Geografia politica, Geopolitica, Asia
2012
Geografia politica, Geopolitica, Asia
Dispensa di Geografia politica ed economica A.A. 2011-2012
Dott. Isabella Damiani
Dispensa per il corso di Geografia Politica Economica
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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CAPIRE LO SPAZIO POLITICO
estratto da “Comprendre d'espace politique” di Stephane Rosière, l'Espace Politique, 2007.
La comprensione spaziale dei fenomeni politici occupa i geografi da oltre un secolo. Questa
riflessione si struttura in due percorsi distinti: la geografia politica e la geopolitica.
Approfondiremo sulla nascita di queste scuole, le loro divisioni e le loro sovrapposizioni; e sui
loro collegamenti con la geografia più ampia, compresa la "nuova geografia".
Percorsi
di
competizione
per
un
oggetto
comune
La geografia, per molti, sembra essere più figlia delle scienze naturali che di qualsiasi altra
disciplina. Ancora oggi, per chiunque, la parola “geografo” evoca più facilmente uno specialista
della crosta terrestre o del clima, che un esperto di frontiere o delle questioni di segregazione
... Anche per affermare l'interesse che i geografi hanno per la politica che il geografo tedesco
Friedrich Ratzel (1844-1904) - studente all'Università di Jena di Ernst Haeckl, il fondatore della
ecologia - scriveva, nel 1897, il primo volume della sua Politische Geographie (Geografia
politica), il primo libro mai pubblicato con questo titolo. Il "senso geografico" che F. Ratzel ha
voluto sviluppare tra i suoi contemporanei - e soprattutto presso il potere tedesco - nacque
con l'analogia nello Stato / Essere vivente, risultato della sua formazione di naturalista, il cui
determinismo è ormai obsoleto e pericoloso. Quali che siano i limiti della sua riflessione, F.
Ratzel apre un canale. La sua tassonomia è pesante, ma sviluppa comunque concetti che
avranno una vita dura: interno ed esterno, posizione, vicinanza, isolamento, ecc ... I suoi
contemporanei, ovviamente, non poterono giudicare la perennità delle sue idee, sarà giudicato
in
Dalla
seguito,
dai
geografia
risultati
concreti
politica
di
alla
questa
scienza.
geopolitica
Per Karl Haushofer (1869-1946) nel 1918, l'approccio di Ratzel ha fallito. Esso non è stato in
grado di offrire un senso dello spazio utile per i leader tedeschi dopo la sconfitta della prima
guerra mondiale. Haushofer quindi vuole riformulare l'interazione politica / spazio attraverso
lo sviluppo di una nuova disciplina chiamata geopolitica - un neologismo inventato dallo
svedese Rudolf Kjellen (1864-1922) nel 1899. Karl Haushofer non era un geografo, ma un
militare, e le sue preoccupazioni erano in gran parte strategiche. Questo è ancora molto
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sentito oggi poiché molti di quelli che fanno la geopolitica, di cui la maggior parte sono nongeografi, concentrano i loro sforzi sul confronto tra gli attori. Yves Lacoste non la definisce
forse
come
lo
studio
delle
"rivalità
di
potere
sui
territori"
(Lacoste,
1995)?
A partire dal 1924, con la fondazione della Zeitschrift für Geopolitik (Rivista di Geopolitica),
Haushofer è impegnato nello sviluppo di questa nuova scienza che sembra, soprattutto in
Francia, troppo assoggettata agli obiettivi dell'imperialismo tedesco. Albert Demangeon ha
anche osservato che " la geopolitica (...) punta gli interessi, non umani e generali, ma
specificamente tedeschi (1932) e "se vuole essere considerata una scienza, è il momento [per
la geopolitica] di ritornare alla geografia politica "(1932). Vediamo che di questo periodo,
sembra che la credibilità sia venuta a mancare per l'ultima arrivata. Ancora più grave, i nazisti
si basano sugli strumenti intellettuali creati da queste due discipline (tra cui der Raum, lo
spazio - e il famoso Lebensraum, "spazio vitale", anche se questo concetto, originariamente
legata alla biogeografia , è stato formulato da Oskar Peschel nel 1860). Questo bricolage
intellettuale poco gradevole squalifica la geopolitica che, dopo la seconda guerra mondiale,
scompare in Europa. Questo però non è il caso sul continente americano dove continua un
pensiero geopolitico i cui principi sono piuttosto legati alla analisi di Alfred Mahan (18401914), di Halford Mackinder (1861-1947), Nicholas Spykman (1893 -1943), o dei latinoamericani come il generale brasiliano Golbery do Couto e Silva (1911-1987). Come sintetizza
Marco Antonsich (1995), la geopolitica ha subito "una mutazione ideologica", ma non
scompare in quanto tale. Al contrario, essa riappare in vigore, alla fine del 1970. Henry
Kissinger è uno dei primi ad usare questo termine, nel 1977, perché stava cercando una parola
evocativa e mediatica - pur avendo un eco a priori negativo - per denunciare la strategia di
destabilizzazione guidata dall'Unione Sovietica in Africa o in America Latina (Foucher, 1991). In
Francia, la creazione della rivista Hérodote nel 1976, sotto la direzione di Yves Lacoste, ne
simboleggia il ritorno. Oggi, il termine geopolitica è di moda, molto più di geografia politica,
che è molto più utilizzato nei paesi anglo-sassoni. Così, in Francia, se la geografia politica ha
visto progressi negli anni '30 (André Siegfried, Jacques Ancel), il nome è stato ripreso non
molto (Sanguin, 1977) fino ad oggi.
Interazione
politica/geografia
Questa breve introduzione dei due percorsi trattanti la politica presso i geografi sarebbe
incompleta senza insistere sul ritorno della politica in tutta la geografia. Infatti, il geografo
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contemporaneo è, in generale, preoccupato della natura come della politica. "(...) In mezzo
secolo, la geografia è passata dal campo delle scienze "della natura” alle scienze sociali in
un'unica migrazione nella storia delle scienze e che i geografi stessi non hanno ancora finito di
misurarne
Il
le
contributo
conseguenze
fondamentale
della
"(Knafou,1997).
Political
Geography
Lontano dai battibecchi francesi – la Francia è stata sempre più relegata alla periferia della
ricerca fondamentale – la Political Geography anglo-sassone ha conosciuto dagli anni '70, una
rivoluzione
epistemologica
considerevole.
Questa rivoluzione epistemologica si basa principalmente su un lavoro sistematico e
fondamentale svolto principalmente (ma non solo) a partire dalla seconda guerra mondiale.
Molti geografi americani, o non anglofoni di nascita, ma che svolgevano il loro lavoro in
inglese, hanno esteso la ricerca iniziata da F. Ratzel in una prospettiva sistematica e normativa.
Senza voler essere esaustivi, possiamo citare Richard Hartshorne, Pounds Norman, Harm a Blij,
ma anche Jean Gottmann che ha fatto da ponte tra le due sponde dell'Atlantico.
Per fare solo un esempio, Pounds Norman (1963) ha condotto una riflessione esaustiva a
partire dalla descrizione dei territori politici (Stati, suddivisioni amministrative, ma anche sulle
organizzazioni regionali) e si è avvicinato ad uno studio ragionato e sistematico delle frontiere
e delle popolazioni, i legami tra le risorse e il potere, il Terzo Mondo, o alle riflessioni di teoria
geopolitica. Sulla base di queste tematiche ben più ampie di quelle che Claude Raffestin voleva
attribuire alla geografia politica, la discussione è stata approfondita e ampliata notevolmente a
partire dagli anni 1980-90 da una nuova generazione di ricercatori, tra cui John Agnew, Peter
Taylor, John O'Loughlin e Kevin Cox che sono tra i rappresentanti più importanti.
John Agnew (1994) in un articolo diventato celebre ("La trappola territoriale") ha sottolineato
la necessità per i geografi politici di uscire dalla "trappola territoriale" e di considerare altri
attori che gli Stati e altre logiche che quella territoriale (le reti, ad esempio), che obbligano a
non pensare più lo Stato come il solo “contenitore” delle società sempre più transnazionali e
mondializzate. Peter J. Taylor (2000) che analizza la geografia politica attraverso il sistemamondo, in una prospettiva rinnovata che si allontana ancora di più da Ratzel e si basa sui
paradigmi del potere e mette in evidenza l'influenza sempre più forte della geo-economia. Più
recentemente, Kevin Cox sottolinea che "la geografia politica si basa sullo studio dei concetti
dialettici di territorio e territorialità" (2002) - che ricorda l'opera della geografia sociale
francese (Di Meo e Buléon, 2005). Kevin Cox sottolinea anche l'importanza dell'ecologia
politica che è un argomento ancora troppo marginale nella riflessione francese.
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Ricordiamo, infine, che la metamorfosi della Political geography ha anche toccato la
geopolitica - nella misura in cui, prendendo in contropiede il pensiero di Yves Lacoste, i
ricercatori americani considerano la geopolitica come un sottoinsieme della geografia politica
(e abbiamo visto che l'analisi geopolitica era già in Pounds Norman un capitolo della sua
Geografia Politica). In un altro articolo molto importante G. O'Tuathail e J. Agnew (1992)
sottolineano che la geopolitica non è solo una descrizione di politiche pensate nello spazio, ma
anche discorsi da "decostruire" per utilizzare il concetto di Jacques Derrida. *…+ questi due
autori distinguono così una geopolitica teoria (formal geopolitics) complessa e scientifica e una
geopolitica applicata ( practical geopolitics), una geopolitica popolare questa volta ridotta a
semplici immagini, manichee, create dagli apparati statali e per la mobilitazione della società.
Gearoid O'Tuathail ha fondato la Critical geopolitics (1996), approccio nel quale ha creato il
concetto di geo-power: strumentalizzazione della conoscenza geografica da parte degli Stati e
dei poteri. Ancora una volta, questo è un lavoro di decostruzione delle teorie geopolitiche che
porta questo autore innovativo a stabilire un collegamento rilevante tra geografia e i temi del
potere,
della
conoscenza,
della
lingua
e
della
testualità.
Frank, Wallerstein e il sistema-mondo
Prima di concentrarci sull'evoluzione della geografia politica anglo-sassone, è necessario
presentare il concetto di Sistema-mondo, ripreso e approfondito da Taylor, ma introdotto a
cavallo tra gli anni '60 e '70 da due studiosi della teoria “marxista”della dipendenza: Gunder
Frank et Immanuel Wallerstein.
La tesi di fondo della teoria della dipendenza è che la relazione fra paesi industrializzati e
periferie in via di sviluppo si fondi sull'operare di un meccanismo di dipendenza e che,
conseguentemente, le condizioni di sottosviluppo dei paesi del Terzo Mondo possano essere
comprese unicamente attraverso l'analisi del funzionamento del sistema capitalistico mondiale
nel suo complesso. La “metropoli” sviluppata e i suoi “satelliti” sottosviluppati, secondo
l'accezione introdotta da Andre Gunder Frank nel 1967, sono elementi interagenti di un unico
sistema, e i processi che si determinano al suo interno (sviluppo e sottosviluppo) sono fra loro
dialetticamente
intrecciati.
Le
“metropoli”
industrializzate
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dominano
la
periferia
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sottosviluppata tramite l'approvazione del surplus ivi prodotto, per cui alla periferia si attiverà
un inevitabile “sviluppo del sottosviluppo”. L'argomentazione di Frank prevede l'emergere
della contrapposizione sviluppo-sottosviluppo, centro-periferia, ai diversi livelli, a partire da
quello della “metropoli mondiale” con i propri satelliti, sino all'hacienda rurale della campagna
latino-americana, dipendente da un “centro” di interesse locale. Frank evidenzia per l'appunto
il fatto che la contraddizione sviluppo/sottosviluppo “non esiste solo fra la metropoli del
mondo capitalistico e i paesi satelliti periferici industriali in rapido sviluppo e aree agricole in
ritardo o in declino”. Viene in tal modo esclusa qualsiasi ipotesi di convergenza economicospaziale: al contrario, la tendenza naturale è alla polarizzazione a vantaggio dei “centri”, che si
rafforzano riproducendo squilibri sociali (e spaziali) ai diversi livelli della scala geografica. *…+ Il
sottosviluppo della periferia non è dunque una condizione occasionale e transitoria, bensì un
elemento intrinseco al funzionamento del sistema nel suo complesso.1
Le tesi riguardanti la relazione univoca tra centro e periferia sono riprese e ampliate da
Immanuel Wallerstein.
Questi analizza il sistema del mondo come segue: “un sistema è definito come un’unità con
una unica (singola) divisione del lavoro e sistemi culturali multipli.”
Nella sua pubblicazione del 1987, World-systems analysis, Wallerstein disconoscerà il termine
“teoria del sistema-mondo”. Egli afferma che “l’analisi del sistema-mondo non è una teoria sul
mondo sociale, o su parte di esso. È una protesta contro il modo in cui la ricerca scientifica
sociale è stata strutturata per tutti noi alla nascita verso la metà del diciannovesimo secolo”.
Wallerstein poi continua presentando sette presupposti comuni della scienza sociale moderna
che vengono messi in discussione dall’analisi del sistema-mondo. Parafrasando, questi sette
presupposti sono:
Le “discipline” della scienza sociale moderna sono raggruppamenti intellettualmente coerenti
di materie che si riferiscono a logiche discrete. L’analisi del sistema-mondo richiede una
scienza sociale storica uni-disciplinare e sostiene che le discipline moderne—un prodotto del
diciannovesimo secolo—sono profondamente difettose perché non rispondono a logiche
separate.
1 Vanolo A., "Geografia economica del sistema-mondo", UTET, 2008.
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La storia è lo studio degli eventi (l’approccio ideografico) e la scienza sociale scopre regole
universali di comportamento sociale/umano (l’approccio nomotetico). Wallerstein afferma che
“l’analisi del sistema-mondo offre un “di più” euristico della “via di mezzo” fra le
generalizzazioni trans-storiche e le narrazioni particolaristiche. *…+ Essa sostiene che il metodo
ottimale è di perseguire l’analisi all’interno di schemi sistematici, con orizzonti temporali e
spaziali abbastanza ampi da contenere le logiche imperanti che determinano gran parte della
realtà sequenziale, allo stesso tempo riconoscendo e prendendo in considerazione che tali
schemi sistematici hanno un inizio e una fine e non devono pertanto essere concepiti come
fenomeni ‘eterni’.”
I paesi o “Stati” moderni sono società, ovvero esiste una società che caratterizza ciascuno di
essi. L’analisi del sistema-mondo sostiene che gli Stati moderni non sono vere e proprie
società, ma rappresentano le “unità politiche” del sistema inter-statuale e dell’economia della
società moderna. Nella visione di Wallerstein, ci sono stati tre generi di società (sistemi) nella
storia dell’umanità: i mini-sistemi, che antropologi denominano clan, tribù e piccoli regni e due
tipi di sistemi-mondo: gli imperi mondiali composti da singoli “Stati”, come era l’Inghilterra, la
Spagna, etc., e le economie-mondo composte da molteplici centri di governo. I sistemi-mondo
sono più grandi ed etnicamente compositi. La società moderna, denominata “il sistema-mondo
moderno” è del secondo tipo (un’economia-mondo multi-governata), ed è anche stata l’unica,
la prima e sola economia-mondo completamente capitalista ad emergere, tra il 1450 e il 1550,
e ad espandersi geograficamente sull’intero pianeta, attorno al 1900.
Il capitalismo è un sistema basato sulla concorrenza fra produttori liberi usando il lavoro libero
con i prodotti liberi, dove “libero” significa che è disponibile sul mercato per essere acquistato
e venduto. Le situazioni in paesi che deviano da questa definizione, quali i paesi “comunisti” o
“socialisti” e “paesi terzi”, non sono ancora capitaliste. L’analisi del sistema-mondo sostiene
che il capitalismo, come sistema sociale storico, ha integrato sempre una varietà di forme di
lavoro all’interno di una divisione del lavoro funzionante (economia-mondo). I paesi non hanno
economie, ma fanno parte dell’economia-mondo. Lontani dall’essere società o mondi separati,
l’economia-mondo manifesta una divisione tripartita del lavoro con le zone del nucleo, della
semi-periferia e della periferia. Le attività economiche delle zone del nucleo, con il supporto
degli Stati che vi operano dentro, monopolizzano le attività più vantaggiose della divisione del
lavoro. Nel riconoscere un modello tripartito, l’analisi del sistema-mondo ha criticato la teoria
della dipendenza con il relativo sistema bimodale fatto soltanto di nuclei e di periferie. Ci sono
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molti modi di attribuire un paese specifico al nucleo, alla semi-periferia, o alla periferia.
Usando una definizione di dominanza convenzionale e basata sull’esperienza nel rapporto tra
due paesi, Piana nel 2004 ha definito il “nucleo” come composto “dai paesi liberi” che
dominano altri senza essere dominati, la “semi-periferia” come i paesi che sono dominati
(solitamente ma non necessariamente dai paesi del nucleo) e allo stesso tempo dominano altri
(solitamente della periferia) e la “periferia” come i paesi che sono dominati.
Il tardo diciottesimo secolo e il primo secolo diciannovesimi hanno contrassegnato una grande
svolta nello sviluppo del capitalismo in quanto i capitalisti hanno ottenuto un potere come
gruppo sociale nello Stato in paesi chiave che hanno continuato la rivoluzione industriale
contrassegnando così la crescita del capitalismo. L’analisi del sistema-mondo obbietta che il
capitalismo sia un sistema storico formato in precedenza e che i paesi non si “sviluppano” in
fasi, ma piuttosto che è il sistema che li fa sviluppare e che il loro “sviluppo” non corrisponde
che a fasi di un unico sviluppo storico del capitalismo, quali quelle identificatesi con le tre
ideologie della mitologia dello sviluppo nazionale: il conservatorismo, il liberalismo e il
radicalismo.
La storia umana è progressiva ed è tale inevitabilmente. Gli analisti del sistema-mondo, con gli
antropologi, sostengono che l’evidenza storica suggerisce il contrario, e che le società umane
sono diventate sempre più diseguali. La ragione di tale credenza è al contrario precisamente
che la scienza sociale moderna è emersa nelle zone di nucleo, che contengono circa 20% della
popolazione del moderno sistema-mondo e controllano circa l’80% della relativa ricchezza, la
quale si è espansa al crescere della polarizzazione del potere e della diseguaglianza come
tendenza del sistema.
La scienza è la ricerca delle regole che riassumono nel modo più sintetico perché ogni cosa è
come è e come le cose accadono. Wallerstein afferma che l’analisi del sistema-mondo è la
richiesta della costruzione di una scienza sociale storica che si trovi a suo agio con le incertezze
della transizione, che contribuisca alla trasformazione del mondo illuminando le scelte senza
fare appello alla credenza surrettizia nel trionfo inevitabile del bene. L’analisi del sistemamondo è una richiesta di aprire le finestre chiuse che ci impediscono di esplorare molte zone
del mondo reale. 2
2
Ardeni P.G., Corso di economia dello sviluppo, Università di Bologna, 2011.
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Fonte: Vanolo A., op.cit. 2008.
Le differenze di fondo tra la teoria di Frank e il sistema-mondo di Wallestein sono innanzitutto
l'introduzione da parte di Wallerstein della “semi-periferia” e contrariamente alle teorie della
dipendenza che prevedono una riproduzione costante nel tempo del rapporto centro-periferia,
secondo Wallerstein, i rapporti centro-periferia sono storicamente dinamici: alcuni paesi nel
corso della storia, potranno passare da una posizione periferica a una semiperiferica, o da
centro a semi-periferia.
Peter J. Taylor e la sua nuova Political Geography
Dopo una breve introduzione all'evoluzione del discorso geografico riguardante “la cosa
politica” e sulle evoluzioni del pensiero riguardante il sistema-mondo, ci concentreremo
sull'analisi di Peter J.Taylor e sulla Geografia politica in relazione al Sistema-mondo.
Mentre la suola francese manifestava ancora le sue reticenze sulla geografia politica, le scuole
anglo-sassoni ci hanno abituato alla pubblicazione annuale di almeno un testo importante in
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questa branca della disciplina. “Political Geography, World-Economy, Nation-State and
Locality” è stato scritto da Peter J.Taylor nel 2007. Questo testo rappresenta perfettamente il
rinnovamento della geografia politica della scuola anglo-sassone. Si tratta di un tentativo di
approfondimento della geografia politica da parte di uno dei suoi leader sotto la luce
dell'approccio “sistema-mondo” di Wallerstein.
Secondo l'autore, molti tra i temi toccati costituiscono delle eredità: c'è un'eredità ideologica
per la geopolitica rivisitata da Taylor, mentre nella sua geografia degli imperialismi troviamo
un'eredità rivoluzionaria. La geografia elettorale, invece, rappresenta un'eredità liberale come
la geografia politica dei poteri locali rileva un'eredità ecologica. Taylor realizza così un'abile
sintesi tra la vecchia e la nuova geografia politica reinterpretata nel contesto della “radical
geography” (la geografia marxista anglo-sassone.)
L'opera è divisa in sei parti: l'approccio sistemico mondiale della geografia politica, la
geopolitica rivisitata, la geografia degli imperialismi, territorio/Nazione/Stato, ripensare la
geografia elettorale, la geografia politica dei poteri locali.
L'autore attualizza con molta abilità non solo le teorie di Wallerstein e della dipendenza, ma
anche la teoria dell' Heartland di Mackinder di cui parleremo meglio avanti.
Per quanto riguarda le analisi territoriali dello Stato-nazione, Taylor sviluppa le nozioni di
nocciolo centrale, di città-capitali, di frontiera, di territorialità umana, insistendo sempre sulle
forze centripete e centrifughe, assicurando sempre l'idea di Stato. A proposito della geografia
elettorale, l'autore fa la distinzione tra la geografia dei voti, da una parte, e le influenze
geografiche nelle votazioni dall'altra.
Taylor rappresenta senza dubbio, l'autore che ha più di chiunque altro influenzato negli ultimi
anni il rinnovamento della Geografia politica. Non contento degli approcci neo-positivisti ormai
imperanti nella disciplina, ha imposto non soltanto un riorientamento della materia, ma anche
una nuova analisi del sistema-mondo che definisce così:
“Un approccio materialista dello studio del cambiamento sociale sviluppato da Immanuel
Wallerstein. Questo approccio si sviluppa a partire da tre percorsi di ricerca: lo studio della
dipendenza, la scuola degli Annales di Braudel e la teoria e la pratica marxista”.
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Egli considera che, in concordanza col progetto di Wallerstein, la Geografia politica non è una
disciplina o una sub-disciplina particolare, ma essa è solo una parte del grande insieme della
Scienze sociali, però essa permette di fare luce sulle problematiche che, analizzate da un'altra
prospettiva, non vengono spiegate con chiarezza.
Taylor precisa che il “mondo” non può essere spiegato solo in termini di Stati-Nazione, ne
attraverso le loro economie “nazionali”. Con la prospettiva geografico-politica che elabora,
esso considera il mondo come un sistema spaziale di centri, periferie e semi-periferie,
estremamente correlati, che evolvono a seconda dei cicli di splendore e di crisi presentati
dall'economia capitalista.
Si distinguono tre scale di analisi nella teoria di Taylor:
1. l'Economia-mondo (che rappresenta la realtà, l'unico panorama contemporaneo con il
quale dobbiamo relazionarci per quanto riguarda ogni tipo di attività socioeconomica).
2. lo Stato-Nazione (che rappresenta l'ideologia, l'unità geo-politica che le società
contemporanee vivono e nel quale si riconoscono: “Le Nazioni sono le unità naturali
con una omogeneità culturale basata su una comune discendenza o una storia
comune, ognuna di esse richiede un proprio stato sovrano sul proprio territorio
inalienabile “
3. il Locale (che rappresenta l'esperienza, la quotidianità dell'individuo contemporaneo,
rappresentata dallo spazio concreto di vita, ma considerata periferia se messa in
interazione con l'Economia-mondo)
La scala e l'attore principale di questa analisi è l'Economia-mondo, non lo Stato-Nazione, come
consideravano le precedenti teorie geopolitiche.
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Per Taylor gli Stati non possono essere analizzati come entità separate le une dalle altre,
perché così si rischia di perdere le interazioni che rappresentano la caratteristica principale per
gli Stati. 3
Geo-politica e Asia
Per iniziare questa parte dedicata all'analisi del discorso geopolitico in relazione al continente
asiatico, è necessario partire da Sir Arthur Mackinder, le cui teorie sono state riprese e
rianalizzate anche da P. J. Taylor.
The Geographical Pivot of History è un articolo scritto dal geografo britannico nel 1904.
Secondo un determinismo geografico abbastanza marcato, MacKinder propone una divisione
del Mondo in tre categorie:
L'Isola-Mondo, il centro geografico e strategico dell'intero pianeta, costituita dal continente
eurasiatico. Il cuore di questo nucleo è l'Heartland cioè quello che all'epoca di Mackinder era
l'Impero Russo.
"Chi controlla l'Europa dell'Est controlla l'Heartland, chi controlla l'Heartland controlla l'Isola
Mondo, chi controlla l'Isola Mondo controlla il Mondo"
Le Isole Offshore, costitute dall'arcipelago britannico e da quello giapponese, che
rappresentavano una sorta di semi-periferia, strettamente correlata all'Isola-Mondo.
Le isole periferiche, la periferia marginale dell'intero sistema, costituite dalle Americhe,
settetrionale e meridionale e dall'Australia.
La teoria asia-centrica di Mackinder rappresentava un'allarme nei confronti del Sea Power
britannico e della sua sicurezza a considerarsi il centro del sistema globale dell'epoca.
Mackinder vuole mettere in guardia l'impero vittoriano contro lo strapotere continentale
dell'eurasia in particolar modo dell'Impero russo che, attraverso la sua espansione verso l'Asia
orientale e centrale, stava prendendo sempre più piede, mettendo in crisi il potere marittimo
britannico e la sua influenza sul continente asiatico, soprattutto nelle colonie indiane.
3
Cairo Carou H., Los enfoques actulaes de la geografia politica, 2010.
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Le teorie di MacKinder
Le teorie di Mackinder rinforzeranno le strategie del "Grande gioco" di cui parleremo più
avanti.
Prima di ingrandire la scala e di concentrarci sugli effetti di questa rivalità geopolitica tra Russia
e Gran Bretagna che ha caratterizzato una determinata epoca storica e che si è concentrata su
una particolare regione asiatica, analizzeremo le attuali riflessioni geopolitiche sul continente
asiatico, temuto e in qualche modo "demonizzato" da Mackinder, che, alle soglie del XXI
secolo, rappresenta la nuova "posta in gioco" e allo stesso tempo il nuovo attore geopolitico
nel contesto mondiale.
Per analizzare l'Asia di oggi e in particolar modo la sua evoluzione all'interno del nuovo
contesto geopolitico internationale e regionale, ci concentreremo sui due attori che
attualmente incarnano più di chiunque altro la crescita geopolitica di questo continente: la
Cina e l'India e analizzaremo le relazioni economiche, le dispute territoriali e gli accordi
internazionali che permettono a queste due potenze di definirsi i nuovi Pivot del continente
asiatico.
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Cina: potenza regionale e globale
di Zhang Yunling, EastAsiaForum, 2012, tradotta da Geopolitica rivista, 2012.
Da quando hanno preso il via le politiche di riforma e di apertura della Cina, negli anni
Settanta, il tasso medio annuo di crescita economica del Paese si è attestato intorno al 10%.
Al momento, il prodotto interno lordo della Cina è secondo solo agli Stati Uniti; Pechino è il
maggior importatore ed esportatore del mondo e il maggiore possessore di riserve di valuta
estera. Alla notevole ascesa economica cinese si aggiunge un potenziamento del ruolo della
Cina nello sviluppo e nella governance sia regionali sia globali.
Con le economie degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e del Giappone che barcollano tra
crescita debole e pesanti livelli di debito, la Cina è un motore fondamentale della crescita
economica globale che contribuisce, insieme ad altre importanti economie emergenti, quasi
per due terzi della nuova produzione economica mondiale. Secondo numerose proiezioni, per
il 2030 la Cina supererà gli Stati Uniti come maggiore economia del mondo.
Con l’affermarsi della sua potenza, la Cina diventerà naturalmente una protagonista più
importante nel delineare lo sviluppo e la governance regionale e globale. Allo stesso modo,
con la sua economia che entra in una nuova fase attraverso una costante innovazione
tecnologica e un boom della domanda interna, la Cina avrà un ruolo maggiore quale
importante mercato e risorsa capitale per la crescita economica regionale e globale.
L’economia cinese è fortemente integrata nel mercato globale, quindi il Paese dovrebbe
partecipare attivamente ad iniziative per riformare il sistema economico internazionale.
Mentre un processo di riforma stabile e evolutivo è importante per la Cina, il risultato
desiderato dovrebbe vedere modifiche strutturali che producano un nuovo e più efficace
sistema internazionale.
La Cina, si pone come nuovo leader continentale, sostituendosi così alla Gran Bretangna del
XIX secolo e alla Russia del XX secolo, è attiva nel promuovere sforzi per migliorare la
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governance regionale attraverso diversi forum che coinvolgono la regione dell’Asia-Pacifico nel
suo complesso: Asia Orientale, Asia Centrale e Asia Nordorientale. L’obiettivo è chiaro: aiutare
a creare un ambiente favorevole per la cooperazione economica, migliorare la fiducia a livello
politico e la sicurezza nella regione.
È significativo che la strategia della Cina sia multidimensionale, comprendendo più delle sole
questioni economiche. Una parte importante di questi sforzi sono gli accordi di libero scambio,
bilaterali o sub-regionali, come l’accordo di libero scambio (FTA) tra la Cina e l’Associazione
delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). Essi sono differenti dall’integrazione dettata dalle
leggi del mercato, perché oltre ad essere conformi alle norme dell’Organizzazione Mondiale
del Commercio, forniscono una base più ampia per la cooperazione tra i governi di diversi
paesi. L’esperienza dimostra che gli accordi di libero scambio possono avere un impatto
profondo sul miglioramento della governance nelle singole economie e nei sistemi regionali.
Durante lo scorso decennio, la Cina prese l’iniziativa di stabilire l’accordo di libero scambio tra
Cina e ASEAN (CAFTA) e giocò il ruolo principale nello studio sulla fattibilità dell’Accordo di
Libero Scambio per l’Asia Orientale. La Cina ha anche cercato di promuovere attivamente una
cooperazione trilaterale con il Giappone e la Corea del Sud. Per la Cina il CAFTA è più di un
accordo commerciale. Esso contribuisce a fornire un’ampia base per la cooperazione tra la
Cina e gli stati dell’ASEAN. La Cina è attualmente il più vasto mercato di esportazione per
l’ASEAN, ma i rapporti vanno ben al di là del commercio per includere infrastrutture,
connettività e rafforzamento di competenze per lo sviluppo umano.
Sebbene la Cina prenda parte a tutti gli accordi regionali, considera l’ASEAN+1 il principale
strumento per relazionarsi, seguiti dall’ASEAN+3. La Cina è preoccupata che il recente
allargamento dall’ASEAN+6 al EAS, per includere gli Stati Uniti e la Russia, possa indebolire lo
spirito di cooperazione dell’Asia Orientale, a causa di diversi interessi strategici.
Recentemente ha ricevuto molta attenzione la Trans-Pacific Partnership (TPP) guidata dagli
Stati Uniti. Nonostante la Cina sia la seconda più grande economia della regione, è esclusa dai
negoziati della TPP. Il parere della Cina è che il forum dell’Asia Pacific Economic Cooperation
(APEC) sia il più appropriato per le questioni regionali del tipo concepite per la TPP.
Mentre gli Stati Uniti presentano la TPP come un accordo di libero scambio ad alto livello per il
ventunesimo secolo, essa modificherà radicalmente la natura dell’approccio dell’APEC alle
relazioni nella regione. Può anche essere vista come una mossa da parte degli Stati Uniti per
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
2012
indebolire l’integrazione e la cooperazione dell’Asia Orientale. Ciò dovrebbe preoccupare
l’ASEAN per due motivi. Il primo è che molti Stati membri non sono inclusi nella TPP. E
secondo, potrebbe avere un impatto negativo sul ruolo centrale dell’ASEAN nel costruire una
comunità dell’Asia Orientale.
In questo contesto è di grande interesse come la Cina gestisce le sue relazioni con gli Stati
Uniti. Oggi questo rapporto include sia prosperità economica sia sicurezza politica.
Concentrandosi su obiettivi comuni quali crescita e prosperità globale, Cina e Stati Uniti
possono stabilire e promuovere una partnership che dia benefici a entrambe le nazioni oltre
che al resto del mondo.
Ma la promozione di un’interdipendenza economica richiede l’istituzione di interessi comuni e
la riduzione dei motivi di conflitto e instabilità. Ciò risulta difficile nel clima attuale in cui gli
squilibri strutturali negli scambi tra Cina e Stati Uniti alimentano tensioni. Gli Stati Uniti
spingono con forza affinché la Cina permetta una rapida rivalutazione del Renminbi, mentre la
Cina insiste su una rivalutazione graduale della moneta. Con gli Stati Uniti ora parte dell’East
Asia Summit, si spera che i due Paesi possano usare questa base per gestire i loro interessi e le
loro relazioni in modo collaborativo.
L’ascesa della Cina porrà fine all’ordine mondiale attuale dominato dall’Occidente, ma non
porrà fine al mondo occidentale, come alcuni allarmisti in Occidente temono. In un mondo
fortemente interdipendente, il futuro della società umana si regge su un’autentica
cooperazione da parte di tutti.
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
2012
Il rebus geopolitico del Mar Cinese Meridionale
Di Antonio Talia, per ChinaFiles, 11-2011.
Tutti lo vogliono: Cina, Vietnam, Filippine, Taiwan, Brunei e Malaysia. E ora ci si mettono anche
India e Usa. Pechino preferisce intavolare trattative bilaterali separate con i singoli stati
coinvolti, senza trattare l’argomento nel corso del vertice Asean. Ma non è di questo parere
Barack Obama.
Giù le mani dal Mar Cinese Meridionale, soprattutto quelle a stelle e strisce: ecco il messaggio
contenuto nelle parole del premier cinese Wen Jiabao, che nel discorso pronunciato venerdì
davanti ai leader dell’Asean (l’associazione che riunisce le nazioni del sudest asiatico) ha
escluso l’intervento di qualsiasi stato straniero nella complessa disputa territoriale in corso
nelle
acque
della
regione.
“La controversia tra le nazioni dell’area prosegue da anni - ha detto Wen nel suo discorso,
secondo quanto riporta il ministero degli Esteri di Pechino - e dovrebbe essere risolta
attraverso consultazioni e discussioni amichevoli tra i Paesi coinvolti. Le forze esterne non
devono
entrare
nella
questione,
con
nessun
pretesto”.
L’evidente destinatario del discorso di Wen è Barack Obama, che è giunto a Bali per
partecipare alla riunione allargata dell’Asean che si è tenuta sabato. Il Presidente degli Stati
Uniti non ha fatto mistero che la risoluzione delle controversie nel Mar Cinese Meridionale
rappresenta il primo punto dell’agenda americana per il summit: “L’incontro può essere
un’occasione fondamentale per lavorare insieme sulla risoluzione di un ampio ventaglio di
questioni, che vanno dalla sicurezza marittima alla non proliferazione” ha detto venerdì Obama
in un incontro con il primo ministro indiano Manmohan Singh, anch’egli coinvolto nella
disputa.
Il vertice di Bali è la seconda occasione nel giro di una settimana - dopo il summit Asia-Pacific
Economic Cooperation che si è chiuso a Honolulu la scorsa settimana - in cui il Dragone cinese
e l’Aquila americana si confrontano direttamente sull’Oceano Pacifico, mentre Washington
mostra
un
rinnovato
dinamismo
nella
regione.
Pechino ha già reso noto che per risolvere quel complesso rebus geopolitico che agita il Mar
Cinese Meridionale preferisce intavolare trattative bilaterali separate con i singolo Stati
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
coinvolti,
senza
trattare
l’argomento
nel
corso
2012
del
vertice.
La Cina avanza di gran lunga le rivendicazioni territoriali più ampie su queste acque, che si
reputano ricche di petrolio e gas. Nel corso degli ultimi mesi Pechino ha fronteggiato diverse
volte con le sue navi le imbarcazioni vietnamite e filippine che cercavano di condurre
esplorazioni nell’area alla ricerca di risorse energetiche: il 9 giugno scorso, ad esempio, Hanoi
aveva denunciato la condotta di una nave cinese, colpevole - secondo la versione fornita - di
uno sconfinamento mirato a tranciare i cavi di esplorazione posti ad alta profondità dal
Vietnam.
Rimasto intrappolato, l’equipaggio cinese aveva richiamato sul posto altre due navi di Pechino,
che avevano circondato la nave vietnamita. All’inizio di marzo si erano verificati incidenti simili
con le Filippine: una nave che stava conducendo esplorazioni in un’area contesa nella Reed
Bank, al largo delle Isole Spratly, era stata circondata da due imbarcazioni militari cinesi;
Manila aveva reagito inviando alcuni aerei nella zona. Le Filippine hanno lamentato negli ultimi
mesi almeno cinque sconfinamenti, e sia Manila che Hanoi hanno espresso lamentele formali
all’Onu.
Ma nella partita non sono coinvolte solamente Cina, Vietnam e Filippine: anche Taiwan,
Brunei e Malaysia sono impegnate a rivendicare le acque intorno alle Isole Paracel e alle Isole
Spratly, e a contendersi la sovranità sul gas e il petrolio dell’area. A complicare ulteriormente
la questione c’è l’ingresso dell’India, che pochi mesi fa si è affiancata al Vietnam per fornire ad
Hanoi
le
tecnologie
necessarie
all’esplorazione,
suscitando
l’ira
di
Pechino.
E mentre Pechino intende sottrarsi al dialogo multilaterale sulla questione, Manila, forte
dell’appoggio degli Usa, punta tutto sul summit balinese: “Questa non è una controversia che
può essere isolata esclusivamente alla Cina e alle Filippine - ha detto giovedì il portavoce del
presidente filippino Benigno Aquino - ma si tratta di una disputa che coinvolge molte altre
nazioni della regione, e più ampio è il numero dei Paesi che riescono a discuterne in
un’atmosfera
di
sincerità,
più
si
avvicina
una
soluzione”.
All’avvio del vertice Wen Jiabao ha comunque mantenuto una posizione amichevole e
moderata su altri fronti, affermano l’impegno della Cina ad aprire verso i partner Asean linee di
credito per 10 miliardi di dollari - di cui 4 miliardi in soft loans - che si vanno ad aggiungere ai
15
miliardi
di
due
anni
fa.
Ma il confronto a distanza tra Pechino e Washington nelle acque dell’Oceano Pacifico
prosegue: “Per gli Usa il Ventunesimo secolo è il secolo del Pacifico” aveva detto la scorsa
settimana il Segretario di Stato
Hillary Clinton
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all’apertura del summit
Apec.
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
2012
Il vertice si è chiuso con la sigla di un trattato tra i 21 Paesi riuniti nell’Asia - Pacific Economic
Cooperation, che con la firma della Tpp (Trans Pacific Partnership) hanno creato la più grande
zona di libero scambio del mondo, un’area che raccoglie quasi 800 milioni di consumatori e il
40 per cento circa dell’economia globale. Una zona di libero scambio che non gode della
partecipazione della Cina, e che Pechino interpreta come una mossa di contenimento.
Un containment che non si snoda solamente attraverso misure economiche, ma anche tramite
accordi militari: sempre nel corso della settimana, Stati Uniti e Australia hanno deciso che
quest’ultima ospiterà una task force marittima americana che arriverà a contare nel 2016 ben
2500
soldati.
“Non temiamo la Cina, né cerchiamo di escluderla” ha detto Obama mercoledì a commento
dell’iniziativa, che ha subito scatenato la reazione del Dragone: “Intensificare ed espandere le
attività militari potrebbe non essere molto appropriato, ed è una mossa che non rientra
nell’interesse delle nazioni di questa regione”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli
Esteri
di
Pechino
Liu
Weimin.
“Il dislocamento di truppe Usa in Australia non è diretto alla Cina - ha prontamente
commentato il ministro degli Esteri australiano Kevin Rudd - ma nello stesso tempo chiediamo
a
Pechino
di
non
interferire
con
le
nostre
decisioni”.
Intanto anche la stampa cinese si fa sentire sulla questione, qui e lì con toni smorzati, a volte
suonando la grancassa della retorica: “Ogni nazione che sceglie di essere una pedina nella
partita a scacchi lanciata dagli Usa nel Mar Cinese Meridionale perderà l’opportunità di trarre
beneficio dalla crescita economica cinese - si legge in un editoriale pubblicato venerdì dal
Global Times di Pechino, noto per le posizioni nazionaliste - e ciò renderà la protezione degli
Stati
Uniti
decisamente
meno
attraente”.
Il China Daily, quotidiano ufficiale del Partito comunista cinese, invita invece alla calma: “La
Cina non deve preoccuparsi per l’offensiva diplomatica scatenata dall’amministrazione Obama
nel Pacifico - si legge in un altro editoriale -, Pechino e Washington sono unite da legami saldi e
i rischi di un peggioramento delle tensioni vanno minimizzati. Gli Usa vogliono vedere la Cina
svilupparsi, ma vogliono assistere a questa crescita secondo le regole del gioco deciso da
Washington.
Ma
la
Cina
non
deve
preoccuparsi”.
“Nessuna nazione al mondo vuole vedere gli Stati Uniti e la Cina impegnarsi in una vera lotta,
con vere spade e vere pistole” conclude il quotidiano di stato.
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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Il Mare chinese meridionale
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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“La sfida dell’India: nascita di una superpotenza?”
di Francesco Brunello Zanitti, Seminari dell'Isag, Trieste 2011.
L’India sta indubbiamente attraversando una crescita economica considerevole, ma gli ultimi
mesi hanno registrato un rallentamento degli ottimi risultati economici. Pechino si trova in una
fase di crescita molto più consolidata rispetto a quella di Nuova Delhi; nonostante ciò anche
l’India sta aumentando il proprio peso economico e geopolitico a livello globale. È dunque
giusto porsi degli interrogativi sul sorgere della superpotenza indiana poiché esistono diverse
questioni aperte, contraddizioni, ostacoli e paradossi che potrebbero influenzare in diversa
maniera la crescita del paese asiatico. A questo proposito ritengo che le sfide che l’India dovrà
affrontare saranno principalmente tre: il primo elemento riguarda la sfida posta dalla
globalizzazione economica di stampo occidentale, se l’India riuscirà a mantenere la sua
specifica cultura o sarà contraddistinta da quel livellamento culturale già evidente in altre aree
del globo; il secondo aspetto concerne la geopolitica e le relazioni internazionali: saprà l’India
mantenere una politica estera sostanzialmente autonoma? La terza problematica è
rappresentata dagli ostacoli interni di tipo economico, sociale e politico. Se l’India riuscirà nei
prossimi anni ad affrontare efficacemente queste sfide ritengo che potrà effettivamente
diventare una superpotenza.
Grazie alla sua posizione geografica, l’India svolge un importante ruolo dal punto di vista
geostrategico perché la massa terrestre del Subcontinente, estendendosi nell’Oceano Indiano,
si trova a metà strada tra due importanti stretti dal punto di vista economico, geopolitico e
militare, ovvero quello di Hormuz e quello di Malacca. Gli interessi geopolitici a livello
marittimo di Nuova Delhi spaziano, infatti, dal Golfo di Aden, tra Yemen e Somalia, al Mar
Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, a livello terrestre l’India intende aumentare la propria
influenza in Vicino Oriente, Asia Centrale, Estremo Oriente e sud-est asiatico.
Grazie a questa particolare posizione geografica e alle diverse componenti etniche e religiose
che la contraddistinguono, l’India sta cercando di mantenere una politica sostanzialmente
bilanciata tra diversi poteri.
L’importante ruolo geostrategico dell’India è naturalmente ben compreso da Washington,
Mosca e Pechino, i maggiori attori che competono in Asia Centrale e nell’Asia-Pacifico.
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
2012
Per quanto riguarda la Cina, le azioni degli ultimi vent’anni e l’ascesa dell’India a livello
economico e militare sono sovente percepite come una minaccia, soprattutto per quanto
riguarda l’attenzione indiana posta nei confronti del Mar Cinese Meridionale e i discorsi aperti
su potenziali accordi militari tra India, Vietnam e Giappone. Allo stesso modo i possibili legami
militari ed economici tra India, Australia, Stati Uniti, Giappone e Singapore sono osservati a
Pechino come azioni di contenimento verso la Cina. In ogni caso, il contemporaneo emergere
della Cina come potenza con interessi nei confronti dell’Oceano Indiano, trasformandosi in
attore egemone della zona meridionale del continente e non solo dell’area Asia-Pacifico, è
valutato negativamente anche da Nuova Delhi: a questo proposito gli accordi commerciali e
militari di Pechino con Bangladesh, Sri Lanka, Nepal, Myanmar, Bhutan e soprattutto l’alleanza
militare e nucleare con il Pakistan, sono descritti anch’essi come tentativi d’accerchiamento
della Cina nei confronti dell’India.
In realtà, la rivalità indo-cinese è molto spesso enfatizzata, come sostenuto dallo stesso primo
ministro indiano Manmohan Singh, dai media, sia indiani sia cinesi. Nonostante permangano
importanti contrasti, ad esempio per quanto riguarda il lungo confine, i rapporti economici tra i
due paesi sono molto solidi e la Cina è uno dei più importanti partner commerciali dell’India,
seconda solamente agli Stati Uniti. Inoltre, Pechino ha mutato la propria percezione dell’India
per l’aumentata presenza statunitense in Asia Centrale e Meridionale e la grande ascesa
economica di Nuova Delhi che non viene certamente sottovalutata, ma potenzialmente
utilizzata per i propri interessi in Asia. Esiste quella che è stata definita un’alleanza economica
di tipo pragmatico. Allo stesso tempo è da registrare una cooperazione importante in alcune
zone del sud-est asiatico, come i potenziali progetti congiunti per lo sfruttamento del gas
naturale in Myanmar. Vi è, inoltre, la comune appartenenza al forum dei BRICS, con la
medesima percezione, assieme a Brasile, Russia e Sudafrica, di alcune questioni di carattere
globale: le rivolte arabe, la visione critica nei confronti dell’intervento NATO in Libia e verso
l’ipotetica azione militare occidentale in Siria, l’approccio alla questione del nucleare iraniano.
Nello stesso tempo però permane una forte competizione in Asia Meridionale e nel sud-est
asiatico, in misura minore in Africa e Asia Centrale a causa della ritardata penetrazione indiana
in queste aree rispetto alla Cina. E’ evidente che una reale pacificazione nei rapporti tra Cina e
India, le cui civiltà ebbero per buona parte della loro storia buone relazioni, genererebbe
conseguenze positive per la stabilità asiatica, ma anche per quella mondiale, vista la crescente
importanza a livello globale dei due paesi.
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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Un elemento, nell’ottica cinese, ma anche russa, che porta a considerare negativamente l’India
è il rapporto che il paese asiatico ha instaurato con Washington, un’alleanza di tipo militare e
nucleare.
In ogni caso, in India esistono diverse scuole di pensiero che hanno un’opinione critica a
riguardo di una stretta alleanza con gli Stati Uniti.
Queste considerazioni ci portano dunque a considerare alcuni limiti dei rapporti indostatunitensi.
Un primo aspetto riguarda l’Iran. Nonostante l’India abbia solidi rapporti con Israele dalla fine
della Guerra Fredda, soprattutto dal punto di vista militare, e con il mondo arabo sunnita in
competizione con l’Iran nel Vicino Oriente, Nuova Delhi ha come obiettivo il mantenimento di
un positivo rapporto con Tehran. L’India è comunque contraria alla prospettiva del nucleare
iraniano, risolvibile in ogni caso solamente mediante via diplomatica, e ha interrotto alcune
esportazioni di materiale che potrebbe essere utilizzato per il programma nucleare, seguendo
le direttive della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1929 del 2010. Il
mantenimento di un proficuo rapporto con Tehran è dovuto a motivi di carattere geopolitico
ed economico. A livello strategico un’alleanza indo-iraniana potrebbe essere una forma di
contenimento verso il Pakistan. Inoltre, nell’ottica indiana, avere due Stati nemici ad ovest, il
Pakistan e l’Iran, ma potenzialmente anche l’Afghanistan dopo il 2014, nel caso in cui Kabul
ricada sotto l’influenza pakistana, appare una prospettiva controproducente per sviluppare gli
interessi geostrategici futuri del paese in Asia Occidentale e Centrale. L’attenzione dell’India
sull’area è fondamentale, non solo per la grande presenza di idrocarburi che soddisferebbe la
crescente domanda energetica, ma anche per evitare che le repubbliche ex-sovietiche
stringano un legame più forte con il Pakistan, considerata la comune religione islamica. Inoltre,
la presenza della Cina nell’area è andata sempre più consolidandosi nel tempo. In ottica
indiana, Tehran rappresenta un importante territorio di transito per raggiungere l’Afghanistan
e l’Asia Centrale: esistono, infatti, gli ostacoli rappresentati dal Pakistan e dal territorio
politicamente instabile del Kashmir, naturali e storici punti di passaggio indiano per
commerciare con l’Asia Occidentale e Centrale. A livello economico l’Iran rimane, dopo l’Arabia
Saudita, il secondo fornitore di petrolio dell’India e il suo territorio rappresenta una potenziale
fonte di gas naturale per Nuova Delhi. Esistono a questo proposito diversi discorsi aperti per
eventuali collegamenti via mare o via gasdotto.
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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2. I legami economici tra Nuova Delhi e Tehran ci portano a considerare un altro aspetto che
limita i rapporti indo-statunitensi, facendo riferimento al legame molto stretto che esiste tra
India e Russia. La scorsa settimana, a margine di un incontro tra i ministri degli esteri indiano e
russo, Mosca e Nuova Delhi hanno sostenuto la volontà di ridar vita al progetto del Corridoio di
trasporto Nord-Sud, accordo commerciale firmato nel 2001 tra Iran, India e Russia. Si tratta di
un progetto per lo spostamento di merci indiane via mare, aggirando il Pakistan, dall’India fino
all’Iran, da dove, attraverso il Mar Caspio, dovrebbero raggiungere i territori meridionali della
Russia ed eventualmente l’Europa. Recentemente il governo indiano avrebbe manifestato
l’interesse d’includere nel discorso anche la Cina e potenzialmente gli Stati ex-sovietici dell’Asia
Centrale. Questo progetto per il commercio tra Asia Meridionale e Europa è in aperta
competizione con l’architettura geostrategica a guida statunitense della “Nuova Via della Seta”
che ha come obiettivo l’interdipendenza economica tra Europa, Caucaso, Asia Centrale e
Meridionale in competizione con Cina e Russia. In questo caso le maggiori problematiche
riguardano l’Iran e l’instabilità dell’Afpak, ma bisognerà anche attendere quale progetto l’India
favorirà, visto che al momento sembra interessata ad entrambi.
La Russia rimane il principale fornitore di armi dell’India; i legami indo-russi sono molto solidi,
eredi di quelli che il paese asiatico manteneva con l’Unione Sovietica. Inoltre, esiste la comune
lotta contro l’estremismo di stampo musulmano che ha colpito nel passato sia la Russia sia
l’India, se si pensa al Caucaso e al Kashmir. Questa politica vede unite non solo Russia e India,
ma potenzialmente anche la Cina, vista la presenza dell’estremismo di matrice islamica nello
Xinjiang. A questo proposito l’effettiva presenza dell’India all’interno dell’Organizzazione per la
Cooperazione di Shangai (OCS) potrebbe comportare non solo una maggiore collaborazione tra
Pechino, Mosca e Nuova Delhi, ma anche modificare decisamente gli equilibri geopolitici.
3. Un terzo aspetto nel quale Stati Uniti e India non sono sovente concordi riguarda il Pakistan.
L’India ha sempre criticato l’eccessivo legame tra Islamabad e Washington, nonostante negli
ultimi mesi l’alleanza tra i due paesi sia sempre più in crisi. L’India ha inoltre una visione molto
critica nel considerare il possibile dialogo con i talebani moderati e la rete Haqqani, nonostante
nello stesso tempo gli Stati Uniti chiedano al Pakistan di porre termine all’appoggio verso i
gruppi terroristi lungo la linea Durand. Il problema è collegato alla sindrome d’accerchiamento
pakistana e alle preoccupazioni nei confronti dei disegni egemonici dell’India nella regione.
Nuova Delhi giudica positivamente la presenza statunitense con basi militari in Afghanistan,
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eventualmente anche dopo il 2014, ma è critica verso il possibile dialogo con i talebani
moderati, paventando un possibile ritorno dell’influenza pakistana sul paese.
Nonostante il fatto che Islamabad veda il recente accordo commerciale e militare tra India e
Afghanistan come una sorta di pericoloso accerchiamento, negli ultimi mesi si è registrato un
timido miglioramento nei rapporti tra i due vicini rispetto al 2008. Un editoriale del “The
Hindu” di pochi giorni fa, parlando a proposito del dialogo indo-pakistano, indicava come
modello di riferimento da seguire le recenti relazioni tra India e Cina, dove sono state messe in
secondo piano le questioni territoriali per favorire in primo luogo un discorso legato alla
cooperazione economica, possibile chiave per risolvere i problemi legati al confine. Ci sono
importanti settori della società indiana che chiedono una soluzione dei contenziosi con
Islamabad e una definitiva pacificazione. In ogni caso sembra che l’India intenda mantenere
una politica autonoma da Washington nei confronti del Pakistan, seguendo i propri interessi.
Islamabad avrebbe recentemente garantito, anche se la questione è poco chiara per le
numerose pressioni interne contrarie, lo status di nazione più favorita all’India, clausola
economica all’interno delle regole garantite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Vi
sono piccoli segnali di miglioramento, ma esistono in ogni caso numerosi problemi: Islamabad
non ha provveduto alla richieste indiane di chiare indagini per gli attentati di Mumbai del 2008
e d’interrompere i collegamenti con l’artefice degli attacchi, la Lashktar-e-Taiba. Il Pakistan è
diviso tra governo civile da una parte e settore militare e ISI dall’altra, i quali, assieme ai gruppi
islamici radicali hanno una grande influenza e osservano un avvicinamento all’India come una
sorta di anatema. Ecco perché allo stato attuale non esiste un possibile rasserenamento tra i
due paesi perché il Pakistan percepisce negativamente l’influenza indiana in Asia Centrale e
Afghanistan. Inoltre, un accordo definitivo con l’India e l’attacco ai gruppi islamici radicali
metterebbe in discussione la religione, elemento che ha dato origine e legittimità alla nazione,
nonché collante di un paese diviso da contrasti etno-linguistici.
Per questo motivo la vicinanza statunitense verso Islamabad, nonostante le incomprensioni
degli ultimi mesi e l’avversione dell’opinione pubblica pakistana nei confronti degli Stati Uniti
sempre più forte, è letta negativamente dall’India.
Nuova Delhi è, inoltre, contraria a collegare il delicato discorso riguardante il Kashmir
all’Afghanistan, connesso all’ideale della “Grande Asia Centrale” a guida statunitense, per
l’importanza nazionalistica del tema, l’assoluta contrarietà alle ingerenze esterne e l’intenzione
di risolvere la questione a livello bilaterale con il Pakistan. Per quanto riguarda infine un
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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possibile scontro militare tra i due paesi, è attualmente improbabile grazie alla deterrenza
nucleare. E’ evidente la superiorità militare convenzionale indiana, ma questa è
paradossalmente limitata dalla presenza in entrambi i campi di ordigni nucleari. In un certo
senso la deterrenza nucleare è uno svantaggio per l’India. Tutto sommato è probabile che, nel
caso di un ulteriore peggioramento dei rapporti, le “azioni militari” vengano compiute dai
gruppi terroristici radicali.
Negli ultimi mesi sembra dunque prevalere la volontà di mantenere una sorta di politica
bilanciata tra diversi poteri. Questo si collega all’ideale della costituzione geopolitica di un
mondo multipolare piuttosto che unipolare, nel quale le problematiche dell’Asia Centrale e
Meridionale e del sud-est asiatico vengano risolte a livello regionale, mediante un’essenziale
cooperazione tra il quadrilatero Nuova Delhi, Pechino, Mosca e Washington.
L’India potrebbe garantire la stabilità regionale e il dialogo tra poli contrapposti perché questo
appare l’obiettivo primario per favorire essenzialmente la propria sicurezza interna. Infatti,
non c’è solo la questione kashmira che potrebbe comportare una pericolosa instabilità dello
Stato, ma anche l’estremismo religioso, soprattutto di matrice indù e islamica;
l’indipendentismo di alcuni territori del nord-est a ridosso del confine con la Cina; le rivolte
naxalite di stampo maoista nel centro e nord-est del paese; così come l’autonomismo di diversi
territori regionali, i quali, pur rimanendo all’interno dell’Unione Indiana e essendo portatori di
legittime richieste, potrebbero ostacolare la crescita interna dello Stato, nonché una sua
frammentazione; a questo proposito il caso più importante degli ultimi mesi è quello del
Telangana, regione settentrionale dell’Andhra Pradesh che ho visitato personalmente più di un
anno fa; l’eventuale nascita di un nuovo Stato, all’interno comunque dell’Unione, potrebbe
comportare la medesima richiesta d’autonomia per questioni economiche, etniche e
problematiche d’approvigionamento di risorse, principalmente idriche, in diverse zone dello
Stato.
Insomma, il ruolo geostrategico contemporaneo dell’India non sembra strettamente connesso
né all’universo guidato dagli Stati Uniti, nonostante l’India sia una democrazia che la rende
simile ai paesi occidentali, né al sistema di alleanze creato da Russia e Cina, malgrado sia
aperto con Mosca e Pechino un importante dialogo per la stabilità in Asia Centrale. L’obiettivo
dell’India è dunque quello di essere un polo indipendente capace di garantire la stabilità del
continente asiatico mantenendo una posizione il più possibile equilibrata tra i diversi attori
regionali e globali. Questa è un’aspirazione che si collega alla particolare posizione geografica
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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del paese, il quale è punto d’incontro tra diverse influenze, culture e religioni; l’India sembra
cercare una politica estera autonoma anche per l’aumento negli ultimi anni del nazionalismo
indiano che richiede un ruolo di potenza per lo Stato asiatico; questa politica è anche erede del
ruolo assunto durante la Guerra Fredda come capofila del Movimento dei Paesi Non Allineati,
né aderente al polo guidato dagli Stati Uniti, né strettamente connessa all’Unione Sovietica,
nonostante esistesse un rapporto privilegiato con Mosca.
In una fase storica in cui l’area dal Vicino Oriente all’Asia Meridionale è attraversata da una
forte competizione tra diversi attori regionali e globali bisognerà comprendere se questa
possibile strategia sarà vantaggiosa per l’India al fine di mantenere una sostanziale autonomia
non solo a livello geopolitico, ma anche economicamente, rispondendo efficacemente al
processo di globalizzazione ispirato dall’Occidente.
Il ruolo dell’India potrebbe cambiare se si verificherà l’adesione, assieme al Pakistan, all’OCS,
opzione caldeggiata negli ultimi mesi da Russia e Cina, anche se per il momento sembra
un’opzione prematura per Nuova Delhi. In questa fase non è ancora chiara l’adesione
completa o meno, dato l’aumentare negli ultimi anni dei legami economici e militari con
Washington, ma eventualmente sarebbe un importante fattore geopolitico nell’area e gli
scenari futuri saranno certamente molto interessanti anche per un’eventuale normalizzazione
dei rapporti indo-pakistani.
In ogni caso ritengo che unitamente a questa autonomia in politica estera, l’India ha la
possibilità di vincere la sua sfida contemporanea nei confronti della globalizzazione di stampo
occidentale grazie alla sua antica cultura. E’ una sfida difficile, ma l’India ha tutte le potenzialità
per poter crescere e presentare a livello mondiale un modello concorrenziale e alternativo.
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Carta dell'India fisica e politica
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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Geopolitica dell’Asia Centrale: Uzbekistan e Valle del Fergana
L'indipendenza improvvisa delle cinque repubbliche centrasiatiche (Kazakistan, Kirghizistan,
Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan) in seguito allo scioglimento dell’Unione Sovietica ha
significato un completo sconvolgimento della situazione geopolitica in Asia centrale.
L’Asia centrale è forse la parte del continente eurasiatico meno conosciuta ed è una parte di
Asia che trova la sua identità nell’incrocio e nell’intersezione di due grandi civiltà: la civiltà
nomade turco-mongola e la civiltà urbana persiana delle oasi, l’Asia Centrale rappresenta
tuttora questa unione, il punto di contatto tra queste due realtà.
La cerniera geopolitica che collega perfettamente questi due mondi è l’attuale Repubblica
dell’Uzbekistan. Vero e proprio cuore non solo geopolitico, ma anche economico, culturale e
storico di tutta l’area centrasiatica, l’Uzbekistan, nella figura autoritaria e carismatica del suo
presidente Islam Karimov, esercita il ruolo di vero e proprio leader dell’area.
In particolare, la regione della grande area centrasiatica che rappresenta, la zona
geopoliticamente più calda è la valle del Fergana. Attualmente divisa tra Kirghizistan,
Uzbekistan e Tagikistan, questa valle costituisce, in un certo modo, il fulcro della geopolitica
centrasiatica.
La grande fertilità della sua terra, la grande prosperità del suo sottosuolo, caratteristiche
estremamente insolite per il paesaggio centrasiatico, e il grande senso identitario e religioso,
hanno reso la valle zona di antiche lotte per la gestione del territorio, portando questa
Macedonia Centrasiatica ed il suo Regionalismo culturale a diventare, nel corso del XX secolo,
il centro della rivalità geopolitica tra l’ideologia sovietica e l’identità islamica centrasiatica.
Attraverso questo seminario si vuole presentare un’analisi dell’evoluzione dei fatti che hanno
portato l’attuale situazione geopolitica dell’area.
Partiremo, nelle lezioni introduttive, con una breve presentazione dell’area dal punto di vista
fisico-geografico, con un breve accenno alla storia della regione. Affronteremo il tema della
spartizione territoriale degli anni ’20 dell’area centrasiatica, con uno sguardo in particolare alle
divisioni della valle del Fergana, parleremo della diversità dei territori centrasiatici e del
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significato di confine in Asia centrale, fino ad arrivare alla nascita dell’attuale situazione
geopolitica delle cinque repubbliche centrasiatiche.
Nella seconda parte del seminario ci concentreremo sul fenomeno Fergana, ripartendo dalle
divisioni territoriali che la valle ha subito dalla politica staliniana, con una particolare
attenzione alle enclave della valle, passando alle problematiche ideologiche degli anni ’50
legate al dualismo sovietizzazione/islamizzazione, arrivando all’attuale situazione della valle,
dove il forte senso geo-identitario della valle continua a scontrarsi con le autoritarie politiche
nazionalistiche dei tre stati che se la spartiscono, in particolar modo con il governo uzbeco.
GEOGRAFIA FISICA
La regione conosciuta come Asia Centrale o “Turkestan” occidentale4, oltre ad essere il cuore
del continente eurasiatico, è anche una vasta area costituita da steppe, deserti e da un
intreccio di catene montuose che caratterizza il confine orientale della regione: partendo dalla
Siberia, si passa per le catene montuose del Tjan Shan e del Pamir, fino ad arrivare all’Hindu
Kush, che costituisce il suo limite sud-orientale.
Gli elementi geografici più importanti dell’area, oltre alle catene montuose, sono: il Mar
Caspio, vasto bacino chiuso che si allunga da nord a sud costituendo un importante confine
naturale tra Europa e Asia, le cui acque sono toccate a est da Kazakistan e Turkmenistan, e il
Lago d’Aral, bacino lacustre salato, diviso tra il Kazakistan a nord e l’Uzbekistan a sud, scenario
di uno dei disastri ambientali più gravi dell’ultimo secolo. I due deserti più importanti sono il
Kyzylkum, “delle sabbie rosse”, che si estende soprattutto nel territorio dell’Uzbekistan, e il
Karakum, “delle sabbie nere”, che invece occupa la maggior parte del Turkmenistan.
La valle del Fergana è sicuramente una delle zone più suggestive della regione: divisa tra
Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan, rappresenta la “culla” delle civiltà centrasiatica. Per la sua
favorevole struttura morfologica e l’abbondanza di acque la valle è stata scenario di antica
colonizzazione: progressivamente vi hanno avuto il sopravvento popoli di stirpe turca,
persiana, araba, cinese, mongola ed altaica e tutt’oggi rappresenta la zona più etnicamente
composita dell’intera regione.
4
Il Turkestan orientale è quella regione autonoma della Cina che porta il nome di Xinjiang in quanto
abitata da una popolazione a maggioranza turcofona musulmana, gli Uiguri.
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Carta fisico-politica dell’Asia Centrale
La valle del Fergana
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Gli ultimi due elementi geografici importanti dell’area sono le “arterie” dell’Asia Centrale, i
fiumi Amu-Darya e Syr-Darya. Il primo, anticamente chiamato Oxus, da cui deriva l’antico
nome della parte sud-orientale della regione Transoxiana, ha origine nell’altopiano del Pamir,
segna il confine tra Tagikistan ed Afghanistan, quindi piega verso nord-ovest segnando il
confine tra Turkmenistan ed Uzbekistan ed infine sfocia nel Lago d’Aral. Il Syr-Darya invece,
meno lungo e con un bacino idrografico più ridotto, nasce nella valle del Fergana e dopo un
breve tratto in Uzbekistan e Tagikistan, entra in Kazakistan attraversandolo da est ad ovest fino
a sfociare anch’esso nel Lago d’Aral.
CENNI STORICI
L’Asia Centrale abbraccia cinque delle quindici repubbliche ex sovietiche: Kazakistan,
Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan.
Solo fino a qualche anno fa questa regione, a causa della politica isolazionista dell’Unione
Sovietica, era pressoché sconosciuta al mondo esterno e ancora oggi, la maggior parte degli
occidentali ignora la sua importanza storico-politica.
La ragione della ricchezza storica dell’Asia Centrale è di natura geografica: il suo immenso
territorio si trova nel cuore del continente eurasiatico e sin dai tempi antichi era considerato il
centro del mondo, poiché collegava l’Europa alla Cina per mezzo delle rotte commerciali
conosciute con il nome collettivo di Via della Seta.
La storia a noi pervenuta dell’Asia Centrale inizia subito con la rivalità tra popoli persiani a sud
e tribù altaiche a nord, che si contendevano la regione. Nel 500 A.C. circa Dario I aggiunse
all’impero persiano il territorio della Transoxania (gli odierni Uzbekistan e Turkmenistan), ma
venne cacciato dalle popolazioni altaiche della Mongolia, che vennero chiamate “turciche” dai
cinesi e che in seguito diedero il nome di Turkestan, “terra dei turchini”, alla regione.
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Impero Persiano ai tempi di Dario I, nel V secolo A.C.
I persiani ripresero il potere, ma nel III secolo A.C. caddero vittime di Alessandro Magno che
conquistò la Bactriana e la Sogdiana (odierni Uzbekistan, Tagikistan ed Afghanistan).
Impero di Alessandro Magno nel III secolo A.C.
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Nei secoli successivi la regione fu vittima di ripetute incursioni di tribù altaiche provenienti
dalla Mongolia e dalla Siberia fino al 650 D.C. circa, quando arrivarono gli arabi portando con
sé una nuova fede: l’Islam.
Gli arabi riuscirono a consolidare la loro religione in questa regione ma non posero basi
politiche rilevanti, creando solo regni musulmani confinati in città-oasi come Buchara o
Samarcanda (oggi tra le maggiori città uzbeche).
Il XIII secolo D.C. vide la nascita di quello che all’epoca fu l’impero più grande del mondo e che
nella storia rimase secondo solo a quello britannico: l’impero mongolo, di cui l’Asia Centrale
faceva parte. Nel 1206 Temujin, che aveva conquistato gran parte del territorio della Mongolia
ed era riuscito a riunire sotto il suo comando tutte le tribù nomadi della zona, fu proclamato
Gran Khan dei mongoli con il nome di Gengis Khan, “Signore dell’Oceano”.
Stabilita a Karakorum la capitale del regno e potenziato l’esercito, egli mosse alla conquista
dell’Asia, sottomettendo rapidamente gli stati dell'Asia centrale, frammentati e poco
organizzati militarmente, invadendo gran parte dell'impero cinese dei Ch'in; conquistò poi i
sultanati arabi e turchi del Medio Oriente, costituendo così un vasto impero che andava dal
mar della Cina al fiume Dnepr, dal golfo Persico sin quasi al Mar Glaciale Artico.
Riunita tutta l’Asia continentale, Gengis Khan consolidò il suo ruolo di "re per diritto divino"
imponendo a tutti i sudditi il Grande Yasa, un codice di leggi che costituì la base sulla quale
venne costruito il solido edificio dell'impero mongolo, sviluppò la Via della Seta che negli anni
era stata devastata dalle varie invasioni, creò i caravanserragli, stazioni di servizio lungo le vie
commerciali, e anche il primo servizio postale moderno dell’Asia continentale.
Nell’impero di Temujin c’era la piena libertà di espressione religiosa e iniziò quella che fu
definita la Pax Mongolica, grazie alla quale, come diceva la leggenda, una vergine poteva
viaggiare da Istanbul a Pechino su di un carro pieno d’oro e non essere neanche sfiorata. Alla
morte di Gengis Khan, nel 1227, l'impero venne diviso tra i figli maschi; il titolo di Gran Khan fu
assegnato al terzogenito, Ogodai Khan, cui spettò anche il dominio diretto su Mongolia,
Manciuria, Corea, Tibet, parte della Cina e dell’Indocina; l’Asia Centrale fu assegnata al
secondogenito Chagatai Khan i cui discendenti divisero la regione in due Khanati: la
Transoxania a Ponente e il Turkistan a Levante.
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Impero mongolo al massimo della sua espansione, metà del XIII secolo D.C.
Altro grande personaggio storico della regione è stato Timur lo zoppo, detto Tamerlano,
militare turco originario di Sachri Sabz, un piccolo villaggio nei pressi di Samarcanda, nella
Transoxania, che tra il 1364 e il 1370 conquistò l’intera sua regione natale creando il primo
impero indigeno dell’Asia Centrale, dando vita alla dinastia dei Timuridi.
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Impero di Tamerlano alla metà del XIV secolo
Nel 1500 D.C. ebbe inizio l’ultimo grande impero nomade dell’Asia Centrale, quello della tribù
degli Shaybani che, facendo risalire la loro genealogia a Uzbek Khan, nipote di Gengis Khan,
sconfissero i Timuridi e spostarono la capitale da Samarcanda a Buchara. Sotto la dinastia degli
Shaybani fiorì la letteratura altaica, che si sovrappose a quella persiana, creando quegli idiomi
e quelle culture che in seguito verranno dette uralo-altaiche o turco-mongole, perfetta
commistione delle eredità lasciate dai mongoli di Gengis Khan e dai turchi indigeni riportati in
auge da Tamerlano.
Nel XVI secolo, con l’apertura di rotte commerciali marittime alternative alla Via della Seta che
collegavano l’Europa all’Asia, l’impero shaybani e l’intera regione cominciarono a decadere.
L’impero andò via via frammentandosi in piccoli feudi a base cittadina.
Nel XVII e XVIII secolo i feudi che emersero come i tre più importanti furono i Khanati di Khiva,
Kokand e Buchara.
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I tre Khanati di Khiva, Buchara e Kokand nel XVII secolo D.C.
In questa situazione di estrema instabilità politica era inevitabile che lo zar Pietro il Grande,
mirando ad espandere il suo impero, mettesse gli occhi sull’Asia Centrale: nel 1715 invase la
steppa kazaka. Quando, in seguito, i russi scoprirono le potenziali risorse della regione,
principalmente minerarie e legate alla coltivazione del cotone, la spinta a conquistare l’area
diventò irresistibile.
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Espansione russa nell’Asia Centrale, XIX secolo.
Al tempo stesso la Russia osservava con apprensione la costante espansione dell’impero
britannico nell’asia meridionale. Fu questa l’epoca del “Grande Gioco”, la formidabile lotta di
potere tra Gran Bretagna e Russia per il controllo dell’Asia. L’Asia Centrale e l’Afghanistan
divennero pedine per Russia e Gran Bretagna, nell’ambito di questo gioco strategico che aveva
come posta il potenziamento dell’influenza dei due imperi sull’Asia. Alla fine del XIX secolo, per
alleviare le tensioni, l’Afghanistan venne trasformato in stato-cuscinetto indipendente dai due
contendenti.
I russi, dopo aver conquistato l’intera regione dell’Asia Centrale, intorno alla metà del XIX
secolo formarono la provincia del Turkestan, con capitale Tashkent, che comprendeva le
odierne cinque repubbliche ex-sovietiche ed era amministrata da un governatore nominato da
Mosca.
Per controllare e prevenire eventuali rivolte locali particolarmente pericolose per l’impero, i
russi attuarono la politica della “russificazione”, cominciarono cioè a colonizzare i territori del
Turkestan con popolazioni di etnia russa e cosacca dedite soprattutto allo sviluppo delle
piantagioni di cotone, piantagioni che hanno causato, con il passare degli anni, uno dei disastri
ecologici più gravi del XX secolo: la lenta scomparsa del Lago d’Aral. I sovietici, scoperto il
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potenziale delle piantagioni di cotone, principalmente uzbeche, deviarono i corsi dei fiumi,
soprattutto dell’Amu-Darja, per creare canali di irrigazione per le piantagioni, riducendo a
meno della metà il bacino idrografico del fiume che arrivava al lago praticamente dimezzato.
Col passare degli anni la diminuzione del flusso dell’acqua ha condotto ad un radicale
prosciugamento del lago: tra il 1966 e il 1993 il suo livello si è abbassato di oltre 16 metri e le
sue spiagge si sono ritirate di oltre 80 km, provocando uno squilibrio nel micro-clima dell’area.
Allo scoppio della Rivoluzione Russa nel 1917, le popolazioni centrasiatiche non mostrarono
alcun interesse a far parte della nuova grande conformazione statale dell’Unione Sovietica,
resisterono anzi con maggiore foga di altre regioni colonizzate dai russi alla sovietizzazione,
grazie soprattutto ai Basmaci, “banditi”, i capi musulmani della lotta di resistenza.
All’inizio degli anni ‘20, i Basmaci perdevano lentamente terreno e la carta dell’Asia Centrale
venne piano piano ridisegnata in maniera del tutto arbitraria: la regione fu suddivisa in cinque
repubbliche, non dimostrando alcuna sensibilità ai confini etnici che la dividevano. Osh, per
esempio, pur essendo una città di etnia uzbeca fu assegnata al Kirghizistan, e l’interesse
esclusivo rispetto alla collocazione strategica di città importanti, condusse le città di Buchara e
Samarcanda, importanti centri tagichi, ad essere assegnate all’Uzbekistan, in quanto stato dal
potenziale maggiore rispetto a quello praticamente inesistente del Tagikistan.
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Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (U.R.S.S.), in verde le cinque repubbliche
centrasiatiche
L’ultimo cambiamento epocale nella storia politica di questa regione, dopo 62 anni di
continuità istituzionale, avvenne nel dicembre del 1991, quando i presidenti delle cinque
repubbliche centrasiatiche, dopo aver saputo che il presidente russo, quello ucraino e quello
bielorusso si erano riuniti per porre fine all’Unione Sovietica e sostituirla con la Comunità di
Stati Indipendenti (CSI), si incontrarono a loro volta ad Ashgabat, capitale del Turkmenistan.
Essi decisero di trasformare i loro stati da repubbliche sovietiche a repubbliche indipendenti, e
chiesero al presidente Eltsin di poter entrare a far parte anch’essi della Comunità.
I presidenti centrasiatici erano terrorizzati all’idea dell’indipendenza, visto che la loro sicurezza,
la loro economia e i loro servizi sociali erano ormai da oltre un secolo intrecciati con quelli
della Russia e non si ritenevano in grado di poter affrontare da soli le sfide del nuovo ordine
mondiale e, soprattutto, le problematiche interne dei loro stati.
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IDENTITA’, CONFINI E NASCITA DI NAZIONI:
I TERRITORI DELL’ASIA CENTRALE
L’obiettivo di questo articolo è spiegare il significato di alcuni termini, come territorio e
confine, in riferimento a una delle aree geografiche forse meno conosciute: l’Asia centrale. Per
comprendere meglio i territori ed i confini di questa parte di mondo, occorre però prima
comprendere il significato stesso di questa espressione: Asia centrale.
Soggettività dell’aggettivo “centrale”. - Una delle domande più frequenti che divide e fa
discutere gli studiosi dell’area è: “Quali sono i confini dell’Asia centrale? Che cosa è Asia
Centrale?”
Si tratta di un concetto, proprio a causa dell’aggettivo centrale, facilmente adattabile a
molte situazioni e territori, e per questo motivo ogni disciplina che si cimenta in questa area
geografica, la geografia, l’antropologia, l’archeologia o la storia, utilizza questo termine in
maniera soggettiva.
Ogni disciplina, dunque, assegna a questa espressione un significato differente. Per la
geografia fisica, l’Asia centrale è una parte di Asia che ha limiti e confini ben definiti: Mar
Caspio ad ovest, taiga siberiana a nord e catene montuose di Tjan Shan, Pamir e Hindu Kush a
sudest (Annunziata, 1999). Per l’antropologia, che delimita l’area in maniera meno rigida, l’Asia
centrale rappresenta quell’insieme di usi, costumi e culture che si possono ritrovare nelle sue
popolazioni (Fathi, 2005). Indipendentemente dalla loro lontananza o da ostacoli fisici o
politici, l’Asia centrale antropologica non guarda le carte o la storia o, meglio, guarda come le
carte e la storia hanno influenzato le popolazioni, il loro modo di vivere; accomuna e studia
bagagli culturali che per varie motivazioni hanno portato le popolazioni a dividersi
politicamente o geograficamente, ma non culturalmente (Boria, 2007). L’Asia centrale è ancor
più priva di confini per gli archeologi che, indistintamente, associano l’età del bronzo in uno
scavo in Uzbekistan e in uno scavo in Iran, l’origine è la stessa, le pratiche e i riti sono i
medesimi, l’Asia centrale parte da dove vengono ritrovate somiglianze al carbonio, non
importano le montagne, i deserti o le evoluzioni politiche o culturali che li possano dividere: il
sistema urbanistico dell’età del bronzo è lo stesso in Iran e nella valle dell’Amu-darya ed è
questo che è Asia centrale, per gli archeologi. (Luneau, 2008).
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Per gli storici Asia centrale è quello che viene accomunato dallo stesso passato, da qui la
tendenza a parlare di Asia centrale storica riferendosi solamente alle odierne cinque
repubbliche ex socialiste: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.
Loro hanno una storia ed un passato comune, non hanno importanza le differenze
linguistiche che ci possono essere tra le quattro repubbliche a maggioranza turcofona
(Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan ed Uzbekistan) e l’unica con la maggioranza di origine
indo-europea (il Tagikistan). Il passato prima zarista e poi sovietico è comune, ed è ciò che fa la
differenza: il passato le rende Asia Centrale (Roy, 1997).
In realtà, Asia Centrale è un concetto che nasce da un insieme di fattori.
L’Asia Centrale è quel luogo fisico che trova i suoi confini e la sua omogeneità territoriale
latitudinalmente tra il Caucaso e la Cina propriamente detta, longitudinalmente tra le steppe
kazake e la catena montuosa dell’Hindu Kush (Jelen 2004); ed è l’incrocio tra due culture
asiatiche completamente differenti. La prima è quella delle popolazioni di origine turcomongola provenienti dalla regione del lago Bajkal, a nord dell’attuale Mongolia, popolazioni
principalmente nomadi, caratteristiche ritrovabili oggi nelle popolazioni kazake, kirghize e
turkmene. In realtà anche quelli che oggi chiamiamo uzbechi hanno origini turco-mongole, ma,
con la crescita dell’urbanizzazione nelle zone meridionali, avendo trovato ricche oasi favorevoli
alla sedentarizzazione nelle mesopotamiche terre tra il Syr-Darya e l’Amu-Darya, decisero di
lasciare il nomadismo, costruendo società e culture sedentarie ed avvicinandosi di più alla
seconda cultura centrasiatica (Allworth, 1998).
La seconda cultura è quella delle popolazioni sedentarie, di lingua e cultura indoeuropea, eredità della presenza persiana nella regione, stanziate soprattutto nella zona sud-est
dell’area centrasiatica: i tagichi. Il popolo che noi oggi chiamiamo tagichi, non è altro che il
risultato etnico di secoli e secoli di colonizzazione. La prima fu da parte persiana: Dario I, nel V
secolo A.C. estese il suo impero nella Transoxania (che vuol dire al di là dell’Oxus, antico nome
dell’Amu-Darya) creando le province di Bactria (oggi regione afgana) e di Sogdiana (oggi
regione divisa tra Tagikistan ed Uzbekistan); era la prima volta che un impero stanziale e
“civile” occupava quelle terre da sempre considerate terre di nessuno. La seconda
colonizzazione avvenne da parte macedone: Alessandro Magno, nel III secolo A.C., tolse ai
persiani gran parte del loro territorio tra cui le due regioni centrasiatiche, sviluppando le loro
potenzialità, soprattutto commerciali, ampliando quell’insieme di rotte carovaniere che sono
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passate alla storia col nome di Via della Seta di cui tutt’ora i tagichi rappresentano gli attori
principali. Alessandro, inoltre, fondò in Asia centrale la sua ultima Alessandria, detta appunto
l’Eskhate, l’ultima, oggi chiamata Khujand, importante città del Fergana tagico (Mohabatov,
1999).
L’Asia centrale rappresenta letteralmente l’incrocio di queste due culture asiatiche, la
nomade dal nord e la sedentaria dal sud, l’espressione Asia centrale rappresenta, quindi, il
risultato di questa unione.
Uzbekistan, il centro. - Come tutti gli incroci, anche questo ha un suo cuore, un centro
nevralgico: il luogo che rappresenta più di qualunque altro questo mélange culturale è il
territorio della Repubblica dell’Uzbekistan.
L’Uzbekistan, vera e propria cerniera geopolitica centrasiatica, è collocato al centro
dell’area, è l’unico stato che confina con gli altri quattro ed è l’unico paese che ha solidi
rapporti politico-commerciali con tutti e quattro i vicini. Rappresenta, inoltre, il paese più
etnicamente e culturalmente variegato, all’interno del quale, oltre alla fiera e numerosa
maggioranza uzbeca, troviamo numerose minoranze, come le popolazioni karakalpake e
kazake ad ovest, che rappresentano la componente nomade, le oasi persiano-tagiche di
Buchara e Samarcanda, la capitale Tashkent ancora molto legata all’eredità culturale russa e la
valle del Fergana, cuore indiscusso dell’Uzbekistan e della cultura centrasiatica, perfetto
risultato dell’unione di queste minoranze.
L’Uzbekistan rappresenta la perfetta unione di queste peculiarità centrasiatiche, il
collante che permette di parlare di cultura centrasiatica, amalgamando al suo interno le sue
diverse componenti (Bensi, 2002).
Territori e confini centrasiatici. - Di conseguenza, il termine territorio assume valenze differenti
in Asia Centrale.
Nelle aree desertiche e semi-desertiche nel nord e nel sud-ovest della regione, le
organizzazioni umane non possono assumere forme stabili; è impossibile coltivare e costruire,
per cui l’organizzazione dei gruppi resta alla forma tribale-nomade.
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In questo tipo di ambiente, i gruppi non possono che elaborare un genere di vita
nomade, basato sulla tecnologia della mobilità: si tratta principalmente di allevatori che si
muovono continuamente alla ricerca di acqua e di pascoli o semplicemente per sfuggire ad
altre tribù. La lotta con altre tribù sia nomadi che sedentarie è una necessità ricorrente; gli
allevatori nomadi devono necessariamente essere anche guerrieri e predoni in grado di
difendersi e di sopravvivere, e tutto ciò dipende in buona parte dall’abilità con cui si muovono
a cavallo. Il loro territorio e il loro ambiente sono queste aree semi-desertiche in cui gli eserciti
dei sedentari non possono addentrarsi, non avendo nessuna abilità nell’orientamento in
questo tipo di paesaggio, mentre i nomadi ci adattano il loro stile di vita, sviluppando tecniche
appropriate, elaborando codici e riferimenti topografici con i quali possono riconoscere gli
itinerari e si configurano una mappa dell’ambiente in cui svolgono la loro vita di gruppo (Van
Leeuwen).
Il territorio viene classificato in luoghi utili, e cioè pascoli stagionali, boschi o corsi
d'acqua, oppure in luoghi da evitare, perché privi di risorse, perché frequentati da altre tribù
oppure perché oggetto di superstizioni. In questo modo il movimento dei nomadi assume un
andamento meno irregolare e spesso stagionale e paradossalmente il territorio diventa di loro
proprietà, inviolabile da parte di altre tribù o da parte di popolazioni sedentarie. Un insieme di
codici permettono l’identificazione del territorio da parte della tribù: elenchi di toponimi,
pratiche religiose. La cultura del nomade prevede, infatti, tecniche per il riconoscimento
territoriale che consistono in un sistema di segnali: le tribù, infatti, segnano il territorio con i
kurgani5.
Si sviluppa una sorta di geografia sacra, ove questi segni rappresentano l’unico
riferimento nella piattezza dell’orizzonte; si tratta di segnali che, posti sui crocevia della
steppa, soltanto i nomadi possono riconoscere e che diventano i riferimenti per trasferimenti e
migrazioni. In questo modo, la rielaborazione pratica della religione crea il presupposto per lo
sviluppo di forme sociali e politiche legate al territorio (Jelen, 2004).
L’ambiente delle steppe ha fatto da sfondo alla formazione delle prime forme di cultura
politica nomade eurasiatica identificata come feudalesimo tribale. Le tribù si sono riunite in
orde, cioè in confederazioni, unione consolidata da leggende sulla comune discendenza o da
una certa interpretazione genealogica atta a legittimare quella confederazione. Si sono formati
5
Tumuli funerari che caratterizzano il paesaggio di tutta la steppa eurasiatica.
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così gli imperi nomadi, oppure imperi delle steppe, imperi che però hanno assunto identità e
hanno occupato il territorio non in maniera duratura, ma solamente durante l’arco di vita del
condottiero a capo dell’orda (Van Leeuwen).
A sud della grande distesa centrasiatica, nelle oasi, prevale invece la cultura della
stabilità e della tecnologia agraria. In queste aree si sono formate città-stato, come strutture di
stato territoriale, che hanno dato origine a centri di potere e di accumulazione economica,
ovvero a dinamiche culturali che non potevano realizzarsi tra gli insediamenti dispersi della
steppa. In queste circostanze si sono sviluppate civiltà urbane classificate tra le più antiche del
mondo, come Buchara e Samarcanda, e città che diventeranno grandi potenze come Merv e
Kashgar. Queste città costituivano punti di scambio lungo le rotte carovaniere, centri in cui si
sviluppavano attività artigianali; in questi luoghi la cultura e gli scambi economico-culturali
potevano riprodursi liberamente nonostante un’organizzazione politica autocratica, secondo la
classica definizione di dispotismo orientale (Roux, 1997).
Il mercante, ad ogni modo, poteva muoversi in sicurezza a prescindere dalle sue idee,
dalla sua religione e dall’appartenenza etnica. Per questo motivo, sin dall’antichità, le città
centrasiatiche hanno sviluppato un quadro culturale diversificato, cioè composto da una
pluralità di culti, linguaggi e tecnologie; proprio questa pluralità sembra essere il presupposto
di una grande ricchezza: le rotte commerciali funzionavano come strumenti di integrazione e la
via della seta, il principale di questi itinerari, divenne la metafora stessa del movimento e dello
scambio, ovvero l’essenza della civiltà (Drège, 1992).
Da qui la paradossale situazione centrasiatica: il feudalesimo tribale, nonostante la sua
componente nomade, si lega al territorio, anche se solo stagionalmente, e non permette la
violazione di esso da parte di nessuno; i grandi emirati del sud, invece, nonostante la struttura
statale fortemente territorializzata, sviluppano un sistema sociale aperto ad ogni tipo di
scambio culturale, il territorio diventa di tutti e tutti gli avventori diventano del territorio, il
forestiero non è considerato tale ed anche il nomade che saltuariamente viene dal nord per
fare provviste, è bene accetto e riesce perfettamente ad integrarsi nel sistema sociale.
La struttura socio-politico-territoriale dell’Asia Centrale è rimasta praticamente
immutata fino all’età contemporanea quando, verso la metà del XIX secolo, l’impero russo ha
cominciato ad invadere il territorio centrasiatico nomade e sedentario.
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Il mondo centrasiatico venne inglobato in maniera graduale dal nuovo sistema sociopolitico russo: all’inizio gli stati territoriali del sud rimasero in piedi all’interno del grande
sistema zarista, in seguito furono smembrati e il territorio centrasiatico venne diviso in quattro
governatorati, tutti dipendenti esclusivamente da Mosca. La nascita dei governatorati ebbe un
fortissimo impatto soprattutto nel nord, nelle terre dei nomadi: per la prima volta l’Impero
delle steppe (Grousset, 1938) era stato delineato ed incardinato in un’istituzione politica
riferita ad un territorio preciso (Carrère D’Encausse, 1991).
Questo fenomeno portò numerose rivolte e assalti da parte delle varie tribù nomadi nei
confronti degli avamposti russi e delle nuove sedi istituzionali del potere zarista: qualcuno
stava cambiando il loro mondo, stava stravolgendo la loro identità, producendo un nuovo
apparato socio-politico ulteriormente destinato a modificarsi.
Negli anni ’20 del XX secolo, con la rivoluzione russa e lo stravolgimento del sistema
politico imperiale, mutò anche la già nuova struttura politico-territoriale dell’Asia centrale ove,
per la prima volta, sorsero degli stati e per la prima volta in queste terre vennero tracciati dei
confini.
Tra il 1920 ed il 1936, secondo il principio del Divide et Impera, il territorio centrasiatico
venne diviso in cinque Repubbliche Socialiste Sovietiche, ma l’istituzione dei confini di stato e
di cinque patrie territoriali divenne esclusivamente una manovra finalizzata al maggior
controllo di quella distesa sconfinata. Il territorio centrasiatico non esisteva più, era stato
smembrato in unità statali costituite in modo funzionale alle esigenze del potere. Queste
popolazioni che avevano sempre vissuto armonicamente insieme, senza alcuna forma di
confine, differenziandosi semplicemente per la lingua o per il fatto che fossero nomadi o
sedentarie, si ritrovarono suddivise ed inscatolate in stati fittizi con nomi ed identità creati ad
hoc per loro dagli ingegneri etnici sovietici (Foucher, 1992).
I nomi ed i confini che vennero assegnati alle cinque repubbliche non avevano alcuna
valenza storica, i nomi erano stati presi dai gruppi etnici di maggioranza delle varie aree ed i
confini erano stati tracciati nella maggior parte dei casi in modo assolutamente casuale (si veda
per esempio il confine occidentale uzbeco-kazako). L’obiettivo primo di questi confini era la
differenziazione di popolazioni che prima non si erano mai diversificate, dove l’uso della lingua
o il sistema sociale non avevano mai rappresentato un fattore discriminante e dunque un
fattore di identità nazionale (Bensi, 2002).
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Quello che prima era il turco di città, divenne l’Uzbeco, uzbeco, termine che è sempre
esistito, acquistò una valenza nazionalistica, distintiva; quello che invece era il persiano di città
divenne il Tagico, colui che parla una lingua differente, l’Altro. Vennero poste etichette che per
la prima volta fecero apparire il prossimo come diverso (Allworth, 1998).
Etichette che il più delle volte accomunano gruppi differenti per lingua o modo di vivere
e differenziano gruppi perfettamente uguali. Ricordiamo a questo proposito la sopraccitata
formazione etnico-territoriale dell’Uzbekistan. All’interno di questo grande calderone statale
possiamo trovare la popolazione turca sedentaria, uzbeca, concentrata soprattutto nelle
regioni orientali del Fergana, le popolazioni turco-nomadi karacalpache6 e kazake nelle steppe
a nord-ovest, le oasi persiano-tagiche di Buchara e Samarcanda a sud e la capitale, Tashkent,
ancora molto legata all’eredità culturale russa.
Ma in fondo l’unità culturale centrasiatica era ancora viva, anche se fortemente
ostacolata dall’indottrinamento sovietico. Essa continuava a sopravvivere nel substrato sociale,
e anzi la distanza culturale da Mosca slava ed atea avvicinava ed accomunava ancor di più le
identità turche e persiane, entrambe islamiche, dell’area centrasiatica.
L’universalismo musulmano e il tribalismo erano i riferimenti dell’identità per le
popolazioni centrasiatiche; come lingua si erano periodicamente diffuse alcune lingue franche,
come il farsi, lingua persiana, l’arabo per la religione e il turco ciagataico, che svolgeva una
funzione di lingua veicolare interetnica, lingue che in qualche modo restarono anche dopo
l’avvento sovietico7 (Roux, 1997).
Con il crollo del sistema sovietico tra il 1991 e il 1992, ai cinque stati centrasiatici si
aggiunsero le cinque nazioni centrasiatiche.
Un’ondata di nazionalismo e la voglia di uno stato-nazione con una propria storia e una
propria origine invase il territorio centrasiatico. Le sorti delle cinque repubbliche furono
affidate ai segretari dei vari partiti comunisti nazionali, che divennero le guide e i successori di
antiche tradizioni nazionali. Sorsero dal nulla cinque storie nazionali differenti, cinque eroi a
cui dare la paternità della nazione, cinque inni nazionali tutti con tematiche come l’esaltazione
Popolazione turco-tatara, di cultura nomade, abitante l’Uzbekistan occidentale, nei pressi del Lago
d’Aral. I Karacalpachi gestiscono la loro Repubblica dei Karacalpachi, regione autonoma presente sin
dai tempi del sistema sovietico.
7 Il turco ciagataico è una lingua letteraria dell'Asia Centrale sviluppatasi nei secoli XIV-XV per
evoluzione del linguaggio turco del IX-X secolo.
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dell’amor di patria e del sentimento nazionale ed addirittura cinque lingue, accuratamente
differenziate con termini “nazionali” e con alfabeti modificati (Hobsbawm, 1990).
Nacquero così le attuali repubbliche di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan
ed Uzbekistan. I confini diventarono sempre più alti ed insormontabili, quelle delimitazioni che
fino a sessant’anni prima non erano neanche state pensate, ora sono un limite invalicabile, un
limite che ha reso la gente diversa; mentre prima i confini erano comunque all’interno del
sistema sovietico, ora invece, sono veri e propri confini internazionali (Damiani, 2008).
Nazionalismo o localismo? - Dal binomio imperiale/locale, ora il territorio centrasiatico è
stato completamente catapultato nella dimensione nazionale. Fino al 1991, seppur già divisa
nelle cinque repubbliche sovietiche, l’Asia centrale era parte del grande calderone sovietico,
riconosciuto dalla società autoctona solo dal punto di vista politico-burocratico, ma la
dimensione che più contava, durante il periodo sovietico era quella locale, dove il centrasiatico
continuava ad esercitare una visione prettamente territoriale della società, seguitando a vivere
secondo i criteri città/campagna o deserto/montagna. Con la caduta dell’URSS e la nascita dei
cinque stati-nazione, invece, il mondo centrasiatico è stato privato totalmente della
dimensione imperiale-multietnica, super partes, è stato in qualche modo privato anche della
dimensione locale, concentrando tutte aspettative sulla nuova dimensione nazionale,
assolutamente fittizia, che doveva sopperire alle modalità burocratico-politiche dell’ex impero
e doveva ricreare un’unità culturale ed identitaria da sostituire alla dimensione locale
considerata anti-nazionale (Gellner, 1997), (Anderson, 1996).
Se da una parte l’Asia centrale ha riacquisito l’indipendenza culturale dal giogo sovietico
e si è riappropriata della sua cultura e della sua identità, dall’altra parte questa indipendenza
ha portato una totale frammentazione geografico-culturale, ognuna delle cinque repubbliche
si è reinventata la sua storia e la sua identità autonoma, distaccandosi dal resto del grande
territorio centrasiatico e cancellando secoli di vita in comune (Banuazizi, 1994).
Nonostante questo, oggi si riscontrano alcune spinte predicatrici di uguaglianza e
fraternità culturale, legate o al Panturchismo o all’universalismo islamico.
La prima di queste correnti, il Panturchismo, nasce alla fine del XIX secolo in Ungheria,
ma il suo massimo splendore in terra centrasiatica lo ha quando, dopo la caduta del sistema
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sovietico, la Turchia comincia ad avere rivendicazioni socio-culturali sulle neorepubbliche
centrasiatiche (Djalili, Kellner, 2006). Essa comincia a proporsi come nuovo filtro di
comunicazione tra le nuove repubbliche e il mondo, comincia ad investire culturalmente nelle
nuove repubbliche (numerosi giovani centrasiatici inizieranno a studiare nelle occidentali
Istanbul e Ankara) e cominceranno ad investire capitale turco per finanziare progetti di
ammodernamento industriale nelle ex repubbliche sovietiche, tutto in nome della fratellanza
turca (Balci, 2003).
La seconda corrente è legata al fattore religioso. Con la salita al potere di Michail
Gorbaciov nel 1985 e con l’allentamento della morsa repressiva sovietica nei confronti delle
diversità culturali all’interno della Unione, cominciano a nascere in tutta l’Asia centrale, ma
soprattutto nella valle del Fergana, movimenti religiosi integralisti che spinti dall’ondata
liberale cominciano a predicare una vera e propria indipendenza del territorio dell’Unione
Sovietica islamica e la nascita di uno Stato Islamico (Buttino, 1997).
Questi movimenti, di cui ricordiamo solo il più famoso, lo storico MIU8, che con il suo
capo carismatico Jumaboi Ahmadzhanovitch Khojaev detto Namangani portò avanti una
guerra privata con il governo uzbeco e contro il suo presidente Islam Karimov per ben tre anni
(dal 1999 al 2001), in nome della liberazione del territorio uzbeco dalla nuova dittatura, per
instaurare finalmente uno Stato Islamico. Namangani, così come gli altri movimenti islamici
che hanno trovato terreno fertile in Asia centrale, erano appoggiati una volta da fondazioni
wahabbite saudite, un’altra da movimenti integralisti pakistani e un’altra ancora dai talebani
afgani. Questo tipo di corrente identitaria è andata scemando, soprattutto negli ultimi anni,
perché questi movimenti erano troppo violenti e perché predicavano un islam di corrente
wahabbita9, quindi molto integralista e rigido rispetto all’islam sufi10 moderato da sempre
diffuso in Asia centrale (Rashid, 2002).
Movimento Islamico dell’Uzbekistan.
Movimento islamico nato in Arabia Saudita nel XVIII secolo e diventato pensiero ispiratore di
numerosi movimenti fondamentalisti a causa della sua dottrina sulla purezza e sul rigore originale.
10 Il Sufismo è un movimento religioso islamico moderato sviluppatosi a partire dall’IX secolo e molto
diffuso in Asia centrale. Esso pone al centro del suo pensiero la riflessione filosofica, il misticismo e
la pietas individuale.
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Conclusioni. - Queste correnti sono tuttora presenti in Asia centrale, non è possibile oggi
identificare un unico pensiero culturale centrasiatico e non è possibile dunque etichettare
genericamente tutta la popolazione dell’area.
Il retaggio sovietico è ancora presente nei nostalgici del totalitarismo e nella minoranza
russa, ancora molto diffusa soprattutto in Uzbekistan, Kazakistan e Kirghizistan. L’identità
nazionale, fortemente sponsorizzata da tutti e cinque i governi, è presente soprattutto nelle
maggioranze etniche delle capitali. L’appartenenza locale-territoriale, è un’idea diffusa
soprattutto nella valle del Fergana, oramai da decenni divisa tra Uzbekistan, Tagikistan e
Kirghizistan, ma che culturalmente continua ad essere una realtà omogenea anche grazie alla
forte tradizione religiosa. Il sentimento religioso, quello islamico, è diffuso maggiormente tra le
popolazioni stanziali del sud (Uzbekistan e Tagikistan), rispetto a quelle nomadi del nord.
L’essere turco è invece un valore identitario che, soprattutto negli ultimi anni, si sta
sviluppando nelle quattro repubbliche a maggioranza turcofona. Ognuno, dunque, si avvicina e
si lega maggiormente all’identità in cui si riconosce di più e ognuno, quindi, dà al termine
centrasiatico il significato che più lo rappresenta.
L’Asia centrale si conferma così confluenza ed incrocio di identità e di culture e, di
conseguenza, territorio, per definizione, privo di confini.
L’ASIA CENTRALE DOPO L’INDIPENDENZA
Con il dissolvimento dell’Unione Sovietica si venne a creare una situazione particolare,
abbastanza comune a tutte e cinque le repubbliche centrasiatiche: la mancata corrispondenza
tra i desideri dei popoli e le iniziative dei governi.
Gli uomini scelti per amministrare queste nuove repubbliche erano comunisti profondamente
conservatori, la cui visione del mondo esterno era sempre stata influenzata da quella di Mosca.
Cresciuti ed allevati nel sistema sovietico, molti di loro non parlavano neppure la lingua del
loro paese di origine. La loro idea di sicurezza nazionale si basava sulla presenza nella regione
dell’esercito sovietico che con la caduta dell’URSS cominciò a ritirarsi. Il sistema sociale, quello
economico, le strutture sanitarie e scolastiche, erano dipendenti da Mosca e naturalmente
queste repubbliche erano sopravvissute anche grazie a cospicui aiuti finanziari russi. Con
l’indipendenza ognuno di loro si ritrovò a fronteggiare i problemi dell’inflazione, dei posti di
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lavoro, della politica estera e fiscale, in completa autonomia; e la situazione era resa ancora
più complessa dal rimpatrio della burocrazia russa.
Il problema fondamentale era che i leader centrasiatici avevano paura dell’indipendenza da
Mosca, tanto quanto i loro popoli la desideravano da anni. La cosa che più terrorizzava i leader
di questi paesi, infatti, era affrontare le aspettative pubbliche riguardo alla libertà politica, di
espressione e soprattutto religiosa: si rendeva necessario affrontare il “problema Islam”
soprattutto in zone dove la religione era l’elemento più importante della vita socio-culturale
della popolazione: la valle del Fergana.
Durante gli oltre 60 anni di comunismo la loro fede, come tutte, era stata duramente repressa
da Mosca: le moschee vennero decimate, gli imam ribelli perseguitati e le cinque repubbliche
subirono un forzato ateismo comunista. Questo portò alla nascita di un islam “sotterraneo”: la
gente non abbandonava la fede ma la esercitava di nascosto nelle case e nei capannoni,
sorsero delle moschee clandestine e vennero istruiti imam che avevano altri lavori di
copertura, venivano addirittura celebrati matrimoni di ”facciata” nei comuni per poi di notte
celebrare e festeggiare i matrimoni religiosi. Grazie a ciò le popolazioni centrasiatiche non
persero la fede e il crollo dell’Unione Sovietica scoprì un vaso di Pandora che era rimasto
chiuso per molti anni.
La cosa avrebbe dovuto saltare agli occhi dei russi già da quando nel 1979, durante l’invasione
russa dell’Afghanistan, migliaia di soldati sovietici centrasiatici, ritrovandosi a combattere
contro i loro correligionari afgani, passarono dall’altra parte diventando anch’essi mujaheddin,
combattenti che intraprendono la jihad (guerra santa) per l’Islam, contro l’URSS.
Molti giovani centrasiatici guardarono agli altri stati islamici come ispirazione ideologica: alla
Turchia, con cui condividono l’origine etnica, all’Arabia Saudita, culla dell’Islam, all’Iran,
guardato soprattutto dai tagiki di origine persiana. Questi paesi vedevano le popolazioni
dell’Asia Centrale come fratelli liberati dal giogo dell’ateismo e cercavano di avvicinarli ancora
di più inviando copie gratuite del Corano e finanziando la ricostruzione delle Moschee.
In un primo momento la leadership centrasiatica tentò di adattarsi alla nuova situazione
adottando atteggiamenti di facciata spacciandosi per musulmani rinati, ma in realtà non fece
niente per incoraggiare la rinascita dell’islam a livello ufficiale, non riconobbe le festività
religiose come giorni non lavorativi e lasciò al bando tutti i partiti che promuovevano ideologie
islamiche.
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Nel 1992 le misure repressive dei regimi cominciarono ad incoraggiare le idee di radicalismo
islamico e i movimenti locali optarono per la clandestinità. I governi incapaci di mantenere la
situazione sotto controllo non seppero far altro che imbavagliare i media e ogni forma di
libertà di espressione.
L’Unione Sovietica si era sciolta, ma la democrazia in Asia Centrale continuava a non decollare.
Tra i vari gruppi di militanti islamici che nacquero in Asia Centrale si possono ricordare:
Il Partito della Rinascita Islamica (Pri), unico organo legalizzato dal regime tagico nel tentativo
di evitare aggravamenti della crisi politico-sociale. Tentativo vano, visto lo scoppio di una
guerra civile durata cinque anni (1992-1997) tra forze democratiche, islamiche e residui
sovietici; cinque sanguinosi anni che hanno condotto il paese ad un governo di coalizione
democraticamente eletto con la presenza al suo interno di partiti laici e religiosi.
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan (Miu), fondato a Namangani, nel Fergana, nel 1998 da
estremisti insoddisfatti dalla spinta moderata del Pri e decisi a rovesciare il “padre-padrone”
dello stato, Islam Karimov, presidente dello stato con il più grande potenziale dell’area,
l’Uzbekistan, politico corrotto e senza scrupoli, capace di fare di tutto pur di mantenere il
potere accentrato nelle sue mani.
Il Miu rappresenta il movimento più forte e più estremista, protagonista di operazioni di
guerriglia contro i regimi, si è diffuso a macchia d’olio reclutando adepti in tutte le repubbliche
e moltiplicando le sue basi. Il suo fondatore fu Juma Namangani, uomo carismatico e intimo
amico di Osama Bin Laden. Le tematiche riguardanti il Miu le affronteremo meglio più avanti.
Il Partito della liberazione islamica (Hizb ut-Tahrir al-Islami) (Ht), altro grande movimento che
contrariamente al Miu divulga sul web il suo programma, ossia riunificare politicamente tutta
la Umma islamica, con anche le nazioni centrasiatiche, in un grande Califfato analogo a quello
fondato da Maometto nell’Arabia del VI secolo, servendosi di mezzi non violenti. Ma il
problema del Ht così come quello del Miu è una mancanza assoluta di programma socioeconomico che spieghi come risollevare le sorti del presunto Califfato.
Anche dal punto di vista economico, il distacco dalla Russia è stato infatti un trauma: i sovietici
in maniera autoritaria avevano operato la collettivizzazione agricola forzata e sviluppato la
coltivazione coatta del cotone; ma i governi centrasiatici non erano stati abituati a gestire da
soli le loro risorse, soprattutto le riserve naturali di gas, minerali e petrolio. L’Asia Centrale era
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l’unica riserva naturale al mondo ancora vergine in quanto i russi avevano preferito sfruttare le
risorse siberiane. Con la caduta del comunismo la regione diventò quindi un grande richiamo
per gli investitori internazionali, vantaggio sfruttato però solo in parte dai governi neoindipendenti.
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Geografia socio-politica: il Regionalismo culturale
della valle del Fergana
La cerniera geopolitica che collega perfettamente le due civiltà centrasiatiche: quella nomade
turco-mongola e quella sedentaria persiana è l’attuale Repubblica dell’Uzbekistan. Vero e
proprio cuore non solo geopolitico, ma anche economico, culturale e storico di tutta l’area
centrasiatica, l’Uzbekistan, è diventata repubblica indipendente dopo lo scioglimento
dell’Unione Sovietica nel 1992. Da allora, il presidente della repubblica, è sempre e solo stato
Islam Karimov. Già segretario del Partito Comunista Uzbeco negli anni ‘80, Karimov ha
incrementato enormemente il suo potere dopo l’indipendenza della ex repubblica sovietica.
Attraverso una figura autoritaria e carismatica, Karimov ha messo su una vera e propria
dittatura placidamente appoggiata da Russia e Stati Uniti, che gli permette di esercitare anche
il ruolo di leader di tutta l’area centrasiatica.
In particolare, la regione della grande area centrasiatica che rappresenta, la zona
geopoliticamente più calda è la valle del Fergana. Attualmente divisa tra Kirghizistan,
Uzbekistan e Tagikistan, questa valle costituisce, in un certo modo, il fulcro della geopolitica
centrasiatica.
Per osservare la situazione geopolitica della valle del Fergana è possibile applicare
tranquillamente il modello di analisi lacostiano con i suoi tre elementi: il territorio (la posta in
gioco) rappresentata dalla valle stessa, dalle sue risorse e dalla sue peculiarità, gli attori politici
rappresentati dai tre governi nazionali e dai movimenti fondamentalisti che si contendono la
valle e la popolazione che viene tirata in ballo attraverso i media dagli attori politici,
popolazione che viene rappresentata non solo da una o dall’altra tipologia di attore politico,
ma anche da una terza variante, più autonoma, quella del Regionalismo culturale.
La grande fertilità della sua terra, la grande prosperità del suo sottosuolo, caratteristiche
estremamente insolite per il paesaggio centrasiatico, e il grande senso identitario e religioso,
hanno reso la valle zona di antiche lotte per la gestione del territorio, portando questa
Macedonia Centrasiatica ed il suo Regionalismo culturale a diventare, nel corso del XX secolo,
il centro della rivalità geopolitica tra l’ideologia sovietica e l’identità islamica centrasiatica.
Questa rivalità si è perpetuata nel tempo, e anche oggi che l’ideologia sovietica non è più
presente, si è rinnovata in una sorta di lotta al terrorismo religioso da parte delle “nuove
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democratiche” repubbliche che vengono sostenute in questa lotta da Russia e Cina attraverso
un’organizzazione internazionale, la SCO (Shangai Cooperation Organization) e dagli Stati Uniti
che con i loro grandi investimenti e con le loro basi militari usano il territorio ufficialmente per
aiutare la lotta al terrorismo islamico, ufficiosamente per avere basi d’appoggio molto
prossime al territorio afgano.
Il presidente centrasiatico che ha preso più a cuore la lotta al terrorismo è Karimov, che
controlla costantemente e militarmente il territorio uzbeco, soprattutto la parte della valle del
Fergana che è sotto la sua sovranità.
Proprio per questo suo grande senso identitario-religioso e anche perché in passato i
ferganiani hanno dimostrato di avere tempra e voglia di autonomia nei confronti di tutti i vari
invasori, Karimov teme tutto ciò e teme che tutto quello che possa riguardare questa valle e
tutti quelli che parlano di questa valle, in altre parole, in Uzbekistan, la valle del Fergana è
praticamente un tabù.
Il forte senso di autonomia della valle si era già fatto sentire durante l’invasione zarista
dell’Asia centrale tra la metà del XIX secolo e i primi decenni del XX. La valle, allora Gran
Khanato di Kokand, regno che diede i natali a Babur, colui che creò la dinastia Mogul in India,
fu invasa dall’esercito zarista nel 1876. Sin dall’inizio, la grande disparità culturale tra la
cristiana e fervente Madre Russia e l’islamico dispotismo orientale del Khanato portò tensioni
e reazioni negative da parte della popolazione ferganiana, ma il primo vero atto di ribellione
contro il potere ci fu quando nel 1916 viene avviata in Asia Centrale una campagna di
reclutamento forzato della popolazione. Il reclutamento avvenne con modalità che vennero
ritenute intollerabili. I ribelli si opposero al reclutamento non tanto a causa della costrizione,
quanto perchè i lavori cui sarebbero stati destinati, essenzialmente lavori di tipo pesante e
manuali, venivano considerati indegni: come è tipico dell’Asia Centrale, sia per la cultura del
dispotismo orientale che per la democrazia guerriera, i lavori pesanti e manuali vengono
considerati come un’attività infamante.
Questa idea del lavoro, in realtà, evidenzia l’incongruenza che caratterizza da sempre il
dialogo tra i due mondi: mentre per i contadini russi ed europei il lavoro agricolo è la base per
una vita indipendente e libera, per i centrasiatici, sia che fossero allevatori nomadi, sia che
fossero contadini-servi o proprietari, il lavoro manuale è il lavoro degli schiavi, cioè un lavoro
cui vengono costrette le popolazioni sottomesse o le categorie deboli della società. Per questo
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motivo la campagna di arruolamento viene considerata come un gesto che rompe il modus
vivendi tra amministrazione e società locale; questo malessere diede alle popolazioni
musulmane quel senso di unità e di identità che stavano perdendo e collaborò prima alla
nascita del primo pacifico tentativo di rivendicazione della propria autonomia con il Governo
Autonomo Musulmano di Kokand e dopo con alla nascita di uno dei più grandi movimenti di
resistenza contro le istituzioni russe che passò alla storia come la rivolta dei Basmaci. I
Basmaci, che nelle lingue turche centrasiatiche vuol dire Banditi, erano dei gruppi armati di
ribelli che soprattutto nei territorio del Khanato di Kokand assalivano i posti di blocco russi nel
nome della libertà delle popolazioni musulmane del Fergana oppresse dal colonizzatore. Con
la rivoluzione bolscevica del 1917 le cose non cambiarono, la valle del Fergana continuava a
mostrare la sua intransigenza nella integrazione con il nuovo impero che stava nascendo. Per
placare definitivamente gli animi rivoluzionarti della valle, e per mettere a tacere ogni forma
di autodeterminazione proclamata dai Basmaci, Stalin all’inizio degli anni 20 del XX secolo
decise non solo di portare il concetto di nazione e di patria territoriale, assolutamente nuovo
nella regione centrasiatica abituata a ragionare come un’unità culturale semplicemente divisa
tra nomadi e sedentari, ma alimentò il sentimento di autonomia e di vendetta del Fergana,
perché secondo il classico concetto del Divide et Impera, gli ingegneri etnici di Stalin, divisero
la valle in tre parti, assegnandone ognuna a 3 delle 5 nuove repubbliche socialiste sovietiche.
L'istituzione dei confini, nuovo concetto per i centrasiatici, divenne una manovra
esclusivamente finalizzata al controllo. Per questo motivo, e per mantenersi buona l’etnia più
influente della valle, gli uzbechi, che rappresentano il 64% di tutta la popolazione ferganiana e
quindi quella che potrebbe causare più problemi nella regione, gli scienziati sovietici
attribuirono, nel 1924, buona parte della valle
alla nascente Repubblica Socialista Sovietica
dell’Uzbekistan. La parte prettamente montana della valle andò alla neo repubblica sovietica
del Kirghizistan e la parte più occidentale della valle, la regione di Khujand, l’ultima Alessandria
(Eskhate) fondata da Alessandro Magno, lì dove il fiume Sir-Darya continua il suo corso verso il
lago d’Aral fu assegnata alla nuova repubblica del Tagikistan. Inoltre per frammentare ancora
di più l’unità territoriale ferganiana, Stalin decise di creare ben otto enclave: due enclave
tagiche in territorio kirghizo, quattro enclave uzbeche in territorio kirghizo, una enclave tagica
in territorio uzbeco e una enclave kirghiza in territorio uzbeco.
Nonostante, però, siano oramai passati 80 anni dalla divisione politica della valle, i sentimenti
fortemente autonomisti ed identitari, non si sono mai affievoliti. Tutt’ora gli abitanti della valle
sono legati alla loro territorialità più che alle loro nazionalità. Un uzbeco del Fergana si sente
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molto più vicino ad un Tagico del Fergana più che ad un Uzbeco di Nukus, nell’Uzbekistan
occidentale.
Nel periodo tra gli anni 40 e gli 50 anni, negli anni più duri della repressione sovietica, prima
della morte di Stalin nel ’53, tutta l’Asia centrale ed in particolar modo la valle subì un
ulteriore giro di vite, che vietava completamente ogni tipo di funzione religiosa, obbligava al
totale ateismo tutte le popolazione dell’Unione, anche i più religiosi ferganiani. Questo portò
non solo un accrescimento dei sentimenti di ostilità nei confronti dei russi, ma portò anche la
nascita del cosiddetto islam clandestino, cioè quella forma di religiosità nascosta all’interno
della società ferganiana, aiutato dalla nascita delle Tariqa società segrete che avevano come
obiettivo la sopravvivenza dell’islam centrasiatico. Il venerdì, visto che tutte le moschee erano
state chiuse, ci si recava in case private improvvisate come moschee clandestine, i matrimoni
religiosi venivano praticati di notte lontani dagli occhi degli funzionari russi e i ragazzi della
valle studiavano l’islam nella scuole coraniche clandestine. Tutto ciò portò il sentimento non
solo religioso, ma anche il sentimento identitario e culturale della valle a sopravvivere nel
tempo fino a quando questa voglia di sopravvivere e questa ostilità nei confronti degli invasori
mutarono la loro natura trasformandosi in vero e proprio fondamentalismo.
Dopo alcuni anni di distensione nei confronti delle minoranze all’interno dell’Unione, ci fu un
nuovo periodo di psicosi ateista, incrementato anche dal lento disgregarsi del sistema
sovietico, siamo agli inizi degli anni ’80 e Rano Abdullaev, segretario del Komsomol (la Lega dei
Giovani Comunisti) cominciò una politica antireligiosa durissima: molti abitanti del Fergana,
ricordano ancora oggi la famosa Era di Abdullaev: i soldati strappavano i foulard con forza
dalle teste delle donne nei villaggi della valle, distruggevano tutti gli edifici che potessero
avere funzioni religiose e arrestavano indiscriminatamente chiunque potesse essere
sospettato di essere un mullah. Verso la metà degli anni ’80, una nuova tendenza cominciò a
diffondersi: la Perestroika di Gorbaciov portò cambiamenti epocali alla società sovietica. Tra i
nuovi propositi liberali della politica di Gorbaciov non c’era l’eliminazione delle restrizioni
contro le pratiche religiose, ma la gente in tutta l’Unione interpretò la cosa diversamente, e si
assistette a un’immediata rinascita di tutte le religioni. In particolare, nel Fergana, l’islam
clandestino uscì alla luce del sole: migliaia di moschee vennero costruite, milioni di testi
coranici cominciarono ad arrivare dall’Arabia Saudita e dal Pakistan e i mullah cominciarono
ad esercitare alla luce del sole nei vari villaggi.
Questo fenomeno fu solo uno degli eventi che creò quello che oggi noi chiamiamo militanza
islamica, infatti, altri avvenimenti accaddero in quel periodo, e accrebbero i sentimenti
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estremisti religiosi in Asia centrale: il contatto tra i giovani soldati sovietici centrasiatici
mandati in Afghanistan durante l’occupazione del 1979 con i mujaheddin afgani, loro
correligionari, ma nemici da combattere. Molti centrasiatici rimasero colpiti dalla grandezza
della Umma musulmana che si estendeva al di fuori dei confini sovietici e affascinati dalla
dedizione religiosa di questi combattenti abbracciarono la causa afgana, e cominciarono ad
inviare in patria informazioni e materiale sovversivo e antisovietico. Questo portò numerosi
ragazzi centrasiatici a uscire dai confini sovietici e recarsi in Afghanistan, Pakistan o Arabia
Saudita per studiare nelle scuole coraniche, qui divenire mullah, apprendendo però un islam
diverso dal sufismo moderato centrasiatico, l’islam wahabbita, corrente ultra ortodossa
praticata in Arabia Saudita, e l’islam deobandista, corrente ultra ortodossa praticata in
Afghanistan e Pakistan, riportando, con il nome degli Adepti della nuova era, nuovi reazionari
ideali in Asia centrale. La jihad in Afghanistan diventò un modello di liberazione per tutte le
popolazioni islamiche oppresse e, di conseguenza, anche per l’Asia centrale; migliaia di giovani
radicali uzbechi e tagichi, soprattutto nel Fergana, erano convinti che la vittoria afgana
avrebbe dato l’avvio ad una rivoluzione islamica in tutta l’Asia centrale.
Il Fergana, così, anche in questo caso, grazie a questi nuovi fervori culturali provenienti fin qui
da ogni parte del mondo musulmano, assunse un ruolo centrale nella rinascita islamica
fondamentalista centrasiatica, grazie alle idee wahabbite e deobandiste assimilate soprattutto
dai mujaheddin uzbechi che porteranno alla nascita di organizzazioni come il Movimento
islamico dell’Uzbekistan (Miu) per mano di Tohir Yuldashev e Jumaboi Khojaev, detto
Namangani dal nome della sua città natale Namangan, e della rinascita islamica moderata
centrasiatica, grazie alle idee indigene sufiste moderate nazionaliste portate avanti dai
mujaheddin tagichi che condurranno alla nascita del moderato Partito della Rinascita Islamica
(Pri).
Con la caduta dell’URSS alla fine del 1991 e con la nascita delle cinque repubbliche
centrasiatiche indipendenti, tutti, cittadini, fondamentalisti, religiosi, atei, pensarono che,
dopo più di ottant’anni di dominazione straniera, la tirannia e le limitazioni alla cultura e alle
tradizioni centrasiatiche andavano scomparendo, potendo riacquistare così l’indipendenza
politica, territoriale e culturale che da tempo sognavano, ma non fu proprio così.
I cinque nuovi presidenti ebbero subito timore che la situazione precipitasse e che i paesi
potessero cadere nelle mani dei fondamentalisti e cominciarono da subito a limitare e punire
ogni forma sospetta di pratica religiosa, accusando chiunque si recasse in moschea e chiunque
professasse con dedizione le pratiche islamiche, di fondamentalismo.
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Questo portò una reazione e un risultato contrari a quelli sperati: la popolazione, oltre a
vedere nei nuovi presidenti dei nuovi tiranni, si rese conto che essi non facevano
assolutamente niente per risollevare le sorti economiche e finanziarie delle cinque
repubbliche lasciate economicamente allo sbando dalla dissoluzione sovietica, e tutto questo
portò un grande malessere generale che non fece altro che avvicinare sempre più la
popolazione centrasiatica alla causa fondamentalista, che iniziò
a vederla come unica
possibilità di vero benessere e indipendenza.
Tutti i fedeli dal regime venivano definiti wahabbiti: dal nonno che accompagnava il nipote in
moschea il venerdì, al ragazzo che si sottraeva alla bevuta serale di vodka, soprattutto nel
Fergana, dove la tradizione islamica non si era mai spenta e dove la maggior parte delle vere
cellule fondamentaliste avevano la sua sede.
Queste cellule ora avevano un nuovo nemico, non più il potere sovietico potente ma lontano,
ora da combattere erano i nuovi governi indipendenti che, per mantenere il potere nelle loro
mani, avevano continuato ad esercitare sulla popolazione le coercizioni e le repressioni
sovietiche.
Con il tempo, gli Adepti delle nuova era compresero che la lotta da ideologica e religiosa
doveva diventare politica; ai sovietici avevano chiesto più libertà di espressione religiosa, dai
nuovi governi, nuovi abiti della vecchia e corrotta intellighenzia comunista locale, volevano il
potere, volevano la creazione di quello che il Turkestan avrebbe sempre dovuto essere: un
grande unico stato islamico. Nello stesso momento, le cellule continuavano a ingraziarsi la
popolazione con opere di grande valore simbolico come, ad esempio, la restaurazione della
moschea di Ota-Valikhan a Namangan, moschea che i sovietici avevano ridotto, con disprezzo,
a fabbrica di vino.
Va da sé che questi gesti portavano la popolazione a lasciarsi andare completamente nelle
mani dei fondamentalisti, a pendere dalle loro labbra e ad arruolarsi contro i nuovi tiranni.
Il nemico per eccellenza delle crescenti cellule fondamentaliste, situate soprattutto nella valle
del Fergana, era il governo uzbeco di Islam Karimov. Karimov sapeva benissimo che il centro
della rinascita fondamentalista era il Fergana, quel Fergana che al suo paese era toccato per
circa il 70% nella spartizione territoriale degli anni ’20 e da subito, sin dal 1992, capì che
doveva tenerlo sotto controllo perchè qualunque problema e qualsiasi rivolta sarebbe
provenuta da lì.
I sovietici hanno pensato bene di dividere la valle, il più possibile, affinché creasse meno
problemi possibile, ma la divisione non ha portato i frutti desiderati anzi: con l’inasprirsi del
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regime sovietico e di conseguenza le limitazioni religiose e, soprattutto, con l’indipendenza
delle tre repubbliche e l’esaltazione di un fittizio nazionalismo, è rinato nei tagichi, negli
uzbechi e nei kirghizi l’animo ferganiano, moderato o fondamentalista che sia.
Ora però, a reprimere gli spiriti unitari e libertari non ci sono più i sovietici, ma quella eredità
locale che ha preso il potere agli inizi degli anni ’90; ora i nemici non sono più stranieri, sono
fratelli, conterranei e correligionari, che per smanie di potere e per mantenere l’autorità nelle
proprie mani, hanno cominciato a perseguitare e a soffocare le identità culturali che stavano
tornando alla luce del sole dopo quasi cento anni di repressione.
I nuovi padroni avevano cominciato a vedere qualunque avvenimento e manifestazione
provenisse dalla valle come una minaccia, minaccia che andava a tutti i costi soffocata. La
guerra tra i tre governi nazionali da una parte e i fondamentalisti islamici dall’altra ebbe luogo
nella valle del Fergana, sia nel territorio uzbeco, sia in quello tagico e sia in quello kirghizo. Gli
anni più caldi furono quelli a cavallo tra gli anni 90 e il nuovo millennio. Con il 2001 e la morte
di Namangani, il Miu ha perso il suo potere nella valle che è stato ereditato da un nuovo
movimento Hizb ut-Tahrir. Movimento di origine mediorientale lontano dall’islam mistico
sufista del Fergana, ma che ha sostituito il Miu nella valle grazie ai suoi metodi pacifisti e alla
volontà di creare un unico Califfato Islamico, un po’ anacronistica come idea, ma di effetto sui
religiosi contadini della valle.
Conclusione
Oggi la vita nella valle continua così, alternando momenti di distensione a momenti di
repressione acuta da parte del Governo con retate nelle città più grandi della valle a caccia di
fondamentalisti da giustiziare. L’ultima grande repressione ci fu nel maggio del 2005 ad
Andijan nella provincia più orientale del Fergana uzbeco. Un contingente di circa 100 uomini
armati si è impadronito della prigione, di diversi commissariati di polizia, di due guarnigioni
militari e di edifici amministrativi e ha assunto il controllo della città per un'intera giornata.
Riuniti nel centro della città con diverse persone in ostaggio, ai guerriglieri si sono uniti alcuni
sostenitori e semplici curiosi che volevano ascoltare i discorsi contro il regime. Il governo ha
sospeso le trasmissioni di tutte le emittenti televisive e radiofoniche e ha inviato ad Andijan
l’esercito che, dopo aver circondato la città chiudendo tutte le strade d’accesso, è entrato
nella zona del centro per riprendere il controllo del palazzo del governo che i rivoltosi armati
avevano occupato nella notte. I soldati hanno aperto il fuoco contro l'edificio, da cui sono
partiti colpi di risposta. La situazione era estremamente confusa. Testimoni hanno riferito di
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un prosieguo di sparatorie e di auto ed edifici dati alle fiamme.
Ma ben presto le truppe governative hanno preso posizione intorno alla piazza centrale.
Secondo alcuni testimoni, i soldati avrebbero aperto il fuoco sulla folla facendo 500 morti. Le
cifre ufficiali parlano di 176 vittime, di cui metà costituita da insorti. Nel frattempo diverse
centinaia di uzbechi hanno varcato la frontiera e sono stati riuniti in campi profughi in
Kirghizistan. Il presidente Karimov si è difeso in una conferenza stampa dichiarando che: « gli
incidenti sono stati causati dall’Akramiya, una nuova corrente del movimento fondamentalista
Hizb ut-Tahrir, che vuole diffondere l'odio e il rifiuto del laicismo. Non ho mai dato ordine di
aprire il fuoco sui civili, ma ci sono state delle vittime: almeno 10 militari e un numero molto
maggiore di civili. » Karimov aveva parlato in un primo momento di 9 vittime civili, ma dopo
un po’ é parso che anche il numero ufficiale delle vittime fosse destinato a salire.
Il numero non ufficiale delle vittime di quel giorno è arrivato a 750.
Questo è solo uno degli ultimi eventi più dibattuti dai giornali di tutto il mondo, per quanto si
possa parlare di diffusione di notizie che coinvolgano la valle del Fergana. Il Governo cerca in
tutti i modi di mettere a tacere e di nascondere ogni tipo di notizia che riguardi il regime o le
agitazioni nella valle e uno dei modi più semplici per farlo è il controllo dei media. Dal 2005,
l’Uzbekistan è diventato uno dei pochi paesi al mondo con la censura totale, insieme a Cuba,
Vietnam, Corea del Nord, Cina, Tunisia, e Myanmar.
Mentre le identità in Asia centrale restano comunque molte e complesse: il retaggio sovietico,
l’identità nazionale, l’appartenenza prettamente locale-territoriale, l’essere turco, la religione,
nella Macedonia centrasiatica, invece, nonostante i tentativi di semplificazione nazionalistica
che i vari governi cercano di applicare, persiste nel tempo l’identità ferganiana, con le due
varianti moderata ed estremista. Il Regionalismo culturale di questa valle continua ad
identificarsi nel proprio territorio, indipendentemente dalle etnie o dalle lingue che lo abitano.
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Le enclave della valle del Fergana
L'indipendenza improvvisa delle cinque repubbliche centrasiatiche (Kazakistan, Kirghizistan,
Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan) in seguito allo scioglimento dell’Unione Sovietica ha
significato un completo sconvolgimento della situazione geopolitica in Asia centrale.
L’Asia centrale è forse la parte del continente eurasiatico meno conosciuta, una parte di Asia
che trova la sua identità nell’incrocio e nell’intersezione di due grandi civiltà: la civiltà nomade
turco-mongola dal nord e la civiltà delle oasi del sud che, sin dal V secolo A.C., sono state
abitate da popolazioni sedentarie e hanno permesso la nascita di città come Samarcanda,
Buchara o Kokand. Città un tempo facenti parte di grandi imperi come quello persiano o
macedone che hanno contribuito a rafforzare il carattere stanziale della parte meridionale
dell’area. La nascita e lo sviluppo di esse, la vitalità dei loro bazar si contrappone alla solitaria
vita nomade dei turco-mongoli11.
L’Asia Centrale rappresenta questa unione, il punto di contatto tra queste due realtà, tra questi
due modelli di vita asiatici.
In particolare, la regione della grande area centrasiatica che rappresenta, in grande scala,
questo fenomeno, è la valle del Fergana.
Incrocio per civiltà millenarie, passaggio lungo la Via della seta, discusso cuore storico e
culturale dell’Asia Centrale, attualmente la valle del Fergana è divisa tra Kirghizistan,
Uzbekistan e Tagikistan.
La fertilità della sua terra e la grande prosperità del suo sottosuolo, caratteristiche
estremamente insolite per il paesaggio centrasiatico, hanno reso la valle una zona di antiche
lotte per la gestione del territorio e di antica colonizzazione, dove si sono avvicendate
progressivamente sin da tempi antichi svariate popolazioni e civiltà creando una sorta di
Macedonia centrasiatica e rendendo la valle una delle zone più popolose di tutta l’Asia
centrale.
11 Cfr. Naumkin V., State Religion and Society in Central Asia, 1999, Yale University Press.
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La sua struttura morfologica, particolarmente raccolta, l’ha resa un’unità naturale che si
estende per circa 300 chilometri di lunghezza e 100 km di larghezza nel cuore del massiccio del
Tian Shan. Essa è perfettamente tagliata in due dal fiume Syr Darya, seconda risorsa idrica di
tutta l’area centrasiatica, unica via di accesso e di uscita dalla valle.
Le caratteristiche morfologiche della valle le hanno permesso di incamerare nel tempo le
varietà socio-culturali delle popolazioni e delle civiltà che l’hanno abitata e nello stesso tempo
di creare e di conservare nei secoli le sue peculiarità culturali, creando un forte senso
identitario e di appartenenza alla valle, correlato anche a una fervente tradizione religiosa che
ha portato, sin dagli albori della diffusione della religione islamica, a far sì che essa fungesse da
protagonista dell’islamizzazione dell’Asia Centrale, creando un acceso culto religioso sufi12 e un
grande rispetto per le proprie tradizioni, tuttora molto viva nei suoi abitanti.
Con il tempo è nato una sorta di Regionalismo Culturale della valle che nell’ultimo secolo ha
creato problemi e opposizioni con le nuove identità nazionali nate in Asia centrale agli inizi del
XX secolo.
Negli anni ’20 del XX secolo, con l’arrivo della rivoluzione bolscevica nelle terre centrasiatiche,
arrivarono anche grandi mutazioni dei confini politico-territoriali.
Una delle regioni maggiormente colpite dalle attività degli antropologi staliniani fu proprio la
valle del Fergana. Seguendo la pianificazione territoriale definita Geopolitica del cotone13, ossia
l’insieme di motivazioni economiche e la volontà di smembrare il Fergana e la sua enorme
produzione di cotone altrimenti completamente in mani uzbeche, la regione si ritrovò nel giro
di pochi anni frazionata e affidata a tre nuove sovranità nazionali: Uzbekistan, Kirghizistan e
Tagikistan e si ritrovò all’interno di quel nuovo sistema politico eurasiatico che stava nascendo:
l’Unione Sovietica.
Ma la divisione geopolitica della valle non venne limitata a questa tripartizione, il suo
territorio, tra gli anni 1924 e 1929, fu cosparso di ben otto enclave di differenti grandezze e
con differenti collocazioni, raggruppanti circa 80 mila abitanti14, disseminate certosinamente in
tutta la regione.
12 Il Sufismo è un movimento religioso islamico diffusosi a partire dall’IX secolo e molto diffuso in Asia centrale.
13 Cfr. Kocaoglu T., Reform movements and revolutions in Turkestan 1900-1924, Research Centre of Turkestan and
Azerbaijan.
14 Cfr. Ferrando O., Du concept de minorité en Asie centrale : l’exemple de la vallée du Ferghana, Cemoti, n.39-
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Risorsa riadattata: Thorez J., Enclaves et enclavement dans le Ferghana post-soviétique, Cemoti, n.35, 2003, Paris.
Quattro sono le enclave uzbeche in territorio kirghizo: Sokh (Сох), Khamzaabad (Хамзаабад)
(detta anche Chakhimardan (Шахимардан), Qalacha (Калача) e Khalmion (Халмуон) . Le
prime due sono tra le enclave più grandi di tutta la valle.
Sokh è la più grande e popolosa di tutte: con i suoi 325 chilometri quadrati di grandezza e 42
mila abitanti rappresenta un rajon autonomo all’interno dell’oblast’ di Fergana15.
L’attribuzione di Sokh all’Uzbekistan non è proprio legata ad un’equa divisione etnicolinguistica della regione perché si tratta di un’enclave uzbeca in territorio kirghizo, ma la
stragrande maggioranza della sua popolazione, circa il 99%, è di etnia tagica, lo 0,7% è kirghiza
40, 2005, Paris.
15 Il rajon è un’entità amministrativa molto simile al comune italiano, mentre l’oblast’ è l’entità amministrativa
paragonabile alla provincia, sono terminologie ereditate dal sistema sovietico.
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
e la popolazione uzbeca è rappresentata esclusivamente dai funzionari nominati da
Tashkent16.
Ingrandimento enclave di Sokh e Qalacha
Risorsa: ritaglio carta politico-amministrativa della provincia di Fergana (cartografia ufficiale
Repubblica dell’Uzbekistan 2004)
Il motivo per cui Sokh è stata assegnata all’Uzbekistan è prettamente simbolico: si tratta infatti
16 Cfr. Thorez J., Enclaves et enclavement dans le Ferghana post-soviétique, Cemoti, n.35, 2003, Paris.
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di un’oasi che rappresenta la foce del fiume Sokh, che con le sue acque ha dato vita alla
rigogliosa regione di Kokand, zona importante non solo per la prosperità e la fertilità delle sue
terre, ma anche per il valore storico che la città di Kokand e la sua regione hanno
rappresentato per l’identità culturale della valle.
La presenza del fiume Sokh crea inoltre una delle poche aree coltivabili della zona,
prevalentemente montana e stepposa, e la sua attribuzione alla sovranità uzbeca a scapito di
quella kirghiza è dovuta al carattere prevalentemente nomade e montanaro del popolo
kirghizo, poco propenso all’agricoltura sedentaria tipica invece, delle popolazioni uzbeche17.
Tra l’oasi di Sokh e lo stato uzbeco c’è l’enclave di Qalacha, minuscolo territorio pressoché
montagnoso, corridoio tra la grande oasi e il territorio uzbeco, la cui nascita è dovuta alla
sorveglianza del corso del Sokh nei 20 chilometri circa che separano l’oasi dall’Uzbekistan e alla
necessità di gestire il transito del canale Biursionbiunski (Бюрзёнбюнску канал) da parte degli
uzbechi, canale che rifornisce d’acqua le città uzbeche di Fergana e Margilan.
L’altra grande enclave uzbeca in territorio kirghizo è Khamzaabad, fazzoletto di terra situato
lungo le rive del fiume Aksu, così piccola da non creare territorio autonomo come Sokh, ma
facente parte del rajon e dell’oblast’ di Fergana.
Anche se la popolazione di Khamzaabad, (questo è il nome dato dai sovietici al territorio) è a
maggioranza uzbeca, la ragione per cui questo piccolissimo spazio sia stato affidato
all’Uzbekistan ha motivazioni culturali-religiose: in questa piccola enclave che ha nel turismo la
sua maggior risorsa, si trova Chakhimardan, toponimo precedente Khamzaabad e antico luogo
di pellegrinaggio molto caro agli uzbechi, l’abitazione di un eremita che la legenda vuole che
sia ricordata come Hazrat Ali, cioè dimora e sacrario di Alì, cugino e genero di Maometto,
marito di Fatima, fondatore del movimento Sufi ed evangelizzatore del Turkestan. Durante il
periodo sovietico una leggenda raccontava che Chakhimardan fosse stata persa al gioco da un
funzionario kirghizo nei confronti di uno uzbeco, forse, però, il valore simbolico di questa storia
serve soltanto a sminuire il carattere religioso di questa spartizione.
Con la caduta dell’URSS e la nascita degli stati-nazione Chakhimardan fu restaurata e rivalutata
dal governo uzbeco, diventando un vero e proprio simbolo nazionale18.
Ma le relazioni internazionali tra Uzbekistan e Kirghizistan riguardanti i possedimenti enclavés,
17 Cfr. Kislov D., Enclave Shakhimardan: big problems of a small township, Ferghana.ru information Agency,
2005, Mosca.
18 Cfr. Kudryashov A., A Russian woman from Shakhimardan enclave does not want a place in the Red Book,
Ferghana.ru information Agency, 2004, Mosca
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oggi sono ancora più complicate a causa di un’ulteriore spartizione territoriale: le elite
sovietiche crearono anche un’enclave kirghiza in territorio uzbeco: Barak (Барак).
Si tratta di un villaggio di 700 abitanti situato a 4 chilometri dalla frontiera uzbeco-kirghiza,
collegato al distretto di Kara-Suu, nell’oblast’ di Osh.
Gli abitanti di questo centro urbano vivono una grandissima situazione di disagio: a causa del
loro numero ridotto, i servizi e le infrastrutture sono scarsi, non facilitando assolutamente i
contatti ed i rapporti con il territorio kirghizo19.
La situazione di questa parte del Fergana si è complicata ulteriormente a causa dalla
separazione in due della città di Kara-Suu, la quale, con la creazione dei confini statali degli
anni ’20, è stata divisa nella Karasu uzbeca e nella Kara-Suu kirghiza, creando ai suoi abitanti,
come si può immaginare, numerosi problemi sociali e amministrativi.
Anche il Tagikistan, nato nel 1929, vede all’esterno del suo territorio sovrano ben tre enclave,
dislocate due in territorio kirghizo e una in territorio uzbeco.
Kairagach (Каирагах) e Vorukh (Ворух), sono le due enclave tagiche in territorio kirghizo, la
prima é solo un piccolo villaggio uzbeco che sorge nei pressi di una stazione ferroviaria vicino il
confine tagico-kirghizo20; la seconda è ben più grande (circa 130 chilometri quadrati), ed è
un’oasi situata sul bacino di confluenza dei fiumi Isfara e Karavsin, è la più grande di esse, ed è
amministrativamente parte del rajon di Isfara e dell’oblast’ di Sogd21.
19 Cfr. Thorez J., op.cit., Cemoti, 2003, Paris.
20
Cfr. Gonon E., Lasserre F., Une critique de la notion de frontières artificielles à travers le cas de l’Asie
Centrale, Cahiers de Géographie du Québec, n.47-132, 2003.
21 Sogd è il nuovo nome della provincia di Khujand ex-Leninabad.
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Ingrandimento enclave di Vorukh
Risorsa: ritaglio da atlante ufficiale della Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan , 1968
Si tratta di un’enclave molto vicina al territorio tagico e la maggioranza della sua popolazione è
tagica. Non c’è inoltre alcuna forma di frontiera tra Vorukh e il territorio tagico, l’unica strada
dell’enclave la collega infatti direttamente alla madrepatria anziché al territorio kirghizo,
rendendo Vorukh un’enclave solo dal punto di vista cartografico e non una vera realtà
geografica.
Vorukh deve il suo stato di enclave al fatto di essere situata alla confluenza dell’Isfara con il
suo maggior affluente, fiume che ha permesso la nascita a valle della città omonima divenuta,
nel tempo, grande centro religioso e culturale tagico22.
Sarvak o Saravaksoi (Сарваксоу), enclave tagica in territorio uzbeco è l’ultima enclave della
valle.
22 Cfr. Balland D., Diviser l’indivisible: les frontières introuvables des Etats centrasiatiques, Hérodote, n.84, 1997.
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Ingrandimento enclave di Sarvak
Risorsa: ritaglio carta politico-amministrativa della provincia di Namangan (cartografia ufficiale
Repubblica dell’Uzbekistan 2004)
Si tratta di una lingua di terra situata nel versante sud dei monti Kurama, nel cuore dalla
provincia di Namangan, un piccolo territorio lungo 14 chilometri e largo solamente 500 metri,
collegato amministrativamente al rajon di Pop e all’oblast’ di Sogd. La popolazione di Sarvak è
quasi completamente uzbeca: la decisione di creare questa enclave viene dalla ricchezza del
suo sottosuolo, molto ricco di giacimenti di rame e nella sua creazione si può leggere, da una
parte, la volontà di aiutare il Tagikistan ad avere più possibilità di risorse e, dall’altra, la volontà
di limitazione del già ricco Uzbekistan.
Nella tabella seguente è possibile confrontare alcune caratteristiche delle enclave del Fergana:
Enclave
Sokh
(UZ)
Qalacha
(UZ)
Khamzaabad
(UZ)
Khalmion
(UZ)
Vorukh
(TAG)
Kairagach
(TAG)
Sarvak
(TAG)
Superfici
e (km²)
Popolazi
325
2
90
2
130
1,5
7
Bar
ak
(KI
RG)
1
42.00
1.000
5.000
1.000
25.000
200
200
700
one
0
Maggior
anza
etnica
99%
TAG
99%
UZ
91%
UZ
UZ/TAG
95%
TAG
99%
UZ
99%
UZ
KIR
G/
UZ
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Risorsa: Gonon E., Lasserre F., Une critique de la notion de frontières artificielles à travers le
cas de l’Asie Centrale, Cahiers de Géographie du Québec, n.47-132, 2003.
Ma oggi? Qual è la situazione attuale delle enclave del Fergana? Come si vive in questi
minuscoli fazzoletti di terra?
Durante il periodo sovietico la presenza di barriere tra le enclave e le terre che le circondavano
era praticamente irrilevante, i territori erano completamente integrati e gli abitanti delle
enclave potevano comodamente muoversi e raggiungere i centri vicini: erano tutti sovietici,
non c’erano veri confini, l’unica differenza era di tipo etnico: uzbechi, kirghizi o tagichi, lingue e
usanze differenti ma avvicinate dal loro essere tutti abitanti del Fergana, unione che portò una
secolare convivenza pacifica.
I problemi arrivarono con l’indipendenza. I confini tra quelle che fino ad allora erano
Repubbliche Socialiste Sovietiche all’interno dell’Unione, divennero confini tra stati sovrani
indipendenti che diedero il via ad una forte politica di propaganda della nuova cultura
nazionalista. Il vicino divenne nemico, diverso, e Sokh, ad esempio, anche se a maggioranza
tagica, divenne il baluardo della Patria Uzbeca, mentre Sarvak, a maggioranza uzbeca, venne
completamente dimenticata dal governo uzbeco, fino ad arrivare al divieto, per i suoi abitanti,
di entrare in territorio uzbeco23.
Le barriere divennero sempre più alte e insormontabili, attraversare un’enclave è ormai
impossibile: occorre superare almeno un mezza dozzina di controlli ed avere visti speciali.
Anche per gli abitanti delle enclave la vita è difficile: le famiglie non solo sono spesso
irrimediabilmente divise, ma hanno anche spesso problemi di sopravvivenza: essendo le
enclave minuscoli fazzoletti di terra non autosufficienti, hanno bisogno di aiuti alimentari dalla
madre patria che non sempre arrivano.
Con la fine degli anni novanta un altro grande ostacolo complicò la vita degli abitanti delle
enclave: la guerra tra i fondamentalisti islamici e i governi nazionali. Dall’estate del 1999 la
provincia di Batken nel Kirghizistan meridionale e le enclave di Sokh e Vorukh divennero
campo di battaglia tra le milizie armate del Movimento Islamico dell’Uzbekistan (MIU)
comandato da uno dei suoi padri fondatori Jumaboi Ahmadzhanovitch Khojaev, detto Juma
Namangani, e l’esercito kirghizo.
Durante i famosi “Tre anni di fuoco: 1999, 2000 e 2001” di lotta del MIU contro i governi
23 Cfr., Volosevich A., Ferghana Valley enclaves become zones of risk, Ferghana.ru information Agency, 2005,
Mosca.
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nazionali per la liberazione del Fergana dalle “tirannie” al potere e per l’instaurazione di uno
Stato religioso, le enclave uzbeche come Sokh e Qalacha erano i bersagli preferiti da
Namangani, essendo il suo obiettivo primo colpire Karimov: con una occupazione di Sokh,
avrebbe portato l’esercito uzbeco ad invadere il territorio kirghizo per cacciare i
fondamentalisti, provocando così una crisi diplomatica tra i due stati sovrani24. Ciò portò ad un
inasprimento dei controlli alle frontiere delle enclave, con l’aggiunta di filo spinato elettrico e
mine anti-uomo, che resero la vita degli abitanti ancora più difficile.
I confini e le enclave diventarono così terreno di sfida, attraverso atti di forza e provocazioni,
tra i governi che si spartivano il Fergana; un esempio ne è la notizia che il 26 febbraio 2001 il
primo ministro kirghizo Kurmanbek Bakiev aveva firmato con il primo ministro uzbeco Otkir
Sultonov un accordo preliminare segreto che cedeva finalmente all’Uzbekistan un piccolo
tratto di territorio kirghizo così che l’Uzbekistan potesse avere un corridoio di accesso a Sokh:
questo avvenimento comportò un’accesa controversia politica e un uragano di proteste si
scatenò a Bishkek, portando il governo ad annullare ogni accordo e a dichiarare che era stata
solo una dichiarazione di intenti25.
Un altro esempio: settembre 2004, quando il governo kirghizo annunciò ufficialmente di volere
l’annessione dell’enclave di Chakhimardan, dichiarandolo a tutti gli effetti territorio kirghizo,
ma la cosa si spense su “vivo consiglio” del più potente vicino26.
Tashkent, Bishkek e Dushambe hanno visto e continuano a vedere nelle enclave della valle un
mezzo attraverso il quale ottenere vittorie diplomatiche sui vicini e dunque, in qualche modo,
prestigio internazionale, forse agli occhi dell’ex padrone russo o del amico/nemico americano
o probabilmente agli occhi del vicino cinese, nuovo potere economico. Tutto questo mentre gli
abitanti delle enclave vivono ogni giorno le difficoltà di questi territori e li percepiscono solo
come barriere fisiche, degli ostacoli che li hanno resi diversi tra loro e che continuano ad
impedire loro di vivere serenamente la loro valle.
24 Cfr. Rashid A., Jihad, the rise of militant islam in Central Asia, 2002, Yale University Press.
25 Cfr., Rashid A., op.cit., 2002.
26 Cfr., Gafarly M., Parliament of Kyrgyzstan demands Shakhimardan, an Uzbek enclave, back, Ferghana.ru
information Agency, 2004, Mosca.
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Geografia politica, Geopolitica, Asia
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