MICHELE CORRADINO Termini, efficacia dei provvedimenti e silenzio dell’Amministrazione nelle “riforme” della legge n. 241/1990 (Legge 11 febbraio 2005 n. 15 e Legge del 14 maggio 2005 n. 80) 1. Premessa. 2. I termini per l’adozione del provvedimento finale. 3. L’efficacia del provvedimento amministrativo: le ipotesi di recettizietà.4. La sospensione dell’efficacia e dell’esecuzione del provvedimento amministrativo. 5. La formazione del silenzio-inadempimento: il ruolo della diffida ed il suo superamento. 6. Gli ambiti cognitori e decisori del Giudice amministrativo nel rito contra silentium a seguito delle recenti innovazioni. 7. L’esclusione del silenzio significativo con valore di accoglimento. 8. Termine per l’esercizio della tutela giurisdizionale avverso il silenzio. 1. Premessa. Lo studio del procedimento amministrativo condotto in una prospettiva diacronica, con lo sguardo rivolto all’esame degli effetti del fluire del tempo sugli atti dell’Amministrazione e sull’assetto di interessi da essi definto, costituisce un difficile momento di confronto per il giurista che voglia dare una precisa collocazione sistematica alle categorie in cui tradizionalmente si dipana il diritto amministrativo. Le difficoltà riguardano non solo la proiezione nel tempo del provvedimento amministrativo, sotto l’aspetto della sua efficacia e della sua vigenza, ma anche il regime sostanziale e procesusale del silenzio inteso come inutile trascorrere del tempo che segna l’inadempimento della pubblica amministrazione a fronte dell’obbligo della medesima di provvedere. Ora, mentre il primo tema, quello della vigenza e dell’efficacia dell’atto amministrativo, si specifica in quelli – fin qui al centro di un intenso dibattito giurisprudenziale e ora oggetto di sistemazione normativa - della natura recettizia del provvedimento e della sospensione del medesimo, il secondo tema, quello del silenzio, non riesce a trovare assestamento travolto com’è, ormai da più di un secolo, da ondeggianti assestamenti giurisprudenziali e altalenanti quando non schizofrenici interventi legislativi. Così, negli ultimi mesi, l’art. 2 della legge n. 241 del 1990 che disciplina i termini del procedimento amministrativo è stato oggetto di una duplice successiva modificazione. In primo luogo, con l’art. 2 della legge 11 febbraio 2005, n. 15 (“Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa” in G.U. n. 42 del 21 febbraio 2005) il legislatore ha aggiunto all' articolo 2 della legge n. 241/1990, il comma 4bis, secondo cui “ Decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell'articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3. È fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti ». L’intero articolo 2 della legge n. 241/1990 è stato (appena tre mesi dopo!) integralmente sostituito dall’art. 3 comma 6 bis della Legge 14 maggio 2005, n. 80 ("Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali", in G.U. n. 111 del 14 maggio 2005 - Supplemento ordinario n. 91). La versione aggiornata del citato articolo 2 (Conclusione del procedimento) è, pertanto, la seguente: “ 1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, la pubblica amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso. 2. Con uno o più regolamenti adottati ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica, sono stabiliti i termini entro i quali i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali devono concludersi, ove non siano direttamente previsti per legge. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. I termini sono modulati tenendo conto della loro sostenibilità, sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, e della natura degli interessi pubblici tutelati e decorrono dall'inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte. 3. Qualora non si provveda ai sensi del comma 2, il termine è di novanta giorni. 4. Nei casi in cui leggi o regolamenti prevedono per l'adozione di un provvedimento l'acquisizione di valutazioni tecniche di organi o enti appositi, i termini di cui ai commi 2 e 3 sono sospesi fino all'acquisizione delle valutazioni tecniche per un periodo massimo comunque non superiore a novanta giorni. I termini di cui ai commi 2 e 3 possono essere altresì sospesi, per una sola volta, per l'acquisizione di informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell'articolo 14, comma 2. 5. Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai predetti commi 2 o 3. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza. È fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti. 2. I termini per l’adozione del provvedimento finale. E’ noto che la disposizione racchiusa nell’articolo 2 della legge n. 241/1990 (che ha codificato l’obbligo della P.A. di clare loqui), è stata considerata, sin dal suo apparire, autentica espressione dei principi di buona amministrazione e di correttezza che impongono all’Amministrazione di portare a conoscenza di chi faccia valere una legittima aspettativa il contenuto e le ragioni delle determinazioni che lo riguardano[1], fermo restando che deve trattarsi di un vero e proprio obbligo giuridico di provvedere, derivante, cioè, da una norma di legge, di regolamento o da un atto amministrativo, comprendendo in quest'ultima ipotesi le autolimitazioni disposte dall'amministrazione stessa nell'esercizio delle sue attribuzioni[2]. La giurisprudenza e la dottrina hanno, inoltre, precisato che l’esistenza dell’obbligo di provvedere può fondarsi, altresì, dai principi informatori dell’azione amministrativa,dell’ imparzialità, della legalità e del buon andamento. In tal senso, un recente arresto del Supremo Consesso Amministrativo[3] ha evidenziato che l’obbligo dell’Amministrazione di clare loqui può ritenersi fondato, altresì, sugli obblighi di lealtà, correttezza e solidarietà (insiti nei principi di imparzialità e buon andamento cui deve ispirarsi l’attività della pubblica amministrazione). La citata pronuncia si segnala, in particolare, per la trasposizione, in ambito pubblicistico, del canone buona fede contrattuale (cd. buona fede in senso oggettivo, per distinguerla dalla situazione di ignoranza di ledere l’altrui diritto soggettivo: buona fede in senso soggettivo ex art. 1147 c.c.) che la P.A. è tenuta a rispettare allorché il privato sia titolare di una posizione qualificante e differenziata, idonea a generare una aspettativa. La giurisprudenza, limitando il carattere apparente incondizionato dell’obbligo in esame, ha precisato che per ineludibili esigenze di economicità ed efficacia dell'azione amministrativa, può ritenersi che l'obbligo della P.A. di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, venga meno: a) in presenza di reiterate richieste aventi il medesimo contenuto, qualora sia già stata adottata una formale risoluzione amministrativa inoppugnata[4], e non siano sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di diritto[5]; b) in presenza di domande manifestamente assurde[6], o totalmente infondate[7]; c) al cospetto di pretese illegali, non potendosi dare corso alla tutela di interessi illegittimi[8]. Particolarmente dibattuta è stata la questione concernente le conseguenze derivanti dall’inosservanza del termine in esame. Secondo l’indirizzo prevalente in giurisprudenza, l’inosservanza dei termini previsti per la conclusione del procedimento amministrativo e l'adozione del provvedimento espresso previsti dalla l. 7 agosto 1990 n. 241 e dai regolamenti attuativi di cui l'art. 2 della medesima legge, non si riflette ex se sulla legittimità del provvedimento adottato tardivamente. Ciò a prescindere dalle ragioni del ritardo atteso che la scadenza del termine non comporta l'esaurirsi del potere della P.A. di provvedere ma costituisce unicamente il presupposto processuale per l’accesso allo speciale rito del silenzio che consente al giudice amministrativo di ordinare all’Amministrazione di provvedere entro un determinato termine, adottando pure mezzi sostitutivi per l’ipotesi di ulteriore inerzia dell’Amministrazione. Come espressamente stabilito dal Supremo Consesso Amministrativo, infatti, i termini divisati dall'art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241, hanno natura acceleratoria, non contenendo lo stesso alcuna prescrizione in ordine alla loro perentorietà, nè alla decadenza della potestà amministrativa nè all'illegittimità del provvedimento illegittimamente adottato[9]. Solo eccezionalmente la giurisprudenza ha ritenuto il termine di sessanta giorni (previsto per la conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero della pubblica istruzione dal D.M. Pubblica istruzione 11 luglio 1991 n. 212, attuativo dell'art. 2 comma 2 l. 7 agosto 1990 n. 241) termine perentorio, facendone discendere, in caso di violazione, l'illegittimità del provvedimento emanato tardivamente[10]. La dottrina[11], come è noto, ha criticato la tesi pretoria dominante, sia per la dubbia applicabilità di un principio, quello della generale natura accelleratoria dei termini in assenza di diversa disposizione di legge, proprio delle norme processuali civili in quanto lì previsto dall’art. 152 c.p.c., al settore del diritto amministrativo sostanziale, sia perchè, l'opzione giurisprudenziale prevalente finisce per attribuire all'Amministrazione un autentico privilegio, in palese contrasto con la tendenza ordinamentale protesa al pieno soddisfacimento delle situazioni soggettive private. Infine, è stato osservato, l’indirizzo prevalente in giurisprudenza sottovaluta la portata innovativa della legge n. 241/1990, la cui carica precettiva risulterebbe fortemente depotenziata. Sul piano ricostruttivo, si ritiene poi che la tesi della giurisprudenza può al più ritenersi valida per i procedimenti che sfociano in un provvedimento ampliativi per il privato, rilevando in tal caso l’interesse di quest’ultimo alla favorevole soluzione della vicenda procedimentale. In nessun caso potrebbe invece ritenersi legittimo un provvedimento che incide negativamente sulla sfera giuridica del privato, assunto oltre il termine fissato per la conclusione del procedimento. La tesi dottrinale esposta, tuttavia, non ha trovato riscontro in sede giurisprudenziale; al contrario, l’orientamento seguito dalla prevalente giurisprudenza amministrativa è stato autorevolmente avallato dalla Corte costituzionale la quale, in ben due occasioni, ha precisato che il mancato esercizio delle attribuzioni da parte dell'amministrazione entro il termine per provvedere non comporta ex se, in difetto di espressa previsione, la decadenza del potere, nè il venir meno dell'efficacia dell'originario vincolo[12]. Anche in sede di interpretazione burocratica[13] è stato escluso che la scadenza dei termini entro i quali completare il procedimento implichi la privazione dei poteri spettanti all'amministrazione, evidenziandosi che in assenza di specifiche disposizioni di segno contrario si deve concludere nel senso della permanenza della possibilità di provvedere anche dopo la scadenza dei termini. La legge 14 maggio 2005, n. 80, come preannunciato, ha introdotto rilevanti modificazioni in punto di termini dell’azione amministrativa. In primo luogo ha stabilito che nell’adottare i regolamenti[14] (ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica), con i quali sono stabiliti i termini entro cui procedimenti di competenza delle amministrazioni statali devono concludersi (ove non siano direttamente previsti per legge) dovrà tenersi conto della sostenibilità dei termini medesimi, sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, e della natura degli interessi pubblici tutelati. La disposizione, pertanto, a differenza delle originarie previsioni, fissa i criteri in base ai quali determinare i termini massimi dei singoli procedimenti amministrativi. Il legislatore, tuttavia, non prende posizione in ordine alla vexata quaestio concernente l’obbligo o meno di stabilire in sede regolamentare anche i termini nei quali le Amministrazioni devono fornire gli apporti endoprocedimentali di propria pertinenza nei procedimenti di competenza di altre amministrazioni (questione risolta affermativamente dal Supremo Consesso Amministrativo[15] in sede di prima applicazione della legge n. 241/1990). Inoltre, risulta pienamente recepito in sede normativa l’orientamento, già espresso dal Consiglio di Stato, secondo cui hanno carattere sostanzialmente normativo, e devono essere adottate in forma di regolamento col procedimento previsto dall'art. 17, comma 3 e 4, l. 400/88, le determinazioni in ordine alla fissazione dei termini entro i quali devono concludersi i procedimenti dei vari tipi, orientamento espresso dal Consiglio di Stato, Adunanza Generale, 21 novembre 1991, n.141[16]. Sulla nuova regola che impone di “modulare” la tempistica procedimentale alla luce dei superiori criteri, permane la validità del risalente orientamento del Consiglio di Stato, Adunanza Generale, 27 gennaio 1994, n.12[17] secondo cui i regolamenti di cui all’art. 2 non possono stabilire termini, per la definizione dei procedimenti, così ampi da vanificare la finalità della legge ed eluderne l'applicazione, avallando la lentezza dei procedimenti amministrativi, in contrasto con la finalità legislativa di garantire la speditezza dei procedimenti. La disposizione, inoltre, codifica l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i termini (previsti dalla legge o dagli strumenti regolamentari) decorrono dall'inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte (la norma in esame deve essere coordinata con l’art. 8 lettera c-ter, introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, secondo cui la comunicazione di avvio del procedimento deve indicare “ nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza; cfr. infra). In secondo luogo la legge n. 80/2005 ha elevato (da trenta) a novanta giorni il termine che le Amministrazioni sono tenute ad osservare per la conclusione dei procedimenti amministrativi, in difetto di una diversa previsione (legale o regolamentare). La prescrizione di un più lungo termine sembra realisticamente prender atto delle difficoltà incontrate dalle P.A. nella conclusione dei procedimenti “in tempi brevi”. Va, tuttavia, osservato che i tempi di adizione del Giudice Amministrativo, nei casi di inerzia amministrativa, non dovrebbero risultare più lunghi rispetto al regime anteriore alle riforme in commento, attesa l’eliminazione dell’obbligo di notificare la diffida ex art. 25 T.U. n. 3/1957 (invero, la “tempistica” anteriore, come definita dalla prevalente giurisprudenza, prevedeva che decorsi almeno sessanta giorni dall’inizio del procedimento, il cittadino doveva notificare all’amministrazione apposita diffida a provvedere entro un termine non inferiore a trenta giorni, alla cui decorrenza avrebbe potuto attivare il rimedio ex art. 21-bis della l. 6 dicembre 1971 n. 1034; cfr. infra). La disposizione in esame prosegue (comma IV) disponendo che nei casi in cui leggi o regolamenti prevedono per l'adozione di un provvedimento l'acquisizione di valutazioni tecniche di organi o enti appositi, i termini di cui ai commi 2 e 3 sono sospesi fino all'acquisizione delle valutazioni tecniche per un periodo massimo comunque non superiore a novanta giorni. La previsione richiamata non sembra coordinata con il disposto ex art. 17 (Valutazioni tecniche) della legge n. 241/1990, in base al quale “ 1. Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l'adozione di un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o non rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell'amministrazione procedente nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi dell'amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari. 2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica in caso di valutazioni che debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini. 3. Nel caso in cui l'ente od argano adito abbia rappresentato esigenze istruttorie all'amministrazione procedente, si applica quanto previsto dal comma 4 dell'articolo 16 » (in base al quale nel caso in cui l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie il termine di cui al comma 1 – id est quarantacinque giorni dal ricevimento della richiesta - può essere interrotto per una sola volta e il parere deve essere reso definitivamente entro quindici giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da parte delle amministrazioni interessate). In primo luogo deve essere osservato che la innovazione in commento parla di “sospensione” la quale consiste (a mente delle previsioni civilistiche) in una parentesi temporale aperta nel corso della decorrenza dei termini: il periodo in cui sussiste la causa di sospensione non si calcola ai fini della maturazione del termine finale e, cessata la causa di sospensione, il nuovo periodo di decorrenza si somma a quello maturato anteriormente alla causa sospensiva. Il nuovo comma IV dell’art. 2, tuttavia, sembra non consentire il superamento del termine (massimo) di novanta giorni; la giurisprudenza, pertanto, dovrà chiarire i reali rapporti con le previsioni racchiuse nel citato articolo 17. Il comma IV prosegue affermando che i termini di cui ai commi 2 e 3 possono essere altresì sospesi, per una sola volta, per l'acquisizione di informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si tratta di una nuova ipotesi di sospensione (cfr. supra) giustificata dall’esigenza di acquisire informazioni o certificazioni. Diverso, pertanto, appare il meccanismo descritto dal citato comma IV dell’art. 2 rispetto all’art. 20 comma V del Testo unico in materia edilizia (D.P.R. n. 380/2001), secondo cui “ Il termine di cui al comma 3[18] può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa »; in primo luogo, risulta evidente che nel Testo unico edilizia sia stata configurata una causa interruttiva (e non sospensiva), tanto che la citata disposizione conclude prevedendo che, in caso di interruzione, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa; in secondo luogo, il meccanismo sospensivo descritto nel comma IV dell’art. 2 può essere attivato in ogni tempo mentre non risulta esplicitato il momento in cui il termine per l’assunzione del provvedimento comincia a decorrere nuovamente: per esigenza di coerenza sistematica si deve ritenere che il fatto sospensivo venga meno all’atto della ricezione da parte dell’Amministrazione delle informazioni o certificazioni. La causa sospensiva in esame è ammissibile una volta soltanto. Il comma IV si chiude con il richiamo dell'articolo 14, comma 2, secondo cui la conferenza di servizi è sempre indetta quando l'amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente, della relativa richiesta. La conferenza può essere altresì indetta quando nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate. 3. L’efficacia del provvedimento amministrativo: le ipotesi di recettizietà . L’art. 14 della nuova legge introduce il Capo IV bis nel corpo della originaria legge n. 241/1990 (artt. 21-bis - 21-nonies) in materia di disciplina generale dell’efficacia e dell’invalidità dei provvedimenti amministrativi[19]. Particolare interesse, in questo studio, suscita la disposizione racchiusa nell’art. 21-bis (Efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati) secondo cui il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata anche nelle forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura civile, mentre, nell’ipotesi in cui per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, l'amministrazione provvede mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall'amministrazione medesima. Viene stabilito, inoltre, che il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati non avente carattere sanzionatorio può contenere una motivata clausola di immediata efficacia. La disposizione conclude precisando che i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere cautelare ed urgente sono immediatamente efficaci. In questo modo vengono distinte diverse categorie di atti amministrativi: gli atti che non incidono negativamente sulla sfera giuridica dei privati e che sono immediatamente efficaci, non necessitando di alcuna fase integrativa dell’efficacia; gli atti aventi carattere cautelare ed urgente aventi anch’essa natura non recettizia che sono efficaci sin dalla loro emanazione; gli atti che limitano la sfera giuridica dei privati che presentano carattere recettizio, acquistando efficacia solo con la comunicazione nei confronti dei destinatari; gli atti che limitano la sfera giuridica dei privati, non aventi carattere sanzionatorio, che, in deroga alla regola generale, acquisiscono efficacia immediatamente e non necessitano a tal fine di comunicazione ai destinatari in virtù di apposita clausola motivata apposta dall’Autorità emanante. L’art. 21 – bis colma una significativa lacuna atteso che il il testo originario della legge n. 241 del 1990 non risolveva i problemi interpretativi sollevati dalla fase procedimentale successiva all’emanazione del provvedimento amministrativo, attinenti la natura recettizia o l’immediata efficacia di quest’ultimo[20]. La disposizione in commento tiene conto dell’elaborazione giurisprudenziale amministrativa[21] e recepisce la nota tesi dottrinale[22] degli “atti recettizi a comunicazione individuale”, la cui incidenza restrittiva sulla sfera giuridica dei destinatari (per la sottrazione di utilitates, il sorgere di obbligazioni ovvero per le limitazioni di facoltà: si pensi agli atti di ritiro, agli atti ablatori e sanzionatori), richiede la collaborazione e, quindi, la conoscenza da parte dei medesimi. Si ricordi che, anche nel recente passato, in alcuni casi è stata affermata la natura recettizia di atti ampliativi della sfera giuridica del destinatario (come il provvedimento di concessione per l'installazione e l'esercizio di impianti di radiodiffusione sonora e televisiva privata disciplinato dall'art. 16 della l. 6 agosto 1990 n. 223[23]), atteso che da alcuni provvedimenti ampliativi discendono veri e propri obblighi, la cui inosservanza è sanzionata dall’ordinamento; l’art. 21 – bis, almeno sulla base della littera legis, sembra limitare il carattere recettizio dell’atto amministrativo ai soli provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati (con esclusione di quelli ampliativi da cui discendono obblighi e oneri) [24]. La disposizione in commento, inoltre, supera l’indirizzo della giurisprudenza ordinaria di legittimità, secondo cui in tema di validità ed efficacia dell'atto amministrativo non trova applicazione il disposto dell'art 1334 c.c. a norma del quale gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati valendo, di regola, il principio opposto, secondo cui l'effetto innovativo dell'esercizio unilaterale del potere produce effetto senza bisogno di comunicazione al destinatario[25]. Secondo la prevalente interpretazione della giurisprudenza e della dottrina, l’efficacia di un atto amministrativo (ovvero, nel diritto civile, di un atto o di un contratto) si identifica nella idoneità dello stesso a produrre effetti (costitutivi, modificativi, dichiarativi, ampliativi e restrittivi[26]). L’attitudine dell’atto ad esplicare i suoi effetti, nell’ambito del diritto amministrativo, discende dalla conclusione della cd. fase integrativa dell’efficacia. Tale fase - eventuale - presuppone un provvedimento già perfetto[27] e ricorre allorché l’ordinamento, non ritenendo sufficiente la perfezione dell’atto, richiede il compimento di ulteriori attività, materiali (comunicazione[28], notificazione o pubblicazione) o giuridiche (controllo). Pertanto, è da escludere che un atto recettizio sia invalido per il solo fatto della mancata comunicazione da parte dell'autorità emanante al soggetto interessato: in tal caso, l’atto sarà privo di effetti, i quali non si produrranno senza che l’atto sia stato portato nella sfera di conoscibilità del destinatario. Diversa funzione adempie la comunicazione o notificazione del provvedimento agli “interessati” prevista dal combinato disposto degli artt. 1 e 2 del Regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato); tale misura di partecipazione funge da stimolo all’esercizio del diritto d’azione: invero, mentre la conoscenza (rectius: conoscibilità) contemplata dall’art. 21 – bis ha valenza “sostanziale” (per la produzione degli effetti dell’atto), quella regolata dal Regolamento per la procedura ha valenza processuale: gli effetti dell’atto, in altri termini, si producono anche in mancanza di comunicazione o notificazione; dalla comunicazione (o notificazione) decorre, tuttavia, il termine decadenziale per la proposizione del ricorso. A tal proposito si osserva che la legge di riforma lascia irrisolto il problema della “piena conoscenza” dell’atto. L’espressione “piena cognizione” del provvedimento, quale equipollente alla notificazione, fu introdotta dall’art. 1, r.d.l. 23 ottobre 1924, n. 1672, conv. in l. 8 febbraio 1925, n. 88, modificativo dell’art. 36 del Regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054[29]. Invero la giurisprudenza[30] aveva già in precedenza elaborato modalità equivalenti alla notifica del provvedimento. Attualmente, si fronteggiano due orientamenti in ordine al “ grado di pienezza »[31] della conoscenza del provvedimento: secondo il primo, affinché possa ritenersi sussistente la piena conoscenza del provvedimento amministrativo - ai fini della decorrenza del termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale - occorre che gli interessati siano concretamente edotti non solo dell’esito del procedimento amministrativo, ma anche della motivazione che lo correda, in modo da poter individuare nella statuizione gli estremi sostanziali della lesione della propria sfera giuridica[32]. Secondo l’opposta interpretazione il termine per l'impugnazione decorre dal momento della piena percezione, ad opera dell'interessato, del provvedimento gravato nei suoi contenuti essenziali (autorità emanante, data, contenuto dispositivo ed effetto lesivo), senza che sia all'uopo necessaria la compiuta conoscenza dell'apparato motivazionale rilevante ai fini della successiva proposizione di motivi aggiunti[33]. In ordine alle forme di misure partecipative, deve essere precisato che mentre la notificazione[34] (notum facere) consiste nella consegna di una copia conforme all'atto originale, effettuata da soggetto abilitato nelle forme e con le modalità stabilite, la comunicazione prescinde da regole rigide, pur consistendo nel portare a conoscenza dell'interessato il provvedimento[35]. L’art. 21 bis è chiaro nel richiedere, prioritariamente, la comunicazione direttamente alla persona interessata (cd. comunicazione personale). Tuttavia, ove questa sia irreperibile si seguono le forme stabilite per la notifica agli irreperibili secondo il codice di procedura civile[36]. La disposizione prevede inoltre che nel caso in cui il numero dei destinatari sia tale da rendere impossibile e particolarmente gravosa la comunicazione personale, l’Amministrazione provvederà alla comunicazione stessa mediante idonee forme di pubblicità, volta a volta stabilite (avvisi a mezzo stampa, pubblicazione nei fogli ufficiali, manifesti murali, etc.)[37]. Appare condivisibile la considerazione secondo cui la previsione richiamata è “ del tutto derogatoria, da interpretare, perciò strettamente a fronte di situazioni eccezionali »[38]. Secondo parte della dottrina nonostante il richiamo alle forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura civile la comunicazione in esame “ può essere effettuata non necessariamente con ufficiale giudiziario (o messo notificatore), ma anche raccomandata a.r. (in tal caso il deposito presso la casa comunale previsto per le notifiche agli irreperibili sarà sostituito dal deposito del plico all’ufficio postale) »[39]. Circa l’uso di forme ancor più evolutive di comunicazione (si ricordi che il nuovo art. 3-bis della legge n. 241/1990 incoraggia le amministrazioni pubbliche all’uso della telematica anche nei rapporti con i privati) merita di essere ricordato che già la legge n. 205/2000 (articolo 12 - Mezzi per l'effettuazione delle notifiche) ha stabilito, in campo processuale, che “ il presidente del tribunale può disporre che la notifica del ricorso o di provvedimenti sia effettuata con qualunque mezzo idoneo, compresi quelli per via telematica o telefax, ai sensi dell'art. 151 del codice di procedura civile ». La disposizione ex art. 21 bis imporrà alla giurisprudenza amministrativa di rimeditare l’orientamento interpretativo secondo cui la mancata comunicazione di un atto recettizio non ne impedisce l'efficacia, se il destinatario ne sia comunque venuto a conoscenza[40]. Invero, secondo parte della dottrina[41], la conoscenza di un atto recettizio da parte del destinatario percepita aliunde non implica la produzione di effetti nè determina la decorrenza del termine per gravare il provvedimento (merita di essere rilevato, tuttavia, che il chiaro disposto ex art. 21 della cd. legge TAR, secondo cui il ricorso deve essere notificato entro il termine di sessanta giorni da quello in cui l'interessato ne abbia ricevuta la notifica o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, non permette di aderire a tale impostazione). Il legislatore, tuttavia, nell’art. 21 bis individua, come si è accennato, due eccezioni alla regola generale in punto di misure partecipative: innanzitutto, il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati (che non abbia valenza sanzionatoria), può contenere una motivata clausola di immediata efficacia; in secondo luogo, sono dichiarati immediatamente efficaci i provvedimenti cautelari ed urgenti[42]. Come si legge nei lavori parlamentari[43] (in riguardo al potere della P.A. di inserire motivata clausola di immediata efficacia), “ a tutela di eventuali e prevalenti ragioni di interesse pubblico o di urgenza dell'azione amministrativa, la norma fa salvo il potere generale dell'amministrazione di dichiarare immediatamente efficaci, già al momento della loro adozione e quindi anteriormente alla loro comunicazione al destinatario, i provvedimenti a contenuto restrittivo; ciò evidentemente, sulla base di una congrua motivazione (verificabile in sede giudiziaria) e comunque ad eccezione dei provvedimenti di carattere sanzionatorio che involgono un'insuperabile tutela del diritto dei cittadini ad una tempestiva difesa ». In questo modo si è inteso attribuire alla pubblica amministrazione il potere di attribuire immediata efficacia agli atti amministrativi non sanzionatori per l’ipotesi in cui la comunicazione agli interessati possa essere d’ostacolo all’efficienza dell’azione amministrativa. Le ragioni che legittimano l’esercizio di tale potere risultano sindacabili dal giudice attraverso l’esame della motivazione ma l’immediata efficacia attribuita ai provvedimenti aventi carattere cautelare e urgente impone di attribuire rilevanza a fattispecie, in vero non facilmente rinvenibili, in cui l’esigenza di immediata efficacia derivi da motivi diversi da quelli dell’oggettiva urgenza, oggetto invece di una valutazione discrezionale dell’Autorità Il carattere cautelare o urgente dell’atto attribuisce a quest’ultimo infatti immediata efficacia in ogni caso e a prescindere, com’è ovvio, dalla sua eventuale natura sanzionatoria. La dottrina ha criticato la disposizione in esame nella parte in cui “ confonde tra capacità di produrre effetti giuridici (l’efficacia) e decorrenza di tali effetti (come può un atto incapace di produrre effetti giuridici avere la capacità di attribuirsela?) » ma, ancor più, perché “ attribuisce all’amministrazione un pericoloso potere di autoattribuire “efficacia immediata” ai propri atti, senza che gli interessati ne sappiano nulla »[44]. Si può facilmente immaginare che, nel prossimo futuro, costituiranno oggetto di contenzioso sia la definizione del potere riconosciuto all’Amministrazione di attribuire immediata efficacia gli atti limitativi non aventi carattere sanzionatorio sia la natura non recettizia dei provvedimenti aventi carattere cautelare e urgente. Sul punto potrebbe costituire una interessante base di partenza la giurisprudenza formatasi sull’art. 7, L. n. 241/1990 (secondo cui “ Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato […] »); in particolare, è stato chiarito che non basta qualsiasi urgenza per legittimare la deroga al generale obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento ma occorre un'urgenza qualificata (tale, cioè, da non consentire detta comunicazione senza che ne risulti compromesso il soddisfacimento dell'interesse pubblico cui il provvedimento finale è rivolto)[45]. Inoltre, le ragioni dell’urgenza dovrebbero essere enunciate nel provvedimento e motivate, seppur sinteticamente, con riferimento ad esigenze di tutela immediata dell'interesse pubblico, altrimenti compromesso a causa di un qualsiasi ritardo[46]. 4. La sospensione dell’efficacia e dell’esecuzione del provvedimento amministrativo. L’art. 21-quater della L. n. 241/1990 - come introdotto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15 – disciplina per la prima volta il potere di sospensione del provvedimento amministrativo prevedendo che la sua efficacia ovvero la sua esecuzione possono essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze. La sospensione regolata dalla richiamata disposizione è, pertanto, quell’istituto che consente all’organo emanante l’atto amministrativo (ovvero ad altro organo previsto dalla legge), in attesa di un esame più approfondito ed al fine di evitare che, medio tempore, l'efficacia (ovvero l’esecuzione) del provvedimento produca conseguenze pregiudizievoli, di disporre in via provvisoria la sospensione dell’efficacia (ovvero l’esecuzione) dell’atto. La sospensione è adottata in via provvisoria e cautelare, proprio al fine di consentire una più adeguata ponderazione dei presupposti di fatto e di diritto, perchè appunto la pubblica amministrazione si determini definitivamente[47]. Correttamente la disposizione distingue fra sospensione dell’efficacia (id est degli effetti dell’atto) e sospensione dell’esecuzione (id est dell’attività di materiale attuazione del contenuto prescrittivi del provvedimento). Merita di essere ricordato che la più recente giurisprudenza ha assunto una posizione chiara in ordine al dibattito concernente il carattere generale o meno dell’istituto. Invero, secondo un primo orientamento (condiviso da alcuni giudici di primo grado[48]), la sospensione degli atti amministrativi non è un istituto di carattere generale (a differenza dell'autotutela, nelle forme della revoca ovvero dell'annullamento di ufficio), trattandosi di un potere tipico, esercitabile solo in presenza di una specifica norma che espressamente la preveda, in costanza dei presupposti e nelle forme contemplate. Secondo un altro orientamento giurisprudenziale (proprio del Consiglio di Stato) alla Pubblica amministrazione va riconosciuto, in via di principio, un potere generale di sospensione dei propri provvedimenti; infatti dopo l'entrata in vigore della l. 7 agosto 1990 n. 241, il cui art. 7 comma 2, prevede che l'amministrazione ha la facoltà di adottare provvedimenti cautelari anche prima della comunicazione dell'avviso di inizio del procedimento, può ritenersi affermata la sussistenza di un potere generale dell'amministrazione di sospensione dei propri atti[49]. La legge di riforma definisce la “fisionomia” dell’istituto in esame: competenza (organo che ha emanato l’atto ovvero altro organo previsto dalla legge), presupposti (gravi ragioni), tempo (strettamente necessario, mentre una versione del disegno di legge fissava come limite massimo il termine di sei mesi); stabilisce, infine, che il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze. Viene, pertanto, “codificato” l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui è illegittima la sospensione sine die degli effetti di un atto amministrativo in quanto si viola in tal modo il principio della temporaneità della sospensione e si usa irritualmente il potere di autotutela che deve invece esercitarsi, attraverso l'annullamento d'ufficio ovvero la revoca o l'abrogazione, in aderenza al principio di tipicità degli atti amministrativi[50]. Si può ritenere, tuttavia, che l’omessa pre-determinazione, nel comma 2 dell’art. 21 quater, di un termine minimo e massimo di durata del provvedimento sospensivo sarà foriera di contenzioso fra PP.AA. e privati, specie per l’ipotesi di violazione del principio di proporzionalità, come nei casi di sospensione brevissima di atti che incidono in pejus sulla sfera giuridica del privato ovvero, al contrario, amplissima nel caso di atti ampliativi della sfera giuridica del destinatario. 5. La formazione del silenzio-inadempimento: il ruolo della diffida ed il suo superamento. L’inosservanza dell’obbligo di clare loqui sancito dall’art. 2 della novellata legge n. 241/1990 apre la via ai rimedi contra silentium[51]. Giova osservare, in via preliminare, che la tematica del silenzio nel diritto amministrativo affonda le radici nel più vasto fenomeno dell’inerzia, intesa come non-azione, non-attività ovvero come omesso esercizio dei poteri di cui la Pubblica Amministrazione è investita per la cura degli interessi pubblici[52]. Tale fenomeno, presente anche in altri settori del diritto, nel campo amministrativo spazia dall’omissione di operazioni all’omissione di atti non provvedimentali sino all’estremo dell’omissione di provvedimenti e si caratterizza per la peculiarità, in ultima analisi, di costituire una vistosa elusione delle garanzie di tutela della sfera giuridica del privato, lesa o comunque paralizzata dall'inazione serbata dall'Autorità deputata a provvedere[53]. Merita di essere ricordato che il problema dei rimedi contro il silenzio serbato dalla P.A. sorse, in origine, nell’ambito dei ricorsi amministrativi; invero, il sistema delineato dalla cd. legge Crispi (legge 21 marzo del 1889 n. 5992) condizionava l’accesso alla tutela dinanzi alla (neo istituita) IV Sezione del Consiglio di Stato alla definitività del provvedimento amministrativo: ne discendeva che la mancata decisione sul ricorso amministrativo sortiva l’effetto di impedire l’adizione del Supremo Consesso (costituendo, allo stesso tempo, vistosa violazione del principio di funzionalizzazione dei poteri amministrativi). Sin dagli albori, pertanto, si è tentato di porre rimedio a tale fenomeno, a tutela delle aspettative ingiustamente vanificate dal contegno omissivo tenuto dalla Pubblica Amministrazione: in tal senso meritano di essere segnalate la decisione del Consiglio di Stato n. 78/1894, e, per il suo indubbio valore storico oltre che giuridico, la celebre decisione del Consiglio di Stato sez. IV, 22 agosto 1902 n. 429, meglio nota come “pronuncia Longo”[54]. Tale decisione introdusse un meccanismo procedurale in base al quale, trascorso un “congruo” periodo dalla presentazione del ricorso gerarchico, l’interessato poteva notificare all’Amministrazione una diffida, intimando a decidere entro un termine (anche questo definito “congruo”). Scaduto quest’ultimo e perdurando l’inerzia, il ricorso doveva intendersi rigettato, con conseguente possibilità per il privato di adire la IV Sezione, impugnando la decisione tacita di reiezione (in base ad evidente fictio juris), da cui il nomen juris di silenzio - rigetto. Tale meccanismo fu recepito dall’art. 5 del T.U. della legge comunale e provinciale 3 marzo 1934 n.383 che introdusse termini fissi (in luogo dei termini “congrui”), pari, rispettivamente, a 120 e 60 giorni. La giurisprudenza[55] successiva estese il meccanismo descritto alla diversa fattispecie del silenzio – inadempimento (o rifiuto[56]), caratterizzate dalla assoluta inerzia della P.A. (mentre, nelle ipotesi di silenzio – rigetto sussiste pur sempre un atto gravato in via gerarchica e, dunque, una manifestazione di volontà della P.A.). La disciplina descritta fu radicalmente modificata dalle riforme del 1971 (legge n. 1034/71, istitutiva dei TT.AA.RR. e D.P.R. n 1199/71 in materia di “Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi”). In particolare, l’art. 6 del D.P.R. n. 1199/1971 ridisegnò il procedimento di formazione del silenzio - rigetto, stabilendo che “ decorso il termine di novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti, e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso all'autorità giurisdizionale competente, o quello straordinario al Presidente della Repubblica ». La questione della perdurante applicabilità del meccanismo ex art. 5 T.U. n. 383/1934 per la formazione del silenzio - rifiuto[57] fu ben presto sottoposta all’esame della giurisprudenza amministrativa. La disputa fu risolta dalla nota decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10/1978[58] (che accolse l’autorevole tesi della dottrina[59]) con la quale si individuò, quale disciplina applicabile alla fattispecie, quella dell'art. 25 del T.U. degli impiegati civili dello Stato[60] (D.P.R. n. 3/1957): decorsi inutilmente sessanta giorni dalla presentazione di un'istanza, il privato è tenuto a invitare l’amministrazione a provvedere entro un termine non inferiore a trenta giorni, mediante diffida notificata nelle forme previste per gli atti giudiziari. Se trascorso tale termine la P.A. non provvede può dirsi formato il c.d. silenzio-rifiuto, impugnabile dinanzi al giudice amministrativo[61]. Tale soluzione rappresentò la definitiva consacrazione della tesi cd. comportamentale del silenzio della P.A., tesi già avanzata dall’Adunanza plenaria n. 8/1960 (e successivamente ribadita dall’Adunanza plenaria n. 16/1989[62]), contro la tesi “attizia” sostenuta dall’Adunanza plenaria n. 4/1978, sebbene l’orientamento giurisprudenziale dominante (superato dalla riforma del 2005: cfr. infra) secondo cui il silenzio deve essere “impugnato” entro il sessantesimo giorno dalla sua formazione, decorrente dalla scadenza di quello assegnato alla P.A. stessa nell’atto di diffida, mal si concilia con la valenza comportamentale del silenzio. Imposto l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso da parte della legge n. 241/1990[63], giurisprudenza e dottrina si sono interrogate se fosse ancora necessario – prima di adire il Giudice Amministrativo ed in funzione di tale adizione - attivare il meccanismo ex art. 25 D.P.R. n. 3/1957 ai fini dell’ammissibilità del ricorso contra silentium. La dottrina prevalente aveva optato per la tesi del superamento del meccanismo disegnato dall’Adunanza Plenaria n. 10/1978. Si è sostenuto, infatti, che, scaduto il termine stabilito dalla L. n. 241/1990 (ovvero dai regolamenti attuativi) il silenzio assume carattere ontologicamente illecito sì da rendere superflua l’attivazione del sollecito ex art. 25 D.P.R. n. 3/1957. In questo quadro, parte minoritaria della giurisprudenza aveva affermato che a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 241/1990, colui che volesse impugnare, in sede giurisdizionale, il silenzio inadempimento della P.A. poteva farlo immediatamente, senza porre in essere la rigorosa sequenza di cui all'art. 25 t.u. n. 3/1957, costituendo l'inerzia nel provvedere, comportamento lesivo dell'interesse legittimo di colui che avrebbe dovuto essere destinatario di una pronuncia (favorevole o sfavorevole) da parte dell'amministrazione adita[64]. In tal senso, veniva osservato[65] che la legge di riforma del processo amministrativo n. 205/2000 offriva due argomenti – uno funzionale, l’altro sistematico – che imponevano di escludere che l’accesso all’azione di impugnativa del silenzio fosse condizionata dal previo esperimento della procedura di messa in mora dell’amministrazione. Sul piano funzionale la nuova legge, nel sancire la rilevanza comportamentale del silenzio consente di superare il formalismo legato alla visione tradizionale dell’atto presunto o tacito e alla necessità di rendere significativo – con la diffida – il silenzio (altrimenti “muto”) dell’amministrazione. Sul piano sistematico e dei principi, si osservava inoltre, come l’articolo 21 bis[66] nulla dicesse in ordine alla condizione della previa messa in mora, che avrebbe trovato dunque il suo unico fondamento in una tradizione giurisprudenziale formatasi prima e al di fuori della legge e in un contesto del tutto diverso e incompatibile con quello attuale, nel quale la nuova azione contro il silenzio della P.A. – prevista dall’articolo 21 bis della legge 1034/1971 come novellata dalla legge 205/2000 – è volta a sanzionare il silenzio come fatto di inadempimento dell’obbligo di provvedere e prescinde dal qualsivoglia significato implicito possa attribuirsi all’atteggiamento passivo dell’amministrazione. In particolare, prosegue la tesi giurisprudenziale in esame, come si evince già dalla citata pronuncia 10/1978 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la diffida era, da una parte, legata ad esigenze di tutela del privato, esposto alla sopravvenienza di una inoppugnabilità di cui poteva essere incolpevole; dall’altra era finalizzata alla esigenza di dare all’amministrazione un’ultima possibilità di provvedere prima di essere spogliata dall’intervento del giudice. Nel corso delle prime settimane del 2005, la tesi è stata ribadita dalla giurisprudenza amministrativa di primo grado, secondo cui l’espressa enunciazione di legge di un termine entro il quale l’Amministrazione è tenuta a dare espressa e motivata risposta a fronte di istanze alla medesima presentate, rende l’inerzia protrattasi a seguito dello spirare dello stesso giuridicamente significativa, nel senso della formazione di un silenzio suscettibile di reclamo in sede giudiziaria, per l’effetto dovendosi dare atto del venir meno – ai fini della sollecitazione del sindacato giurisdizionale – delle formalità precedentemente imposte dall’art. 25 del T.U. n. 3 del 1957[67]. Tuttavia, la prevalente ricostruzione giurisprudenziale ha abbracciato l’opposta opzione ermeneutica (condivisa, altresì, dall’interpretazione burocratica: cfr. Circ. Min. Funz. Pubblica 8 gennaio 1991, n. 60397/7-463[68]); in particolare, è stato affermato che l’art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241 non ha modificato la disciplina applicabile per l’adizione del giudice a seguito del silenzioinadempimento serbato dalla P.A. sulle istanze del privato, sia perché l’azione giurisdizionale non può essere esperita prima che non sia prospettata la possibilità per la P.A. di esser convenuta in un giudizio amministrativo, sia perché la predetta notificazione non può essere ritenuta una mera formalità, essendo preordinata a fissare il termine entro cui è ancora possibile evitare l’insorgenza di una lite giudiziaria ed a provvedere (anche in senso conforme alla pretesa del privato), con ciò svolgendo un’indubbia funzione deflattiva dei processi amministrativi[69]. Particolare rigore, inoltre, è stato mostrato dalla giurisprudenza in ordine ai requisiti formali della diffida: affinchè possa formarsi il silenzio impugnabile giurisdizionalmente, è stato rilevato, è necessario che la diffida all’adozione dell’atto richiesto sia notificata a mezzo di ufficiale giudiziario, così da richiamare l’attenzione del destinatario circa le conseguenze cui va incontro in caso di persistente inerzia: invero, la diffida deve avere un contenuto monitorio e deve recare l’esatta formulazione del petitum, in modo da porre la P.A. stessa nella condizione di coglierne il preciso significato[70] (in termini meno rigorosi, tuttavia, è stato ritenuto che ai fini della formazione del silenzio-rifiuto la mancata indicazione di un termine di trenta giorni, decorso il quale l’interessato può ricorrere alla tutela mediante rimedi giudiziali, non influisce sulla natura di diffida del relativo atto[71]). Appare interessante notare che la diffida, nella ricostruzione giurisprudenziale prevalente, appare fondata sull’eadem ratio della previsione racchiusa nell’art. 328 c.p. (fattispecie incriminatrice: “Rifiuto di atti di ufficio. Omissione”[72]). Come chiarito dalla giurisprudenza penale di legittimità in tema di omissione di atti d'ufficio, infatti, la richiesta di cui al comma 2 dell'articolo 328 del c.p. è collegata, da un lato, a un apprezzabile interesse del richiedente e, dall'altro, a uno dei tre possibili sbocchi ipotizzati dalla norma medesima: definizione della pratica, spiegazione del ritardo, sanzione penale in mancanza dell'una o dell'altra nel termine legale di giorni trenta. Ne consegue che la richiesta di chi via abbia interesse assume nella previsione di legge natura e funzione di “diffida ad adempiere”[73]; la diffida ad adempiere, inoltre, è atto ontologicamente distinto dalla mera istanza dell'interessato volta ad ottenere l'adozione di un provvedimento amministrativo ed è atto necessario ai fini della configurazione del reato di cui all'art. 328 c.p.[74]. Pare corretta, pertanto, la considerazione secondo cui “ la diffida statuita dall’art. 328 c.p. sembra avere la medesima funzione di atto diretto a fare constatare la fattispecie di omissione di atti d’ufficio, la cui formazione è fatta dipendere dalla diffida del cittadino nei confronti del pubblico ufficiale o incaricato del pubblico servizio »[75]. Tutto ciò appare superato: la speciale procedura dell’articolo 25 del d.P.R. n. 3/1957 deve essere dunque restituita alla sua funzione originaria di meccanismo volto alla ricostruzione di un titolo di responsabilità in capo al funzionario inadempiente, con esclusione di ogni suo strumentale significato sul diverso piano della ricostruibilità di un atto tacito possibile oggetto di impugnazione e con esclusione di una sua impropria utilizzabilità pretoria come causa di inammissibilità (extra legem) dell’azione avverso il silenzio della P.A.. A seguito della riforma recata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 (ribadita dalla Legge 14 maggio 2005, n. 80) la diffida non rappresenta più presupposto condizionante l’ammissibilità del ricorso contra silentium; viene, infatti, accolta la tesi secondo cui “ a garanzia del cittadino, l’art. 2, l. 241/1990, ha formalizzato il principio del dovere degli enti pubblici di procedere qualora sussistano i presupposti di legge e di adottare il provvedimento finale rispettando il termine del processo decisionale […] Né è possibile affermare che la diffida sia necessaria per consentire al privato di acquisire la piena conoscenza del dies a quo per il computo dei termini decadenziali, così evitando l’inconsapevole formarsi dell’inopppugnabilità. A questo scopo risponde pienamente la predeterminazione dei tempi procedimentali, la cui conoscenza da parte del privato nella disciplina ante riforma era assicurata dalla pubblicità delle relative disposizioni regolamentari (cfr. comma 4, art. 2, cit.) »[76]. Coerentemente l’art. 8 (lettere c-bis e c-ter) stabilisce che la comunicazione di avvio del procedimento deve indicare, rispettivamente, “ la data entro la quale, secondo i termini previsti dall'articolo 2, commi 2 o 3, deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell'amministrazione » e “ nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza ». La norma, pertanto, appare coerente all’art. II-101 della Costituzione Europea che stabilisce il diritto di ogni persona a che le questione che la riguardano siano trattate tra l’altro “entro un termine ragionevole dalle istituzioni”; norma che in virtù del richiamo di cui all’art. 1, comma 1 è senz’altro applicabile all’Amministrazione nazionale[77]. Eliminata la necessità della diffida all'amministrazione inadempiente, il ricorso – stabilisce la riforma – può essere proposto “ fin tanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3 »; si precisa, altresì, che “ è fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti ». In relazione a tale ultima prescrizione è stato correttamente osservato che “ l’inerzia dell’Amministrazione su un procedimento avviato ad istanza di parte non costituisce esercizio del potere, ma semplice fatto di inadempimento (a differenza di quanto avviene in caso di silenzio assenso). E perciò successivamente il potere può sempre essere esercitato, anche in pendenza di giudizio sul silenzio, anche sulla base di nuova istanza di parte »[78]. Si può concordare con la dottrina[79] che, stante la formulazione del comma 4-bis, la diffida è comunque suscettibile di volontaria applicazione da parte dell’istante. 6. Gli ambiti cognitori e decisori del Giudice amministrativo nel rito contra silentium a seguito delle recenti innovazioni. E’ noto che il tradizionale orientamento che limitava il potere del giudice amministrativo alla pronuncia della sussistenza dell’obbligo di provvedere, è stato progressivamente abbandonato a partire dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10/1978: con tale decisione è stato per la prima volta riconosciuta la possibilità per il giudice (limitatamente ai settori contraddistinti da attività amministrativa vincolata), in caso di ricorso avverso il silenzio – rifiuto della P.A., di superare la mera declaratoria dell’obbligo di provvedere e di pronunciarsi sulla fondatezza della domanda. In seguito, si è ampliato l’orientamento favorevole all’estensione dell’oggetto del giudizio all’accertamento della pretesa sostanziale dedotta[80], limitato in alcune pronunce al presupposto, oltre che della natura vincolata del provvedimento, della palese fondatezza della richiesta[81]. Tale orientamento è stato giustificato dall’esigenza di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale ed evitare che un ricorso avverso il silenzio – rifiuto della P.A., trattato con la procedura (e i tempi) di un giudizio ordinario, potesse essere definito a distanza di anni con una mera pronuncia declaratoria dell’obbligo di provvedere, senza alcuna utilità sostanziale per il ricorrente, costretto ad attendere l’emanazione di un provvedimento esplicito che valutasse la fondatezza delle sue pretese ed aprisse eventualmente la strada ad un nuovo (e finalmente utile) accesso alla tutela giurisdizionale. Con l’entrata in vigore dell’art. 21 bis della legge n. 1034/71 (introdotto dalla legge n. 205/2000) si erano formati due opposti orientamenti interpretativi: secondo il primo, la ratio del richiamato orientamento giurisprudenziale sarebbe venuta meno in presenza del nuovo ed accelerato strumento di tutela offerto dal procedimento speciale introdotto per i ricorsi avverso il silenzio, attraverso il quale con tempi tipici di una misura cautelare si giunge alla declaratoria dell’obbligo di provvedere; in base al secondo orientamento, in ipotesi di attività vincolata, il giudice, adito ai sensi della procedura speciale di cui al citato art. 21 bis, può anche determinare il contenuto dell’atto che l’amministrazione deve adottare a soddisfazione dell’interesse del ricorrente. In particolare, i sostenitori di tale ultima interpretazione paventavano il rischio che il nuovo rito, previsto per i ricorsi avverso il silenzio, finisse con il ridimensionare l’ambito di tutela, riconosciuto al privato dalla precedente elaborazione giurisprudenziale, costringendolo comunque a due gradi di giudizio, seppur con procedura accelerata, per la mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, anche nei casi di manifesta fondatezza della sua domanda proposta in relazione ad attività priva di contenuto discrezionale dell’amministrazione. Inoltre, imporre all’amministrazione l’obbligo di una decisione espressa, con eventuale intervento di un commissario, anche nelle ipotesi di pretesa manifestamente infondata sarebbe irragionevole e contrastante con le finalità acceleratorie e di economia processuale, poste alla base dell’intervento del legislatore di riforma del processo amministrativo (con inutile aggravio di lavoro per la stessa amministrazione). All’obiezione dell’incompatibilità del rito speciale, introdotto dall’art. 2 della legge n. 205/2000, compresso dal breve termine per il deposito della decisione, con un giudizio esteso all’accertamento della pretesa, veniva risposto che la riforma del processo amministrativo aveva già previsto altre ipotesi di definizione nel merito del ricorso con il rito della camera di consiglio, con sentenza succintamente motivata e termini ridotti (cfr. art. 3, comma 1 e art. 9, comma 1, della legge n. 205/2000) e che comunque il giudice è garante della salvaguardia dei diritti di difesa, dell'integrità del contraddittorio e della completezza dell'istruttoria secondo i principi affermati dalla Corte Costituzionale in relazione al rito, previsto dall’art. 19 della legge n. 135/97[82]. I fautori dell’interpretazione estensiva del citato art. 21 bis evidenziavano, altresì, che limitare l’oggetto di tale giudizio del rito speciale accelerato, alla sola declaratoria, in astratto, dell’obbligo della P.A. di provvedere significherebbe aderire ad una concezione del processo amministrativo tuttora ancorata alla natura impugnatoria – demolitoria dell’atto, senza alcuna reale incidenza sull’assetto del rapporto intercorrente con l’amministrazione ed in contrasto con quel processo evolutivo che sempre più tende a spostare dall’atto al rapporto l’oggetto del giudizio. Il dovere di provvedere meritava quindi di essere verificato in concreto in relazione non ad una pronuncia qualsiasi, ma ad una pronuncia di contenuto positivo relativa al richiesto provvedimento satisfattorio per il privato, tenuto anche conto che, come già detto, non sarebbe utile imporre all’amministrazione l’obbligo di una decisione espressa in presenza di una pretesa manifestamente infondata. Alla luce delle opinioni sinteticamente richiamate, la VI Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza 10 luglio 2001, n.3803 ha rimesso all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 42 r.d. 17 agosto 1907 n. 642, la questione se nel giudizio avverso silenzio rifiuto proposto nei periodi previsti dall'art. 2 l. 21 luglio 2000 n. 205, dovesse il giudice amministrativo limitarsi ad una mera declaratoria dell'obbligo di provvedere, lasciando impregiudicato l'accertamento della fondatezza della pretesa, ovvero debba esaminarne i contenuti, individuando in concreto quale sia il legittimo comportamento dell'amministrazione. L’Adunanza Plenaria n. 1 del 9 gennaio 2002 ha osservato che, sul piano sostanziale, il giudizio sul silenzio si collega al dovere delle amministrazioni pubbliche di concludere il procedimento “mediante l’adozione di un provvedimento espresso” nei casi in cui esso “consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio”, come prescrive l’art.2, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241; il Supremo Consesso Amministrativo si è orientato nel senso che, nel rito del silenzio, la cognizione del giudice amministrativo è limitata all'accertamento dell'illegittimità dell'inerzia dell'amministrazione e non può estendersi fino all'esame della fondatezza della pretesa sostanziale del privato; compito del giudice è pertanto unicamente quello di accertare se il silenzio della pubblica amministrazione sia o meno illegittimo e, in caso di accoglimento del ricorso, di ordinare all'amministrazione di provvedere sull'istanza avanzata dal soggetto privato nominando, nell'eventualità di ulteriore inerzia, un commissario ad acta, non potendo il giudice sostituirsi all'amministrazione e ordinare un provvedimento determinato. A tale esito ricostruttivo il Supremo Consesso Amministrativo è pervenuto a seguito di un articolato percorso argomentativo. In primo luogo, è stato osservato, l’art. 21 bis identifica l’oggetto del ricorso nel “silenzio” (comma 1), senza fare alcun riferimento alla pretesa sostanziale del ricorrente. Poiché, in linea di principio, i poteri cognitori del giudice sono delimitati dal ricorso (art.112 c.p.c.) se ne deve dedurre che il legislatore ha inteso circoscrivere il giudizio alla inattività dell’amministrazione. La stessa norma prevede che, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice “ordina all’amministrazione di provvedere” e se “l’amministrazione resti inadempiente…su richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa” (comma 2). L’espressione “resti inadempiente” lascia intendere che l’inadempimento dell’amministrazione non ha contenuto diverso prima della sentenza, quando è condizione per l’accoglimento del “ricorso avverso il silenzio”, e dopo la sentenza, quando è condizione perché provveda il commissario. Inoltre, la terminologia usata dal legislatore (“ordina…di provvedere”; “un commissario che provveda”) definisce nell’accezione comune in dottrina e in giurisprudenza, l’esercizio di una potestà amministrativa, sicché sarebbe inappropriata se il giudice dovesse spingersi a stabilire il concreto contenuto del provvedimento, poiché in tal caso all’amministrazione e al commissario non residuerebbero altri spazi se non per un’attività avente contenuto e funzione di mera esecuzione. La stessa terminologia è ripetuta in seguito, quando l’attività del commissario è configurata come diretta “all’emanazione del provvedimento da adottare in via sostituiva” (comma 3) e quando è imposto al commissario di accertare se “l’amministrazione abbia provveduto”. Anche l’indeterminatezza circa il contenuto (positivo o negativo) dell’eventuale provvedimento tardivo dell’amministrazione, avvalora la tesi che l’organo competente in via ordinaria conservi, pur dopo la sentenza e fino all’insediamento del commissario, il potere di provvedere in senso pieno. Che l’intento del legislatore fosse solo quello di indurre l’amministrazione ad esprimersi sollecitamente sull’istanza del privato, secondo l’Adunanza Plenaria, trova conferma nei lavori parlamentari (relazione al disegno di legge n.2934 - Senato), nei quali si legge che la trasformazione del ricorso “in un procedimento d’urgenza” è rivolta ad evitare che “la dichiarazione dell’obbligo di provvedere (che di per sé non soddisfa l’interesse sostanziale al ricorso) sopraggiunga dopo i lunghi tempi del processo ordinario”. Secondo la citata decisione dell’Adunanza Plenaria, dunque, concordi elementi ermeneutici depongono nel senso che il rito speciale è stato introdotto per pervenire, con la speditezza consentita dal rispetto delle garanzie processuali, ad imporre all’amministrazione “inadempiente” l’esercizio della potestà amministrativa di cui è titolare. A questo risultato si giunge in due fasi[83], semplificate e contenute nell’arco del medesimo processo, in linea con la logica ispiratrice comune agli interventi di riforma operati dalla legge n.205 del 2000: nella prima il giudice accerta l’esistenza e la violazione dell’obbligo di provvedere; nella seconda, il commissario, nominato dallo stesso giudice su semplice “richiesta della parte”, adotta il provvedimento in sostituzione dell’organo amministrativo rimasto eventualmente inadempiente. Il Consiglio di Stato, infine, ritiene che le stesse considerazioni e la stessa conclusione valgono anche quando il provvedimento richiesto dal privato abbia natura vincolata; infatti, il citato art. 21 bis non contiene alcun elemento che autorizzi di attribuire al sindacato del giudice amministrativo una estensione diversa in relazione alle peculiarità sostanziali della potestà non esercitata. L’articolazione precettiva, al contrario, definisce una disciplina unica e indifferenziata, valida in tutti i casi in cui l’amministrazione si sottragga al dovere di adottare un atto autoritativo esplicito. Sotto questo profilo sono irrilevanti i presupposti di fatto del provvedimento; è determinante che il “silenzio” riguardi l’esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come un interesse legittimo. Ed è logico e coerente che all’identità formale di situazione soggettiva dell’amministrazione e del privato corrisponda una identità di tutela giurisdizionale. Senza considerare l’irrazionalità che si verificherebbe se, nel caso di inerzia dell’amministrazione, il privato potesse ottenere, mediante il ricorso avverso il silenzio, l’accertamento immediato, da parte del giudice, della fondatezza della sua pretesa sostanziale, mentre, nella medesima situazione, se l’amministrazione avesse adottato un provvedimento esplicito di diniego, la tutela giurisdizionale sarebbe stata soggetta alle forme ed ai limiti, oltre che ai tempi, del giudizio ordinario. La giurisprudenza successiva si è uniformata al citato dictum giurisprudenziale[84]. In particolare, è stata esclusa la convertibilità del giudizio speciale sul silenzio in rito ordinario, per la parte volta all’accertamento della pretesa sostanziale, in considerazione della ratio sottostante alla scelta legislativa, che ha previsto tale strumento processuale solo al fine di accelerare e semplificare la definizione delle controversie nella suddetta materia in ragione della relativa semplicità degli inerenti accertamenti di fatto e di diritto[85]. Non sono mancate, tuttavia, decisioni in “controtendenza”: così, la V sezione del Consiglio di Stato con la decisione 10 aprile 2002 n. 1974, dopo aver affermato che il rito semplificato previsto per il silenzio tende, in ultima analisi, alla determinazione, attraverso la via giudiziale, del giusto assetto dei rapporti controversi, ha ammesso che questo obiettivo di giustizia, ove non si configurino limitazioni dei diritti degli altri soggetti portatori di interessi in conflitto potenziale ed attuale con quello del ricorrente, può ben essere perseguito attraverso lo strumento generale della introduzione di motivi aggiunti, secondo lo schema disciplinato dal citato art. 1 della legge n.205 del 2000 (ammettendo la conversione del rito, tutte le volte che risultino rispettati i termini e le modalità previsti per il rito ordinario, a garanzia di difesa per tutti i soggetti contro interessati). La logica che ispira tale pronuncia, come risulta manifesto, non appare conforme alla tesi secondo cui il Giudice non può scrutinare la plausibilità giuridica della pretesa: invero, il ricorso per motivi aggiunti (come delineato dalla legge n. 205/2000) rappresenta lo strumento principale per “scandagliare” il rapporto amministrativo sottostante. In termini ancor più espliciti, la medesima Sezione del Supremo Consesso Amministrativo, con la decisione 8 ottobre 2002, n.5318, ha affermato che in sede di ricorso contro il silenzio-rifiuto, il giudice ben può pronunciarsi sulla infondatezza dell'istanza, atteso che la necessità di valutare l'effettivo rapporto sostanziale al solo fine di accertare l'infondatezza della pretesa si giustifica in relazione all'esigenza che comunque deve sussistere un interesse alla decisione, che viene evidentemente a mancare se è sicuro che la pretesa del ricorrente non potrebbe essere soddisfatta per mancanza di un determinato presupposto richiesto dalla specifica normativa della materia[86]. Ancor più di recente, il TAR Veneto, sez. I, sentenza 21 febbraio 2005 n. 723, profeticamente annunciando l’imminente riforma legislativa, ha osservato che sebbene a partire dall’Adunanza Plenaria n. 1/2002, venga affermato che compito del G.A. adito con ricorso contro il silenzio è solo quello di pronunciarsi sulla questione se sussista, o meno, obbligo di dare una risposta, e non, invece, di pronunciarsi sulla fondatezza, o meno, della pretesa, “ non si vede come, quando sia pacifico che la P.A. inadempiente debba provvedere in un determinato senso (così che l’operato che essa deve porre in essere sia vincolato nel contenuto), possa il G.A. trascurare detta decisiva circostanza, limitandosi a dichiarare l’obbligo di pronunciarsi della P.A. ». La legge 14 maggio 2005, n. 80, come si osservava in precedenza, ha introdotto all’art. 2 della novellata legge n. 241/1990, il comma V, secondo cui a seguito della presentazione di un ricorso contra silentium “ il giudice amministrativo puo' conoscere della fondatezza dell'istanza. Si impongono, sulla recente novella, delle brevi considerazioni “a caldo”. In primo luogo stupisce il carattere frammentario, rapsodico e disordinato dell’azione normativa. Si avverte la sensazione che il legislatore si muove ed opera non sulla base di un organico quadro programmatico, ma “in virtù” della contingenza e dell’opportunità. Invero, a pochi mesi dalla recente riforma di febbraio del tutto inattesa appare tale profonda rivisitazione dell’importante istituto del silenzio della P.A. (e dei suoi rimedi). In secondo luogo appare del tutto erronea la sedes nella quale il legislatore ha collocato l’inciso “ il giudice amministrativo puo' conoscere della fondatezza dell'istanza »; il chiaro carattere processuale della disposizione imponeva, più opportunamente, di introdurre il disposto nell’ambito della legge processuale (art. 21 bis legge n. 1034/1971). Risulta, inoltre, disarmante la “leggerezza” con la quale il Legislatore ha affrontato (e risolto) la questione, specie nella parte in cui nulla ha specificato in ordine alla natura (discrezionale o vincolata) della potestà amministrativa “rimasta silente” innanzi all’istanza del privato. Dal dato normativo, invero, non traspare alcuna attenzione per la complessa evoluzione giurisprudenziale richiamata (a partire dalla decisione Ad. Plen n.10/1978). Può una leggiadra, e probabilmente inconsapevole, operazione di maquillage legislativo consentire al giudice di infrangere il principio di divisione dei poteri spingendosi fino ad espropriare la pubblica amministrazione dalle prerogative dell’Esecutivo, certo non degnamente esercitate stante il silenzio dell’amministrazione di fronte all’istanza del privato, ma non per ciò solo revocate? E ammesso pure che un tratto di penna del legislatore, per la verità assai scarno, abbia tale capacità di impatto sistemico, non sembra che influenza sistematica di tale forza potrà riconoscersi su alcuni temi al centro dell’attuale dibattito giurisprudenziale e ruotanti proprio intorno ai limiti del sindacato giudiziario degli atti dell’Amministrazione e dell’intervento del giudice sulla sfera riservata alla medesima, Vengono in rilievo, in particolare, il tema del “controllo sostitutivo” quale limito invalicabile al sindacato “intrinseco” e “forte” della discrezionalità tecnica, nonché quello dell’interpretazione da dare all’attribuzione al giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento del danno “anche mediante reintegrazione in forma specifica” (art. 35 d.lgs 31 marzo 1998, n. 80 e art. 7, comma 3, l. 6 dicembre 1971, n. 1034), talora surrettiziamente trasformato in un’ “azione di adempimento” quale quella prevista dalla legge sul procedimento vigente in Germania. E’ immaginabile un utilizzo dell’inciso in esame da parte del Giudice Amministrativo che conduca alla sostanziale ”espropriazione”, da parte del G.A., di settori rimessi alla discrezionale valutazione della P.A.? La recente novella pone una ulteriore questione sistematica: la tendenza verso la configurazione di un “giudizio sul rapporto amministrativo” (che supera la tradizionale impostazione impugnatoria e demolitoria del giudizio innanzi al G.A.), richiede al legislatore una previa chiara e definizione degli obiettivi concernenti la magmatica materia del diritto amministrativo e del plesso giurisdizionale preposto alla sua delicata attuazione. La novella legislativa, inoltre, non ha chiarito alcune importanti questioni che si agitano nella più recente giurisprudenza amministrativa: la prima concerne l’azionabilità del rimedio in questione nei settori riservati dal legislatore alla giurisdizione di altro plesso. Il problema è sorto con specifico riferimento al settore del lavoro alle dipendenze della P.A. transitato, con alcune eccezioni, alla giurisdizione ordinaria. La giurisprudenza ha osservato che nel nuovo sistema di riparto della giurisdizione ex art. 63 d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, sono state devolute alla cognizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle p.a. (salvo quelle relative alle procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti, nonchè quelle concernenti il personale in regime di diritto pubblico) incluse le controversie concernenti le assunzioni, gli incarichi dirigenziali e le indennità di fine rapporto, anche se vengono in questione atti presupposti, che qualora siano rilevanti vengono disapplicati se illegittimi. Tale ampia giurisdizione comporta che il giudice ordinario adotta nei confronti delle p.a. tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura della situazione giuridica tutelata, senza che sia consentito operare distinzioni tra norme sostanziali e procedurali, con la rilevabilità anche dei vizi formali. Ne consegue che per le controversie relative a detti rapporti di lavoro non ha più senso una giurisdizione del giudice amministrativo sul silenzio rifiuto dell'amministrazione, atteso che il giudice ordinario può decidere direttamente la questione avvalendosi dei poteri istruttori che gli competono, a prescindere dagli atti adottati dall'amministrazione e quindi anche nel caso in cui non sia stato emanato alcun atto nonostante il decorso dei termini prescritti per la conclusione del relativo procedimento[87]. La seconda questione concerne l’utilizzabilità del rimedio ex art. 21 bis cd. legge TAR a tutela di posizioni di diritto soggettivo. La giurisprudenza prevalente si è espressa per la tesi negativa, affermando che il giudizio disciplinato dal citato art. 21 bis L. TAR, è diretto esclusivamente ad accertare se il silenzio serbato da una pubblica amministrazione sull'istanza del privato violi o meno l'obbligo di adottare il provvedimento esplicito richiesto con l'istanza stessa. Tale orientamento era sorretto dalla considerazione secondo cui proprio perché, con il rito in parola non è possibile compiere un accertamento sulla fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente, indicando all'amministrazione il contenuto del provvedimento da adottare, lo stesso non può ritenersi compatibile con quelle controversie che, solo apparentemente, hanno ad oggetto una situazione di inerzia, e quelle in cui il giudizio è incentrato sull'accertamento di una pretesa patrimoniale avente consistenza di diritto soggettivo[88]; il superamento normativo (art. 2 comma V legge n. 241/1990) di tale presupposto potrebbe imporre una rimeditazione della questione. Altro problema, non risolto dalle novelle in commento, attiene ai rapporti fra azione per la declaratoria dell’illegittimità del silenzio e azione per il risarcimento del danno; la questione è stata di recente affrontata dalla sezione IV del Consiglio di Stato, che con l’ordinanza 7 marzo 2005 n. 875 ha rimesso dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato le questioni se sussista o meno la giurisdizione amministrativa nel caso in cui sia stato chiesto il risarcimento del danno da ritardo della P.A. e quali siano le modalità in ipotesi necessarie per la configurabilità di una responsabilità civile da ritardo nel provvedere nonché per la individuazione dei caratteri del danno risarcibile[89]. Nella prefata ordinanza si legge che le azioni per la declaratoria dell’illegittimità del silenzio per il risarcimento del danno “ si pongono su distinti piani di tutela, essendo la prima diretta a ottenere la pronuncia dell’amministrazione e la seconda il ristoro del danno subìto per il ritardo con cui quella pronuncia, a contenuto positivo, è stata emessa. Si potrà forse, sul piano della quantificazione del danno, considerare il comportamento del privato che non si è avvalso degli strumenti acceleratori a sua disposizione nella fase in cui l’amministrazione è rimasta inerte, ma sembra davvero eccessivo far discendere l’an del risarcimento dal previo esperimento della procedura del silenzio, configurando una sorta di pregiudizialità dell’annullamento del silenzio rispetto al risarcimento del danno da ritardo che appare alla Sezione inutilmente aggravare la posizione soggettiva del privato in fattispecie che non è riconducibile a quelle cui si riferisce la tematica della pregiudizialità dell’annullamento ». A sostegno della opposta tesi non può essere richiamata la decisione del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 26 marzo 2003, n.4[90] secondo cui l'azione di risarcimento del danno può essere proposta sia unitamente all'azione di annullamento che in via autonoma, ma essa è ammissibile solo a condizione che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato di poter disapplicare atti amministrativi non regolamentari; invero, il superamento della “tesi attizia” del silenzio da parte delle citate decisioni dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. n. 8/1960, 10/1978, e n. 16/1989, rende inapplicabile la regola della pregiudizialità (regola, peraltro, fortemente contrastata dalla giurisprudenza di legittimità: cfr. Corte di Cassazione, SS.UU. civili, ordinanza 26 maggio 2004 n. 10180, Cass. Civ., Sez. I, 10 gennaio 2003 n. 157 e la celebre sentenza n. 500/1999). Anche su questo punto sarà necessario attendere le risposte della giurisprudenza. Deve rilevarsi, infine, che il superamento d'emblée della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 1/2002 e della successiva conforme giurisprudenza in ordine ai confini cognitori e decisori del giudice adito contra silentium non appare così pacifico: invero, il legislatore consente al Giudice (ma non impone) di scrutinare la fondatezza dell’istanza; ne discende che il Decidente potrebbe arrestarsi al mero accertamento della illegittimità dell'inerzia dell'amministrazione e, in caso di accoglimento del ricorso, ordinare all'amministrazione di provvedere sull'istanza avanzata dal soggetto privato, senza delibare in ordine alla fondatezza della pretesa privata. Problemi interpretativi potrebbero, tuttavia, sorgere dal coordinamento della disposizione in commento con il generale principio processuale della “corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato” (principio cristallizzato dall’art. 112 c.p.c., secondo cui il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti). In particolare, è lecito interrogarsi se il Giudice Amministrativo sia tenuto, a fronte di una esplicita domanda giudiziale che richieda di delibare in ordine alla fondatezza dell’istanza rimasta inevasa, a verificare la plausibilità giuridica della pretesa sostanziale (per evitare che la decisione resa possa incorrere nel vizio di omessa pronuncia). E nell’ipotesi inversa? Può il Giudice, nel caso in cui il ricorrente si è limitato a chiedere solo l’accertamento dell’obbligo di provvedere e la condanna della P.A. a provvedere, pronunciarsi sulla spettanza del “bene della vita”? (e potrebbe la decisione, in tale ipotesi, incorrere nell’opposto vizio di extra petizione?). Ed infine, in caso di provvedimento sopravvenuto in corso di giudizio, il giudice dovrà dare atto della improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse[91] ovvero, a seconda dei casi, per cessata materia del contendere ovvero potrà consentire l’impugnazione dell’atto sopraggiunto mediante ricorso per motivi aggiunti? 7. L’esclusione del silenzio significativo con valore di accoglimento. Particolare interesse suscita l’art. 2 comma V (nel testo risultante dalla modifiche apportate dalla Legge 14 maggio 2005, n. 80) nella parte in cui (incipit) esclude i casi di silenzio assenso dall’ambito oggettivo di applicazione della prescrizione medesima. Si conferma la tesi, prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, secondo cui dal rito speciale introdotto dalla legge n.205/2000 rimangono esclusi i “silenzi significativi”, vale a dire le fattispecie in cui il comportamento inerte dell’amministrazione è equiparato ad un provvedimento amministrativo (sebbene, letteralmente, il citato comma V si riferisce al solo “silenzio assenso”). Come precisato dal Supremo Consesso Amministrativo, la norma ex art. 21 bis, per un verso assume come immediato punto di riferimento quel fenomeno descritto come silenzioinadempimento o silenzio-rifiuto e, per altro verso, opera esclusivamente sul piano processuale, senza diretta incidenza sul piano sostanziale o procedimentale. Restano pertanto esclusi dal suo ambito applicativo i casi di silenzio significativo, ossia quelli in cui la norma attribuisce al comportamento inerte dell’Amministrazione protratto per un certo termine il valore legalmente tipico di assenso o di rigetto della domanda. In essi è l’autorità della legge che sostituisce al comportamento silente un provvedimento, il quale soggiace al regime di impugnazione ed ai poteri di ritiro in autotutela comuni a tutti gli atti amministrativi. Resta, altresì, escluso dall’orbita di azione dell’art. 21 bis l’istituto del silenzio-rigetto, formato ai sensi dell’art.6 del d.P.R. n.1199/1971 e delle altre norme che si riconducono alla medesima matrice. La tesi secondo cui il rito camerale ex art. 21 bis non è riferibile ai cosiddetti silenzi significativi, è stata ribadita dalla recentissima sentenza del TAR Piemonte, sez. I, 4 maggio 2005 n. 1367, che ha, altresì, escluso in radice[92] che al comportamento silente dell’Amministrazione nel caso della D.I.A., possa attribuirsi il significato di un inadempimento che legittimerebbe il terzo all’attivazione del rito camerale per conseguire una pronuncia che ne dichiari l’illegittimità: infatti, in tale ipotesi, non si è in presenza di un’istanza del privato volta all’emissione di un provvedimento favorevole, bensì, di una comunicazione avente lo scopo di consentire l’esercizio dell’attività di verifica da parte dell’Amministrazione (per esigenze di completezza merita di essere precisato, tuttavia, che l’aspetto contenutistico e sostanziale della D.I.A. dovrà essere rivisto alla luce delle previsioni introdotte dalla Legge 14 maggio 2005, n. 80 nel corpo dell’art. 19 della legge n. 241/1990, secondo cui “ è fatto comunque salvo il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies »; invero, come icasticamente osservato, “ la denuncia si trasforma allora in uno strano ircocervo, che nasce privato e si tramuta in pubblico per poter essere annullata come un provvedimento »[93]). 8. Termine per l’esercizio della tutela giurisdizionale avverso il silenzio. In ordine al termine per l’adizione del Giudice Amministrativo avverso il silenzio della P.A., la giurisprudenza e la dottrina (anteriori alle “riforme” in commento) avevano elaborato tre tesi: 1) Secondo i fautori della tesi della decadenza (tesi prevalente in sede pretoria[94]), il silenziorifiuto serbato dalla P.A. su un’istanza procedimentale ha valore provvedimentale, per cui il ricorso giurisdizionale proposto a seguito di esso va notificato, a pena di decadenza, entro il sessantesimo giorno dalla sua formazione, decorrente dalla scadenza di quello assegnato alla P.A. stessa nell’atto di diffida[95]. Talvolta, tuttavia, la giurisprudenza ha ammesso la reiterabilità della diffida[96]; 2) Secondo i sostenitori della tesi della non decorrenza del termine, l'interessato potrà rivolgersi al plesso giurisdizionale amministrativo fintantoché persista l'inadempimento della P.A., permanendo in capo a questa il potere-dovere di pronunciarsi sull'istanza[97]. 3) Infine, secondo la tesi minoritaria, stante il carattere illecito della condotta della Pubblica Amministrazione andrebbe applicato, anzicchè il termine di decadenza di sessanta giorni, l'ordinario termine di prescrizione operante nel processo civile[98]. La legge 11 febbraio 2005, n. 15 (ribadita, sul punto, dalla Legge 14 maggio 2005, n. 80) oltre all’eliminazione, come rilevato in precedenza, della necessità del previo sollecito ex art. 25 D.P.R. n. 3/1957, rimodula il termine per l’adizione del Giudice amministrativo, disponendo che il ricorso contra silentium è proponibile fin tanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3 dell’art. 2 L. n. 241/1990. Si afferma, altresì, che è fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti. Sul punto è condivisibile la tesi secondo cui l’ultima precisazione è superflua: invero, “ l’inerzia dell’Amministrazione su un procedimento avviato ad istanza di parte non costituisce esercizio del potere, ma semplice fatto di inadempimento (a differenza di quanto avviene in caso di silenzio assenso). E perciò successivamente il potere può sempre essere esercitato, anche in pendenza di giudizio sul silenzio, anche sulla base di nuova istanza di parte »[99]. ____________________ [1] Pertanto è stato considerato “elusivo del detto obbligo l'atto che rinvia a tempo indeterminato l'adozione della delibera richiesta dall'istante” cfr. T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 09/04/1998, n.420, in Ragiusan, 1999, f.178-9, 34 e T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 11/02/1994, n.59, in Foro Amm., 1994, 1928. [2] Cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 13/07/2000, n.5868, in Ragiusan, 2000, 199-0, 60. [3] Cons. Stato, sez. IV, 2 novembre 2004, n.7068, in Urbanistica e Appalti n. 3/2005, 339 e ss. con nota di PAGANI. [4] Cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 20 novembre 2000, n. 6181; sez. V, 27 marzo 2000, n. 1765, secondo cui non sussiste alcun obbligo per l'amministrazione di riesaminare i propri atti divenuti inoppugnabili, con la conseguenza che sull'istanza di riesame presentata dal privato non si può formare il silenzio rifiuto. [5] Cfr. Cons. Stato sez. IV, 20 novembre 2000, n. 6181; sez. V, 18 gennaio 1995, n. 89. [6] Cfr. Cons. Stato sez. IV, 20 novembre 2000, n. 6181; sez. IV, 28 novembre 1994, n. 950. [7] Cfr. Cons. Stato sez. V, 3 agosto 1993, n. 838; 7 maggio 1994, n. 418. [8] Cfr. Cons. Stato sez. IV, 20 novembre 2000, n. 6181, Cons. Stato, sez. VI, 23 ottobre 2001, n. 5573 e Consiglio di Stato, sezione IV, 11 giugno 2002, n. 3256. Cfr. altresì: “L'obbligo di concludere il procedimento, avviato d'ufficio o su istanza di parte, con provvedimento espresso, non ricorre allorchè sia stata già adottata una formale risoluzione amministrativa inoppugnata e non siano sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di diritto, o si tratti di domande manifestamente assurde o totalmente infondate o illegali” Cons. Stato, sez. IV, 20/11/2000, n.6181, in Foro It., 2000, III, 1. Cfr. anche la giurisprudenza di primo grado: “La Pubblica Amministrazione è sempre tenuta a pronunciarsi sulle istanze ad essa rivolte, tranne solo che queste non siano manifestamente infondate e inammissibili avendo essa, in forza dell'art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241 un vero e proprio obbligo giuridico, in generale, di concludere il procedimento con un provvedimento esplicito” T.A.R. Sicilia Palermo, sez. II, 16/11/2001, n.1543, in Comuni d'Italia, 2002, 277; “Non sussiste obbligo di provvedere sulle istanze di riesame di provvedimenti ormai divenuti inoppugnabili, dovendosi escludere che gli interessati possano imporre, attraverso il meccanismo del silenziorifiuto, l'esercizio dell'autotutela, eludendo così il regime decadenziale dei termini di impugnazione” T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 06/09/2001, n.5018, in Foro Amm., 2001, 2541, con nota di CASCIONE. [9] Cons. Stato, sez. IV, 11/06/2002, n.3256, in Foro Amm. CDS, 2002, 1413, 2037, con nota di LAMBERTI; cfr. T.A.R. Abruzzi L'Aquila, 18/02/1997, n.43, in Foro Amm., 1997, 2473. Cfr. altresì: “L'art. 2, l. 7 agosto 1990 n. 241 pone un termine acceleratorio per la definizione dei procedimenti amministrativi e non contiene alcuna prescrizione in ordine alla perentorietà del termine stesso, nè alla decadenza della potestà amministrativa, nè tampoco all'illegittimità del provvedimento tardivamente adottato, conseguenze, queste, che si potrebbero verificare, pure senza una norma "ad hoc", solo ove un effetto legale tipico fosse collegato all'inutile decorso del termine (p. es., come nel caso del silenzio - accoglimento), ma che non avrebbero senso nell'ipotesi generale, perchè la cessazione della potestà, derivante dal protrarsi del procedimento, potrebbe nuocere all'interesse pubblico alla cui cura quest'ultimo è preordinato, con evidente pregiudizio della collettività” Cons. Stato, sez. V, 03/06/1996, n.621, in Foro Amm., 1996, 1869. La tesi in esame è stata accolta anche dal Consiglio di Stato in sede consultiva: “Il termine di cui all'art. 2 comma 3 l. 7 agosto 1990 n. 241 per l'adozione dell'atto (30 giorni) ha natura ordinatoria e non perentoria, non essendo comminata alcuna sanzione per il caso di inosservanza; pertanto, la sua inosservanza da parte della amministrazione non esaurisce il potere di provvedere spettante a quest'ultima” Cons. Stato, sez. II, 16/10/1996, n.1154, in Cons. Stato, 1997, I, 1303. La tesi esposta si ricollega al noto orientamento secondo cui il carattere perentorio di un termine deve risultare espressamente dalla legge, come si desume dall'art. 152. c. p. c.: Cons. Giust. Amm. Sic., 26/09/1986, n.161, in Cons. Stato, 1986, I, 1411. In senso contrario: “in relazione all'attività della p.a. non esiste una clausola generale come quella posta per il processo civile dall'art. 152 comma 2 c.p.c. di presunzione di ordinatorietà del termine” Cons. Stato, sez. II, 09/04/1997, n.1634, in Cons. Stato, 1998, I, 529. [10] Cons. Stato, sez. VI, 19/12/1997, n.1869, in Foro Amm., 1997, 3131. [11] CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, 146, che riconduce la relazione tra amministrazione e privato al paradigma civilistico del rapporto diritto soggettivo – obbligo. [12] Corte costituzionale, sentenza 23 luglio 1997, n. 262, in www.cortecostituzionale.it. Cfr. altresì: “Questa Corte, attenendosi peraltro alla chiara lettera della legge n. 241 del 1990, ha già affermato che il termine di trenta giorni, stabilito in via suppletiva e in una misura tale da sollecitare l’amministrazione a provvedere, riguarda ogni tipo di procedimento, sia ad iniziativa d’ufficio che di parte, “a prescindere dall’efficacia ampliativa o restrittiva della sfera giuridica dei destinatari dell’atto” (sentenza n. 262 del 1997). Nella stessa sentenza ha altresì precisato che la mancata osservanza del termine a provvedere non comporta la decadenza dal potere, ma vale a connotare in termini di illegittimità il comportamento della pubblica amministrazione, nei confronti del quale i soggetti interessati alla conclusione del procedimento possono insorgere utilizzando, per la tutela della propria situazione soggettiva, tutti i rimedi che l’ordinamento appresta in via generale in simili ipotesi (dal risarcimento del danno all’esecuzione del giudicato che abbia accertato l’inadempienza della pubblica amministrazione)” Corte costituzionale, sentenza 17 luglio 2002, n. 355, in www.cortecostituzionale.it. [13] Circ. Min. Funz. Pubblica 8 gennaio 1991, n. 60397/7-463. [14] Mentre gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. [15] Cons. Stato, (Ad. Gen.), 25/11/1993, n.121, in Cons. Stato, 1994, I, 1650 e Cons. Stato, (Ad. Gen.), 23/01/1992, n.10, in Foro It., 1992, III, 201. [16] In Foro It., 1992, III, 98. [17] In Cons. Stato, 1995, I, 452. [18] “Entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento cura l’istruttoria, acquisisce, avvalendosi dello sportello unico, i prescritti pareri dagli uffici comunali, nonché i pareri di cui all’art. 5, comma 3, sempre che gli stessi non siano già stati allegati alla domanda dal richiedente e, valutata la conformità del progetto alla normativa vigente, formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell’intervento richiesto”. [19] Sul punto, CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della L. n. 241/90 – IV parte, in www.giustamm.it. [20] Non a caso la dottrina ritiene che con la legge n. 15/2005 il legislatore abbia traguardato l’azione amministrativa da una diversa ottica normativa: cfr. il contributo del FRANCARIO, apparso su www.giustamm.it, dal titolo “Dalla legge sul procedimento amministrativo alla legge sul provvedimento amministrativo (sulle modifiche ed integrazioni recate dalla legge 15/2005 alla legge 241/1990)”. Criticamente, osserva tuttavia FUOCO (“Riflessioni sugli atti recettizi dopo l’entrata in vigore della legge n. 15/2005”, in www.lexitalia.it), che anche dopo la recente novella resta non normato il termine entro il quale il provvedimento non recettizio deve essere comunicato. [21] Cfr. “Gli atti amministrativi non sono di regola atti recettizi, salvo che ciò non sia desumibile dalla legge o dalla natura dell'atto, ipotesi quest'ultima che ricorre quando, per la produzione dell'effetto essenziale dell'atto, sia necessaria la collaborazione del destinatario, mentre non rientrano nella categoria gli atti che sono idonei a produrre direttamente i propri effetti nella sfera giuridica del destinatario a prescindere dalla conoscenza che ne abbia quest'ultimo, e primi fra tutti gli atti costitutivi, che modificano le posizioni soggettive degli interessati” T.A.R. Piemonte, sez. II, 16/07/1998, n.281, in Trib. Amm. Reg., 1998, I, 3619, “Un atto è qualificabile come recettizio quando, in ragione della sua struttura e della sua funzione, non è logicamente concepibile che produca i suoi effetti naturali e tipici se non in quanto portato a conoscenza di un determinato destinatario; pertanto, non rientrano nella tipologia degli atti recettizi gli atti di annullamento, in quanto, in linea di principio, è logicamente concepibile che essi producano i loro effetti giuridici proprio prima di essere portati a conoscenza del destinatario” T.A.R. Umbria, 13/11/1997, n.559, in Rass. Giur. Umbra, 1998, 218, con nota di FANTINI; “Atto amministrativo recettizio è quello che per il raggiungimento dello scopo al quale è preordinato richiede la collaborazione del destinatario”: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15/04/1996, n.558, in Cons. Stato, 1996, I, 634; “E' recettizio l'atto la cui efficacia richiede la collaborazione del destinatario” T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 29/02/1996, n.64, in Trib. Amm. Reg., 1996, I, 1566. [22] PERICU, Attivita amministrativa, in AA.VV., Diritto Amministrativo, II, 1998, 1365. [23] T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 29/02/1996, n.65, in Giur. It., 1996, III,1, 380. [24] Per un esame casistico della giurisprudenza amministrativa in punto di distinzione fra atti recettizi e non recettizi: “La licenza di costruzione, non essendo provvedimento recettizio, inizia ad esistere e ad esplicare i suoi effetti fin dal momento dell'adozione della relativa determinazione autoritativa e della sua esternazione in forma scritta, non da quello della sua comunicazione all'interessato; pertanto, nel caso in cui la licenza sia stata adottata nelle forme predette e non sia stata posta nel nulla in uno dei modi espressamente previsti dalla legge, è illegittimo il rifiuto di consegna all'interessato, con rinvio dell'atto agli uffici urbanistici comunali” Cons. Stato, sez. V, 28/04/1981, n.141, in Cons. Stato, 1981, I, 418; in tema di concessione di costruzione cfr. Cons. Stato, sez. V, 30/09/1983, n.413, in Cons. Stato, 1983, I, 917; in tema di concessione edilizia cfr. Cons. Stato, sez. V, 02/07/1993, n.770, in Riv. Giur. Polizia Locale, 1994, 764; “La revoca della concessione è atto recettizio e, pertanto, ai fini sia dell'efficacia sia della decorrenza del termine per la proposizione dell'impugnativa, richiede la comunicazione individuale al titolare attuale” Cons. Stato, sez. V, 30/10/1995, n.1509, in Cons. Stato, 1995, I, 1401; “Stante il carattere recettizio dell'atto di contestazione degli addebiti, è legittimo il provvedimento che irroga la sanzione adottato entro novanta giorni dalla data di recezione dell'atto di contestazione” Cons. Stato, sez. IV, 19/03/1998, n.484, in Foro Amm., 1998, 691; “Il provvedimento di occupazione d'urgenza non è un atto recettizio, in quanto non implicando esso la cooperazione del destinatario per la sua realizzazione, la comunicazione non è elemento costitutivo della fattispecie” Cons. Stato, sez. IV, 15/02/1999, n.157, in Foro Amm., 1999, 325; “La delibera con la quale la regione determina le tariffe per il pagamento delle prestazioni d'assistenza ospedaliera rese da strutture pubbliche o private accreditate non riveste carattere recettizio e perciò la verifica della sua legittimità va fatta tenendo conto della data della sua emanazione” Cons. Stato, sez. IV, 07/03/2001, n.1317, in Foro Amm., 2001, 357; “Il provvedimento di concessione per la radiodiffusione radiotelevisiva non ha carattere recettizio, ma inizia ad esistere ed esplicare i suoi effetti sin dal momento della sua adozione. Non è, quindi, possibile distinguere, nell'ambito dello stesso provvedimento concessorio, tra disposizioni favorevoli e statuizioni sfavorevoli al destinatario e, pertanto, una volta stabilita la decorrenza iniziale della posizione giuridica del concessionario, la misura dell'obbligo corrispettivo mediante il pagamento del canone va determinata in funzione dello stesso arco temporale” Cons. Stato, sez. VI, 29/01/2002, n.473, in Foro Amm. CDS, 2002, 186; “Con riguardo alle concessioni di un bene pubblico, non vi sono ragioni per ravvisarne il carattere recettizio, giacchè sin dalla data della sua emanazione l'amministrazione è tenuta a ravvisare la sussistenza del titolo abilitativo e ad astenersi da atti repressivi dell'attività svolta” Cons. Stato, sez. VI, 16/10/2002, n.5623, in Foro Amm. CDS, 2002, 2549; “La concessione per la radiodiffusione radiotelevisiva non è un provvedimento recettizio e, quindi, inizia ad esistere e ad esplicare i suoi effetti sin dal momento della sua adozione, senza possibilità di distinguere, nell'ambito dello stesso provvedimento concessorio, tra disposizioni favorevoli e statuizioni sfavorevoli al destinatario; pertanto, una volta stabilita la decorrenza iniziale della posizione giuridica del concessionario, la misura dell'obbligo corrispettivo, concernente il pagamento del canone, va determinata in funzione dello stesso arco temporale” Cons. Stato, sez. VI, 08/04/2003, n.1885, in Foro Amm. CDS, 2003, 1382. [25] Cass. civ., sez. lav., 13/06/2003, n.9485, in Mass. Giur. It., 2003. [26] Secondo la distinzione elaborata dal VIRGA. [27] Cfr. C. Conti Basilicata, sez. giurisdiz., 10/03/1999, n.56, in Riv. Corte Conti, 1999, f.5, 154. [28] “La comunicazione dell'atto amministrativo è rilevante, in via di principio, solo ai fini della decorrenza del termine per impugnarlo e, qualora si tratti di atto recettizio, ai fini della decorrenza della sua efficacia; pertanto, non può farsi derivare l'illegittimità di un atto amministrativo dalla sua ritardata comunicazione” Cons. Stato, sez. VI, 21/02/1983, n.97, in Cons. Stato, 1983, I, 173; “Salvo che specifiche disposizioni di legge dispongano diversamente, la notificazione e/o comunicazione dell'atto amministrativo al suo destinatario non attengono all'esistenza o validità dello stesso, ma alla diversa e successiva fase della comunicazione o, in caso di atto recettizio, dell'integrazione dell'efficacia; pertanto, è da escludere che un atto sia nullo ovvero privo di effetti per il solo fatto della mancata comunicazione da parte dell'autorità emanante al soggetto interessato” T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 02/10/1996, n.779, in Trib. Amm. Reg., 1996, I, 4676. [29] “Fuori dei casi nei quali i termini siano fissati dalle leggi speciali, relative alla materia del ricorso, il termine per ricorrere al consiglio di Stato in sede giurisdizionale è di giorni sessanta dalla data in cui la decisione amministrativa sia stata notificata nelle forme e nei modi stabiliti dal regolamento, o dalla data in cui risulti che l'interessato ne ha avuta piena cognizione[…]”. [30] Cfr. Cons. Stato, sezione V, 29 aprile 1910, n. 205, in Riv. Amm. 1910, 445. [31] CEGLIO, La piena conoscenza e la decorrenza del termine per la proposizione del ricorso, in Giornale di diritto amministrativo, n. 5/2003, 495 e ss.. [32] Cons. Stato, sez. VI, 30/07/2003, n.4380, in Foro Amm. CDS, 2003, 2317 e Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 2001, n. 2449. Cfr. altresì, “Ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione di un atto innanzi al giudice amministrativo, la piena conoscenza si consegue solo con l'integrale cognizione dell'atto stesso, in relazione a tutte le sue molteplici componenti, pertanto, in difetto di dimostrazione del contrario, non si ha piena conoscenza in capo al destinatario del provvedimento che abbia tempestivamente chiesto gli atti indispensabili al fine di valutare la legittimità del provvedimento e questi siano stati consegnati dalla pubblica amministrazione solo dopo la scadenza del termine per l'impugnazione” Cons. Stato, sez. V, 09/06/2003, n.3247, in Foro Amm. CDS, 2003, 1886. [33] Cons. Stato, sez. VI, 20/06/2003, n.3690, in Foro Amm. CDS, 2003, 1975. Cfr. altresì “La piena conoscenza degli elementi essenziali di un provvedimento amministrativo, e cioè dell'autorità emanante, della data, del contenuto dispositivo e del suo effetto lesivo, comporta in capo all'interessato l'onere di impugnazione entro i successivi 60 giorni, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento emergano ulteriori profili di illegittimità” Cons. Stato, sez. V, 10/03/2003, n.1275, in Giornale Dir. Amm., 2003, 495, con nota di CEGLIO; “Al fine di concretare la piena conoscenza di un provvedimento per farne decorrere i termini di impugnazione ai sensi dell'art. 21 l. TAR, non è necessario che esso sia noto in tutti i suoi elementi ma è sufficiente la conoscenza della sua esistenza e della sua lesività, fermo restando che gli eventuali vizi percepiti in conseguenza della integrale cognizione degli atti del procedimento possono essere fatti valere mediante proposizione di motivi aggiunti” Cons. Stato, sez. VI, 20/09/2002, n.4780, Foro Amm. CDS, 2002, f. 9. [34] Si ricordino i recenti arresti del Giudice delle Leggi: “Gli effetti della notificazione a mezzo posta devono, dunque, essere ricollegati, per quanto riguarda il notificante, al solo compimento delle attività a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell'atto da notificare all'ufficiale giudiziario; restando, naturalmente, fermo, per il destinatario, il principio del perfezionamento della notificazione solo alla data di ricezione dell'atto, attestata dall'avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo” Corte cost., 26/11/2002, n.477, in Giur. Costit., 2002, f. 6; “Risulta ormai presente nell'ordinamento processuale civile il principio secondo il quale - relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante - il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona il destinatario” Corte cost., 23/01/2004, n.28. Cfr. altresì Corte cost. (Ord.), 12/03/2004, 97. [35] Cons. Stato, sez. IV, 02/05/1994, n.373, in Foro Amm., 1994, 1085. [36] Cfr.: “Art. 139 (Notificazione nella residenza, nella dimora o nel domicilio) - Se non avviene nel modo previsto nell'articolo precedente, la notificazione deve essere fatta nel comune di residenza del destinatario, ricercandolo nella casa di abitazione o dove ha l'ufficio o esercita l'industria o il commercio. Se il destinatario non viene trovato in uno di tali luoghi, l'ufficiale giudiziario consegna copia dell'atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace. In mancanza delle persone indicate nel comma precedente, la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l'abitazione, l'ufficio o l'azienda e, quando anche il portiere manca, a un vicino di casa che accetti di riceverla. Il portiere o il vicino deve sottoscrivere una ricevuta e l'ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto, a mezzo di lettera raccomandata. Se il destinatario vive abitualmente a bordo di una nave mercantile, l'atto può essere consegnato al capitano o a chi ne fa le veci. Quando non è noto il comune di residenza, la notificazione si fa nel comune di dimora, e, se anche questa è ignota, nel comune di domicilio, osservate in quanto è possibile le disposizioni precedenti”. “Art. 140 (Irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia) - Se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell'articolo precedente, l'ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del destinatario, e gliene da' notizia per raccomandata con avviso di ricevimento”. [37] Cfr. la giurisprudenza: “Nel caso in cui una norma o un principio generale impongano la comunicazione di un atto ad uno o più soggetti determinati, è necessario che ciò avvenga a mezzo di strumenti che garantiscano in maniera idonea e sicura il raggiungimento del fine; pertanto, ove non si realizzi la trasmissione personale e individuale del documento al suo o ai suoi destinatari (il che può sempre avvenire al di fuori di ogni precostituita formalità, salva l'esigenza di fornire della circostanza una prova rigorosa), la notificazione dell'atto deve sempre avvenire nelle forme di cui all'art. 3 r.d. 17 agosto 1907 n. 642, vale a dire mediante il procedimento previsto appositamente per assicurare la pubblicità legale dei provvedimenti amministrativi, per cui l'affissione di un manifesto sui muri di una città, ancorchè contenente i nominativi dei potenziali destinatari del provvedimento (nel caso, di decadenza di concessione mineraria) tenuti a rispettare la normativa della materia, non può valere a integrare la conoscenza legale da parte di detti destinatari del richiamo medesimo, nè a fornire la prova sicura che l'ammonizione abbia concretamente sortito il suo effetto” Cons. Stato, sez. V, 16/04/1998, n.444, in Cons. Stato, 1998, I, 597. [38] CERULLI IRELLI, op. cit.- IV parte. [39] VIRGA, Le modifiche ed integrazioni alla legge n. 241 del 1990 recentemente approvate. Osservazioni derivanti da una prima lettura, in www.lexitalia.it. [40] Cons. Stato, sez. V, 07/05/2001, n.2551, in Foro Amm., 2001, f. 5. [41] CORLETTO, voce Comunicazione dell’atto amministrativo, Enc. Treccani. [42] Cfr. CAPANTINI, Efficacia, esecuzione ed esecutorietà del provvedimento amministrativo, in La riforma della Legge 241/1990 sul procedimento amministrativo: una prima lettura (a cura di Alberto MASSERA), in www.astridonline. [43] Relazione del deputato Bressa nella seduta del 10 novembre 2003. [44] SATTA, La riforma della Legge 241/1990: dubbi e perplessità, in www.giustamm.it. [45] Cons. Stato, sez. IV, 04/02/2003, n.564, in Foro Amm. CDS, 2003, 507; T.A.R. Valle d'Aosta, 16/01/2002, n.5, in Foro Amm. TAR, 2002, 7; Cons. Stato, sez. V, 09/02/2001, n.580, in Urbanistica e appalti, 2001, 332. [46] Cons. Stato, sez. VI, 08/04/2002, n.1901, in Foro Amm. CDS, 2002, 962. [47] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 09/10/2003, n.6038, in www.giustizia-amministrativa.it. [48] “La sospensione degli atti amministrativi non è un istituto di carattere generale (a differenza dell'autotutela), trattandosi di un potere " tipico ", esercitabile solo in presenza di una specifica norma che espressamente la preveda. Nei casi in cui sia previsto l'esercizio del potere di sospendere l'efficacia di un provvedimento, la sospensione deve avere necessariamente un'efficacia limitata nel tempo, non essendo consentita una sospensione sine die, che equivarrebbe a sostanziale ritiro dell'atto stesso” T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 09/05/2002, n.829, in Foro Amm. TAR, 2002, 1795. [49] Cons. Stato, sez. V, 09/10/2003, n.6038, in www.giustizia-amministrativa.it e Consiglio Stato sez. IV, 24 maggio 1995, n. 350. [50] T.A.R. Friuli-V. Giulia, 08/02/1997, n.57, in Comuni d'Italia, 1998, 127. Cfr. altresì: “Nei casi in cui sia previsto l'esercizio del potere di sospendere l'efficacia di un provvedimento, la sospensione deve avere necessariamente un'efficacia limitata nel tempo, non essendo consentita una sospensione "sine die", che equivarrebbe a sostanziale ritiro dell'atto stesso” T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 09/05/2002, n.829, in Foro Amm. TAR, 2002. [51] Si ricordi che il ricorso contra silentium non esaurisce le ipotesi di tutela predisposte dall'ordinamento avverso l’inerzia della P.A.: si considerino le misure sanzionatorie civili, penali (art. 328 c. p.), disciplinari. Si pensi, altresì, all’obbligo di indennizzo per mancato rispetto del termine di cui all'art. 2 l. 241/90 previsto dalla delega contenuta nell'art. 17, comma 1, lett. f) della l. 59/97. Si pensi, infine, ai poteri sostitutivi in caso di inerzia: secondo l’art. 3-ter (Rimedi per l'inosservanza dei termini) della Legge n 273/1995 (conv. del D.L. 163/1995) “1. Decorsi inutilmente i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali, fissati ai sensi dell'art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, l'interessato può produrre istanza al dirigente generale dell'unità responsabile del procedimento, il quale provvede direttamente nel termine di trenta giorni. Se il provvedimento è di competenza del dirigente generale l'istanza è rivolta al Ministro, il quale valuta se ricorrono le condizioni per l'esercizio del potere di avocazione regolato dall'art. 14, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, come sostituito dall'art. 8 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546, provvedendo in caso positivo entro trenta giorni dall'avocazione. 2. I servizi di controllo interno dei Ministeri, istituiti ai sensi dell'art. 20 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, come sostituito dall'art. 6 del decreto legislativo 18 novembre 1993, n. 470, e i servizi ispettivi compiono annualmente rilevazioni sul numero complessivo dei procedimenti non conclusi entro il termine determinato ai sensi dell'art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241. L'inosservanza di tale termine comporta accertamenti ai fini dell'applicazione delle sanzioni previste a carico dei dirigenti generali, dei dirigenti e degli altri dipendenti dall'art. 20, commi 9 e 10, e dall'art. 59 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, come sostituiti, rispettivamente, dall'art. 6 del decreto legislativo 18 novembre 1993, n. 470, e dall'art. 27 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546”. [52] Sembra opportuno citare la bibliografia “storica” in materia di silenzio della P.A.: BORSI, Il silenzio della pubblica amministrazione nei riguardi della giustizia amministrativa, in Giur. It. 1903, IV, 255; RESTA, Il silenzio come esercizio della funzione amministrativa, in Foro amm. 1929, IV,106; FORTI, Il “silenzio” della pubblica amministrazione e i suoi effetti processuali, in Riv. dir. proc. civ. 1932, 121; A.M. SANDULLI, Questioni recenti in tema di silenzio della pubblica amministrazione, in Foro it. 1949, III, 128; CANNADA BARTOLI, Inerzia a provvedere da parte della pubblica amministrazione e tutela del cittadino, in Foro padano 1956, I, 175; LA VALLE, Profili giuridici dell’inerzia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubb. 1962, 360; CASSESE, Inerzia e silenzio della P.A., in Foro amm. 1963, I, 30; LEDDA, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964; SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971. [53] Consiglio di Stato, sezione V, 6 Ottobre 2003, n. 5900, in www.giustizia-amministrativa.it. [54] In Giurisprudenza italiana 1902, III, 343 con nota anonima. [55] Cons. St., Sez. VI, 29 ottobre 1951 n. 534, in Consiglio di Stato 1951,I,1300 e Cons. St., Sez. IV, 4 luglio 1956 n. 729, in Foro amministrativo 1957,I,22. [56] Sulla differenza tra silenzio-rifiuto e silenzio-inadempimento, cfr. SCOCA, D’ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in Dir. proc. ammin., 1995, 397 ss.. [57] Cfr. la dottrina del tempo: QUARANTA, Il silenzio della pubblica amministrazione (Nuovi profili derivanti dalla disciplina del D.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199 e della L. 6 dicembre 19741 n. 1034), in Foro amm. 1972, III, 340; MOSCATELLI, Il silenzio della pubblica amministrazione dopo l’istituzione dei tribunali regionali: silenzio rifiuto e silenzio rigetto, in Nuova rassegna 1973, 1893; ROEHRSSEN, Notazioni sulla impugnabilità del silenzio della pubblica amministrazione, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile 1974, 127; SALONE, “Silenzio-rifiuto”, abrogazione dell’art.5 t.u. n. 383 del 1934 e termine per provvedere da parte della pubblica amministrazione, in Consiglio di Stato 1974,II,1290. [58] In Foro italiano 1978, III, 352 con nota di GALLO, Consiglio di Stato 1978, II, 391 con nota di CIACCIA, Foro amministrativo 1978, I, 415, Giurisprudenza italiana 1978, III, 305. [59] SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, 1959, 297 ss.; ID., Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 89. [60] Norma che non si occupa dell’impugnativa del silenzio, ma dei termini decorsi i quali potrà proporsi azione di risarcimento del danno nei confronti del pubblico dipendente resosi inadempiente. Cfr. “A seguito dell'abrogazione dell'art. 5 t.u. 3 marzo 1934 n. 383 ad opera dell'art. 6 d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, il procedimento da seguire per la formazione del silenzio-rifiuto è, in via analogica, quello disciplinato dall'art. 25 t.u. 10 gennaio 1957 n. 3” Cons. Stato, sez. VI, 12/05/1994, n.752, in Cons. Stato, 1994, I, 835. [61] Come si può notare, i termini sono dimezzati rispetto a quelli previsti dall’art. 5 T.U. leggi com. prov. [62] “Decorso il termine di novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso gerarchico senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione, il privato ha la facoltà e non l'onere di proporre ricorso giurisdizionale o quello straordinario contro il provvedimento già impugnato con ricorso gerarchico. Se il privato non si avvale della facoltà di adire immediatamente il giudice, permangono l'obbligo ed il potere dell'amministrazione di decidere sul ricorso gerarchico e, l'interessato, in caso di persistente inerzia, può esperire la procedura per il silenzio-rifiuto prevista nell'art. 25, t. u. 10 gennaio 1957, n. 3” Cons. Stato, (Ad. Plen.), 24/11/1989, n.16, in Giur. It., 1990, III,1, 38. [63] Cfr. l’interessante ricostruzione giurisprudenziale: “Il principio dell'obbligo del provvedere per la p.a. canonizzato dall'art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241 radica un vero e proprio obbligo di conclusione rispetto al quale la fissazione di un termine, lungi dal comportare l'estinzione del dovere in questione, lo rimarca qualora la sollecitazione del legislatore, connessa alla fissazione del termine, sia rimasta infruttuosa” T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 13/09/2000, n.3578, in Foro Amm., 2001, 753. [64] Cfr. T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 05/02/2002, n.54; T.A.R. Lazio - Sez. II - 23 novembre 1993, n. 1440; T.A.R. Lazio - Latina - 11 febbraio 1993, n. 138; T.A.R. Calabria - Catanzaro - 17 dicembre 1996, n. 899; T.A.R. Trentino Alto Adige - 4 novembre 1996, n. 305; TAR Sicilia, Catania, sez. II, 10 febbraio 2001 n. 293, in www.giustizia-amministrativa.it. [65] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. I, sent. n. 4977/2001, in www.giustizia-amministrativa.it. [66] Sul rito contra silentium disciplinato dal legislatore del 2000: SASSANI, Prime considerazioni sulla nuova procedura del silenzio, in Giust. Civ. 2000, II, 455; FANTINI, Il rito speciale in materia di silenzio della pubblica amministrazione, in TAR 2000, II, 609; IARIA, Il ricorso e la tutela contro il silenzio, in Giornale di diritto amministrativo, 2000, 1074; TOGNOLETTI, Commento all’art.2 della legge 21 luglio 2000 n. 205, in Le nuove leggi civili commentate 2001,575; MIRATE, Silenzio della pubblica amministrazione e azione di condanna: riflessioni sul sindacato del giudice amministrativo nel giudizio ex art.21 bis della L. 1034/71, in Giurisprudenza italiana 2001, I, 1993; GIACCHETTI, Il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione e “le macchine di Munari”, in Consiglio di Stato 2001,II,471; MARRAMA, Nuovo rito nel giudizio sul silenzio non significativo della pubblica amministrazione, Consiglio di Stato, 1987; GRECO, L’art.2 della legge 21 luglio 2000 n. 205, in Diritto processuale amministrativo 2002,1; SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, Diritto processuale amministrativo 2002, 239. [67] TAR Lazio - Roma, sez. I Bis, 18 gennaio 2005 n. 384, in www.lexitalia.it. [68] C.M. 8 gennaio 1991, n. 60397/7-463, (Funz. Pubbl.) - Procedimento amministrativo. Obbligo di conclusione. Art. 2, Legge 7 agosto 1990, n. 241: “[…] Qualora la determinazione, in mancanza di disposizioni legislative o regolamentari, non fosse adottata, l'art. 2 dispone nel senso che il termine entro il quale concludere il procedimento è di 30 giorni. Al riguardo si deve comunque precisare che la Legge n. 241 non dispone nel senso della qualificazione dell'inerzia imputabile all'amministrazione, pertanto è necessario seguire la normale procedura per la determinazione del silenzio-rifiuto imputabile all'amministrazione. Per quanto riguarda il silenzio-rigetto non si pone alcun problema, posto che l'ordinamento vigente dispone nel senso di uno specifico termine, entro il quale decidere i ricorsi amministrativi per opposizione o gerarchici; la scadenza di tale termine implica la formazione del silenzio-rigetto (D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, art. 6)”. [69] Cons. Stato, Sez. V, 15/09/1997, n. 980 e Cons. Stato, Sez. V, 18/11/1997, n. 1331. Si citano, altresì, a titolo puramente esemplificativo: Consiglio di Stato, sezione V, 12 novembre 2003, n. 7220, in www.giustizia-amministrativa.it, Cons. Stato, sez. IV, 23 settembre 2004, n. 6201, in www.giustizia-amministrativa.it; Id., sez. IV, 26 luglio 2004, n. 5316, ibidem; Id., Sez. IV, 19 luglio 2004, n. 5184, ibidem; Id., Sez. IV, 19 luglio 2004, n. 5182, ibidem; Id., Sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5020, ibidem; T.A.R. Toscana, Sez. III, 11 giugno 2004, n. 2047, ibidem; Cons. Stato, Sez. IV, 6 aprile 2004, n. 1873, ibidem; Id., Sez. V, 23 marzo 2004, n. 1553, ibidem; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 9 marzo 2004, n. 2781, in Foro amm. TAR, 2004, 796; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 5 febbraio 2004, n. 240, ibidem, 511; Cons. Stato, Sez. V, 4 febbraio 2004, n. 376, in www.giustizia-amministrativa.it; Id., Sez. V, 4 febbraio 2004, n. 360, ibidem; T.A.R. Marche, 3 febbraio 2004, n. 58, in Dir. e lav. Marche, 2004, 128; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 9 gennaio 2004, n. 6, in Foro amm. TAR, 2004, 205; T.A.R. Lazio, sez. II, 9 gennaio 2004, n. 63, ibidem, 149. [70] Cons. Stato,Sez. V, 12/07/1996, n. 848. [71] Cons. Stato, Sez. V, 25/01/1995, n. 131. [72] Art. 328 (Rifiuto di atti di ufficio. Omissione) - “Il pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto dell'ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanita', deve essere compiuto senza ritardo, e' punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, e' punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a lire due milioni. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa”, Articolo cosi' sostituito dalla L. 26 aprile 1990, n. 86. [73] Cass. pen., sez. VI, 02/10/2003, n.43492, in Guida al Diritto, 2004, 8, 83. [74] Trib. Pescara, 20/02/2001, in P.Q.M., 2001, f. 2, 75, con nota di ANGIOLELLI [75] OCCHIENA, Riforma della l. 241/1990 e “nuovo” silenzio-rifiuto: del diritto v’è certezza, in www.giustamm.it il quale richiama CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2004. [76] OCCHIENA, op.cit., il quale richiama le opere di CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2004, rispettivamente 374 e 377 e DE ROBERTO, Il silenzio del funzionario responsabile del procedimento amministrativo, in Nuova rassegna, 1992, 2068. [77] Cfr. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della L. n. 241/90 – parte II, in www.giustamm.it. [78] CERULLI IRELLI, op. cit. parte II. [79] OCCHIENA, op. cit.. [80] Cfr. fra tutte, Cons. Stato, VI, n. 92/82; IV, n. 506/87; V, n. 250/91; n. 251/96; n. 1446/99; n. 2211/2000. [81] Cfr. Cons. Stato, V, n. 169/97. Circa le pretese implicanti valutazioni discrezionali (anche a basso tenore di discrezionalità) cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 giugno 2000, n.3526 e Cons. Stato, sez.V, 12 ottobre 1999, n. 1446. [82] Cfr. Corte Cost. sentenza n. 427/99. [83] Secondo T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 06/10/2001, n.4001, in Foro Amm., 2001 “Il rito speciale relativo all'obbligo di provvedere introdotto dall'art. 2 l. n. 205 del 2000 cumula tre tipi di procedimenti: la fase cautelare o accelerata, senza escludere in assoluto la tutela cautelare urgente di cui all'art. 21 l. n. 1034 del 1971; la fase della condanna ad adempiere all'obbligo di provvedere in seguito al silenzio della amministrazione; la fase della ottemperanza, come si desume dalla possibilità di nominare un commissario che provveda in luogo della amministrazione pervicacemente inadempiente, pur a seguito della condanna a provvedere. Pertanto, all'obbligo di provvedere che è precedente alla sentenza, e che deriva dagli obblighi di legge nel procedimento (art. 2 l. n. 241 del 1990), si assomma e affianca l'obbligo di provvedere nel processo, che trova la sua fonte nel titolo giudiziale costituito dalla sentenza”. [84] Ex multis: Consiglio di Stato, sez. V, n. 1836 del 7 aprile 2003; Consiglio di Stato, sez. V, n. 812 del 14 febbraio 2003; Consiglio di Stato, sez. V, n. 808 del 14 febbraio 2003; Consiglio di Stato, sez. V, n. 672 del 10 febbraio 2003; Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3256 dell'11 giugno 2002. [85] TAR Lazio - Roma sez. I bis - sentenza 18 gennaio 2005, n. 384, C.G.A., sent.16 ottobre 2002 n. 593; Cons. Stato, Sez. VI, nn. 2412 del 2003, 2534 del 2003, 4833 del 2003, 4834 del 2003, 4835 del 2003, 4877 del 2003, 4878 del 2003. [86] In Ragiusan, 2003, 227, 486. [87] Cons. Stato, sez. V, 16/07/2002, n.3974, in Riv. Personale Ente Locale, 2002, all. 5, 26. [88] Cons. Stato, sez. VI, 30/07/2003, n.4384, in Foro Amm. CDS, 2003, 2317; Cons. Stato, sez. IV, 17/06/2003, n.3408, in Foro Amm. CDS, 2003, 1849; Cons. Stato, sez. V, 29/04/2003, n.2196, in Foro Amm. CDS, 2003, 1330; Cons. Stato, sez. VI, 10/04/2003, n.1893, in Foro Amm. CDS, 2003, 1384; T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 27/08/2002, n.3720, in Foro Amm. TAR, 2002; T.A.R. Sardegna, 29/10/2002, n.1428, in Foro Amm. TAR, 2002; T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 01/10/2002, n.4178, in Foro Amm. TAR, 2002, 3371. Anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, decisione n. 1/2002 ha statuito che “ è determinante che il “silenzio” riguardi l’esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come un interesse legittimo”. Contra: TAR Lazio sez. I, 6 maggio 2003 n. 3921, in www.lexitalia.it, secondo cui “Il rito accelerato introdotto dall’art. 2 della legge n. 205/2000 è da ritenere ammissibile anche per tutelare situazioni di diritto soggettivo perfetto nei confronti della P.A., atteso che lo stesso art. 2 individua l’oggetto del procedimento d’urgenza ivi previsto con riferimento al "silenzio dell’amministrazione", e cioè con riferimento ad una nozione che, nella sua ampia accezione, è comprensiva di ogni condotta omissiva, in presenza dell’interesse del privato ad una determinazione esplicita dell’organo pubblico interpellato, che può coinvolgere posizioni sia di diritto soggettivo che di interesse legittimo. La norma processuale non introduce quindi, quanto alla legittimazione al ricorso, alcuna discriminazione con riguardo alla situazione soggettiva sostanziale che il privato ha inteso tutelare”. [89] In www.lexitalia.it. [90] In Guida al Diritto, 2003, 14, 94, con nota di FORLENZA. [91] “E' improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse il ricorso avverso il silenzio rifiuto dell'amministrazione, nel caso in cui quest'ultima provveda espressamente nelle more del giudizio” T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 01/12/2001, n.7661, in Foro Amm., 2001, 3318. [92] Nonostante il precedente contrario costituito da T.A.R. Lombardia, Brescia, 1 giugno 2001, n. 397. [93] M.A. SANDULLI, Competizione, competitività, braccia legate e certezza del diritto, (Note a margine della Legge di conversione del D.L.35 del 2005), in www.giustamm.it. [94] Consiglio di Stato, sezione V, 11/06/2003, n. 3288, in www.giustizia-amministrativa.it e Consiglio Stato sez. V, 17 ottobre 2000, n. 5565; si veda anche Consiglio Stato sez. III, 2 giugno 1998, n. 113. [95] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17/10/2000, n. 5565, Cons. Giust. Amm. Sic., Sez. Giurisdiz., 23/12/1999, n. 665 e Cons. Stato, Sez. III, 02/06/1998, n. 113. [96] “In materia di silenzio dell'amministrazione, è configurabile la reiterazione della diffida da parte del privato, atteso che il potere-dovere dell'amministrazione di pronunciarsi non è soggetto, di per sé, a limiti di tempo, e non si estingue per effetto della formazione del silenzio-rifiuto” Cons. Stato, sez. IV, 02/10/1989, n.658, in Cons. Stato, 1989, I, 1134. [97] “Il silenzio della p.a. sull'istanza del privato, configurabile come rifiuto ad adempiere attraverso l’istituto della diffida a provvedere, dà luogo ad una situazione continuativa di inadempienza, per cui il termine di impugnazione si rinnova de die in diem fino a quando l’amministrazione non si sia pronunciata, superando così la stessa situazione di inadempienza e la necessità di impugnare il silenzio; pertanto, è ammissibile il ricorso proposto oltre il normale termine di decadenza della maturazione sul piano formale del silenzio rifiuto impugnato, in assenza di un formale pronunciamento dell’amministrazione” T.A.R. Abruzzi L'Aquila, 11/06/2002, n.324, in Foro Amm. TAR, 2002, 2123. [98] CLARICH,op. cit.. [99] CERULLI IRELLI, op. cit. parte II.