Relazione Convegno 15 novembre

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LA RILEVANZA DEGLI EFFETTI GIURIDICI DEI NEGOZI RISPETTO AL
PRESUPPOSTO
IMPOSITIVO:
SIMULAZIONE,
INTERPOSIZIONE
ED
EQUIVOCI STORICI. INTERFERENZE (EFFETTIVE O APPARENTI) CON
L’ART. 20 TUR
Relazione al Convegno del 15 novembre
di Andrea Carinci, Ordinario di Diritto tributario nell’Università di Bologna
1. Introduzione
Parlare di rilevanza degli effetti giuridici dei negozi rispetto al presupposto e
qui concentrarsi sulle vicende della simulazione, interposizione e dell’operare
dell’art. 20 del TUR appare un compito complesso ed impegnativo.
Vengono infatti richiamate tre diverse vicende, l’interposizione, la simulazione
e la qualificazione contrattuale, che, pur profondamente diverse, restano comunque
accomunate dalla circostanza di coinvolgere la fattispecie contrattuale.
Ma non solo.
A ben vedere, il loro accostamento in questa sede sembra conseguire piuttosto
ad un’altra ragione. Si tratta infatti di vicende tradizionalmente confuse, prima
ancora che accomunate, in quel brodo concettuale che fa capo all’istituto
dell’elusione/abuso del diritto. Di vicende, insomma, in cui, essendo dato assistere
ad una (asserita) dissociazione tra realtà economica ed apparenza giuridica, la
prevalenza della sostanza sulla forma giustificherebbe il disconoscimento della
costruzione giuridica realizzata dalle parti private. L’autonomia privata, sovrana
della forma, non potrebbe quindi assurgere qui a criterio dirimente unico della
ricostruzione delle modifiche sostanziali (economiche), che fondano (sole) il
presupposto. Con la conseguenza che questo va ricostruito prescindendo dalla
forma assunta e valorizzando solo i risultati pratici concretamente realizzati.
È questo un insegnamento che, nella varietà delle declinazioni, ricorre oramai
costantemente nella giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, sia in tema
di simulazione soggettiva, sia in tema di interposizione reale sia, da ultimo, in tema
di art. 20 del TUR.
Tanto detto, potrebbe così concludersi questa indagine, completando semmai
con un elenco (che mai sarebbe esaustivo) delle sentenze della Cassazione (ex
pulrimis Cass. n. 18467/2016 in materia di art. 20 TUR e Cass. n. 15830/2016 in tema
di interposizione reale). In effetti, se ci fermassimo alla giurisprudenza di Cassazione
e alla sua furia iconoclasta contro la rilevanza sostanziale dell’autonomia negoziale
e la prevalenza della sostanza sulla forma, si dovrebbe concludere che non c’è
differenza alcuna tra simulazione, interposizione e qualificazione contrattuale ex art.
20 del TUR. In tutti tre i casi, invero, si dovrebbe – nel pensiero della Corte - assistere
ad una dissociazione tra realtà sostanziale (economica) ed apparenza formale
(giuridica); dissociazione che, in ossequio ai superiori principi (capacità
contributiva) non può che essere risolta a favore della prima e a discapito della
seconda. Senza se e senza ma.
Ma è proprio così? O meglio, è corretto che sia così? È insomma veramente
possibile banalizzare gli istituti giuridici di cui si tratta, al punto da confonderli così
“impunemente”?
Evidentemente no. E questo per l’assorbente ragione che si tratta di vicende
profondamente differenti, rispetto alle quali appare opportuno un chiarimento delle
caratteristiche proprie, utili a tracciare i rispettivi confini.
2. La simulazione
La simulazione, qui nella forma della simulazione soggettiva, è una vicenda
caratterizzata da una dissociazione; ma non tra realtà economica e realtà giuridica,
bensì tra realtà giuridica palesata ai terzi e quella realmente voluta tra le parti.
Quindi e più precisamente, tra una apparenza caratterizzata dall’assenza di effetti
giuridici realizzati ed una realtà in cui detti effetti si sono prodotti, ma rimangono
celati appunto in ragione della simulazione.
Ai sensi dell’art. 1414 c.c., il contratto simulato non produce effetto tra le parti,
mentre se viene concluso, produce effetto il contratto dissimulato. È prevista
un’efficacia del contratto simulato ma solo virtuale e strumentale, ossia tesa e rivolta
a consentire l’acquisto ai terzi in buona fede
Nella simulazione, quindi, gli effetti giuridici appalesati sono solo apparenti
mentre in realtà non ci sono. Di contro, gli effetti realmente voluti, la realtà giuridica
concretamente realizzata, è quella dissimulata, ossia nascosta.
Il fenomeno della simulazione identifica una vicenda che non è di
dissociazione tra effetti reali (economici) ed effetti giuridici (apparenti), ma tra non
effetti (o effetti realizzati solo in apparenza o, retius, non voluti) ed effetti giuridici
reali, voluti, ma nascosti.
Così, correttamente inquadrato il fenomeno, trova poi agevole lettura la
previsione contenuta all’art. 37, co. 3, del D.P.R. n. 600/1973, ai sensi del quale
l’Agenzia ha il potere di imputare al contribuente i redditi di cui appaiano titolari
altri soggetti.
La norma si esprime in termini di “appaiano titolari”, lasciando con ciò
intendere il riferimento proprio e solo alla simulazione soggettiva. La vicenda che si
intende qui contrastare, in sostanza, è quella in cui la titolarità di un cespite è fatta
simulatamente risultare in capo ad un soggetto, quando però nella realtà giuridica è
di altro soggetto. Non vi è un contrasto tra realtà economica e realtà giuridica bensì
e solo tra realtà giuridica reale e realtà giuridica solo apparente. E proprio per
consentire all’Agenzia di applicare le imposte in ragione della sola realtà giuridica
reale, ecco che le si consente di contestare la simulazione già e solo in sede di
accertamento, senza dover ottenere un accertamento incidentale della stessa da parte
del giudice. Non è una realtà economica quella che la norma mira a disvelare, bensì
e solo la realtà giuridica occultata dal contribuente.
L’art. 37, co. 3, del D.P.R. n. 600/1973 è, pertanto, una previsione antievasiva
perché la simulazione, dal canto suo, è una pratica di evasione..
3. L’interposizione reale
Tutt’altro fenomeno si registra con l’interposizione reale.
Qui, la titolarità del cespite fonte è giuridicamente efficace e reale, ancorché il
dominio dello stesso è esercitato nell’interesse di altro soggetto mandante.
Ad avviso della Cassazione, anche in questo caso tornerebbe applicabile l’art.
37, co. 3, del D.P.R. n. 600/1973. E questo, in ragione di un’ideale identità di patologie
tra simulazione ed interposizione, ancora data dalla dissociazione tra apparenza
giuridica e realtà economica.
Premesso che se l’art. 37, co. 3, fosse norma antielusiva come evocato dalla
Cassazione (cfr. Cass. n. 15830/2016), dovrebbe intendersi abrogata per effetto
dell’introduzione dell’art. 10-bis, della L. n. 212/2000, è evidente che non possa essere
applicato al caso dell’interposizione reale. Qui, infatti, non si tratta, come nella
simulazione soggettiva, di applicare l’imposta in ragione dell’assetto effettuale
concretamente realizzato, ma occultato da una realtà meramente apparente; si tratta,
invece e semmai, di applicare l’imposta disconoscendo la realtà giuridica realizzata,
per valorizzare il diverso assetto di interessi soddisfatto attraverso l’interposizione.
Nell’interposizione gli unici effetti realizzati sono quelli palesati; non ve ne
sono altri. Vi può essere il soddisfacimento di interessi in via mediata e si tratta allora
di vedere se questo soddisfacimento realizza di per sé una vicenda meritevole di
apprezzamento. Ma prima, si tratta di vedere come sia possibile disconoscere
l’assetto comunque realizzato.
Ebbene, se si riflette sulla vicenda così ricostruita, dove la realtà giuridica
realizzata è solamente quella fatta palese, ci si avvede che nell’interposizione reale
non occorre ricercare la realtà occultata e quindi squarciare il velo di apparenza per
colpire la vera manifestazione di capacità contributiva data dagli effetti realmente
voluti dalle parti. Nell’interposizione reale si tratta, invece, di rendere semmai
inopponibile la realtà giuridica realizzata (ed unica), per andare a cogliere la capacità
contributiva espressa dall’assetto di interessi comunque attuato, per mezzo e tramite
dell’interposizione. Ovviamente, solo se ed in quanto detto diverso assetto appare
suscettibile di essere apprezzato a questi fini.
Ma se così è, la possibilità di invocare un regime impositivo prescindendo dagli
effetti giuridici realmente prodotti passa, e non può che passare, per l’inopponibilità
della realtà giuridica e quindi degli effetti concretamente realizzati, che si ha
esclusivamente in ragione dell’operare dell’art. 10-bis della L. n. 212/2000.
L’interposizione reale, insomma, può essere contrastata solo come pratica di
abuso del diritto.
Questo significa, però, che può essere contrastata solo provando che
l’interposizione si esaurisce in un’operazione priva di sostanza economica, volta a
conseguire un vantaggio indebito ed in assenza di valide ragioni economiche.
Significa inoltre, che può essere contrastata solo attivando lo speciale procedimento
in contradittorio, con sospensione della riscossione ed irrilevanza penale, che
caratterizza l’art. 10-bis.
4. L’art. 20 del TUR
Discorso ancora differente, infine, deve essere fatto in ordine al funzionamento
dell’art. 20 del TUR.
Come noto, detta previsione assolve in modo essenziale al funzionamento
dell’imposta di registro, prescrivendo che ai fini del prelievo debbano prevalere gli
effetti giuridici concretamente perseguiti dalle parti, prescindendo dal nomen iuris
impiegato (“l’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti
presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”).
Sennonché, nonostante il chiaro tenore letterale (si parla espressamente di
effetti giuridici) e, soprattutto, il portato storico della previsione (fu una scelta
consapevole quella di precisare il riferimento agli effetti giuridici), la giurisprudenza
di legittimità è oramai ferma nel ritenere la funzione della norma quella di consentire
la tassazione della realtà economica realizzata, potendo prescindere dall’assetto
negoziale realizzato. Ancora una volta, insomma, una norma che consentirebbe
all’Agenzia di disconoscere la realtà giuridica palesata, in quanto mera apparenza,
rispetto alla sostanza economica concretamente attuata ed unica realmente
espressiva della capacità contributiva realmente manifestata.
Senza
alcuna
portata
antielusiva,
peraltro,
ma
quale
mero
esito
dell’applicazione degli ordinari criteri ermeneutici (art. 1362 c.c.) volti a ricostruire
la reale volontà negoziale delle parti, espressa dalla considerazione globale
dell’intera operazione posta in essere, potendo prescindere dall’artificiosa
frantumazione negoziale posta in essere. Reale volontà delle parti che quindi non
sarebbe da ricercare negli effetti dei negozi realizzati ma nell’oggettivazione
dell’assetto sostanziale posto in essere, concepito come causa concreta dell’intera
architettura contrattuale realizzata.
La fallacia del ragionamento della Corte è di immediata evidenza.
Un conto è ricostruire, anche alla stregua di una pluralità di negozi,
valorizzabili come comportamento delle parti, la realizzazione di effetti giuridici
riconducibili ad una vicenda negoziale unica. Ciò accade, ad esempio, con la cessione
frazionata di azienda, dove la pluralità di cessioni può essere concepita come volta
a realizzare l’effetto, unico ed assorbente, di cessione di un complesso aziendale.
L’effetto finale che la pluralità di cessioni realizza è proprio e solo quello
riconducibile all’unico contratto di cessione di azienda.
Altro conto, però, è riqualificare la realtà sostanziale, prescindendo dagli effetti
giuridici in concreto prodotti, allo scopo di imporre una tassazione che non è più
degli effetti giuridici realizzati, o meglio dell’atto che ha determinato quegli effetti,
bensì dell’atto in grado di realizzare gli effetti equipollenti al mutamento sostanziale
registrato. Non si tassa, insomma, ciò che è stato ma ciò che sarebbe dovuto essere,
secondo una valutazione di meritevolezza fiscale condotta alla stregua del
parametro di asserita effettiva capacità contributiva.
È in questo modo che la cessione totalitaria di un pacchetto azionario finisce
per essere equiparato alla cessione dell’azienda partecipata, ovvero il conferimento
di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni ancora alla cessione di azienda.
Qui quell’effetto di travisamento appare palese: nei casi sopracitati l’effetto
giuridico che si realizza è sempre e solo il trasferimento delle partecipazioni. La
circolazione dell’azienda avviene in via solo mediata, coerentemente però al modello
giuscommercialistico che vede nella circolazione delle partecipazioni sempre una
circolazione mediata dei beni di primo grado. Nonostante questo, però, la
circolazione delle partecipazioni resta una vicenda giuridicamente distinta da quella
del bene di primo grado (azienda piuttosto che immobili in pancia alla società).
Il ragionamento della Cassazione, insomma, è fallace. Sotto molteplici aspetti,
peraltro: da un lato banalizza il diritto commerciale, ritenendo assolutamente
equipollenti la circolazione dei beni di primo e di secondo livello (azienda e
partecipazioni della società in cui la prima è in pancia). Dall’altro, banalizza
l’imposta di registro, che cessa di essere un’imposta sugli atti, applicata in ragione
degli effetti giuridici da questi prodotti, per diventare un’imposta sulla
modificazione della realtà sostanziale, indipendentemente dalla riconducibilità di
detta modificazione ad un contratto/atto realmente voluto e posto in essere dalle
parti.
Sperare di far cambiare idea alla Cassazione appare illusorio; potrebbe però
essere costretta.
Cosa accadrebbe, infatti, se la soluzione della Cassazione si ponesse in conflitto
con il diritto dell’Unione? Se, in altre parole, si potesse sostenere che la soluzione
della Cassazione, finendo per imporre un’imposizione proporzionale agli aumenti
di capitale, di fatto si traduce in una violazione del Diritto unionale e, segnatamente,
della Direttiva 2008/7/UE?
È una strada stretta, ma che si può (deve) immaginare.
Innanzitutto, occorre ricordare che la Direttiva 2008/7/UE ha sostituito la
Direttiva n. 69/335, che ha trovato attuazione proprio nell’imposta fissa di registro
sugli atti societari.
In secondo luogo, che vi sono sentenze della Corte di Giustizia che ci ricordano
che le categorie impiegate dalla Direttiva, le operazioni soggette, sono di valenza
europea e vanno interpretate in modo oggettivo ed uniforme, non potendo la loro
individuazione essere condizionata da esperienze meramente nazionali (C-197/94).
Parimenti, vi sono sentenze che ricordano che il conferimento di attivo e quello di
partecipazioni totalitarie sono operazioni differenti e non possono essere
banalmente sovrapposte (pur nell’identità ideale di risultati pratici ottenuti) (C164/90). Il Testo della Direttiva del 2008 sul punto appare emblematico (cfr. art. 4).
Alla stregua di queste indicazioni si può allora prospettare la violazione del
diritto dell’Unione per quella giurisprudenza che impone l’applicazione di
un’imposta proporzionale alle operazioni di raccolta del capitale (costituzione di
società/aumento di capitale), senza che la Direttiva lo consenta e senza al contempo
preoccuparsi di verificare l’eventuale abuso del diritto.
Non basta infatti affermare che la realtà sostanziale è la cessione di azienda e
non il conferimento: la realtà giuridica realizzata, infatti, è solo il conferimento,
mentre la circolazione dell’azienda, rectius del dominio, è solo una conseguenza
naturale del sistema, che si realizza in ragione della circolazione delle partecipazioni.
Ma è proprio quell’effetto che implicitamente è voluto dalla Direttiva, che nel
promuovere la raccolta di capitali promuove, con ogni evidenza, proprio la
circolazione delle partecipazioni in luogo dei beni di primo grado.
Con la conseguenza che, per disconoscere l’applicazione della direttiva occorre
semmai invocare e dimostrare l’abuso del diritto. Nonostante quindi quello che
sostiene la Cassazione, per affermare il risultato che professa, ossia l’utilizzo con
finalità antielusive, dell’art. 20 non è possibile fuggire dall’applicazione della
disciplina sull’abuso del diritto: dal momento che viene in considerazione un regime
armonizzato, l’applicazione di un trattamento deteriore rispetto a quello ordinario
finisce per pregiudicare il principio di effettività, con ciò integrando un ulteriore
profilo di violazione del diritto dell’Unione.
Insomma, sembra possibile scrivere un nuovo capitolo della saga; è solo
l’inizio, ma il seguito si promette interessante.
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