria esistenza, ma la consapevolezza di un pluralismo ineliminabile delle forme di vita e dei modi di valutarle mi sembra oggi diffusa e salda. Anche al di là di esempi di uomini
illustri, rimanendo solo nella cerchia dei nostri amici come non notare
che c’è tra loro chi predilige la religione e chi la riflessione laica, chi invece punta tutto sul lavoro, o piuttosto sullo sport o la famiglia, e chi alfine non trova nulla di interessante negli obiettivi più comuni e passa magari gran parte della giornata davanti al computer o a guardare la televisione? In presenza di tanta diversità, come si può avere anche solo l’ardire di parlare di un valore della vita? Il pluralismo delle morali e delle
forme di vita pare rendere obsoleto e impraticabile ogni argomento del
genere.
Peggio ancora, chiunque tentasse di presentarne uno, specialmente se da professore, passerebbe infatti, oltre che per troppo audace, anche per arrogante e illiberale. Come si può essere – non si potrebbe fare
a meno di osservare – così presuntuosi da voler dire agli altri in che cosa
introduzione
3
consiste il valore della vita? Anche nel dire a un adolescente che sarebbe meglio suonare il piano o leggere un romanzo, invece di guardare la
televisione oppure trastullarsi con un videogioco, provo qualche imbarazzo. Temo infatti di invadere la sua privacy, urtare la sua suscettibilità, soprattutto di pretendere di sostituirmi a lui nel decidere sull’impiego
del tempo libero dalla scuola. Dopotutto, come mi diceva il mio genitore
liberale, nessuno è tanto felice da poter dire agli altri, con la speranza
di essere creduto, quale scopo perseguire. E Thomas Hobbes diede ragione di questa infelicità diffusa, sostenendo addirittura che la vita è né
più né meno che «solitaria, povera, ostile, brutale e corta» (meno male
che almeno è corta!, verrebbe fatto di osservare). Figuriamoci la perplessità che viene dalla pretesa di parlare in generale, rivolgendosi a un
pubblico anonimo, di cui neppure si conoscono i gusti e i valori. Pensando
a questo, è arduo non chiedersi: chi meglio dell’interessato/a potrebbe
sapere ciò che fa al caso suo e in che cosa consiste per lei o per lui il valore della vita?
Se nonostante queste comprensibili remore ho scritto ugualmente
il libro che avete tra le mani, la ragione è che le mie pretese sono di certo molto meno ambiziose. Da un lato, infatti, si tratta di un’esigenza piuttosto personale. Come diceva mia madre quando ero bambino, il tempo passa spaventosamente in fretta: solo ieri eravamo ragazzi, e stiamo
diventando vecchi. Durante il percorso viene spontaneo interrogarsi. Fare
una sorta di bilancio. Come in un film, le cui immagini scorrono dalla
fine al principio a velocità accelerata, gli eventi di una vita si succedono rapidi: studi, amore, matrimonio, lavoro, genitori, figli, amici, sesso, religione, benessere economico. Che importanza abbiamo dato e diamo a ognuna di queste cose? E, soprattutto, in base a quale criterio? Aristotele proponeva il criterio dell’eudaimonia, parola greca tradotta in italiano normalmente con «felicità». Ma che, secondo alcuni studiosi, forse vuol dire qualcosa di più generale e indeterminato, e indica una sorta di corrispondenza ben riuscita tra desideri e risultati, qualcosa che assomiglia, piuttosto che a «felicità», ad «autorealizzazione» o «fioritura
umana». Kant proponeva quello assai più rigido dell’adempimento del
puro dovere. A me (forse perché sono mediterraneo e non tedesco) sembra più naturale, dovendo optare tra questi due criteri, seguire il suggerimento di Aristotele, senza che ciò implichi peraltro un’opzione filosofica più generale. Quando penso a un bilancio della mia vita, tendo
4
il valore della vita
così a farlo approssimativamente in termini di eudaimonia. Valuto, quasi in modo istintivo, le mie decisioni passate in termini di soddisfazioni per ciò che ho fatto e di rimpianti per quello che non sono riuscito a
fare, il tutto alla luce di un ideale di realizzazione del sé. Naturalmente, come gli altri sono influenzato dall’esperienza quotidiana, e questo
esercizio valutativo diviene per me carico di ricordi, teorie e argomenti che possiamo chiamare in senso lato filosofici.
Fin qui la pretesa sarebbe davvero modesta, forse anche troppo. La
pratica diffusa del ricordo, della soddisfazione o del rimpianto si tingerebbe di colore filosofico sul canovaccio di uno che fa di mestiere il professore di filosofia. In realtà, sotto questo primo e naturale impulso si nasconde una pretesa più generale e perciò, spero, di qualche interesse teorico. Non ho, infatti, alcuna intenzione di sottoporre al lettore le mie esperienze individuali, e neppure desidero raccontargli come personalmente interpreto il senso dell’esistenza. Piuttosto, intendo presentare nelle
pagine che seguono una tesi di natura filosofica sul valore della vita, nonostante le difficoltà dell’impresa. Parto, in questo tentativo, dal presupposto che la teoria filosofica non sia priva di indicazioni che vanno al
di là del percorso individuale, delle esperienze dei singoli e dei loro vissuti. Credo anzi che, se si accetta questa premessa, anche i problemi di
cui stiamo parlando diventino più affascinanti e densi di significato. A cominciare dal primo e più evidente, sarebbe a dire: quale tipo di teoria filosofica può avere rilievo per un esame valutativo della vita, e perché?
Sarebbe impossibile, però, rispondere a questa domanda, meglio ancora a questo tipo di domande, con un’indicazione precisa e immediata. Non si può, in altre parole, se si vuole tentare di farlo progressivamente
e con metodo, evitare di partire da alcune nozioni fondamentali, che costituiscono lo sfondo su cui una teoria filosofica può cercare di costruire le sue tesi. Da questo punto di vista, un esame del valore della vita presuppone una questione che, temo in maniera oscura per chi non si occupi di filosofia abitualmente, possiamo definire ontologica. Con «ontologia», una parola di origine greca entrata nel gergo filosofico si intende
di solito quel ramo della metafisica che più direttamente si occupa di ciò
che esiste. La metafisica è, a sua volta, quella parte della filosofia che cerca di indagare la natura ultima della realtà. Le tipiche domande ontologiche sono: «Che cosa esiste?» e «Come possiamo affermarlo?». Non
si intende, in questo caso, rispondere presentando una lista o un inventario
introduzione
5
delle cose che ci risulta esistano, dal computer con cui sto scrivendo agli
abiti che indosso, ma piuttosto discutendo i caratteri fondamentali della realtà. Ciò che, seguendo Aristotele, si dice lo studio dell’essere in quanto essere.
Sono sicuro che, a questo punto, non mancherà, tra i lettori, chi sarà
preso da un comprensibile sconforto, perlomeno per due ragioni. Anzitutto, è difficile intendere perché abbiamo bisogno di discutere dell’essere in quanto essere, se il nostro scopo rimane quello di valutare il
senso della vita. In secondo luogo, sembra che la soluzione proposta sia
ancora più controversa e complicata del problema iniziale. Cercherò quindi di affrontare brevemente tali questioni in questa Introduzione, anche
se solo l’intero libro può sperare di riuscirci in maniera più attendibile.
La discussione sull’essere in quanto tale serve in primo luogo a vincolare la nostra fantasia, ancorandola alla realtà. Possiamo, infatti, considerare la parola «realtà» alla stregua di un sinonimo, impreciso quanto si vuole ma forse più comprensibile, di «essere». E aggiungere che proprio la ricerca aristotelica di una fioritura umana, di una vita vissuta cioè
all’altezza dei propri desideri, ci apparirebbe priva di senso se non avesse qualche contatto con la realtà. Sarebbe, infatti, soltanto un sogno,
un’esperienza puramente soggettiva, in cui il principio del piacere – per
dirla con Freud – non incontrerebbe mai il principio di realtà. L’appello alla realtà, per quanto vago, serve dunque a rendere più verosimili le
nostre esigenze di autorealizzazione.
La complessità del rinvio all’ontologia è poi innegabile, ma, a mio avviso, altrettanto necessaria per il bene dell’argomento. Essa serve, anzitutto, a renderci consapevoli del rapporto tra essere (o realtà) e teoria.
In polemica con una tradizione che diceva il contrario, Kant cercò di mostrare come la pura ragione non possa indicare, in maniera aprioristica,
quali entità devono necessariamente esistere. Detto in modo rudimentale, ma spero efficace, Kant separò così la nozione di essere (o realtà)
da ogni intuizione primitiva con cui si può pretendere di coglierlo, da ogni
tentazione cioè di conoscere la realtà prima e indipendentemente dalle
versioni che, attraverso la teoria, possiamo darne. Dopo di lui, ogni visione dell’ontologia che si basi su un accesso privilegiato e spontaneo alla
realtà, non mediato cioè dalle interpretazioni sistematiche che siamo in
grado di fornire, divenne implausibile. E, come cercheremo di argomentare
nel prosieguo, questo vale anche per la nozione di vita.
6
il valore della vita
La conclusione del capoverso precedente ci invita subito, ancorché
molto genericamente per la verità (ma il tema sarà discusso a lungo in
seguito), a prendere partito per una visione in cui la vita non viene esaminata nella sua immediatezza, ma piuttosto attraverso la mediazione
della propria teoria filosofica preferita. Già accettare una tesi come questa implica a mio avviso optare per una visione della vita diversa, e starei per dire opposta a quella che hanno offerto, nel secolo ventesimo e
in quello precedente, molte cosiddette «filosofie della vita» nonché le tradizionali religioni rivelate. Né l’essere (o realtà), né la vita stessa si danno, secondo la mia tesi, in maniera diretta, senza che le categorie teoretiche e pratiche siano coinvolte nel corso dell’esperienza.
Una tesi del genere può apparire inquietante per una ragione semplice da comprendere. Se, infatti, come ho già prima affermato, la realtà
non si dà indipendentemente dalla teoria, e se – come del resto appare
normale pensare oggi – ci sono diverse teorie scientifiche, etiche e ontologiche, allora non potremo mai convergere su una visione unitaria di
ciò che è. Il pluralismo delle teorie diventerebbe in tal caso automaticamente il pluralismo dei modi di vedere e costruire il mondo. E ciò, come
si accennava, preoccupa molti, che ritengono ci sia una connessione ineliminabile tra buon senso, decoro morale e unicità della realtà. Costoro, però, hanno torto. Il pluralismo è un elemento di fatto non trascurabile della nostra cultura. E, quindi, della nostra metafisica. Proprio per
ciò l’ontologia, se diamo ascolto alla mia proposta, riflette il pluralismo
di cui si parlava poc’anzi, e non può essere più ispirata a un pigro realismo monistico. In un universo pluralista nessuno può, così, affermare in buona fede di conoscere il «vero» valore della vita, mentre è possibile presentare una visione teorica del valore della vita che appaia migliore e più plausibile delle altre.
Se si accetta, per il momento, tale conclusione, che discuterò analiticamente nel corso del libro, si fa meno fatica ad accettare anche l’altra, secondo cui l’etica, in quanto teoria del valore, rappresenta il modo
migliore in cui possiamo valutare una vita. Questa tesi, che faccio mia
in tutto il libro, non rappresenta una specie di escamotage per mettere da parte le esperienze drammatiche e decisive di cui si faceva menzione all’inizio dell’Introduzione, esperienze da cui peraltro inizia di solito un esame autentico della vita. L’esperienza che si può provare sul
letto di morte, rivedendo tutta l’esistenza come in un lungo flashback,
introduzione
7
nel senso che vi attribuiva per esempio Marco Aurelio, è sicuramente
unica e irripetibile per riflettere sul valore della vita. E lo stesso può dirsi per l’esperienza, che ognuno di noi avrà fatto almeno una volta, di
un’epifania, di un momento cioè rivelatore e illuminante, in cui un destino, che avevamo sempre dapprima cercato senza trovarlo, ci appare all’improvviso chiaro e a portata di mano. Introdurre il discorso sull’etica non vuol dire così togliere spazio o significato a questo tipo di esperienze. Vuol dire soltanto che, per parlarne in un orizzonte di comprensione ampio e tendenzialmente universalistico, noi dobbiamo assumere una teoria del valore.
L’etica rappresenta, da questo punto di vista, soltanto un modo autorevole e tradizionale di trattare una teoria del valore. Quest’ultima dovrà, per le ragioni cui si accennava in precedenza, costituire un luogo di
incontro tra vissuti ed esperienze morali diversi. Una società aperta e multiculturale si riconosce in una cultura ispirata al pluralismo e quindi in
un’ontologia, cioè nell’architettura profonda delle credenze e dei sentimenti, basata sulla diversità e la tolleranza. Ma ancora di più si riflette nell’etica, e perciò nella teoria del valore, che deve fare di questo essenziale pluralismo un suo punto di partenza. Per cui, la teoria etica deve
confrontarsi con il paradosso di essere, come è sempre stata, un elemento
costitutivo dell’identità individuale e di gruppo, consentendo al tempo
stesso il massimo di pluralismo e differenza.
Si possono cogliere, anche intuitivamente, due difficoltà della tesi
proposta. Da un lato, sembra infatti evidente che il termine «valore» risulta ambiguo. Per alcuni pensatori come Platone, i padri della Chiesa,
in qualche modo Bentham e i cosiddetti intuizionisti morali (coloro per
cui ci sono verità morali primitive che possiamo apprendere tramite intuizioni sui generis), il valore consiste nel perseguimento di un bene –
anche il più generale, come la conoscenza, l’utilità o la perfezione morale – oggettivamente inteso. Per altri invece, come Kant, Habermas, Rawls
e i contrattualisti (questi ultimi sono coloro per i quali i principi morali dipendono da una virtuale intesa originaria), un bene di tal fatta non
esiste, per cui il valore consiste nella coerenza generale, nell’adempimento
degli obblighi o nel rispetto dei principi. Io, come si vedrà nel seguito del
libro, propendo per la seconda di queste versioni. Una versione che poggia a sua volta su una peculiare teoria, che basa il valore sulla nozione
di scelta critica.
8
il valore della vita
A tale proposito vale la pena di anticipare che, nel prosieguo, cercherò
di collegare questa versione del valore a una tesi metafisica di fondo, che
introduce all’interno dell’ontologia nozioni morali come quella di tolleranza. In sostanza, a mio avviso, ci sono buone ragioni teoriche per optare a favore di un’ontologia intrinsecamente pluralista, che consente,
escludendone altre, soltanto una versione peculiare del valore. Intendo
contrappormi, collegando in questo modo etica e metafisica, a una diffusa
e perversa connessione tra realismo monistico in ontologia, oggettivismo in etica e fondamentalismo in politica, connessione cui sono profondamente contrario, e che critico nelle pagine seguenti, proponendole
un’alternativa filosofica laica e pluralista.
Su tale connessione tra realismo metafisico e fondamentalismo vale
la pena di spendere qualche parola in più sin da ora, poiché si tratta di
un obiettivo critico centrale di questo libro. Secondo la tesi del monismo
metafisico tradizionale, nella mia lettura, esiste una versione privilegiata
dei fatti. Quest’ultima dipende di solito da qualche forma di corrispondenza tra detta versione e la realtà ultima del mondo, intesa come «sostanza» alla maniera di Aristotele, o in altri e più sofisticati modi. Secondo
i realisti metafisici, in altre parole, esiste una realtà indipendente dal nostro modo di osservarla e interpretarla, che tutti condividiamo prima di
ogni esperienza teoretica o pratica.
Tale credenza in una versione privilegiata dei fatti genera una difficoltà, se non addirittura un’impossibilità, a prendere sul serio il pluralismo, e perciò il realismo metafisico si coniuga sovente con forme di fondamentalismo. Se, infatti, c’è una sola Verità (con la «V» maiuscola), come
si può accettare serenamente la diversità delle opinioni? Da ciò dipende quindi la tentazione di affidarsi al fondamentalismo in etica e in politica, di cui si diceva prima. Si noti che, in questa prospettiva, tanto i fautori di una religiosità intollerante quanto i sostenitori delle svariate filosofie della vita, che il secolo ventesimo ci ha proposto sulla scorta di quello precedente, sono accomunati da un percorso simile. I fan del Tutto, nonostante le apparenze, prosperano gomito a gomito con quelli del Niente, e, forzando la mano, si può persino dire che un unico modo di ragionare sottintende le visioni metafisiche di Nietzsche o di Heidegger e dei
fondamentalisti islamici. Il culto dell’originario, infatti, accomuna le filosofie della vita con la forza della parola rivelata per attaccare dalle origini il discorso critico, e cioè la base intellettuale di una società aperta.
introduzione
9
Ora a me sembra che, come vedremo in seguito, se c’è qualcosa su
cui la filosofia contemporanea mostra un accordo di fondo questo è proprio la intrinseca problematicità dei fatti, intesi come evidenze primarie. Tale problematicità viene sottolineata, per restare in ambito filosofico contemporaneo, tanto dai pensatori di matrice fenomenologica (come
Husserl e Heidegger), quanto dalle scuole analitiche dal secondo Wittgenstein a Quine (secondo cui l’ontologia dipende dalla teoria). Per riuscire a ribaltare queste tesi, allora, occorrerebbe una forza argomentativa straordinaria, che il realismo metafisico, nelle sue molteplici versioni,
non sembra fin qui aver dimostrato. Il realista metafisico dovrebbe, infatti, riuscire a dimostrare una connessione univoca, tanto profonda quanto improbabile, tra il linguaggio e il mondo, le parole e le cose.
Tuttavia, proprio l’impraticabilità del realismo spesso genera una contromisura eccessiva e disperante. Intendo riferirmi a tutte quelle proposte
che, magari radicalizzando l’idea heideggeriana di differenza ontologica,
e cioè sostenendo l’incomunicabilità di fondo tra noi e il mondo, risolvono la problematicità del dato nell’impossibilità del discorso. La sfiducia nelle possibilità del realismo si ribalta, in tal modo, in un nichilismo pervasivo, per il quale ogni tentativo di costruire un dialogo ragionevole è destinato al fallimento, se pure non nasconde intenzioni perverse di dominio.
Tutto il presente libro è costruito sull’idea, di ispirazione kantiana,
secondo cui tra il realismo metafisico di molte tradizioni religiose e il nichilismo radicale di queste ipotesi c’è una possibilità intermedia, che pur
resistendo al primo non finisca per accettare il secondo. Tale ipotesi di
lavoro insiste così sulla fecondità del discorso e sulla possibilità di costruire al suo interno distinzioni concettuali e argomentative che valutino, comparandole, diverse proposte intellettuali e filosofiche.
Da questo punto di vista, sembra chiaro il motivo per cui le filosofie
della vita – come cercherò di argomentare – non rispondono alle nostre
esigenze allo stesso modo degli appelli mistici. L’idea che la vita sia un
prius categoriale sembra, infatti, o frutto di un’ipostatizzazione impropria, che presupponga una realtà primitiva e condivisa come vogliono
le tesi del realismo metafisico, oppure l’esternazione disperata di un solipsismo incapace di comunicare. Solo se la vita viene pensata in termini
di teoria e di dialogo, al contrario, è ipotizzabile una valutazione ragionevole, e cioè un argomento non puramente descrittivo e non metafisico-realistico, sul valore della vita.
10
il valore della vita
L’altra difficoltà evidente nella mia proposta consiste nel fatto che gli
esseri umani di solito non cercano soltanto il valore in quello che fanno.
Il valore, in altre parole, non è l’unica dimensione valutativa che teniamo
presente quando pensiamo alla vita. Noi, per esempio, vogliamo anche che
le nostre vite abbiano significato. Il problema del significato della vita interseca, in tal modo, quello del valore della vita. Secondo alcuni, significato e valore della vita sono sinonimi. Non sarebbe possibile, se seguiamo questa interpretazione, valutare granché una vita che non sia particolarmente significativa, e, viceversa, non avrebbe molto significato una
vita scarsamente dotata di valore. Io preferisco distinguere, invece, tra significato e valore della vita. Come ha sostenuto Robert Nozick, il concetto
di significato è sempre pensato alla luce dei limiti di qualche cosa, limiti
magari da attraversare o superare, mentre il concetto di valore presuppone
un’integrazione all’interno di confini presupposti. Se si accetta questa distinzione, su cui tornerò più avanti, si può anche comprendere perché ho
deciso di parlare nel seguito di valore della vita piuttosto che di significato
della vita. Si può dire, infatti, che il significato della vita presupponga un
valore, e non viceversa. Per pure ragioni concettuali la ricerca del significato della vita, rimandando a limiti sempre ulteriori, ci condannerebbe
a un regresso infinito. Ciò a meno di un limite che noi poniamo alla ricerca
stessa. Tale limite può essere costituito per l’appunto dal valore.
Proprio per questa ragione la ricerca di un significato della vita può
essere concepita come vana e disperante. Freud sostenne una volta in
una lettera a Marie Bonaparte che essa costituiva addirittura un segno
tipico di una «libido insoddisfatta», anche se ammise in un secondo tempo di aver esagerato in quell’occasione per eccesso di pessimismo. E Nietzsche concepì ancor prima di lui la ricerca di significato come il sintomo
di una malattia squisitamente umana. Tra i filosofi del Novecento, Ludwig Wittgenstein, in un momento mistico, ebbe a sostenere:
La soluzione del problema della vita va vista alla luce della scomparsa di questo problema […] Ma è mai possibile per un essere
umano vivere la vita smettendo di essere problematico? Non equivarrebbe a vivere nell’eternità e non nel tempo?
È questa forse la ragione per cui le persone cui il significato della vita è divenuto chiaro dopo lungo dubitare non riescono a dire
in che cosa tale significato consiste?
introduzione
11
Tale diffuso scetticismo sul significato della vita si traduce spesso in un
corrispondente pessimismo sul valore. Anzi il pessimismo nichilistico
costituisce probabilmente la tendenza dominante nella letteratura filosofica in materia. Penso qui alle posizioni di scrittori come Schopenhauer e Nietzsche, oppure, per restare più vicino a noi, agli esistenzialisti. Costoro, anche se con argomenti diversi, hanno tutti sostenuto una tesi nichilista che in senso lato possiamo chiamare «assurdista», tesi efficacemente riformulata ai giorni nostri da Thomas Nagel, in Questioni mortali, in termini di conflitto permanente tra impegno del singolo e mancanza di senso del mondo. Una conseguenza tipica della tesi assurdista consiste nel non poter credere in ogni ipotesi
teorica sul valore della vita.
Come è noto, Schopenhauer basava la sua visione tragica dell’esistenza sul fatto che ogni evento naturale e umano appare dominato da
un principio insensato e brutale, che resiste a qualsivoglia nostro tentativo di attribuirgli significato e valore. A questa volontà oggettiva di
vita, priva di ogni comprensibile senso, corrisponde – sempre nella sua
prospettiva – una perdurante infelicità soggettiva. Ognuno di noi può
riconoscere tale supremo principio metafisico privo di scopo che governa
tutto il creato, ma nulla può fare per mutare il corso degli eventi. L’unica via d’uscita rimane quella di una dignità individuale disposta alla compassione per la sofferenza che accompagna ogni forma di vita. Partendo
da premesse non troppo dissimili, Nietzsche intende ribaltare quello che
a suo avviso è un esito puramente negativo della filosofia di Schopenhauer. Ai suoi occhi, la profonda distruttività della volontà vitale non
implica l’impossibilità di vivere produttivamente. Se la totalità del mondo appare anche a lui priva di spirito e ragione, non per questo dobbiamo
fare a meno di crearci un destino di coraggio e nobiltà. Potremmo dire
in proposito che il pessimismo cosmico di Nietzsche rassomiglia a quello di Schopenhauer dal punto di vista descrittivo, nel senso che la sofferenza è centrale nell’esperienza della vita, ma che se ne distacca dal
punto di vista delle raccomandazioni normative, perché il forte, lungi
dall’avvilirsene, trova in ciò il coraggio per vivere pienamente.
C’è sicuramente nelle idee di Nietzsche qualcosa che cattura i sentimenti dell’uomo del nostro tempo, anche se – come vedremo più avanti – la sua posizione si rivela teoricamente debole e moralmente insostenibile. Attraverso la mediazione dell’esistenzialismo e della feno-
12
il valore della vita
menologia tedeschi, una simile prospettiva nichilista e drammatizzante viene resa popolare dagli scrittori tipici dell’assurdismo, come lo abbiamo chiamato prima, quali Jean-Paul Sartre e Albert Camus. Quest’ultimo, soprattutto, chiarisce la posizione assurdista in termini di una
fondamentale discrepanza tra la ricerca umana di «felicità e ragione» e
la consapevolezza che non esiste nulla nell’universo capace di soddisfarla.
L’assurdo nasce così dal conflitto strutturale e tragico tra «i bisogni umani e il silenzio irragionevole del mondo».
Questo assunto dilemmatico è stato tradotto nel gergo della filosofia morale contemporanea da Thomas Nagel, nel libro prima citato. Qui
il conflitto decisivo diviene quello tra le esigenze contrapposte e irrinunciabili di «autotrascendenza» e «autoconsapevolezza». L’uomo non
può evitare di pensarsi né da un punto di vista oggettivo, né da un punto di vista soggettivo. Il senso dell’assurdo nasce dall’impossibilità di non
prendere sul serio i nostri valori soggettivi, congiunta alla parallela impossibilità di radicarli oggettivamente nella realtà. Per cui la tesi di Camus secondo cui nulla ha importanza viene riproposta in termini di mancanza di ogni certezza oggettiva.
Qualsiasi persona ragionevole, io credo, può riconoscere che la sproporzione fra l’attaccamento ai nostri valori e la difficoltà di attribuire loro
qualsivoglia significato oggettivo genera un senso di assurdo. Il problema consiste nel vedere quanto tale conflitto sia decisivo e ultimo. Ho l’impressione, infatti, che le tesi assurdiste tendano a esagerarne la portata
pervasiva. Dopotutto noi non viviamo nell’eternità ma nel tempo, e non
possiamo prescindere dalla creazione di valore nell’ambito di vite determinate e attuali, le nostre vite. Da questo punto di vista, è chiaro che
qualsiasi tentativo di giustificare tale esigenza genera uno spiazzamento esistenziale e una sorta di vortice tragico. Ma d’altra parte è pure evidente che la nostra interrogazione sul valore della vita non può prescindere
da ciò che noi facciamo, per così dire, indipendentemente dal tutto, nelle nostre esistenze limitate e, per quel che sappiamo, irripetibili.
Questo complesso argomento, che costituisce la parte teorica centrale del libro, non è privo di una finalità pratica, se così la vogliamo chiamare. Tale finalità consiste proprio nel dare allo spirito laico e liberale
uno sfondo teorico adeguato ad affrontare la questione sul valore della vita. A molti è parso spesso che solo i mistici e i nichilisti avessero dalla loro parte il conforto di un retroterra culturale all’altezza di un simi-
introduzione
13
le formidabile quesito esistenziale e morale. La mia tesi principale in questo libro intende formulare un attacco alle posizioni mistiche e nichiliste e insieme una proposta positiva per uomini e donne liberali. La pars
destruens, che riguarda mistici e nichilisti, è stata in parte anticipata da
quanto detto finora. La pars construens, invece, consiste nella formulazione di un’ipotesi di teoria del valore che, collegata a una visione metafisica di fondo, consenta agli spiriti liberali di affrontare dilemmi pratici che riguardano il valore della vita, del tipo di quelli posti dalla bioetica, con la convinzione di avere alle spalle una visione del mondo più
articolata e coerente di quanto essi stessi talvolta non credano. I liberali,
nella mia ricostruzione, hanno infatti dalla loro parte la migliore versione
della metafisica e dell’etica che i nostri tempi mettono a disposizione. Tutto ciò non vuol dire che siano in grado di risolvere in maniera filosoficamente soddisfacente problemi drammatici e profondi come quelli che
riguardano, per esempio, l’aborto e l’eutanasia. Ma vuol dire che – armati di modestia e pluralismo – possono nutrire speranze più solide degli altri nell’accostarsi a essi.
Questo libro discute, in maniera analitica, i temi cui finora ho soltanto
accennato. È diviso in tre parti che, pur presentando un’unità di fondo,
sono concettualmente distinguibili con sufficiente chiarezza. I due capitoli della Parte prima affrontano il problema del valore della vita nei
suoi molteplici aspetti. Più precisamente, il capitolo I afferma che la questione della vita non viene filosoficamente ben trattata se non attraverso il concetto di valore, mentre il capitolo II indaga sui modi diversi in
cui si può parlare di valore della vita. In entrambi i capitoli, vengono anche criticate le visioni alternative del valore della vita, preparandosi in
tal modo la strada alla mia posizione.
Questa viene presentata nella Parte seconda e terza. La Parte seconda,
nel complesso, tratta temi affatto generali, che sono apparsi comunque
indispensabili per la comprensione della questione sul valore della vita.
Più precisamente, il capitolo III fornisce alcuni rudimenti generali di etica come teoria del valore. Questo stesso capitolo, che per gran parte svolge una funzione introduttiva, si chiude con una mia versione di teoria
del valore come scelta critica, versione importante per comprendere la
tesi principale del libro. Il capitolo V presenta una peculiare versione di
metafisica, da me chiamata «metafisica pubblica», che dovrebbe servi-
14
il valore della vita
re, oltre che a criticare posizioni diverse, allo scopo prima dichiarato di
congiungere ontologia e pluralismo. Il capitolo IV di questa parte generale
è invece dedicato alla bioetica, cioè a quella branca dell’etica che
affronta la vita sotto particolari condizioni critiche. La prima metà del
capitolo discute la bioetica nei suoi lineamenti generali, ispirandosi, sia
pur criticamente, a una recente ma intensa tradizione soprattutto anglosassone. La seconda metà si muove nella prospettiva di un peculiare composto di metafisica e politica, riconducendo la bioetica al liberalismo filosofico, così come ha fatto da non molto Ronald Dworkin nel suo
libro Il dominio della vita.
Nella Parte terza, infine, gli ultimi tre capitoli – il VI, il VII e l’VIII –
applicano il paradigma precedentemente presentato a tre classi di casi
o problemi, rispettivamente l’esame filosofico della morte, dell’eutanasia e dell’aborto. Parlare di applicazioni, per la verità, è eccessivo, poiché non credo che vi siano teorie da applicare alla lettera in casi del genere. Tuttavia, mi è parso utile concludere l’analisi del problema centrale
del libro attraverso la discussione di questioni pubbliche in cui il valore della vita stia al centro di dilemmi attuali e profondi.
Chi avrà la pazienza di leggermi sarà certamente deluso dal fatto che,
in tutto il libro, non si dice che cosa sia in effetti il valore della vita. Date
le premesse che abbiamo presentato in questa Introduzione, ciò non sarebbe stato però possibile. Dubito, tuttavia, che qualcosa del genere sia
semplice anche per chi parte da premesse diverse dalle mie, perlomeno se intende farlo in una prospettiva critica e impersonale com’è tipico della filosofia. Questa prevedibile conclusione non equivale, comunque,
a un invito allo scetticismo. E neppure afferma che la filosofia sia inutile nella ricerca del valore della vita. Può però tutt’al più servire, per quel
che io credo, da viatico. Ci accompagna nel nostro cammino, ma non ci
dice che cosa troveremo a destinazione. Del resto non si tratta di una sorpresa, dato che, come già osservava criticamente Sören Kierkegaard nei
suoi diari, i filosofi di solito sostengono che la vita si comprende sempre
«da dopo», lasciando alquanto insoddisfatto chiunque noti che, però, la
si vive «da prima».
Un’indicazione, che si può trarre comunque dal volume considerato nel suo insieme alla maniera di un solo lungo argomento, consiste così
nell’invito a guardare alla vita come a una scelta, e per meglio dire come
a una scelta criticamente orientata. Il valore della vita dipende, in tal
introduzione
15
modo, dalla capacità di creare percorsi esistenziali insieme interessanti per noi e giustificabili da un punto di vista universale. In questo modo,
ci si pone – noi suggeriamo – al riparo dai pericoli intellettuali sia del dogmatismo sia dello scetticismo. Mi ricongiungo, così, a una tradizione di
pensiero liberale, che possiamo retrodatare perlomeno fino al famoso
Saggio sulla libertà di John Stuart Mill e che arriva oggi fino a John Rawls.
E cerco di estendere questa tradizione oltre i suoi limiti abituali, sconfinando in un terreno che è stato di solito più adatto alle speculazioni
esoteriche che alla filosofia pubblica e sperando, com’è ovvio, di far rientrare questo stesso terreno nell’ambito del discorso razionale e più in generale della cultura di una società aperta.