Piovano - testo della relazione - Università Pontificia Salesiana

L’ambiente di Valdocco: arte dei suoni e cura dello spirito
di
Attilio Piovano
Una foto
Un’immagine fotografica molto nota, datata 1870, ritrae don Bosco al centro della
banda musicale costituita dai ‘suoi’ giovani. Di immagine assai emblematica e significativa
si tratta, e non a caso, l’abbiamo prescelta ed eletta a ‘logo’ di questo nostro Convegno di
studi. Compare infatti quale mascherino sulla locandina del convegno stesso. Di
immagine assai studiata si tratta, una foto sicuramente ‘professionale’ volta a restituire
una realtà per così dire ufficiale, finalizzata a quella che oggi si suole chiamare la
‘comunicazione’. E tutti sappiamo quanto don Bosco fosse attento ad avvalersi nel
migliore dei modi dei ‘media’ del tempo. E la fotografia rientra certo in tale categoria.
Permettetemi allora di commentarne alcuni dettagli; un don Bosco non più giovane ma
ancora nel pieno rigoglio delle sue forze, campeggia al centro, apertamente sorridente ça va sans dire - le mani morbidamente posate sul grembo. Ai suoi lati alcuni adulti (lo si
deduce dalle barbe d’ordinanza), verosimilmente dirigenti, ovvero maestri o pedagoghi;
poco scostati, alla sua destra, due giovani sacerdoti, intenti a sfogliare una partitura, viso
disteso e pensieroso, al tempo stesso, uno dei due tiene l’indice intenzionalmente sul
mento (di certo una ‘posa’ suggerita dall’esperto fotografo a comunicare un senso di
intellettuale impegno). Soprattutto, ciò che colpisce sono i giovani musicisti, una trentina o
poco più, tutti assai giovani, alcuni giovanissimi. Più ancora colpisce la studiata (e
professionale) disposizione degli strumenti (quanta cura deve aver riposto il fotografo nel
far sì che tutti, ma proprio tutti gli strumenti fossero valorizzati), coi legni bene in vista
(flauti, oboi e clarinetti) poi gli ottoni (le classiche cornette, bombardini e via elencando) in
prima fila - ancora con studiata e calcolata disposizione - la coreografica presenza di un
corno (appena lievemente antiquato), sull’altro lato flicorni, tromboni e basso tuba, ai piedi
del santo percussioni (tra cui un argentino triangolo), alle sue spalle una grancassa. Da
ultimo colpisce il fondale (studiato anch’esso) con un drappeggio verosimilmente tricolore,
e così pure è significativo che i giovani indossino una sobria, ma riconoscibile divisa,
quanto meno dispongano dei berretti tipici degli strumentisti di banda.
Basterebbe questa sola immagine fotografica (molte altre di tal fatta ve ne sono)
per mostrare quanta e quale minuziosa cura don Bosco avesse riversato anche in tale
aspetto espressivo, pedagogico, aggregativo. La musica dunque come elemento di
espressione dello spirito, come elemento formativo (suonare in un ensemble comporta ore
di studio, dunque impegno personale e di gruppo, disciplina, autocontrollo, rispetto
dell’altro, attenzione al risultato collettivo e via dicendo), musica intesa quale mezzo per
svolgere azione di apostolato. Se molto, moltissimo è stato scritto sull’impegno di don
Bosco in mille altri settori, dall’editoria alla formazione professionale, dalla pedagogia in
senso classico al giornalismo, dagli ambiti più squisitamente sociali ai rapporti con la
politica e le istituzioni del tempo, don Bosco e la musica rappresentano un settore forse,
percentualmente, meno indagato ma non per questo meno rilevante entro il suo iter
biografico che si intreccia inscindibilmente con la sua visione totalizzante dell’uomo, più
ancora del giovane, innanzitutto: don Bosco il santo dei giovani e non caso, anche con la
musica è ai giovani che don Bosco si rivolge. E forse si potrebbe citare - ma solo di
sfuggita e col sorriso sulle labbra - il celeberrimo episodio e quel profetico invito rivolto da
don Bosco al suo primo ‘oratoriano’ Bartolomeo Garelli, all’inizio della sua missione (è l’8
dicembre del 1841). Forse non è un caso che don Bosco gli abbia rivolto quel celebre
quesito: «Sai almeno fischiare?» E da lì, nella sacrestia della chiesa di San Francesco
d’Assisi il primo nucleo di quella che diverrà l’opera salesiana.
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Partendo ancora da quella immagine vien da domandarsi che musica producesse
quella banda, di certo in sintonia con il costume dell’epoca, in quali contesti operasse e
più in generale quanto fosse l’effettivo riverbero di una profonda e strenua convinzione da
parte di don Bosco: vale a dire la notevole, significativa rilevanza dell’universo dei suoni
nel suo pensiero e nella sua pedagogia sistemica. Musica quale impegno ed edificazione,
elemento ricreativo ed al tempo stesso formativo. Musica - ovviamente - legata
all’universo sacro, dunque musica in chiesa, vocale e strumentale, ma non solo, musica in
oratorio, nella case e nei collegi salesiani. Moltissimi gli aspetti ai quali occorrerebbe
accennare.
La formazione e i primi anni
Non c’è tempo né spazio nella breve tranche di una comunicazione ad un
convegno quale il presente, e allora, pur a prezzo di vistose lacune, cercheremo di
soffermarci almeno su alcuni tra i più determinanti aspetti che saldano la figura di don
Bosco alla musica. La convinzione che ne emerge, dallo studio dei documenti è che
anche in tale ambito don Bosco abbia operato con una lungimiranza (in più d’un caso
profetica, anticipando ad esempio, a suo modo ed in una certa misura, da vero e autentico
precursore di pur travagliate riforme della musica sacra, si pensi al cosiddetto
cecilianesimo) un impegno ed una abnegazione assolutamente singolari, spendendosi in
toto e in primis al servizio del bene e dei giovani, senza mai perdere di vista quei valori
che strenuamente professò per tutta la vita.
Pare fin troppo scontato, ma è proprio dall’ambiente di Valdocco che occorre
partire per tentare di focalizzare alcuni punti fermi. Forse, anzi, prima ancora: merita un
cenno la formazione musicale di don Bosco stesso, non certo sistematica, ma nondimeno
significativa. Solo chi è stato educato infatti (anche da un punto di vista ‘estetico’) ad una
determinata disciplina complessa e variegata come la musica potrà poi a sua volta
dedicarvisi, avvalersene in sede pedagogica e entro il proprio piano educativo e così via. Il
più antico input, in tal senso, va forse ricercato all’epoca in cui Giovannino quindicenne
frequenta la scuola pubblica a Castelnuovo (dopo il matrimonio del fratellastro) e non
potendo rientrare a casa tutte le sere percorrendo cinque chilometri all’andata e cinque al
ritorno spesso pernotta presso un vecchio amico di famiglia, il sarto e ‘musico’ Giovanni
Roberto. A quell’epoca (1830-31) verosimilmente risalgono le prime larvate esperienze
musicali di Giovannino che frattanto inizia a frequentare il coro parrocchiale apprezzato
per la sua bella voc: «Fui pertanto messo in pensione con un onesto uomo di nome
Roberto Gioanni, di professione sarto, e buon dilettante di canto gregoriano e di musica
vocale. E poiché la voce mi favoriva alquanto, mi diedi con tutto il cuore all’ìarte musicale
e in pochi mesi potei montare sull’orchestra e fare parti obbligate con buon successo».1
Fin da giovanissimo, poi, fa seguire ai giochi di destrezza e di prestigio in cui è
ferrato e con i quali si conquista la simpatia dei coetanei, la recita del Rosario e il canto di
semplici melodie, probabilmente si tratta di canti popolari alla Vergine, assai comuni
all’epoca e dei quali facilmente Giovannino si impossessa assai precocemente. Di
sfuggita: gioco e musica sono parenti stretti: play, jouer, Spielen... Nei primi anni di Chieri
(1831-35) un compagno di scuola, certo Levi (ebreo, poi convertito), detto Giona, si
dedica alla musica ed è costui che (forse) lo introduce moderatamente all’arte dei suoni.
1 traggo la seguente citazione dallo studio di Mario RIGOLDI, Don Bosco e la musica, 1988 (p. 24),
rielaborazione della tesi di Magistero discussa da Rigoldi stesso presso il Pontificio Istituto Ambrosiano di
Musica Sacra (Milano, 1967), tesi dal titolo «La Musica nella vita, nel pensiero e nell’Opera di Don Bosco
a Torino». A tale studio - rivelatosi prezioso e per la stesura della presente relazione - ricco di materiali e di
ampi stralci attinti alle Memorie di Don Bosco, come pure alle Memorie dell’Oratorio, dall’Epistolario e da
varie altre fonti tra le quali l’Archivio Centrale Salesiano - volentieri rimandiamo il lettore desideroso di
approfondimenti, nonché interessato alla bibliografia riportata in calce allo studio stesso.
2
Già in quegli anni, dalle Memorie risulterebbe uno studio da autodidatta del
pianoforte e anche del violino, strumento che non poco l’attrae, strumento che peraltro
abbandonerà recisamente il giorno della sua vestizione (il 7 ottobre 1834) con una sorta di
solenne promessa dinanzi ad un’immagine della Vergine. «Non suonerò più il violino»2 .
Chissà se don Bosco semplicemente riteneva lo strumento «di impedimento alla vita che
intende intraprendere» o se invece, più o meno inconsciamente è consapevole delle
leggende che da sempre (e vieppiù in pieno Romanticismo) legano il violino all’immagine
diabolica? E gli esempi potrebbero essere numerosi, dal trillo del diavolo di tartiniana
memoria alle dicerie su Paganini ed ai suoi presunti patteggiamenti col diavolo, ai racconti
fantastici di E.T.A. Hoffmann, giù giù sino all’immagine del musicista zingaro, zigano e
girovago riverberato anche da certa iconografia (basti pensare a Chagall), sul violino nei
paesi di area slava (si pensi all’uso di un violino ‘scordato’ nella Quarta Sinfonia di Mahler
a rendere il suono stridulo dei piccoli violini dei cantastorie del mondo specie austriaco e
slavo, appunto, o a inizi Novecento si pensi alla stravinskijana Histoir du soldat). Il suo
amore per la musica si consolida negli anni del seminario a Chieri (quando, giovane
chierico, ha ormai compiuto i 20 anni). Ventiseienne al Convitto Ecclesiastico
approfondisce la teologia ed è al fianco di Guala e Cafasso; frattanto approfondisce anche
gli studi musicali di ambito vocale ed anche pianistici, ma non è dato sapere con quali
maestri, forse parzialmente ancora da autodidatta.
Troviamo poi don Bosco trentunenne (1846) che, presso la tettoia Pinardi (prima
sede provvisoria del futuro oratorio) la domenica fa cantare i Vespri e le Litanie ai suoi
ragazzi. Ben sei anni prima, già nel 1842, risulta che don Bosco abbia posto mano alle
sue prime composizioni musicali (da citare «Ah si canti in suon di giubilo», composizione
in lode del ‘divino pargoletto’ scritta per la festività del Natale, pagina di certo oltremodo
semplice e ingenua, e per questo funzionale allo scopo, specchio di un’epoca e pur
significativa nel nostro contesto). Pare che don Bosco stesso l’abbia accompagnata
all’organo dirigendo nel contempo una «piccola orchestra», verosimilmente un ridotto
ensemble cameristico (presso la chiesa dei domenicani e alla Consolata). Seguirono un
Tantum Ergo e varie altre pagine musicate da don Bosco stesso (delle quali peraltro non
ci sono stati tramandati gli originali). Nella sacrestia della chiesa di San Francesco
d’Assisi si può anche individuare il primo nucleo della futura scuola di musica, sulla cui
porta don Bosco avrebbe fatto affiggere l’avvertenza (programmatica) «Ne impedias
musicam». Don Bosco coglie al volo, nelle sue passeggiate per le zone più degradate di
Torino, melodie popolari.
Ne prende nota e se ne serve a sua volta, è il caso di «Noi siam figli di Maria»,
secondo una tecnica antica che si potrebbe definire del contraffactum (probabilmente non
ne era consapevole, eppure pervenne a tale prassi con l’intuito rabdomantico,
chiaroveggente e lungimirante che caratterizzò sempre la sua opera). Molti delle melodie
di quegli anni (delle quali invero solo una minima parte attribuibili a don Bosco
confluiscono poi (stampate) nell’assai citato Giovane provveduto. Molti al riguardo gli
episodi aneddotici di metà anni ‘40, per dire musica en plein air durante brevi gite coi suoi
ragazzi, in barca nei pressi della Madonna del Pilone oppure verso Superga.
2 scrive il Rigoldi al riguardo (attingendo alle memorie dell’Oratorio): «Cercò di praticare sempre questo
proposito, ma una volta non seppe dire di no ad un suo zio: “volendosi celebrare la festa di San Bartolomeo
fui invitato da un mio zio ad intervenire per aiutare nelle sacre funzioni, cantare ed anche suonare il violino
che era stato per me uno strumento prediletto a cui avevo rinunciato [...] Finito il desinare, i commensali mi
invitarono a suonare qualche cosa a modo di ricreazione[...]Non seppi rifiutare e mi posi a suonare e suonai
per un buon tratto, quando si ode un bisbiglio e un calpestio che segnava moltitudine di gente. Mi faccio
allora alla finestra e miro una fola di persone, che nel vicino cortile allegramente danzava al suono del mio
violino. Non si può esprimere con parole la rabbia da cui fui invaso in quel momento [...] Feci in mille pezzi il
violino”», op. cit., pp. 24- 25.
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A Valdocco
A Valdocco, dove agli esordi già viene allestita una pur piccola Cappella, si fa
musica dunque al servizio del rito, ma non solo. Dopo la santa Messa don Bosco accanto
a catechismo e ricreazione prevede espressamente anche uno spazio per la scuola di
canto. In breve, lo si anticipava poc’anzi, i giovani sono in grado di cantare i Vespri,
Litanie, Ave Maris Stella e Magnificat. Negli anni 1847-48 pare che gli allievi di canto
abbiano subito un significativo incremento numerico. Al 1847 risalgono l’acquisto di una
fisarmonica (12 lire), un organo a cilindri (costato 35 lire), tutti significativi indizi di quanto
la musica fosse importante nelle attività che si svolgevano a Valdocco; poi grazie al
teologo Giovanni Vola, giunge a Valdocco, non già un pianoforte, bensì una malandata
spinetta, strumento antiquato, che pure supplisce alle necessità. A Valdocco una
cinquantina di suoi ragazzi costituiscono il primo nucleo di un coro di voci bianche per il
quale don Bosco scrive, adatta, rimaneggia pagine varie, interpolando brandelli gregoriani
ed altro ancora (coadiuvato da alcuni ignoti suoi collaboratori), insomma si prodiga per la
formazione di una sensibilità musicale, già preconizzando una riforma della musica sacra,
secondo principi che tanto gli stavano a cuore fin d’allora (e si parla di un’epoca in cui il
malcostume imperante o la moda portava in chiesa ballabili e melodie operistiche, la
stessa organaria ne era influenzata). Anche qui l’aneddotica è ricca: don Bosco che
abbozza pagine sacre, senza metterle per iscritto in toto (non ne ha tempo) si sostituisce
all’organo, dopo aver irritato l’austero e bacchettone organista della Consolata (certo
Bodoira) e via elencando. Resta il fatto che sin d’allora il culto della musica è un punto
fermo, un must come si direbbe oggi, e lo sarà sempre nella case salesiane (dove la festa
di Santa Cecilia è solennizzata comme il faut). La scuola di musica procede e pare che
più di un professionista si lasci quanto meno incuriosire dai metodi didattici di don Bosco,
forse non certo accademici in senso stretto ma sicuramente efficaci, o quanto meno
funzionali. Al 1848 risulta attestato il primo nucleo di una vera e proprio scuola musicale al
cui interno il canto gregoriano o canto fermo, è particolarmente curato (i suoi giovani
iniziano a cantare in varie ‘trasferte’ non solo presso più chiese a Torino, bensì anche a
Rivoli, Moncalieri, Chieri, Carignano).
Vi si aggiunge - così nelle Memorie - anche l’interesse per la musica strumentale e
vengono impartite lezioni di pianoforte e organo (i dettagli sono in parte sconosciuti),
inoltre già all’epoca don Bosco pensa ad una banda. Già nel 1847 di rilievo un
riconoscimento del Comune di Torino che garantisce un sussidio (ovvero una parziale
sovvenzione) per la scuola serale di musica di don Bosco che nel 1848 ‘forma’ il suo
primo musico e futuro sacerdote di cui resta ignoto il nome. Ai primi anni ‘50 risale
l’acquisto di un modesto organo a canne di piccole dimensioni e dalle canne per intero in
legno (di certo un antiquato portativo... che pure rappresenta una tappa importante entro
un percorso ben preciso).
Terminata l’avventura della Tettoia Pinardi si costruisce la Chiesa di S. Francesco
di Sales e vi viene collocato un organo di cui nulla sappiamo (1852).
I regolamenti
La svolta avviene quando don Bosco da buon «educatore e organizzatore» sente
l’esigenza di sistematizzare anche sul versante musicale la propria azione ed allora ecco
negli anni 1859-60 l’apparire di norme che regolamentano in maniera precisa e dettagliata
la didattica di ambito musicale (ovvero entro quelle che vengono definite Scuole
commerciali e di Musica, che si effettuano presso l’oratorio di San Francesco di Sales e
che - merita sottolinearlo - sono rigorosamente gratuite). La lettura dei regolamenti è
davvero istruttiva e illuminante e rivela quel singolarissimo mix di rigore metodologico (e
così pure morale: significativa la proibizione ad esempio a chi le frequenti di andare a
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cantare in teatri o trattenimenti dove possano essere compromessi «la religione e il buon
costume») e, permettetemi, flessibilità amorevole che della figura di don Bosco fu sempre
una vera e propria emblematica firma.
Il primo Regolamento che contenga precise norme relative al canto e ai cantori
risale in realtà al 1847 (verrà ristampato addirittura nel 1887 di fatto con poche, ma
puntuali ed accurate varianti). Un paio di sottolineature soltanto (dal Regolamento per
l’oratorio festivo) indicative del rigore e nel contempo dell’amorevolezza di don Bosco:
«quando taluno sbaglia nel canto - scrive - non si rida né si disprezzi il compagno, ma il
Corista procuri di sottentrargli nella voce per rimetterlo in tono», vero capolavoro di
pedagogia pratica. E poi: «ai cantori è caldamente raccomandato di guardarsi dalla vanità
e dalla superbia», due vizi che vengono definiti biasimevoli e forieri di discordia tra i
compagni, facendo perdere di vista il fine ultimo di «lodare Iddio». C’è poi un
Regolamento per la scuola di canto relativa all’oratorio di San Luigi (ed è un manoscritto
del chierico Michele Rua, databile agli anni 1852-59, redatto pare su indicazione del
teologo Murialdo) ed un Regolamento della scuola di musica posta sotto il patronato di
Santa Cecilia (1875) entrambi documenti fitti di preziose indicazioni (si cita ad esempio
l’acquisto di strumenti), indicazioni anche di comportamento minutissime e puntuali (si
chiede di parlare in italiano, di avere abiti puliti, si prescrivono precise fasce di orario ecc.)
sulle quali, solo per ragioni di tempo, occorre sorvolare in questa sede. Ancora più
organico e sistematico il Regolamento per le case della società di San Francesco di Sales
dove si fa preciso riferimento alla presenza di musica vocale e con orchestra per le
solennità maggiori. L’impressione che se ne deduce è il fermo proposito di don Bosco di
far sì che la musica sia oggetto di insegnamento serio e rigoroso, pur offrendo la
possibilità a tutti coloro che siano in possesso di corretti requisiti; non a caso come lo
sport e le passeggiate la musica viene annoverata tra «i mezzi efficacissimi per ottenere
la disciplina, giovare alla moralità ed alla santità». E non è certo cosa da poco. Celebre
quest’altra affermazione: «un oratorio senza musica è come un corpo senz’anima».
Don Bosco e il grande rilievo da lui assegnato alla musica
L’estrema serietà profusa da don Bosco in ambito musicale è significativamente
riverberata, dallo scrupolo, ad esempio, col quale nel celebre Giovane Provveduto (la cui
prima edizione risale al 1847, nel 1893 dopo la morte del santo è alla sua 123° edizione)
inserisce non pochi riferimenti all’arte dei suoni. Più ancora è di rilievo - e non solo se
rapportata al contesto storico dell’epoca - la sua grande attenzione nei confronti del canto
gregoriano che - si sa - proprio nella seconda metà dell’800 è oggetto di ricerche
scientifiche ed approfonditi studi storici ad opera dei benedettini di Solesmes: ricerche e
studi dei quali don Bosco è perfettamente a conoscenza, non solo, egli ebbe il privilegio di
entrare in contatto diretto con uno dei maggiori paleografi e gregorianisti dell’epoca, vale a
dire dom Mocquereau (artefice con dom Pothier della monumentale impresa della
moderna restaurazione, revisione e pubblicazione del vasto corpus gregoriano sfociante
poi nell’Editio Vaticana del 1908). Don Bosco addirittura operò una sorta di semi
guarigione di dom Mocquereau... Dallo studio dei documenti emerge la figura di un don
Bosco attendo a lasciare fermentare i germi di quel rinnovamento liturgico musicale che
ebbe nel Cecilianesimo culminante nel Motu Proprio di Pio X del 1903, la sua più
manifesta espressione (in Italia con Baini e Casimiri, in Francia con i citati benedettini, in
Germania con Franz Xaver Haberl, e allora l’apertura di scuole corali, aspetto sul quale
don Bosco si trovò, quanto meno in Italia, profeticamente in anticipo sui tempi, il rinnovato
interesse per l’antica polifonia e via elencando).
Meritevole di menzione anche il riverbero in ambito editoriale che don Bosco seppe
suscitare, quanto al repertorio vocale. Il discorso porterebbe lontano, basti averne fatto
menzione.
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Così pure da sottolineare l’impegno che sempre don Bosco profuse (fino agli anni
tardi) affinché in ogni casa salesiana ci fosse la presenza di un musico, un maestro (così
le sue esortazioni per Nizza sul finire degli anni ‘70).
Occorrerebbe soffermarsi sul vasto repertorio sacro della Schola Cantorum
dell’Oratorio al quale, il più insigne dei musici salesiani Giovanni Cagliero, missionario in
Patagonia, vescovo e
cardinale, diede un significativo apporto, il culmine nelle
manifestazioni sontuose per la consacrazione della basilica di Maria Ausiliatrice nel 1868
(con lo straordinario concorso di oltre 450 cantori e orchestra, e a coreografica,
stereofonica quanto simbolica disposizione di cantori in presbiterio, sulla cupola e in
orchestra a simboleggiare la chiesa militante, trionfante e purgante, ma sono aspetti assai
noti, studiati e citati). Alla figura di Cagliero, poi, è dedicata una specifica relazione nel
pomeriggio. Risulta che negli anni ‘70-‘80 dell’800 in Maria Ausiliatrice siano state
eseguite pagine sacre di Rossini, Pacini e Mercadante come pure di Benedetto Marcello,
che si guadagnano articoli sulle riviste specializzate (specie di Musica Sacra) e citazioni
nell’ambito del 2° Congresso di dell’Associazione Italiana di S. Cecilia. E ancora nel 1882
si registra l’esecuzione di una non meglio specificata Messa di Haydn, sintomo di un gusto
ed una sensibilità di tutto rispetto in ambito salesiano, ma ispirata - ça va sans dire - dal
fondatore stesso. Analoghe considerazioni per la consacrazione della chiesa di San
Giovanni Evangelista (San Giovannino) nel 1883, mentre nel 1884 in Maria Ausiliatrice si
esegue una messa di Cherubini. Al 1886 risale addirittura una piccola tournée italiana dei
cantori di don Bosco, gemellata alle conferenze di presentazione delle missioni
nell’America del Sud (invero fin dagli anni ‘50-‘60 i suoi cantori erano stati «richiesti un po’
ovunque», come è stato detto con un pizzico forse di eccessiva iperbole). Ancora
esecuzioni di spicco e di innegabile risonanza (ancora Haydn e Cherubini ai quali si
aggiungono pagine di Gounod) per la consacrazione della Basilica del Sacro Cuore di
Maria a Roma, che tanti affanni procurò a un don Bosco ormai consunto, malato, allo
stremo delle forze: gli stessi cantori (ma non don Bosco) vengono ricevuti (e lodati) in
udienza dal papa Leone XIII: come non pensare ad una assai celebre fotografia di don
Bosco, umanissima e toccante, scattata a Nizza nel 1885, appena tre anni avanti la morte.
Così pure occorrerebbe accennare all’estrema cura che don Bosco ripose nella
scelta dei migliori organari del tempo per lo strumento da collocare all’Ausiliatrice
innanzitutto (si rivolse ai rinomati fratelli Lingiardi di Pavia, per il cui collaudo - 1870 viene chiamato nientemeno che l’organista Vincenzo Petrali, all’epoca tra i più celebri
esecutori, ma di questo parlerà con competenza e fonti di prima mano il collega organista
e organologo Marco Ruggeri: per inciso l’organo Lingiardi verrà restaurato dai Bernasconi
di Varese, poi radicalmente rimaneggiato da Vegezzi-Bossi a inizio ‘900 e sostituito
dall’attuale Tamburini negli anni ‘30-‘40); altrettanto fece don Bosco per le altre chiese da
lui edificate, San Giovanni Evangelista in Torino (e si trattò di un Bernasconi collocato nel
1882) e la Basilica del Sacro Cuore a Roma, 1887 (idem, un Bernasconi).
Occorrerebbe parimenti soffermarsi sulla musica per così dire ricreativa che a
Valdocco venne eseguita costante e copiosa, negli anni. E si trattò di farse musicali, brani
tratti dal repertorio lirico, brani scritti ad hoc dagli immancabili Cagliero, De Vecchi e
Dogliani (romanze secondo il gusto del tempo e via elencando), addirittura, nel corso di
talune ‘accademie’, pagine di da Elisir d’amore di Donizetti, dal Don Procopio di Gustavo
Fioravanti o dalla rossiniana Matilde di Chabran o ancora da Crispino e la comare dei
fratelli Ricci. Non c’è tempo per approfondire: basti annotare, come più d’uno ha
segnalato, la «posizione di privilegio costantemente concessa da don Bosco alla musica
nei vari settori dell’ambiente educativo da lui creato».
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Della banda, poi, che tanta parte sempre ebbe nella vita dell’Oratorio di Valdocco
(come pure nel corso delle celebri ‘passeggiate’ estive di don Bosco con i suoi ragazzi), si
accennava in apertura della presente relazione. Brevemente: si formò assai
precocemente, le prime avvisaglie sono degli anni 1846-47, all’epoca in cui alla scuola
vocale si affiancano una scuola strumentale di pianoforte e organo ed un per la
formazione di strumentisti di banda, appunto. Ebbe poi sempre il suo ruolo in occasione di
«feste, passeggiate, accademie, ricevimenti, manifestazioni religiose e patriottiche (siamo
vicini al 1848). Dai 12 elementi iniziali crebbe alquanto: il complesso peraltro non mancò
di procurare preoccupazioni e apprensioni a don Bosco e fu più volte sciolta e rifondata.
Determinante, secondo la moda dell’epoca, la sua partecipazione alle funzioni religiose,
pur nel rispetto delle norme sinodali. che caldeggiavano un uso sobrio degli strumenti in
chiesa. la banda è un realtà di rilievo anche in trasferta, ad esempio in terra di missione (a
Buenos Aires e o non solo), «simbolo e segno di gioia allegria solennità», ma in primis
strumento di socializzazione e pedagogico. Oltre alla banda - curiosamente - don Bosco
propizia anche una scuola di violino, forse in ricordo di un suo antico amore per tale
strumento, poi ripudiato. scuola che si affianca a quella di pianoforte e di organo., c tutti
spetti sui quali non è possibile soffermarsi come pure occorre sorvolare sul repertorio
(peraltro ampiamente prevedibile) eseguito dalla citata banda di don Bosco.
Da ultimo sarebbe opportuna una carrellata sui numerosi musicisti salesiani che
della lungimiranza del santo furono una diretta emanazione, ma una eventuale disamina
porterebbe lontano (dai primissimi ‘aiutanti’ in avanti, e allora il canonico Nasi, don
Chiatellino e Giovanni De Vecchi cui per anni fu affidata la cura della banda). Peraltro è
prevista una relazione quest’oggi sulla figura e la produzione del conterraneo di don
Bosco monsignor Giovanni Cagliero (1838-1926), su tutti la figura forse di maggior spicco,
per statura artistica e umana; basti allora citare, un po’ alla rinfusa Giuseppe Dogliani
(1849-1934), più volte protagonista di esecuzioni sontuose in basilica e in San Giovanni ai
tempi di don Bosco (fu continuatore del Cagliero e ottimo didatta), poi Giovanni Battista
Grosso (1858-1944) inviato da don Bosco a Marsiglia ebbe relazioni con la Schola
Cantorum del D’Indy, e poi Carlo Baratta (1861-1910), direttore di coro, Giacomo
Costamagna (1846-1921) musico e missionario in America, Giovanni Garbellone (18591928) e poi più vicino a noi i vari Alessandro De Bonis, Nicola Vitone e Giovanni Pagella,
giù giù fino al ‘900 inoltrato di un Virgilio Bellone, un Dusan Stefani e (per restare in
ambito nostrano qui alla Crocetta) l’indimenticabile Antonio Fant, Domenico Machetta e il
liturgista Giuseppe Sobrero e Adriano Manente, o lo stesso Massimo Palombella, passato
da qui, ed ora ai vertici della cappella Sistina, ovvero Maurizio Palazzo autore di un
apprezzato recital in questo scorcio di 2015 nell’occasione del bicentenario boschiano. E
siamo dunque alla contemporaneità.
Per inciso: al Cagliero nel 1876 don Bosco ebbe a scrivere espressamente: «Tu sei
musico io sono poeta di professione».
Don Bosco e la musica, dunque
Ragione, Religione, Amorevolezza. La musica, a ben guardare ha qualcosa a che
fare con questi tre cardinali elementi del pensiero boschiano tante volte citati dai suoi
esegeti e biografi: Ragione, una incredibile ratio preside infatti a qualsiasi pagina
musicale, musica è misura, cartesianesimo, proporzione e via dicendo (dai Fiamminghi a
Bach, dalla Grande Fuga op. 130 di Beethoven alla Seconda Scuola di Vienna alle
complesse architetture sonore del credente e mistico Messiaen). Religione. Musica - non
solo quella sacra in senso stretto - è anche espressione dello spirito, ogni musica di fatto
è legata ad una dimensione altra, religiosa, dunque, ancorché non necessariamente in
senso confessionale. Amorevolezza, Musica poi è emotività, affettività, espressione dei
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sentimenti, quella amorevolezza che per don Bosco non è un sentimento generico e
astratto, bensì qualcosa di concreto e tangibile rivolto al prossimo ed in particolare ai suoi
giovani, amore tradotto nella pratica. Tutta la musica - possiamo ben dirlo, se mi è
permessa una piccola forzatura per così dire metaforica - di fatto è un atto d’amore. «Che
i giovani si accorgano di essere amati»; «studiate di farvi amare più che di farvi temere»,
«educare è faccenda di cuore», tutte celeberrime espressioni di don Bosco che inoltre - si
sa - fu sempre sommo affabulatore. E la musica è di norma mezzo oltremodo efficace di
affabulazione in quanto agisce sull’emotività.
Epilogo
E allora per concludere questa sommaria carrellata: chissà quale immagini, quali
pensieri e - aggiungiamo noi - quali ricordi musicali, quali istantanee sonore saranno
balenate alla mente di don Bosco ormai in agonia negli istanti prossimi alla morte: «Noi
qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri» aveva detto più volte (ed è una
delle sue frasi più celebri e citate). Aveva anche affermato che «Il diavolo ha paura della
gente allegra». Pare si sia accomiatato dai suoi con l’esortazione amorevole: «Dite ai miei
ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso». In quel Paradiso così magnificamente evocato in
termini sonori dalla pagina che suggella il mirifico Requiem di Fauré («In Paradisum
deducant te angeli») eseguito - i casi del destino - per la prima volta a Parigi alla
Madeleine il 16 gennaio del 1888, due settimane prima della dipartita del futuro santo:
pagina a dir poco sublime in cui le voci chiare paiono evocare al meglio quella serenità
pacificante, quella letizia ormai trasfigurata che di certo don Bosco assaporò ben prima
del transitus animae: don Bosco che a sua volta aveva scritto: «...si aggiunga a questo
ogni squisita bevanda, ogni cibo più saporito, una musica la più dolce, un’armonia la più
soave, tutto questo è nulla paragonato all’eccellenza del Paradiso»3.
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3 cfr. M. RIGOLDI, op. cit., p. 48.
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