Il capitale di rischio delle PMI italiane

Agevolazioni Finanziarie
14
Pmi
di Mario G.R. Pagliacci Università degli Studi
di Perugia,
Facoltà di Economia,
Sede di Terni (1)
Il capitale di rischio
delle PMI italiane
Dopo un lungo periodo di silenzio intorno al fenomeno della piccola impresa,
considerata una forma di «nanismo», finalmente gli studiosi, i governanti, persino le
istituzioni comunitarie, hanno riscoperto i pregi e i meriti delle PMI, e tentano di
costruire su di esse la nuova strategia di crescita del «vecchio continente». In tale
situazione, dunque, è interessante analizzare le opportunità di finanziamento delle
PMI con interventi sul capitale di rischio.
e statistiche Eurostat mostrano che le PMI
rappresentano il 95% del tessuto economico europeo, e tanto più lo saranno negli anni avvenire, anche per effetto dell’ingresso in Ue dei
paesi del Centro-Est Europa, dove la transizione
L
“
L’indebitamento bancario si dimostra essere di
semplice attivazione e non richiedere elaborate
procedure, che invece caratterizzano altri strumenti
finanziari alternativi. Ciò spinge le piccole imprese verso
l’indebitamento a breve, poco compatibile con piani di
investimento destinati allo sviluppo.
”
(1) L’Autore ringrazia i Dottori
Magistrali Valentina Perlati e
Stefano Podelvento per il materiale documentario fornito.
(2) Tra i primi economisti a sollevare l’interrogativo sul fondamento di una correlazione diretta fra dimensione aziendale e potenzialità di successo e profittabilità, furono Alfred Marshall ed
Edith Penrose. Il primo osservò
che i vantaggi della produzione
su larga scala possono essere
conseguiti raggruppando piccoli
produttori autonomi in uno stesso distretto industriale. Alla seconda si deve l’elaborazione di
una teoria secondo cui lo sviluppo può essere perseguito anche
dalle piccole imprese, presidiando le nicchie di mercato grazie alla elasticità che le caratterizza.
verso l’economia di mercato è affidata alla frantumazione dei grandi conglomerati, alla selezione delle parti più interessanti e alla loro privatizzazione nelle mani di grossi gruppi esteri (IDE)
o di privati locali, i quali rappresentano il patrimonio più rilevante per il futuro di ogni paese: la
piccola imprenditorialità.
Ma questo patrimonio ha le sue caratteristiche
tipiche; quelle stesse che nel secolo appena trascorso fecero concludere agli economisti americani - seguiti a ruota da quelli europei - che il
modello aziendale tipico è la grande impresa, e
la piccola dimensione deve intendersi come una
fase di transizione, oppure una forma di nanismo.
Oggi le cose sono cambiate (2) e si riconosce
all’impresa minore una caratterizzazione au-
tonoma, non solo in termini «quantitativi» ma
anche e soprattutto «qualitativi»: la piccola
impresa si presenta solitamente caratterizzata da una struttura organizzativa semplice, da
forme di finanziamento dipendenti dalla figura dell’imprenditore, da una gestione diretta e
autonoma svolta dal soggetto imprenditoriale,
dalla sovrapposizione istituzionale tra famiglia e impresa, dalla presenza su ambiti competitivi ristretti e da un basso potere di mercato.
Queste caratteristiche condizionano in modo rilevante l’essere ed il divenire delle PMI - non
sempre in modo positivo e propulsivo - ma purtuttavia ne rappresentano l’essenza; una essenza non immutabile, ma con possibili cambiamenti in tempi lunghi, nel rispetto delle evoluzioni di
pensiero e di azione degli imprenditori. Pretendere di forzare queste condizioni significherebbe snaturare le caratteristiche dello spirito imprenditivo e perdere di vista l’obiettivo sovrastante e prioritario della stimolazione di nuova
imprenditorialità, di cui l’Europa ha un grande
bisogno.
Compito, dunque, di studiosi ed operatori è quello di individuare e valorizzare gli spazi di cambiamento che gli imprenditori mostrano - magari di anticiparli ed incoraggiarli - e di proporre
alla loro selezione e decisione, le vie di rafforzamento delle loro imprese.
In quest’ottica ci sembra interessante analizzare
le opportunità di finanziamento delle PMI con
interventi sul capitale di rischio.
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Ipsoa - Finanziamenti su misura News, 5/2007 - Il capitale di rischio delle PMI italiane
La capitalizzazione
della piccola e media impresa
(3) La politica fiscale italiana ha
esercitato un effetto distorsivo
sulle scelte dei canali di finanziamento delle imprese, orientando
le scelte verso la destinazione di
una quota maggiore del reddito
di impresa alla remunerazione
del capitale di credito più che al
capitale di rischio. Infatti il debito ha costituito la modalità di finanziamento meno onerosa, grazie alla piena deducibilità degli
interessi passivi e ad aliquote legali che fino alla metà degli anni
novanta erano molto elevate; invece l’autofinanziamento e l’apporto di capitale azionario sono
stati penalizzati in termini di
prelievo fiscale. Negli ultimi anni
il regime fiscale per le imprese
aveva subito rilevanti trasformazioni, grazie all’introduzione dell’imposta regionale sulle attività
produttive (Irap) e della dual income tax (Dit); il principio ispiratore è stata la ricerca di una
maggiore neutralità dell’imposizione rispetto alle fonti di finanziamento delle imprese (Irap) e
di incentivazione degli investimenti finanziati con capitale di
rischio (Dit). Pur se la riforma
Irap-Dit ha ridotto la convenienza fiscale dell’indebitamento rispetto al capitale di rischio, i vantaggi fiscali del ricorso al capitale di debito sono rimasti.
La struttura finanziaria delle imprese italiane è
caratterizzata da ridotti mezzi propri e da un forte indebitamento verso terzi (banche e fornitori);
tali fenomeni si accentuano nel caso di piccole
imprese, come dimostra la Tavola 1.
Appare semplicistica la spiegazione - da alcuni
addotta - secondo cui la struttura di finanziamento delle PMI italiane sia da attribuire unicamente alla scarsa cultura finanziaria dei piccoli
imprenditori. In realtà essa si fonda su motivazioni ben più profonde e razionali, essendo da
una parte la conseguenza di precise scelte di governance e dall’altra di arbitraggi di convenienza influenzati dalla normativa fiscale e tributaria, la quale ha sempre favorito l’indebitamento
piuttosto che la capitalizzazione delle imprese
(3).
L’indebitamento verso terzi consente di mantenere chiuso e stabile l’assetto proprietario, pur
condividendo il rischio di impresa con i finanziatori esterni; il che consente all’imprenditore di
trattenere interamente degli utili che residuano
dopo il pagamento degli interessi passivi, anche
se spesso essi si dimostrano tanto poco consistenti da non consentire idonee politiche di autofinanziamento.
L’indebitamento bancario, poi, si dimostra essere
di semplice attivazione e non richiedere elaborate procedure, che invece caratterizzano altri
strumenti finanziari alternativi. Ciò spinge le
piccole imprese verso l’indebitamento a breve,
poco compatibile con piani di investimento destinati allo sviluppo.
È da aggiungere l’effetto distorsivo operato dal
sistema bancario italiano, interessato ad operare
come prestatore di credito piuttosto che come finanziatore in capitale di rischio, anche a motivo
di una legislazione bancaria non propriamente
incoraggiante.
Va altresì detto che la scarsità dei mezzi propri
nella struttura finanziaria dell’impresa minore
italiana non ha limitato in modo significativo il
suo radicamento nel tessuto economico, proprio
grazie al significativo intervento di mezzi forniti
dal sistema bancario; in realtà solo recentemente, in attuazione della normativa di Basilea 2, si è
fatto più preoccupante il fenomeno della sottocapitalizzazione, in quanto la scarsezza di capitale
proprio rappresenta uno degli elementi maggiormente penalizzanti nell’attribuzione di un
buon giudizio che consenta l’accesso al credito a
condizioni di pricing convenienti.
La soluzione più percorribile sarebbe la ricapitalizzazione dell’impresa con risorse apportate direttamente dalla compagine sociale in atto: non
sempre vi è la volontà, la possibilità e la capacità
di farlo. Le alternative possibili sarebbero quelle di aprire il capitale agli investitori istituzionali in capitale di rischio, al mercato di borsa o ricorrere a strumenti semi-equity, ma si tratta di
soluzioni tecnicamente impegnative e poco gradite ad imprenditori e manager delle aziende di
minori dimensioni, per una serie di motivazioni
che andremo a sunteggiare.
In primo luogo è da considerare che la forma
giuridica prevalente delle imprese minori, è rappresentata dalla ditta individuale o da società
di persone. Si tratta della tipica strutturazione
Tavola 1 - Struttura finanziaria delle imprese italiane per classi dimensionali (percentuali)
STRUTTURA
DEL FINANZIAMENTO
PICCOLE IMPRESE
1-49
MEDIE IMPRESE
50-249
GRANDI IMPRESE
250-500
Capitale sociale
9,40
11,09
14,01
Riserve
16,02
17,99
16,10
Tot Capitale di rischio
25,42
29,08
30,11
Debiti bancari
27,34
21,44
14,31
Debiti commerciali
31,25
25,50
28,82
Fondi rischi+Tfr
3,73
6,53
7,87
Obbligazioni
1,14
0,98
0,91
Altri debiti
11,13
16,47
17,98
Tot capitale di debito
74,58
70,92
69,89
100
100
100
TOTALE
Fonte: Elaborazioni su dati Centrale dei bilanci relativi all’anno 2000
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(4) Questa situazione produce come conseguenza anche la pratica
dei multiaffidamenti, che opacizza la capacità di analisi e di monitoraggio da parte di ogni singola
banca e disincentiva alle migliori
pratiche di valutazione del merito di credito. A fronte dei maggiori rischi percepiti dalla banca,
si fa spesso ricorso ad una maggior richiesta di garanzie, spesso
concesse anche dai consorzi fidi.
(5) Secondo la terminologia utilizzata negli Usa, l’investimento
in capitale di rischio è identificato come «attività di private
equity», suddivisa poi, in funzione della tipologia di operatore
che la pone in essere, tra venture
capital e private equity. La differenza risiede nel fatto che con il
termine venture capital si fa generalmente riferimento agli investimenti effettuati in società di
piccole o piccolissime dimensioni
e a investimenti ad elevato contenuto innovativo e tecnologico,
mentre con i termine private
equity non si fanno distinzioni dimensionali o qualitative dell’azienda target. È da aggiungere
che nella terminologia attualmente ricorrente, il venture capital si riferisce al finanziamento
dell’avvio di nuove imprese, mentre il private equity comprende
le operazioni di investimento
realizzate in fasi del ciclo di vita
delle aziende successive a quelle
iniziali. L’orizzonte temporale
medio di un investitore istituzionale varia tra i 3 e i 7 anni (generalmente 3-5 anni per venture
capitalist, 5-7 per operatori di
private equity).
(6) Ci si riferisce alle operazioni
orientate al cambiamento totale
della proprietà dell’impresa, sia
a favore di manager interni alla
stessa società (management buy
out) che di manager esterni (management buy in), con il frequente uso della leva finanziaria
come strumento di acquisizione
(leveraged buy out). Tali operazioni vengono generalmente raggruppate nella categoria dei
«buy out».
(7) Interventi che, senza andare
ad incrementare il capitale sociale dell’impresa, si pongono l’obiettivo di sostituire parte dell’azionariato non più coinvolto nell’attività aziendale.
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dell’impresa familiare in cui poche persone, collegate da vincoli di parentela o da solide alleanze, detengono una quota del capitale di rischio
sufficiente ad assicurare il controllo dell’impresa, condizionandone il consolidamento patrimoniale ed il suo sviluppo. Si osserva tuttavia una
tendenza, seppure ancora lenta, ad abbandonare
le forme giuridiche legate alle persone a favore
delle società di capitali, le quali rispondono meglio alle esigenze di limitazione della responsabilità, pur richiedendo un modesto capitale sociale,
che può restare vincolato nelle mani della famiglia, senza comportare una apertura all’ingresso
di soci terzi.
Un altro ricorrente carattere delle piccole imprese è dato dalla rudimentale gestione finanziaria e di tesoreria, soprattutto di tipo previsionale, che produce frequenti e repentini tensioni
nella liquidità, più velocemente risolvibili facendo ricorso al credito bancario di breve termine
(4) (più raramente di medio lungo termine), piuttosto che alla ricapitalizzazione.
A questi fattori di natura interna si aggiunge un
mercato dei capitali poco sviluppato ed efficiente,
sia nel versante dei mercati regolamentati sia per
quanto riguarda il private equity ed il venture
capital; questi ultimi si dimostrano scarsamente
inclini al rischio e tendenzialmente generalisti,
tali dunque da risultare inadeguati per svolgere
un ruolo propulsore, soprattutto nei confronti
delle imprese più innovative e in start-up.
Private equity
e venture capital (5)
L’investimento in capitale di rischio può avvenire
in ogni fase del ciclo di vita di un’impresa: il venture capitalist finanzia idee imprenditoriali
(seed financing) che sfociano nell’avvio di un’impresa (start-up), oltre a procurare risorse e competenze per finanziare i primi periodi di sviluppo
di nuovi business (first stage financing); gli operatori del private equity, invece, coprono fabbisogni finanziari legati alle fasi successive all’avvio dell’impresa, quindi la crescita, il consolidamento, le operazioni di ristrutturazione della
compagine sociale, oppure intervengono a supporto di problematiche fortemente critiche quali
ad esempio i fenomeni di passaggio generazionale. Essi possono intervenire per favorire l’acqui-
sto di partecipazioni da parte del management
dell’impresa o di un’altra impresa (management
buy out, management buy in (6)), oppure possono affiancare quei membri della compagine sociale che intendono continuare nella gestione
dell’impresa, per rilevare le quote di soci uscenti
(replacement capital (7)).
Quest’ultimo caso è particolarmente ricorrente
in un paese come l’Italia, dove sono ancora moltissime le imprese di tipo familiare. Quando alcuni membri della famiglia decidono di non proseguire l’attività d’impresa, spesso il problema di
come liquidare il socio uscente può essere estremamente delicato, sia per non turbare gli equilibri affettivi, sia per una concreta mancanza di risorse finanziarie necessarie per perfezionare la
liquidazione stessa (family buy out).
Gli investitori istituzionali possono anche intervenire nelle fasi di declino di un’impresa, in condizioni di crisi e tensioni finanziarie (turnaround
financing). Dietro le tensioni finanziarie si nascondono quasi sempre errori di natura strategica e industriale, che possono trovare rimedio
grazie all’intervento altamente professionale
dell’investitore istituzionale.
In ogni caso la presenza di un socio esterno può
rappresentare, soprattutto per le piccole e medie
imprese, un fattore di crescita culturale e l’occasione per il superamento dei vincoli che contraddistinguono il loro operato.
Il rapporto tra impresa e socio finanziario non si
esaurisce nel semplice investimento monetario
con apporto di denaro fresco, in quanto gli investitori istituzionali partecipano al successo delle
operazioni anche con consulenza e know-how.
Un ulteriore contributo è rappresentato dall’importante ruolo svolto dagli operatori del settore
nelle imprese che si impegnano ad affrontare
processi di crescita, con l’obiettivo prioritario
della quotazione in Borsa. La Borsa presuppone il rispetto di numerosi requisiti formali e sostanziali strettamente connessi con la trasparenza e l’informativa societaria. La presenza di un
investitore esterno comporta che l’impresa rispetti numerose regole comportamentali (in tema di trasparenza dei bilanci, ma soprattutto di
comunicazione rapida, formale ed efficace dei risultati aziendali) che rappresentano alcuni dei
requisiti dell’impresa quotata.
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Gli investitori istituzionali
in Europa
L’attività degli investitori istituzionali in capitale
di rischio ha come oggetto l’assunzione di partecipazioni, prevalentemente di minoranza, in imprese non quotate con elevate prospettive, al fine di accelerare e contribuire allo sviluppo
grazie all’apporto di capitali e di know-how,
per poi cedere dopo un periodo medio-lungo la
partecipazione, con l’obiettivo di realizzare cospicui capital gain.
Nel mondo anglosassone ed in altri paesi europei
si tratta di attività sviluppate da tempo; in Italia
una operatività professionale e sistematica - tale
da potersi configurare come settore autonomo
all’interno del sistema finanziario - è iniziata solo nella seconda metà degli anni ’80. Nel 1986 anno in cui nasce l’A.I.F.I. - associazione italiana
degli investitori istituzionali nel Capitale di Rischio - risultavano 15 investitori istituzionali, tutti costituiti sotto forma di società finanziarie. Attualmente il numero di operatori è cresciuto: oggi l’A.I.F.I. associa 106 soggetti, includendo società finanziarie, banche, fondi chiusi. Si tratta
tuttavia di una performance di crescita numerica che ci mantiene al di sotto di altri paesi europei, come Francia (216 operatori) e Germania
(176 operatori).
Se poi si mette a confronto il numero e l’ammontare degli investimenti effettuati sulle imprese
da parte degli operatori istituzionali, l’Italia è superata anche dalla Spagna (tavola 2) (8).
Fermo restando la già osservata ostilità delle im-
prese italiane - soprattutto minori - verso l’intervento di investitori istituzionali, non si può non
sottolineare che anche dal lato dell’offerta, gli
operatori italiani nel capitale di rischio non sono
ancora totalmente pronti a competere con i colleghi dei principali paesi europei.
Il mercato italiano del private
equity e venture capital
Il mercato italiano del settore ha superato i 3 miliardi di euro, distribuiti su 281 operazioni (9).
La maggior parte delle risorse investite è confluita nelle operazioni di buy out (2.401 milioni
di euro), contro i 413 utilizzati in operazioni di
expansion (10), 221 nel replacement e 30 nell’early stage. Con riferimento al numero di operazioni, le più diffuse sono state quelle di expansion (135 operazioni), seguite da quelle di
buy out (75), early stage (56) e replacement
(15).
La distribuzione del numero di investimenti per
dimensione d’impresa, evidenzia una forte concentrazione (78%) su aziende piccole e medie, caratterizzate da un numero di addetti inferiore alle 250 unità.
Malgrado un tendenziale sviluppo del fenomeno,
un’indagine del Gruppo Bancario Capitalia (11)
mostra che nel triennio 2001-2003, le imprese
manifatturiere per le quali sono state sottoscritte quote di capitale di rischio da parte di operatori finanziari, sono state solo lo 0,8%, cui va aggiunto un altro 1% di imprese che hanno ceduto
quote di capitale ad operatori privati non finan-
Tavola 2 - Numero di investimenti e ammontare investito (euro mln) (anno 2005)
(8) L’Inghilterra, non inserita fra
i paesi qui analizzati, dimostra
delle performance di gran lunga
superiori: nel 2004 si registravano circa 3.000 investimenti, con
un ammontare investito superiore a 20.000 mil. euro.
(9) Fonte AIFI, in collaborazione
con Price Waterhouse Coopers.
(10) Investimenti in capitale di
rischio finalizzati a supportare la
crescita e l’implementazione di
programmi di sviluppo in aziende già esistenti.
(11) Gruppo Bancario Capitalia,
Indagine sulle imprese italiane,
Ottobre 2005.
Fonte: Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital
17
18
(12) La riforma del diritto societario in Italia scaturita dalla
Commissione Vietti (d.lgs. 17
gennaio 2003, nn. 5 e 6 in attuazione della legge delega n.
366/2001, d.lgs. n. 61/2002), è stata volta a completare la riforma
avviata con la Legge Draghi, ovvero il d.lgs n. 58/1998 contenente il testo unico delle disposizioni
in materia di intermediazione finanziaria.
(13) Fra queste clausole vi sono:
a) ampio uso di convertible preferred shares (un ibrido fra azioni con diritto di voto, azioni privilegiate e obbligazioni) che consentono al venture capitalist di
lasciare in mano al titolare la
maggioranza del capitale sociale
e quindi la certezza del controllo,
garantendosi al tempo stesso effettivi poteri di intervento gestionale e il diritto alla ripartizione dei benefici pecuniari da eventuale quotazione in borsa; b) poteri di nomina e revoca degli amministratori senza rischi di future azioni di responsabilità o azioni penali per bancarotta in caso
di insuccesso; c) clausole che garantiscano il venture capitalist
da situazioni di illiquidità nel momento dell’uscita dall’investimento.
(14) Legge 317/1991 - Capo VI Art. 35. Prestiti partecipativi. 1.
(...) 2. Si considerano prestiti
partecipativi i finanziamenti di
durata non inferiore a quattro
anni, nei quali una parte del corrispettivo spettante all’istituto di
credito mobiliare o alla società finanziaria per l’innovazione e lo
sviluppo è commisurata al risultato economico dell’impresa finanziata. 3. Per i prestiti partecipativi è dovuto un interesse annuo non superiore al tasso ufficiale di sconto vigente nel periodo al quale si riferiscono le rate
di ammortamento del prestito.
L’impresa finanziata si obbliga,
inoltre, a versare annualmente al
soggetto finanziatore, entro
trenta giorni dall’approvazione
del bilancio, una somma commisurata al risultato economico dell’esercizio, nella percentuale concordata preventivamente con l’istituto di credito mobiliare o la
società finanziaria per l’innovazione e lo sviluppo. Nel conto dei
profitti e delle perdite dell’impresa finanziata, la predetta
somma costituisce oggetto di
specifico accantonamento per
onere, rappresenta un costo e, ai
fini dell’applicazione delle imposte sui redditi, è computata in diminuzione del reddito dell’esercizio di competenza. Ad ogni effetto di legge gli utili netti annuali si
considerano depurati da detta
somma. 4. I prestiti partecipativi
possono essere assistiti soltanto
da garanzie personali, individuali o collettive, alle quali si applica
(segue)
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ziari. In chiave previsionale, solo 1,4% delle imprese manifatturiere prevede di cedere nei prossimi tre anni quote minoritarie di capitale di rischio ad operatori finanziari. Migliore è la situazione nel comparto servizi: nel triennio considerato, sono 2,7% le imprese che hanno ceduto una
quota di capitale di rischio, mentre 3,5% intende
operare in questa direzione nei prossimi tre anni.
Giocano contro lo sviluppo del private equity e
del venture capital, una serie di barriere: le
PMI frappongono soprattutto motivazioni di carattere interno, mentre sul versante dell’offerta
ha peso un quadro normativo che, almeno fino all’entrata in vigore della riforma del diritto societario (12), non ha favorito l’adozione di modalità
partecipative per i venture capitalist, tali da porre un corretto rapporto tra proprietario e manager, riducendo i rischi di moral hazard da parte
del gruppo di controllo (13).
L’utilizzo di strumenti semi-equity
Gli strumenti semi-equity presenti nella realtà
italiana sono essenzialmente due: i prestiti partecipativi e il debito subordinato.
I prestiti partecipativi hanno avuto origine in
Italia con la legge 317/91 (14), ma la loro diffusione è avvenuta soprattutto negli ultimi anni,
anche grazie all’attivazione di fondi pubblici nell’ambito di misure di politica industriale dei territori. L’obiettivo di rafforzare patrimonialmente
le imprese e di accelerare il processo di capitalizzazione viene perseguito attraverso apporti monetari da parte dei soci, con fondi prestati dalla
banca a titolo di prestito partecipativo, spesso
garantiti dai confidi.
Nella maggior parte dei casi la remunerazione
del prestito si articola su due componenti:
• La prima, di natura fissa (tasso minimo garantito), unisce ad un tasso di riferimento
(Euribor) uno spread commisurato al rischio
della controparte;
• La seconda, a carattere variabile, viene parametrata sulla performance dell’impresa finanziata.
L’aspetto innovativo deriva dall’intervento diretto dei soci, i quali attraverso versamenti periodici in «conto futuro aumento di capitale sociale»
forniscono all’impresa i mezzi necessari per la
restituzione della quota capitale del prestito. Essi, versando alle scadenze stabilite i mezzi necessari per effettuare il pagamento delle rate, contribuiscono al rimborso del prestito, ed una volta
completato questo, all’aumento del valore nominale del capitale.
Non essendo assistito da garanzie sul patrimonio
aziendale, il prestito partecipativo si caratterizza
anche per essere una forma di finanziamento basato sostanzialmente sulle capacità di rimborso
dell’impresa.
I finanziamenti di tipo mezzanino (debito subordinato) (15) presentano elementi di specificità
che li collocano in una posizione intermedia tra il
debito senior e il capitale di rischio.
Negli Stati Uniti le caratteristiche di elevata
flessibilità proprie del mezzanine finance, che
consentono di adattare la struttura del prestito
alle specifiche esigenze dell’impresa finanziata,
ne fanno uno strumento di debito impiegato prevalentemente a favore di imprese di medio-piccole dimensioni. In Europa, l’impiego del mezzanine finance si è sviluppato con un certo ritardo
ed ha incontrato una diffusione meno ampia rispetto al mercato americano. Se si prescinde dal
caso britannico, nel resto d’Europa il mercato
delle operazioni di buy out, a cui il debito subordinato risulta strettamente correlato, appare ancora in una fase iniziale.
È tuttavia indubbio che il mercato europeo presenti ancora significative potenzialità di sviluppo. La sua attività, oltre che dai processi di privatizzazione e ristrutturazione in atto, deriva anche dalla necessità, per molte imprese famigliari, di risolvere i problemi connessi alla successione (16). Problema molto sentito in Italia, dove la
maggior parte delle piccole e medie imprese presenta una gestione familiare ed un accentramento del capitale e del potere nelle mani di pochi
soggetti proprietari. Malgrado ciò, le operazioni
di buy out sono ancora molto ridotte per numero
ed importo (17) e tanto più la loro componente di
debito subordinato (una decina di operazioni all’anno), che risulta inferiore a quella di altri paesi europei.
Lo scarso utilizzo in Italia di strumenti di mezzanine finance, può essere ricondotto ad una serie di fattori. Oltre alla nota chiusura degli imprenditori verso investitori terzi, uno dei princi-
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pali ostacoli - comune a tutte le attività impegnate a fornire capitale di rischio - deriva dalla
mancanza di veloci e profittevoli vie di uscita
dall’investimento. Il collocamento attraverso la
quotazione sul mercato borsistico è ancora poco
frequentato e la trattativa privata rappresenta
“
Secondo le indagini della borsa italiana, sono circa
1.200 le società che possiedono le «caratteristiche
necessarie per la quotazione», ma sono soltanto 250
quelle che dichiarano di volersi quotare «prima o poi».
”
(continua nota 14)
l’articolo 1946 del codice civile.
Ad integrazione di tali garanzie è
consentito l’intervento del Fondo
centrale di garanzia di cui all’articolo 20 della legge 12 agosto
1977, n. 675, e successive modificazioni. La garanzia integrativa
non opera per la parte dei prestiti partecipativi che ecceda il triplo del patrimonio netto dell’impresa finanziata. 5. (...).
(15) Furono introdotti negli Stati
Uniti durante gli anni ’80, a seguito del forte sviluppo delle
operazioni di ristrutturazione
aziendale.
(16) Il problema successorio è
presente in molte imprese europee. Una ricerca mette in evidenza che il desiderio di mantenere
nelle mani della famiglia fondatrice il controllo dell’impresa è
molto diffuso (Gran Bretagna
32%, Germania 57%, Italia 63%,
Spagna 74%); tuttavia solo il 30%
transita alla seconda generazione e solo il 10% arriva alla terza.
(17) Le operazioni hanno riguardato per lo più aziende di media
dimensione, soprattutto appartenenti ad un gruppo.
(18) Mirco Leonelli, Fra piccole e
medie imprese e Borsa un rapporto a volte difficile, Incontri, n.
85/2005. Antonella Olivieri, Più
crescita quando la Pmi va in
Borsa, Il Sole 24 Ore, 9 giugno
2005.
ancora la via d’uscita maggiormente utilizzata,
ancorché più ricca di incertezze e di asimmetrie
sia sul versante della domanda che dell’offerta.
Inoltre, mancando l’Italia di organismi specializzati, le poche operazioni vengono sviluppate da
investitori esteri, la cui operatività è spesso ostacolata dalla necessità di risolvere notevoli problemi di natura fiscale e giuridica, con un conseguente incremento dei costi.
Ulteriori impedimenti vengono a volte dalla difficoltà di convivenza, nell’ambito della stessa
struttura finanziaria, tra banche e finanziatore
mezzanino. Il problema risulta accentuato dalla
consuetudine di utilizzare, nel ruolo di finanziatore senior, un pool di banche, generando diversità di ottiche valutative e non infrequenti conflitti di interesse.
Un altro elemento in grado di incidere negativamente deriva dal rapporto tra debito e capitale di
rischio, normalmente imposto alle banche italiane per intervenire. La richiesta di un apporto di
capitale di rischio da parte dell’equity investor
posizionato su percentuali comprese tra il 30 e il
40% del valore dell’operazione, fa sì che i margini a disposizione per l’utilizzo del debito subordinato si riducano ulteriormente.
La quotazione in Borsa
delle PMI italiane
In Italia il ricorso al mercato ufficiale dei capitali rimane ancora una prassi scarsamente diffusa,
tanto più fra le imprese di minore dimensione
(18), ove la cultura proprietaria tipicamente familiare, non permette di apprezzare a fondo i
19
vantaggi offerti dalla quotazione di borsa, che sono colti solo da un gruppo selezionato di «anticipatori».
Secondo le indagini della borsa italiana, sono circa 1.200 le società che possiedono le «caratteristiche necessarie per la quotazione» [Banca d’Italia 2003], ma sono soltanto 250 quelle che dichiarano di volersi quotare «prima o poi».
La già citata analisi del Gruppo Bancario Capitalia, fornisce risultati analoghi circa la scarsa
propensione delle imprese manifatturiere italiane, e soprattutto delle classi dimensionali inferiori, a ricorrere alla quotazione in Borsa (Tavola 3).
La tavola mostra che le imprese manifatturiere
che intendono essere quotate sono appena 1%, in
calo rispetto ai periodi precedenti. Fra queste,
sono proprio le imprese più piccole a mostrare
una minore propensione (0,85%) anch’essa in calo nel tempo.
Ma perché tante piccole e medie imprese «quotabili» restano riluttanti, privandosi di opportunità di sviluppo? Forse per la scarsa fiducia nel
mercato azionario e nelle sue regole di funzionamento, forse per gli eccessivi adempimenti burocratici e costi che la quotazione comporta, forse
per una incompleta comprensione dei vantaggi
che l’accesso alla borsa consente di ottenere? La
risposta a queste domande condiziona fortemente la possibilità di superare - ove lo si consideri
veramente importante - il fenomeno del «nanismo» delle imprese italiane.
Che cosa fare?
L’analisi fin qui condotta mostra da una parte la
carente capitalizzazione delle PMI italiane e dall’altra la resistenza che gli imprenditori proprietari dimostrano verso l’ingresso di nuovi soci, soprattutto investitori istituzionali.
Non riteniamo che la via per una soluzione possa
essere quella dell’attesa fatalistica di un cambiamento della cultura imprenditoriale, ma neppure
siamo convinti che possano essere efficaci delle
formule pre-confezionate, ancorché risultate utili in altri contesti.
L’obiettivo, nel prosieguo di questo articolo, è
quello di presentare un repertorio di pratiche,
suggerite dalle politiche della Commissione Europea o già adottate da paesi dell’Europa, con
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l’obiettivo di trovare elementi di riflessione/azione, utili agli operatori - sia imprenditoriali sia finanziari - per individuare le motivazioni di
cambiamento in una logica di equilibrio fra oneri e benefici.
Policy framework e strumenti
dell’Unione Europea
Le politiche comunitarie in materia di PMI e di
loro patrimonializzazione si focalizzano su:
• miglioramento delle condizioni di struttura,
attraverso la rimozione degli ostacoli alla crescita e sviluppo dei mercati finanziari, soprattutto in quei paesi che presentano un basso livello di patrimonializzazione aziendale e di
bank lending;
• focalizzazione dell’attenzione sull’early-stage
financing, in particolare le garanzie e il microcredito. L’offerta di garanzie, in quanto
condivisione del rischio di credito tra l’istituzione pubblica e l’istituzione finanziaria privata, agevola l’ottenimento di credito delle PMI
da parte del settore bancario. Interessanti sono anche gli sviluppi del microcredito, soprattutto in fase di start-up;
• aumento della patrimonializzazione delle
PMI. La leva principale è stata individuata
nell’incoraggiamento al reinvestimento in
azienda degli utili non distribuiti (autofinanziamento); pertanto il diritto tributario nazio-
nale deve studiare metodi per incentivare il
re-investimento degli utili nell’attività dell’impresa.
Il perseguimento degli obiettivi passa attraverso
una fattiva collaborazione fra organismi pubblici
comunitari ed istituzioni private, con il coinvolgimento diretto delle banche, dei fondi di venture
capital e di altri soggetti quali i business angel,
come congegnato dagli strumenti finanziari della Unione Europea, ed in particolare dal FEI e
dalla BEI.
Il FEI - Fondo Europeo per gli Investimenti - è
un’istituzione europea incaricata di supportare
la creazione, la crescita e lo sviluppo delle piccole e medie imprese, operando soprattutto nella
partecipazione al capitale di rischio e nella prestazione di garanzie. Non è un istituto di credito
e non concede prestiti o sovvenzioni direttamente alle imprese: opera attraverso banche e altri
soggetti d’intermediazione finanziaria, avvalendosi dei propri fondi o di quelli affidatigli dalla
BEI o dall’Unione Europea.
La BEI - Banca Europea per gli Investimenti ha lo scopo di sostenere gli obiettivi dell’Unione
Europea, fornendo finanziamenti a lungo termine per specifici progetti di investimento e contribuire in tal modo ad una maggiore integrazione
e coesione socio-economica dei paesi membri.
Essa finanzia unicamente progetti di grandi dimensioni, dei quali tuttavia le PMI possono be-
Tavola 3 - Imprese manifatturiere che intendono farsi quotare in borsa per classi di addetti.
Anni 1997-2003 (valori in percentuale)
Fonte: Elaborazioni Capitalia su dati Banca d’Italia
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neficiare indirettamente (ad esempio incubatori,
parchi scientifici, dispositivi di garanzia, ecc).
Mediocredito Centrale in Italia
Il Mediocredito Centrale fornisce assistenza,
consulenza e sostegno ai programmi di investimento finalizzati alla crescita della piccola e media impresa italiana, anche per l’eventuale
espansione sui mercati esteri.
Per quanto riguarda gli interventi sul capitale di
rischio, MCC opera mediante la concessione di
anticipazioni finanziarie pubbliche a banche e intermediari finanziari, finalizzate all’acquisizione
di partecipazioni temporanee o di minoranza. Le
principali organizzazioni convenzionate sono:
• B. Group S.p.A.;
• Banco di Brescia S.p.A.;
• Investimenti per lo Sviluppo SGR S.p.A.;
• Galileo SGR S.p.A.;
• Creaimpresa S.p.A.;
• Quantica SGR S.p.A.
«Banque du Developpement
des PME» in Francia
La Bdpme ha la forma giuridica di holding, che
detiene partecipazioni in Cepme (Crédit d’èquipement des petites et moyennes enterprises) ed
in Sofaris (Societé française de garantie des financements des petites et moyennes enterprises).
La missione della «Banque du développement
des Pme» si basa sul principio della condivisione
del rischio, intervenendo in congiunzione con il
sistema bancario, sia facendosi carico di parte
del finanziamento, sia garantendo parte del rimborso del prestito.
Attraverso i fondi di garanzia pubblici, la Bdpme
prende su di sé una parte del rischio finanziario
insieme all’impresa e alle sue banche. In questo
modo il rischio risulta solo parzialmente condiviso, in modo che sia il capo d’impresa sia il suo
banchiere si sentano comunque responsabili nello svolgimento del progetto di sviluppo.
Da sottolineare che la Bdpme risponde anche alle esigenze di consolidamento della struttura finanziaria delle PMI in fase di forte crescita, per
sostituire ed aumentare i loro fondi attraverso la
predisposizione di specifici «contratti di sviluppo». Questi prodotti, riservati ad imprese minori
21
esistenti da almeno due anni e con un programma di sviluppo, prevedono la concessione di un
prestito per sei anni senza alcuna garanzia reale
o personale. I contratti di sviluppo sono destinati al finanziamento di investimenti in immobilizzazioni immateriali, oltre che all’aumento delle
disponibilità di capitale circolante. Si tratta di
strumenti di finanziamento semi-equity a favore
di PMI sane e ambiziose, che non desiderano o
non possono aprire il proprio capitale a terzi.
Deutsche Ausgleichsbank
in Germania
La DtA è un istituto finanziario di diritto pubblico, focalizzato sul supporto alla costituzione di
nuove aziende ed iniziative di autoimpiego imprenditoriale; essa è in grado di offrire una gamma di prodotti «ad hoc» per tutti gli stadi di sviluppo di un’impresa, fino alla quotazione in borsa. Offre consulenza pre-investment e seed-financing, crediti destinati a chi desidera mettersi in proprio e prestiti partecipativi. Essa stessa
partecipa al rischio o lo condivide con la hausbank dell’impresa. Inoltre, tramite la controllata Tbg, dispone di una delle principali società di
venture capital in Europa.
La DtA non è una banca tradizionale ed è priva
di sportelli sul territorio. I circa 800 dipendenti
della banca provvedono ad evadere, in media entro una settimana, ogni richiesta di credito. Il
processo decisionale riesce ad essere veloce ed
efficiente, perché viene realizzato nell’ambito di
una stretta collaborazione con il mondo delle
banche e delle casse di risparmio, le cosiddette
hausbank. Nella promozione degli start-up, ad
esempio, la hausbank, da un lato è tenuta a garantire una quota del finanziamento con mezzi
propri, dall’altro ha la possibilità di rifinanziare
fino all’80 per cento del credito complessivo residuo ricorrendo alle risorse della DtA. Questo
rapporto complementare viene chiamato «Principio della Hausbank» e mira a evitare qualsiasi
forma di concorrenza.
In particolare, la banca offre prestiti a tassi agevolati legati a determinati programmi, mette a
disposizione risorse finanziarie sotto forma di
equity, offre capitali da investire in giovani
aziende operanti in campo tecnologico, riduce il
rischio delle hausbank concedendo garanzie e fi-
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deiussioni e offre una vasta gamma di servizi di
consulenza.
I nuovi secondi mercati in Europa
La creazione di nuovi secondi mercati coglie un
elemento fondamentale dell’attuale dibattito sulla ricapitalizzazione delle piccole e medie imprese. Un dibattito che ha coinvolto i soggetti più
autorevoli: la Commissione Europea, mossa dalla constatazione della centralità delle piccole-medie imprese (19); l’Evca (European Venture Capital Association), spinta dall’esigenza di trovare forme di smobilizzo (exit o way out) delle
partecipazioni assunte dai venture capitalist; le
varie istituzioni nazionali competenti in materia
di gestione e organizzazione di mercati mobiliari
(London Stock Exchange, Société des Bourses
Françaises, etc.).
Dalla seconda metà degli anni novanta, forse
sulla scia del successo registrato dallo statunitense Nasdaq, si è assistito alla creazione in Europa di quattro nuovi mercati destinati ad imprese di dimensioni medio-piccole con elevate
prospettive di crescita (l’Alternative Investment Market, il Nouveau Marché, l’Easdaq, il
Neuer Markt).
Fra tutte le esperienze appena citate, ci sembra
di particolare interesse quella dell’Alternative
Investiment Market, il second market britannico
che ha il pregio di abbattere molti degli ostacoli
che si frappongono alla quotazione delle PMI, e
quindi verso un approccio risolutivo - almeno nel
contesto anglosassone - dei problemi di sotto-patrimonializzazione delle PMI.
Alternative Investment Market
(AIM)
(19) Commission of the European Communities, Creation of
an European Capital Market for
Entrepreneurially
Managed
Growing SMEs, European Commission Communication, Bruxelles, 27 ottobre 1995.
(20) Il Model Code richiede che
le società quotate all’AIM impongano restrizioni specifiche e
ulteriori rispetto a quelle imposte dalla normativa anti-insider
trading, a carico sia degli amministratori che degli alti dirigenti
relativamente alla possibilità di
negoziare azioni della società in
particolari circostanze.
Il sistema finanziario britannico si caratterizza,
oltre che per un forte orientamento al mercato,
per un elevato grado di dinamicità e di apertura
alle innovazioni ed alle sperimentazioni.
Al fine di colmare il vuoto provocato dalla chiusura dell’Unlisted Securities Market nel segmento dei secondi mercati, il London Stock Exchange avviò, agli inizi del 1995, il progetto Alternative Investment Market, sulla scorta dell’esperienza accumulata e alla luce delle esigenze
finanziarie manifestate dalle piccole e medie imprese britanniche.
L’AIM è un mercato orientato verso imprese
giovani ed in fase di crescita, che intendono raccogliere mezzi finanziari a titolo di capitale di rischio, necessari per l’attuazione dei progetti di sviluppo. Il range delle società potenzialmente quotabili è molto ampio e si estende dalle società operanti in settori emergenti o hi-tech fino ad imprese appartenenti a settori più tradizionali e stabili.
L’ammissione al mercato è subordinata al rispetto di poche e semplici condizioni, che rispecchiano la filosofia di fondo che ispira questo mercato:
snellezza e trasparenza. Esistono tuttavia dei
requisiti di accesso che devono essere soddisfatti
dalla società emittente già dal momento dell’ammissione:
• designare un nominated adviser ed un nominated broker;
• essere legalmente costituita in forma di società di capitali;
• aver pubblicato bilanci conformi ai principi
contabili britannici, statunitensi ovvero internazionali;
• assicurare la libera trasferibilità dei titoli negoziati;
• adottare un codice di comportamento equivalente al Model Code per le negoziazioni di titoli effettuate da chi è in possesso di informazioni riservate (20).
Un aspetto che riteniamo particolarmente qualificante, è relativo alla presenza obbligatoria di
due soggetti (nominated adviser e nominated
broker), che hanno al contempo un ruolo di «garanti» nei confronti dell’AIM e di «consulenti» a
favore dell’impresa.
Il nominated adviser svolge un’attività di assistenza e consulenza, fornendo un ausilio concreto per la comprensione e il rispetto delle regole
di accesso al mercato. Il nominated adviser assiste l’impresa durante il processo di ammissione alla quotazione, nonché nelle fasi preliminari,
illustrando ai vertici della società le responsabilità e le opportunità connesse all’ammissione all’AIM. In particolare, il nominated adviser deve
assicurare, fornendo un’apposita certificazione
che le prescrizioni e gli obblighi previsti sono
stati rispettati (due diligence) e che il management della società è pienamente consapevole
delle obbligazioni e delle responsabilità che si
assume. Egli si impegna, inoltre, ad assistere in
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via continuativa la società nella comprensione e
nell’adempimento delle regole del mercato.
La criticità del ruolo svolto dal nominated adviser si comprende ancora meglio considerando
che non è previsto alcun esame della domanda da
parte degli organi di mercato: l’ammissione all’AIM è subordinata esclusivamente alla presenza di un nominated adviser che assicuri il rispetto dei requisiti previsti, svolgendo anche la
funzione di controllore.
Il ruolo di nominated adviser può essere svolto
soltanto da intermediari in possesso di rigorosi
requisiti di professionalità, competenza ed esperienza, comprovati dall’iscrizione in un apposito
albo (register of nominated adviser), tenuto dal
London Stock Exchange.
Oltre al nominated adviser, il regolamento dell’AIM richiede la presenza di un intermediario
abilitato dal London Stock Exchange, che agisce
in veste di nominated broker per ciascuna socie-
“
Le procedure di ammissione all’AIM sono
caratterizzate, in linea con la filosofia del mercato, da
elevata snellezza e flessibilità. Basti dire che la domanda
di ammissione al mercato può essere presentata con soli
dieci giorni di anticipo rispetto alla data di inizio delle
negoziazioni desiderata dalla società emittente.
”
(21) I membri del Lse sono le
maggiori società di intermediazione finanziaria operanti nel Regno Unito e munite di autorizzazione all’esercizio dell’attività di
negoziazione. Queste, oltre ad
aver inizialmente sottoscritto
una quota del capitale, corrispondono all’Exchange un contributo annuale fisso e una somma variabile a titolo di diritti di
negoziazione commisurata al numero di transazioni effettuate e
ai servizi accessori e di supporto
usufruiti nel corso dell’anno. I
principali requisiti da soddisfare
per essere ammessi al Lse riguardano le competenze, l’esperienza e le risorse (patrimoniali e
non) possedute dall’impresa in
relazione a quelle richieste dalla
funzione che si intende svolgere.
Per approfondimenti si veda:
London Stock Exchange, Aim: a
guide for advisers and brokers,
Londra, 1996.
tà quotata. Questa figura presta un servizio di
supporto alle negoziazioni, operando al fine di
agevolare l’incontro tra la domanda e l’offerta di
azioni della società quotata. Il compito principale del nominated broker consiste nel favorire la
liquidità dei titoli emessi dalla società; in particolare, il servizio di supporto alle negoziazioni si
concretizza in due tipi di obblighi:
• agevolare l’incrocio degli ordini di segno opposto;
• fornire una serie di informazioni al mercato
attraverso il sistema di negoziazione Seats
Plus.
L’impegno connesso all’adempimento del primo
obbligo non prevede responsabilità specifiche a
carico del nominated broker. Relativamente al
secondo tipo di compiti, il nominated broker deve diffondere una serie di informazioni relative
23
alla società quotata. Questi dati, costantemente
aggiornati, vengono immessi nel circuito Seats
Plus e includono informazioni relative a:
• numero di azioni emesse;
• percentuale di azioni diffuse tra il pubblico
(flottante);
• volumi storici negoziati;
• reddito netto della società quotata;
• date previste per l’annuncio dei risultati annuali e periodali;
• dividendi.
L’intermediario agente in veste di nominated
broker, che può essere al tempo stesso anche nominated adviser, deve essere membro del London Stock Exchange (21).
Le procedure di ammissione all’AIM sono caratterizzate, in linea con la filosofia del mercato, da
elevata snellezza e flessibilità. Basti dire che la
domanda di ammissione al mercato può essere
presentata con soli dieci giorni di anticipo rispetto alla data di inizio delle negoziazioni desiderata dalla società emittente.
L’estrema velocità della procedura è assicurata
dalla circostanza che gli organi di borsa non esaminano la domanda di ammissione né il contenuto del prospetto informativo, ma si limitano a verificare la sussistenza degli impegni del nominated adviser e del nominated broker.
Viceversa, sono previsti stringenti obblighi destinati ad assicurare al mercato un flusso informativo costante e affidabile, finalizzato a rendere le negoziazioni e i prezzi trasparenti ed efficienti.
Le informazioni richieste dal regolamento AIM
devono essere immediatamente inviate al Lse,
per la pubblicazione sul Regulatory News Service (Rns). Questo servizio, che svolge la funzione
di bollettino ufficiale del mercato, viene fornito
dal London Stock Exchange ai principali information provider che, a loro volta, diffondono
l’informazione al mercato. Al fine di evitare la
circolazione di notizie false, che potrebbero offuscare il processo di formazione dei prezzi, il Rns
anzitutto verifica la fonte delle informazioni e solo successivamente le immette sul mercato attraverso la rete telematica.
Nel caso di mancata diffusione di informazioni
obbligatorie, il London Stock Exchange può
multare o diffidare la società emittente, ovve-
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ro, in alternativa o in aggiunta, può pubblicare
autonomamente tali informazioni. Per le omissioni più gravi, la sanzione può arrivare fino alla sospensione delle negoziazioni o alla cancellazione dal listino, ovvero, nei casi di società
quotande, all’interruzione della procedura di
ammissione.
Considerazioni finali
L’AIM si è distinto per vivacità degli scambi, volumi trattati, numero di imprese quotate: tutti i
frutti della diffusa cultura del mercato, che è
presente ad ogni livello del sistema economico
britannico.
Pur coscienti che le esperienze non sono trasfe-
ribili tout court, vogliamo tuttavia sottolineare
che il circuito paneuropeo appare dotato di uno
spirito imprenditoriale adatto ad un futuro scenario di concorrenza tra mercati mobiliari, favorito peraltro dalla diffusione della moneta comune Euro.
A carattere più strumentale, ci sembra di poter
osservare che l’introduzione anche in altri paesi
di esperienze sul modello AIM, potrebbe essere
molto utile, quantomeno per cercare di dare un
ruolo chiaro e ben identificato a quei soggetti fra cui in particolare i business angels - che ancora non hanno trovare una collocazione adeguata nel settore della strumentazione finanziaria
sul capitale di rischio nelle PMI.