Consiglio Stato a. plen., 20 aprile 2006, n. 7 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n. 2755/2005 (n. 26/2005 Adunanza Plenaria) proposto da Alberto Carabelli rappresentato e difeso dall'avv. Giovanni Malinconico, presso il quale è elettivamente domiciliato in Roma alla via delle Tre Madonne n. 20, presso lo studio Valentini; contro Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma in persona del legale rappresentante p.t. rappresentato e difeso dall'avv. Enrico Dante, presso il quale è elettivamente domiciliato in Roma alla via Lucrezio Caro n. 12; e nei confronti di Crespi Cesare e Rossi Angelo rappresentati e difesi dall'avv. Vittorio Biagetti e Federico Cappella ed elettivamente domiciliati presso lo studio del primo in Roma via Antonio Bertoloni n. 35; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio sede di Roma sezione III n. 468 del 2004; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Ordine degli Ingegneri e dei controinteressati; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Alla Camera di Consiglio del 14 novembre 2005 relatore il Consigliere Filippo Patroni Griffi. Uditi altresì l'avv. Dumontel per delega dell'avv. Dante, l'avv. Biagetti e l'avv. Cappella; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: Inizio documento Fatto L'ing. Alberto Carabelli presentava al Consiglio dell'Ordine degli ingegneri di Roma un esposto nei confronti dei colleghi Cesare Crespi e Angelo Rossi, a seguito del quale l'Ordine avviava due distinti procedimenti disciplinari, conclusisi peraltro con il proscioglimento degli incolpati. Il Carabelli chiedeva allora l'accesso agli atti dei procedimenti, ma l'Ordine inviava all'istante solo una copia dello stralcio del verbale della seduta del Consiglio del 31 marzo 2003, recante il solo dispositivo. Seguivano varie istanze di accesso, riscontrate negativamente con note del 30 aprile (di ammissione all'accesso parziale) e del 3 giugno 2003 dall'Ordine; infine, questo, con nota del 3 settembre 2003, ribadiva il diniego di accesso. Avverso tale ultimo diniego, il Carabelli ha proposto ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, il quale, con sentenza 20 gennaio 2004 n. 468, lo ha respinto. Il Tribunale amministrativo, in particolare, ha ritenuto il ricorso tempestivo e ammissibile, in quanto, configurandosi il diritto di accesso come diritto soggettivo devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la mancata impugnazione di un precedente provvedimento di diniego non preclude la ritualità del successivo diniego alla reiterazione della medesima istanza. Il Tribunale amministrativo, peraltro, ha respinto l'impugnazione, sul rilievo che la qualità di autore dell'esposto, da cui trae origine la vicenda disciplinare nei confronti dei due controinteressati, è inidonea a radicare nell'istante la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante che lo legittimi all'accesso. Avverso la sentenza hanno proposto appello sia il Carabelli, sia, con ricorso incidentale, gli originari controinteressati ingegneri Crespi e Rossi, i quali hanno riproposto l'eccezione di tardività e inammissibilità del ricorso di primo grado, disattesa dal Tribunale amministrativo. Si è altresì costituito l'Ordine degli ingegneri, che resiste all'appello del Carabelli e condivide l'appello incidentale proposto dai coppellati. La Sezione VI di questo Consiglio di Stato, con ordinanza 7 giugno 2005 n. 2954, dopo aver manifestato perplessità sull'orientamento del primo giudice in ordine alla carenza nell'originario ricorrente di una situazione legittimante all'accesso, ha rimesso l'affare a questa Adunanza plenaria, in relazione alla questione, riproposta con l'appello incidentale, della inammissibilità della impugnazione proposta, a fronte di più dinieghi all'accesso, solo nei confronti dell'ultimo diniego, in mancanza di tempestiva impugnazione degli analoghi dinieghi precedentemente opposti. Le parti hanno prodotto memorie. All'udienza del 14 novembre 2005, la causa è stata trattenuta in decisione. Inizio documento Diritto 1. Come più diffusamente esposto in narrativa, l'appellante Carabelli, autore di un esposto nei confronti di due colleghi ingegneri da cui è scaturito un procedimento disciplinare conclusosi con l'archiviazione, ha presentato istanze di accesso, di medesimo contenuto, volte a ottenere copia degli atti dei procedimenti disciplinari. Tali istanze, per quanto in particolare rileva nella presente sede, dopo l'ammissione parziale all'accesso del 30 aprile 2003, sono state rigettate prima con nota del 3 giugno 2003, non impugnata, poi, a seguito della reiterazione della domanda, con nota del 3 settembre 2003, oggetto del presente giudizio, con la quale l'Ordine ha ribadito il diniego già opposto. Il Tribunale amministrativo, nel rigettare il ricorso: a) ha preliminarmente disatteso l'eccezione di tardività, affermando che la mancata impugnazione del precedente diniego e il carattere confermativo del diniego di cui è causa non determinano l'inammissibilità del ricorso, attesa la consistenza di diritto soggettivo del diritto di accesso; b) ha negato la titolarità, in capo all'appellante, di una posizione giuridicamente legittimante all'accesso agli atti dei procedimenti disciplinari, per la qualità di autore dell'esposto, da cui hanno tratto origine i detti procedimenti. L'ordinanza con la quale la Sezione VI ha rimesso l'affare a questa Adunanza plenaria: a) manifesta perplessità sulla statuizione concernente il difetto di legittimazione dell'istante; b) pur propendendo per la configurabilità del diritto di accesso in termini di diritto soggettivo, ritiene che il provvedimento di diniego all'accesso debba essere impugnato nel termine decadenziale di trenta giorni, con la conseguenza che dalla mancata impugnazione discende l'inammissibilità dell'impugnazione di un successivo diniego, meramente confermativo del primo. Va precisato che alla controversia in esame si applica la disciplina contenuta nel testo originario della legge 7 agosto 1990, n. 241, anteriore alla novella introdotta prima con legge 11 febbraio 2005, n. 15 e poi con d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80. Non si ritiene, ad ogni modo, che le conclusioni cui si perviene possano essere influenzate dalla novella legislativa, la quale, anzi, mutuando in parte precedenti acquisizioni giurisprudenziali, fornisce spunti argomentativi di rilevanza nella generale configurazione dell'istituto dell'accesso. 2. In primo luogo, l'Adunanza plenaria condivide l'assunto della Sezione remittente, secondo cui la qualità di autore di un esposto, che abbia dato luogo a un procedimento disciplinare, è circostanza idonea, unitamente ad altri elementi, a radicare nell'autore la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante che, ai sensi dell'articolo 22 della legge n. 241, legittima all'accesso nei confronti degli atti del procedimento disciplinare che da quell'esposto ha tratto origine. Più in particolare, la legittimazione all'accesso in capo all'appellante discende, nel caso in esame, dalla qualità di autore dell'esposto che ha dato origine al procedimento disciplinare e dalla concomitante circostanza che lo stesso appellante ha dato corso, per i medesimi fatti denunciati nella sede disciplinare, a un giudizio civile. Nella delineata situazione, da un lato, è da ritenere inconferente, al fine di escludere la legittimazione all'accesso, il rilievo del primo giudice concernente la (invero pacifica) estraneità dell'autore dell'esposto al procedimento disciplinare e la sua conseguente qualità di terzo rispetto al medesimo; dall'altro, appare non pertinente il richiamo operato dagli appellati alla decisione della Sezione IV, 8 luglio 2003, n. 4049, che ha riscontrato, relativamente a fattispecie diversa, l'assenza dell'elemento della concretezza dell'interesse all'accesso. Deve quindi ritenersi, a differenza di quanto statuito dal primo giudice, che l'appellante, nella situazione descritta, sia titolare di una posizione legittimante all'accesso agli atti dei procedimenti disciplinari. 3. Con l'appello incidentale, gli appellati ripropongono l'eccezione di inammissibilità del ricorso originario, conseguente alla mancata tempestiva impugnazione del precedente provvedimento di diniego e al carattere meramente confermativo del diniego impugnato nel presente giudizio. Per tale aspetto la Sezione VI ha rimesso l'affare a questa Adunanza plenaria, articolando la questione nei seguenti termini: a) il diritto di accesso sembra assumere, in particolare a seguito della novella legislativa introdotta dalle richiamate leggi nn. 15 e 80 del 2005, consistenza di diritto soggettivo e non di interesse legittimo, come in passato ritenuto dall'Adunanza plenaria con decisione 24 giugno 1999 n. 16; b) la consistenza di diritto soggettivo non esclude la natura decadenziale del termine per l'impugnazione del diniego (esplicito o tacito) di accesso, con la conseguenza che dalla mancata impugnazione del diniego discende l'inammissibilità dell'impugnazione del diniego successivo, avente carattere meramente confermativo di quello precedentemente opposto e consolidatosi. 4. Sin dall'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990 è stata dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, la natura giuridica del diritto di accesso. Questa Adunanza plenaria, con decisione 24 giugno 1999 n. 16, ha condiviso la tesi della configurabilità della posizione legittimante all'accesso in termini di interesse legittimo, sottolineando il collegamento della posizione del privato con l'interesse pubblico e facendo leva sulla struttura impugnatoria del giudizio. La questione nondimeno è rimasta aperta anche dopo l'intervento dell'Adunanza plenaria, rinvenendosi nella giurisprudenza di questo Consiglio, insieme a pronunce in linea con la decisione suddetta (V, 7 aprile 2004 n. 1969; V, 8 settembre 2003 n. 5034), decisioni che propendono ancora per la configurabilità dell'accesso in termini di diritto soggettivo (VI, 12 aprile 2005 n. 1679 e 27 maggio 2003 n. 2938). La tesi del diritto soggettivo fa leva essenzialmente sul carattere vincolato dei poteri rimessi all'amministrazione in sede di esame dell'istanza di accesso, poteri aventi ad oggetto la mera ricognizione della sussistenza dei presupposti di legge e l'assenza di elementi ostativi all'accesso. E si è, altresì, evidenziata la peculiarità dei poteri istruttori e decisori del giudice, i primi volti a valutare la sussistenza dei requisiti sostanziali che legittimano all'accesso (V, 11 maggio 2004 n. 2866), al di là delle ragioni addotte dall'amministrazione nell'atto, i secondi estesi all'imposizione all'amministrazione di un comportamento positivo consistente nell'adempimento dell'ordine giudiziale di esibizione dei documenti (art. 25, comma 6, della legge n. 241). La tesi del diritto soggettivo risulta corroborata - come sottolineato anche in dottrina - dall'inclusione del diritto di accesso nei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e politici ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione (art. 22, co. 2, legge n. 241, come modificato dalla legge n. 15 del 2005) e dalla riconduzione del giudizio in tema di accesso alla giurisdizione esclusiva di questo giudice (art. 25, comma 5, della legge n. 241, come modificato dalla legge n. 80 del 2005). Non sembra peraltro, che nella specie, rivesta utilità ai fini dell'identificazione della disciplina applicabile al giudizio avverso le determinazioni concernenti l'accesso, procedere all'esatta qualificazione della natura della posizione soggettiva coinvolta. L'accesso è collegato a una riforma di fondo dell'amministrazione, informata ai principi di pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa, che si inserisce a livello comunitario nel più generale diritto all'informazione dei cittadini rispetto all'organizzazione e alla attività amministrativa. Ed è evidente, in tale contesto, che si creino ambiti soggettivi normativamente riconosciuti di interessi giuridicamente rilevanti, anche in contrapposizione tra di loro: interesse all'accesso; interesse alla riservatezza di terzi; tutela del segreto. Trattasi, a ben vedere, di situazioni soggettive che, più che fornire utilità finali (caratteristica da riconoscere, oramai, non solo ai diritti soggettivi ma anche agli interessi legittimi), risultano caratterizzate per il fatto di offrire al titolare dell'interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi). Il carattere essenzialmente strumentale di tali posizioni si riflette inevitabilmente sulla relativa azione, con la quale la tutela della posizione soggettiva è assicurata. In altre parole, la natura strumentale della posizione soggettiva riconosciuta e tutelata dall'ordinamento caratterizza marcatamente la strumentalità dell'azione correlata e concentra l'attenzione del legislatore, e quindi dell'interprete, sul regime giuridico concretamente riferibile all'azione, al fine di assicurare, al tempo stesso, la tutela dell'interesse ma anche la certezza dei rapporti amministrativi e delle posizioni giuridiche di terzi controinteressati. Sotto tale punto di vista, il giudizio a struttura impugnatoria consente alla tutela giurisdizionale dell'accesso di assicurare la protezione dell'interesse giuridicamente rilevante e, al contempo, quell'esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di certezza delle posizioni dei controinteressati che si è visto essere pertinenti ai rapporti amministrativi scaturenti dai principi di pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa. Nel delineato contesto, il disposto legislativo (art. 25, commi 5 e 4) - che, rispettivamente, fissa il termine di trenta giorni (evidentemente decorrente dalla conoscenza del provvedimento di diniego o dalla formazione del silenzio significativo) per la proposizione dei ricorsi e qualifica in termini di diniego il silenzio serbato sull'accesso - pone un termine all'esercizio dell'azione giudiziaria da ritenere necessariamente posto a pena di decadenza, a meno di non volerne sostenere l'assoluta irrilevanza pur a fronte del chiaro tenore della norma e della sua coerenza con la rilevata esigenza di certezza, che, anzi, ha indotto il legislatore a delineare un giudizio abbreviato che mal si concilierebbe con la proponibilità dell'azione nell'ordinario termine di prescrizione. Ma il carattere decadenziale del termine reca in sé - secondo ricevuti principi, come inevitabile corollario - che la mancata impugnazione del diniego nel termine non consente la reiterabilità dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere meramente confermativo del primo. In altre parole, il cittadino potrà reiterare l'istanza di accesso e pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante, cioè della posizione legittimante all'accesso; e, in tal caso, l'originario diniego, da intendere sempre rebus sic stantibus, ancorché non ritualmente impugnato, non spiegherà alcun rilievo nella successiva vicenda procedimentale e processuale. Ma qualora non ricorrano tali elementi di novità e il cittadino si limiti a reiterare l'originaria istanza precedentemente respinta o, al più, a illustrare ulteriormente le sue ragioni, l'amministrazione ben potrà limitarsi a ribadire la propria precedente determinazione negativa, non potendosi immaginare, anche per ragioni di buon funzionamento dell'azione amministrativa in una cornice di reciproca correttezza dei rapporti tra privato e amministrazione, che l'amministrazione sia tenuta indefinitamente a prendere in esame la medesima istanza che il privato intenda ripetutamente sottoporle senza addurre alcun elemento di novità. Ne consegue che la determinazione successivamente assunta dall'amministrazione, a meno che questa non proceda autonomamente a una nuova valutazione della situazione, assume carattere meramente confermativo del precedente diniego e non è perciò autonomamente impugnabile. 5. Facendo applicazione degli esposti principi al caso di specie, deve ritenersi che il ricorso originario dell'odierno appellato sia inammissibile, perché proposto avverso il solo diniego di cui alla nota del 17 marzo 2005, da reputare meramente confermativo di quello precedente. Ne consegue che l'appello deve essere accolto e, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo, il ricorso di primo grado va dichiarato inammissibile. Il carattere pregiudiziale della questione risolta rende improcedibile l'ulteriore esame dell'appello principale. La complessità della questione trattata e i contrasti giurisprudenziali in ordine alla stessa inducono l'Adunanza plenaria a compensare tra le parti le spese del doppio grado. Inizio documento P.Q.M L'Adunanza plenaria delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato così statuisce: a) accoglie l'appello incidentale e, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo, dichiara inammissibile il ricorso di primo grado; b) dichiara improcedibile l'appello principale; c) compensa tra le parti le spese del doppio grado. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, riunito in Adunanza plenaria nella camera di consiglio del 14 novembre 2005 con l'intervento dei signori Magistrati: Alberto de Roberto Presidente del Consiglio di Stato Mario Egidio Schinaia Presidente della VI Sezione Paolo Salvatore Presidente della IV Sezione Raffaele Iannotta Presidente della V Sezione Sabino Luce Consigliere Raffaele Carboni Consigliere Costantino Salvatore Consigliere Filippo Patroni Griffi Consigliere estensore Giuseppe Farina Consigliere Corrado Allegretta Luigi Maruotti Carmine Volpe Pierluigi Lodi DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 20 APR. 2006. Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere Consiglio Stato a. plen., 24 giugno 1999, n. 16 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale(Adunanza Plenaria) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n. 7 del ruolo dell'Adunanza Plenaria (n. 10500 del 1997 del ruolo della Sesta Sezione), proposto dalla s.p.a. Autostrade Concessioni e Costruzioni Autostrade, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Oberdan Tommaso Scozzafava, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma, alla via G. Antonelli n. 15, CONTRO la signora Maria Rosaria Bove, rappresentata e difesa dagli avvocati Carlo Rienzi, Guglielmo Saporito e Paolo Montaldo, e domiciliata elettivamente in Roma, al viale delle Milizie n. 9, presso lo studio dell'avvocato Carlo Rienzi, PER LA RIFORMA della sentenza del TAR per il Lazio, Sez. II, 24 settembre 1997, n. 1559, e per la reiezione del ricorso di primo grado n. 9627 del 1997; Visto l'atto di appello con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'appellata, depositato in data 1? dicembre 1997, integrato da una memoria difensiva depositata in data 10 dicembre 1997; Vista l'ordinanza n. 332 del 25 marzo 1999, con cui la Sesta Sezione ha rimesso l'appello all'esame dell'Adunanza Plenaria; Vista la memoria depositata in data 25 maggio 1999 dall'appellante; Vista la memoria depositata in data 27 maggio 1999 dalla signora Bove, nonché la sua procura speciale alle liti, depositata in data 7 giugno 1999; Visti gli atti tutti del giudizio; Udita la relazione del Consigliere di Stato Luigi Maruotti, alla camera di consiglio del 7 giugno 1999; Uditi l'avvocato Guido Sirianni su delega dell'avvocato Oberdan Tommaso Scozzafava per la società appellante e gli avvocati Guglielmo Saporito e Paolo Montaldo per la signora Maria Rosaria Bove; Considerato in fatto e in diritto quanto segue: Inizio documento Fatto 1. La s.p.a. Autostrade Concessioni e Costruzioni Autostrade, in data 24 luglio 1995, ha invitato la signora Maria Rosaria Bove al pagamento di lire 6.300, non essendovi stato il pagamento del pedaggio autostradale di lire 1.300 in data 9 aprile 1995. In data 14 marzo 1997, la Ni.Vi.Credit (incaricata dalla s.p.a. Autostrade per il recupero del credito) ha inviato alla signora Bove un sollecito del pagamento, per l'importo complessivo di lire 18.200. 2. Con una domanda di data 22 aprile 1997, proposta ai sensi dell'art. 25 della legge 8 giugno 1990, n. 241, la signora Bove ha chiesto alla s.p.a. Autostrade ed alla Ni.Vi.Credit di avere copia: a) del contratto concluso tra la s.p.a. Autostrade e la Ni.Vi.Credit, riguardante il recupero del credito; b) della procura speciale a rogito notaio Castellini n. 6855; c) del rapporto di mancato pagamento, corredato del nome del responsabile del procedimento; d) della specifica delle somme ricevute, corredata dai documenti comprovanti la spesa effettuata per 'visione' e per 'spese sostenute'. Col ricorso n. 9627 del 1997, proposto al TAR per il Lazio, la signora Bove ha impugnato il silenzio serbato dalla s.p.a. Autostrade ed ha chiesto che le sia ordinato di rilasciare la copia dei documenti richiesti. Il TAR, con la sentenza della Seconda Sezione n. 1559 del 24 settembre 1997, ha accolto il ricorso ed ha compensato tra le parti le spese e gli onorari del giudizio. 3. Con l'appello in esame, la s.p.a. Autostrade ha chiesto che il ricorso di primo grado sia dichiarato inammissibile (per mancata notifica alla Ni.Vi. Credit) e che comunque esso sia respinto, perché infondato. La signora Bove si è costituita in giudizio ed ha chiesto che l'appello sia respinto. 4. La Sesta Sezione, con l'ordinanza n. 332 del 25 marzo 1999, ha rimesso l'appello all'esame dell'Adunanza Plenaria, rilevando un contrasto di giurisprudenza sulle seguenti questioni: a) se sia ammissibile il ricorso proposto ai sensi dell'art. 25 della legge n. 241 del 1990 e non notificato al controinteressato, ovvero se vada ordinata l'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 102 del codice di procedura civile; b) se possa esercitarsi il diritto d'accesso nei confronti dell'attività privatistica della pubblica amministrazione e del concessionario di un pubblico servizio. Le parti hanno depositato memorie difensive, con cui hanno illustrato le proprie deduzioni ed hanno insistito nelle già formulate conclusioni. 5. Alla camera di consiglio del 7 giugno 1999 la causa è stata trattenuta per la decisione. Inizio documento Diritto Il TAR per il Lazio, con la sentenza impugnata, ha accolto il ricorso proposto dall'odierna appellata ai sensi dell'art. 25 della legge 8 giugno 1990, n. 241, ed ha ordinato alla s.p.a. Autostrade Concessioni e Costruzioni Autostrade (in prosieguo: s.p.a. Autostrade) di consentirle l'accesso: - agli atti da cui si evince che ella non ha pagato una somma a titolo di pedaggio autostradale; - agli atti che hanno consentito alla società Ni.Vi. Credit di sollecitare il pagamento del pedaggio e delle spese di riscossione, per conto della medesima s.p.a. Autostrade. Con l'appello in esame, la s.p.a. Autostrade ha chiesto che il ricorso di primo grado sia dichiarato inammissibile (per mancata notifica alla società Ni.Vi. Credit) e che comunque esso sia respinto, perché infondato. La Sesta Sezione, con l'ordinanza n. 332 del 1999, ha rimesso l'appello all'esame dell'Adunanza Plenaria, rilevando un contrasto di giurisprudenza sulle seguenti questioni: a) se sia ammissibile il ricorso proposto ai sensi dell'art. 25 della legge n. 241 del 1990 e che non sia stato notificato al controinteressato, ovvero se vada ordinata l'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 102 del codice di procedura civile. b) se possa esercitarsi il diritto d'accesso nei confronti dell'attività privatistica della pubblica amministrazione e del concessionario di un pubblico servizio. 2. Ritiene l'Adunanza Plenaria che abbia un rilievo preliminare ed assorbente l'esame del primo motivo d'appello, con cui è stato dedotto che la sentenza impugnata è stata pronunciata a contraddittorio non integro, poiché la società Ni.Vi. Credit va qualificata come controinteressata in senso tecnico, cui doveva essere notificato il ricorso di primo grado. 2.1. Tale censura è fondata e va accolta. Per la pacifica giurisprudenza di questo Consiglio, vanno considerati come controinteressati i soggetti determinati cui si riferiscono i documenti richiesti con la domanda di accesso (Sez. V, 2 dicembre 1998, n. 1725; Sez. VI, 8 luglio 1997, n. 1117; Sez. IV, 11 giugno 1997, n. 643; Sez. VI, 5 ottobre 1995, n. 1085; Sez. VI, 20 maggio 1995, n. 506; Sez. VI, 6 febbraio 1995, n. 71; Sez. IV, 15 settembre 1994, n. 713; Sez. IV, 7 marzo 1994, n. 216). Tale orientamento va ribadito in questa sede, poiché: - l'art. 8, lettera d), del d.P.R. 27 giugno 1992, n. 352 (emanato in attuazione dell'art. 24 della legge n. 241 del 1990), ha disposto che i documenti "possono essere sottratti all'accesso" quando, tra l'altro, riguardino "la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, ? professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari"; - il giudice amministrativo può valutare la fondatezza del ricorso, proposto ai sensi dell'art. 25 della legge n. 241 del 1990 per ottenere il rilascio di documenti che coinvolgono tali interessi, solo quando il suo titolare sia stato posto in grado di difendersi ed abbia potuto esporre le ragioni che possano fare eventualmente ritenere prevalenti le sue esigenze rispetto alle pretese del richiedente (poiché l'art. 24 della Costituzione non consente che una pronuncia del giudice amministrativo arrechi diretto pregiudizio a chi non si sia potuto difendere: Sez. V, 28 febbraio 1995, n. 304; Sez. V, 7 maggio 1994, n. 447; Sez. IV, 28 febbraio 1992, n. 209). Tale principio si applica altresì quando (come è avvenuto col ricorso di primo grado) si impugni un rifiuto di accesso a documenti riguardanti un soggetto determinato: la posizione formale di controinteressato sussiste anche quando col ricorso sia censurata l'inerzia dell'Amministrazione nell'adottare un provvedimento dal contenuto sfavorevole per un terzo (Sez. V, 26 novembre 1994, n. 1381; Sez. IV, 26 novembre 1993, n. 1036) e, a maggior ragione, qualora in sede giurisdizionale sia chiesto al giudice amministrativo di ordinare direttamente l'esibizione di documenti, in luogo dell'Amministrazione (o del concessionario di un pubblico servizio) che non abbia provveduto sull'originaria istanza (Sez. IV, 15 settembre 1994, n. 713). Chi ricorre al giudice amministrativo per accedere a documenti amministrativi, che coinvolgano aspetti di riservatezza di un altro soggetto, deve notificargli il ricorso, ai sensi dell'art. 21, primo comma, della legge n. 1034 del 1971. 2.2. Nel caso di specie, con l'originaria domanda di accesso e col successivo ricorso giurisdizionale, l'appellata ha chiesto anche la copia di documenti direttamente riguardanti l'attività finanziaria e commerciale della società Ni.Vi. Credit, cui avrebbe dovuto quindi notificare il ricorso, per consentirle di potere eventualmente contrastare la pretesa di accedere ai documenti, o a parti di essi, in considerazione delle sue esigenze di riservatezza. 3. Ciò premesso, l'Adunanza Plenaria deve pronunciarsi sulla questione se sia o meno ammissibile il ricorso proposto ai sensi dell'art. 25 della legge n. 241 del 1990 e non notificato all'unico controinteressato. 3.1. Come ha evidenziato l'ordinanza di rimessione, sul punto vi sono due orientamenti giurisprudenziali. Per il primo, il giudizio proposto contro il diniego di accesso alla documentazione ha natura impugnatoria, sicché è inammissibile il ricorso non notificato ad almeno un controinteressato (cfr. Sez. V, 2 dicembre 1998, n. 1725, che ha ritenuto che il diniego di accesso incide su un interesse legittimo; Sez. IV, 6 febbraio 1995, n. 71; Sez. IV, 15 settembre 1994, n. 713; Sez. IV, 7 marzo 1994, n. 216) ed è inammissibile il ricorso contro un diniego di accesso meramente confermativo di un precedente espresso diniego (Sez. V, 17 dicembre 1997, n. 1537). Per il secondo, il diritto di accesso va qualificato come un diritto in senso tecnico, sicché il ricorso proposto per la sua tutela va inteso non come impugnativa di un provvedimento amministrativo, ma come diretto all'accertamento del diritto ed alla condanna del soggetto obbligato ad esibire i documenti richiesti (cfr. Sez. IV, 16 aprile 1998, n. 641; Sez. IV, 20 febbraio 1995, n. 108; Sez. IV, 20 settembre 1994, n. 758; Sez. IV, 30 luglio 1994): pertanto, può trovare applicazione l'art. 102 del codice di procedura civile, che disciplina l'istituto del litisconsorzio necessario, configurabile quando il rapporto controverso è comune a più parti e necessita di una pronuncia inscindibile (Sez. IV, 9 luglio 1998, n. 1079; Sez. IV, 11 giugno 1997, n. 643), ed è impugnabile un diniego di accesso meramente confermativo di un diniego precedente (Sez. IV, 22 gennaio 1999, n. 56). L'ordinanza di rimessione ha rilevato che potrebbe ritenersi preferibile quest'ultimo orientamento, poiché in materia vi sarebbe una controversia su diritti soggettivi contrapposti (diritto di accesso del richiedente e diritto alla riservatezza del contraddittore necessario) 3.2. Ritiene l'Adunanza Plenaria che vada fatta applicazione del principio per cui il giudizio previsto dall'art. 25 della legge n. 241 del 1990 (salve le deroghe da esso espressamente previste) è sottoposto alla generale disciplina del processo amministrativo (cfr.Sez. VI, 16 dicembre 1998, n. 1683; Sez. VI, 8 luglio 1998, n. 1051; Sez. VI, 10 febbraio 1996, n. 184). Tra i principi generali del processo amministrativo, vi è quello sancito dall'art. 21, primo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (per il quale "il ricorso deve essere notificato tanto all'organo che ha emanato l'atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto direttamente si riferisce, o almeno uno tra essi"). Tale regola (tipica del processo di impugnazione di provvedimenti autoritativi, di per sé idonei a divenire inoppugnabili se non impugnati tempestivamente e incidenti su interessi legittimi) è coerente col giudizio sull'accesso e con la posizione giuridica fatta valere col ricorso ex art. 25 della legge n. 241 del 1990. Il legislatore, pur avendo qualificato come "diritto" la posizione di chi ha titolo ad accedere ai documenti (articoli da 22 a 25 della legge n. 241 del 1990), in considerazione degli interessi pubblici coinvolti ha disposto all'art. 25, comma 5, un termine perentorio entro il quale è proponibile il ricorso "contro le determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso". In tal modo, il legislatore: - in un'ottica di controllo democratico dell'attività della pubblica Amministrazione e dei concessionari dei servizi pubblici, ha enfaticamente rimarcato il fondamento costituzionale e la notevole dignità sostanziale della posizione di chi formula l'istanza di accesso (il più delle volte riferibile a una posizione direttamente tutelabile ai sensi dell'articolo 24 della Costituzione, oppure riconducibile all'esigenza di essere informati sul contenuto dei documenti e sugli aspetti attinenti alla legalità, alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, in attuazione dei valori espressi dagli articoli 21 e 97 della Costituzione); - ha tenuto in considerazione tutti gli interessi in conflitto (del richiedente, dell'amministrazione o del concessionario pubblico che detiene gli atti, dell'eventuale terzo cui gli atti richiesti si riferiscono); - ha disposto che sull'istanza di accesso debba provvedersi con un atto motivato (art. 25, comma 3), idoneo a determinare uno stabile assetto degli interessi coinvolti con l'istanza, modificabile in sede giurisdizionale solo nel caso di tempestiva impugnazione innanzi al tribunale amministrativo regionale entro il termine perentorio di trenta giorni (art. 25, comma 5). La tutela del diritto di accesso è stata così riferita all'impugnazione di un provvedimento autoritativo (o dell'inerzia) dell'Amministrazione (cui l'art. 23 della legge n. 241 del 1990 ha equiparato, anche ai fini processuali, la determinazione del gestore di un pubblico servizio: cfr. Ad. Plen., 22 aprile 1999, n. 4 e 5; Sez. V, 20 dicembre 1996, n. 1577). 3.3. Il termine "diritto", più volte adoperato nel suo senso più generico dal legislatore nei richiamati articoli da 22 a 25, va interpretato alla luce della norma che prescrive il termine perentorio per la proposizione del ricorso, nonché delle regole generali del processo amministrativo di legittimità, compatibili con il rito speciale previsto dall'articolo 25. Sussiste una notevole similitudine tra i principi riguardanti altri settori del diritto amministrativo (e delle correlative regole processuali) e quelli concernenti la tutela del diritto d'accesso: chi aspira a concludere un contratto di appalto con la pubblica amministrazione o ad essere proclamato eletto in una competizione elettorale (anche al Parlamento europeo:art. 42 della legge 24 gennaio 1979, n. 18) ne ha "diritto" secondo il linguaggio comune, ma sul piano giuridico può impugnare innanzi al giudice amministrativo, entro il prescritto termine di decadenza, il provvedimento concretamente lesivo che abbia disconosciuto tale posizione, da qualificare come interesse legittimo, Più in generale (e tranne i casi in cui una legge compatibile con la Costituzione determini la giurisdizione ordinaria), è ravvisabile la posizione di interesse legittimo, tutelata dall'art. 103 della Costituzione, quando un provvedimento amministrativo è impugnabile come di regola entro un termine perentorio, pure se esso incide su posizioni che, nel linguaggio comune, sono più spesso definite come di "diritto". Ad esempio, per l'ordinamento (sia sul piano sostanziale che ai fini del riparto delle giurisdizioni) hanno natura di interessi legittimi il "diritto" di concludere il contratto da parte di chi ritenga di dovere risultare vincitore di una gara d'appalto, il "diritto" del candidato di essere proclamato eletto in una competizione elettorale, il "diritto" di svolgere una certa attività, economica, professionale o costruttiva da parte di chi ritenga che sia illegittimo un diniego di licenza, di autorizzazione o di concessione, il "diritto" di essere nominato pubblico dipendente all'esito di un concorso per la nomina, il "diritto" di non essere estradato in un Paese ove è eseguibile la pena di morte (Corte Cost. 25 giugno 1996, n. 223), il "diritto" all'attivazione di impianti radiotelevisivi (Corte Cost., 2 marzo 1990, n. 102), gli altri "diritti" richiamati dalla Sez. V con la decisione 2 dicembre 1998, n. 1725. In tutti tali settori (in cui le leggi attribuiscono all'Amministrazione il potere di natura pubblicistica di valutare tutti gli interessi coinvolti e di incidere unilateralmente col provvedimento autoritativo sull'altrui sfera giuridica), la posizione del soggetto leso dall'atto è presa in considerazione dalle specifiche norme costituzionali che regolano i settori, è qualificata come interesse legittimo (v. articoli 24, 103 e 113 della Costituzione) ed è pienamente tutelata in sede giurisdizionale con un giudizio di impugnazione del provvedimento lesivo, nel corso del quale può verificarsi se l'atto sia affetto non solo da vizi formali, ma anche da profili di eccesso di potere. Come per la tutela del diritto di accesso, le normative riferibili ai richiamati settori mirano al soddisfacimento dell'interesse individuale, nell'ambito del contestuale e coessenziale soddisfacimento dell'interesse pubblico. 3.4. Neppure può ritenersi (come ha ipotizzato l'ordinanza di rimessione) che in materia di accesso siano ravvisabili controversie su "diritti soggettivi contrapposti", quali il diritto di accesso del richiedente e il diritto alla riservatezza del contraddittore necessario. Come in materia di accesso, quando l'Amministrazione emana provvedimenti che incidono su più soggetti, con effetti favorevoli per alcuni e sfavorevoli per altri (come nel caso di rilascio di una concessione di un bene pubblico o di aggiudicazione di un appalto o di nomina al pubblico impiego, in favore di un soggetto in luogo di un altro), non sono riscontrabili "diritti" contrapposti, ma "interessi legittimi" contrapposti: l'interesse del soggetto leso dall'atto giustifica il ricorso giurisdizionale e la sua legittimazione, mentre l'interesse del soggetto non leso dall'atto, ma che lo sarebbe nel caso di accoglimento del ricorso, comporta la sussistenza di un controinteressato in senso tecnico. Del resto, la posizione di diritto o di interesse va determinata tenendo conto della incidenza che ha il provvedimento lesivo, e non comparando le contrapposte posizioni dei soggetti che, rispettivamente, siano lesi o favoriti dall'atto medesimo. Inoltre, nella materia dell'accesso le controversie vanno decise tenendo conto delle varie posizioni coinvolte e sulla base di giudizi di prevalenza (cfr. Ad. Plen., 28 aprile 1999, n. 6; 22 aprile 1999, nn. 4 e 5; 4 febbraio 1997, n. 5). Va quindi considerato atecnico il riferimento al "diritto", poiché la pretesa (cui non è correlativo un obbligo o un comportamento dovuto) non è esercitabile senz'altro nei confronti dell'Amministrazione o del gestore del pubblico servizio: la sua fondatezza va verificata di volta in volta dapprima in sede amministrativa e poi, nel caso di tempestiva impugnazione della determinazione in sede giurisdizionale, esaminando l'eventuale preminenza delle ragioni di chi abbia chiesto l'accesso, rispetto a quelle riscontrate nel diniego o alle esigenze di riservatezza del terzo cui si riferiscono i documenti. 3.4. Quanto precede comporta che: - va considerata come controinteressata la società Ni.Vi. Credit, quale soggetto determinato cui si riferiscono i documenti richiesti con la domanda di accesso; - il ricorso previsto dall'articolo 25, comma 5, della legge n. 241 del 1990 andava notificato alla medesima società, ai sensi dell'art. 21, primo comma, della legge n. 1034 del 1971; - va annullata la sentenza di primo grado, che ha accolto l'originario ricorso ed ha ordinato l'esibizione dei documenti. 4. Tenuto conto dei diversi orientamenti seguiti dalla giurisprudenza in materia di mancata notifica al controinteressato del ricorso per l'accesso, ritiene l'Adunanza Plenaria che vada accolta l'istanza dell'appellata (formulata in via subordinata nel corso della camera di consiglio, per il caso di accertata fondatezza del primo motivo d'appello), volta alla concessione del beneficio della rimessione in termini, per errore scusabile. Tale istituto, infatti, ha carattere generale ed è applicabile anche d'ufficio nel corso del giudizio di appello (Ad. Plen., 27 maggio 1999, n. 13; 23 marzo 1979, n. 9). Pertanto, il ricorso di primo grado non va dichiarato inammissibile, potendo essere integrato il contraddittorio, come previstodall'art. 21, primo comma, della legge n. 1034 del 1971. 5. Trova pertanto applicazione nel presente giudizio l'articolo 35, primo comma, della medesima legge n. 1034 del 1971, per il quale, "se il Consiglio di Stato accoglie il ricorso per difetto di procedura o per vizio di forma della decisione di primo grado, annulla la sentenza impugnata e rinvia la controversia al tribunale amministrativo regionale". Questa Adunanza ha già avuto modo di chiarire, con argomentazioni che il collegio condivide e fa proprie, che la mancata integrazione del contraddittorio in primo grado costituisce un "difetto di procedura" che comporta in appello l'annullamento della sentenza con rinvio al TAR (Ad. Plen., 17 ottobre 1994, n. 13). Pertanto, ai sensi dell'art. 35 della legge n. 1034 del 1971 la sentenza impugnata va annullata con rinvio al TAR del Lazio. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e gli onorari dei due gradi del giudizio. Inizio documento P.Q.M Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) accoglie l'appello e per l'effetto, ai sensi dell'art. 35 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, annulla con rinvio la impugnata sentenza n. 1559 del 1997 della Seconda Sezione del TAR per il Lazio. Compensa tra le parti le spese e gli onorari dei due gradi del giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi il giorno 7 giugno 1999, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, con l'intervento dei signori: RENATO LASCHENA PRESIDENTE ANDREA CAMERA CONSIGLIERE STEFANO BACCARINI CONSIGLIERE SERGIO SANTORO CONSIGLIERE DOMENICO LA MEDICA CONSIGLIERE DUBIS KLAUS CONSIGLIERE PISCITELLO CALOGERO CONSIGLIERE COSTANTINO SALVATORE CONSIGLIERE PAOLO NUMERICO CONSIGLIERE ANSELMO DI NAPOLI CONSIGLIERE CORRADO ALLEGRETTA CONSIGLIERE GIORGIO GIACCARDI CONSIGLIERE LUIGI MARUOTTI CONSIGLIERE ESTENSORE MARCELLO BORIONI CONSIGLIERE PER MARIA COSTARELLI SEGRETARIO DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 24 GIU. 1999. Consiglio di stato , sez. VI, 27 maggio 2003, n. 2938 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso proposto dall'Azienda Napoletana Mobilità - A.N.M., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'Avv. Andrea Abbamonte, domiciliato in Roma, Via degli Avignonesi n. 5; contro l'avv. Francesco Tilena, non costituito; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania Napoli, sez. V n.1 del 5 gennaio 1999; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visti gli atti tutti della causa; Udita alla pubblica udienza del 15.aprile.2003 la relazione del Consigliere Sergio Santoro e udito, altresì, l'avv. Andrea Abbamonte; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. Inizio documento Fatto L'avv. Francesco Tilena, ex dipendente dell'Azienda Napoletana Mobilità A.N.M., il 3 aprile 1997 presentava all'Azienda domanda di accesso a vari documenti relativi ai conteggi dei compensi da lui percepiti a titolo di diritti ed onorari tra i togati dell'Avvocatura dell'Azienda stessa. L'istanza veniva respinta con nota 22 maggio 1997 n. 7784. Il 31 maggio 1997 l'interessato presentava ricorso gerarchico al Comune di Napoli, che dichiarata la propria incompetenza lo trasmetteva all'A.N.M. Il ricorso restava senza esito. L'interessato il 18 dicembre 1997 presentava un'ulteriore domanda d'accesso, rimasta senza esito; il 28 marzo 1998 notificava atto di diffida stragiudiziale, anch'esso rimasto senza esito; e il 5 maggio 1998 proponeva ricorso al TAR avverso il silenzio rifiuto, chiedendo il riconoscimento del suo diritto all'accesso. Resisteva l'Azienda, rilevando che il ricorso era stato proposto dopo la scadenza del termine perentorio di trenta giorni dalla conoscenza del diniego di cui alla nota del 22 maggio 1997 previsto dall'art. 25, comma 5, della legge 9 agosto 1990 n. 241 e che il diritto d'accesso non era utilmente reiterabile, dopo la scadenza di tale termine, attesa la sua natura sostanziale di interesse legittimo. Rilevava altresì che la domanda d'accesso si riferiva a documentazione attinente all'attività di natura privatistica dell'Azienda, e quindi da ritenere sottratta ex se all'accesso, e comunque concerneva anche la richiesta di adempimenti che andavano al di là della semplice ostensione di o fornitura di copia di documenti amministrativi e quindi erano da ritenere inammissibili. Il TAR, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il ricorso affermando: 1) che la documentazione chiesta dal ricorrente atteneva all'attività di natura pubblicistica dell'Azienda, e quindi non poteva ritenersi sottratta all'accesso; 2) che il diritto all'accesso è da considerare un vero e proprio diritto, per cui è possibile che venga esercitato di nuovo oltre il termine di decadenza di trenta giorni fissato dal citato art. 25, comma 5, ai fini dell'impugnazione in sede giurisdizionale del rifiuto espresso o tacito. La sentenza è stata impugnata dall'A.N.M. che ha ribadito le considerazioni già formulate in primo grado, sottolineando in particolare: 1) che l'accesso era stato richiesto nei confronti di atti relativi ad un rapporto di lavoro di carattere strettamente privatistico, atti che, essendo estranei alla cura concreta di interessi pubblici della collettività e non costituendo pertanto "documenti amministrativi" ai sensi dell'art. 22 della legge citata, non potevano ritenersi possibile oggetto di accesso; 2) che l'inutile scadenza del termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale, per la sua evidente natura perentoria, precluderebbe la riproposizione della domanda d'accesso. L'interessato si è costituito in giudizio, contestando puntualmente le censure dell'appellante. Con ulteriore memoria l'A.N.M. ha precisato che nessun rilievo potrebbe darsi al silenzio formatosi sul ricorso gerarchico proposto dall'avv. Tilena, dal momento che in materia di accesso non sarebbe utilmente esperibile il ricorso gerarchico, che quindi nella fattispecie sarebbe da ritenere un inutiliter datum, con la conseguenza che avverso il diniego di decisione del ricorso stesso non sarebbe ammissibile proporre il ricorso giurisdizionale al fine di ottenere la declaratoria del diritto d'accesso. Nell'odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione. Inizio documento Diritto 1.- Con i vari motivi d'appello, come precisati con la memoria depositata in udienza, l'appellante A.N.M. deduce: 1) che i documenti amministrativi relativi al trattamento economico di dipendenti di aziende municipalizzate, attenendo ad un rapporto di lavoro di carattere privatistico, non costituirebbero possibile oggetto di diritto d'accesso; 2) che in ogni caso l'appellato avrebbe chiesto non solo documenti amministrativi ma anche specifici accertamenti, come tali inammissibili; 3) che il "diritto d'accesso" non avrebbe in realtà natura di vero e proprio diritto soggettivo bensì di interesse legittimo; 4) che il diritto d'accesso non potrebbe esercitarsi nuovamente dopo l'inutile scadenza del termine di trenta giorni, stabilito dall'art. 25, comma 5, della legge 7 agosto 1990 n. 241, per impugnare in sede giurisdizionale il diniego o il silenzio dell'amministrazione; 5) che in materia d'accesso non sarebbe ammissibile il ricorso gerarchico; e che comunque il ricorrente in primo grado non avrebbe potuto ottenere la declaratoria del diritto all'accesso in base al diniego di competenza comunicatogli dal Comune di Napoli, attesa l'inesistenza di un rapporto gerarchico tra il Comune stesso e l'A.N.M.; 6) che in ogni caso il ricorso introduttivo sarebbe stato irricevibile. 2.- Il primo motivo è infondato. Va premesso che l'appellante ha natura di azienda municipalizzata che gestisce pubblici servizi di trasporto; e come tale è senz'altro soggetta alla normativa sull'accesso ai sensi dell'attuale testo dell'art. 23 della legge 7 agosto 1990 n. 241. Va altresì premesso che si è ormai consolidato l'indirizzo formulato dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio con ordinanza 30 marzo 2000 n. 1, secondo cui i principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità "costituiscono valori essenziali di riferimento di ogni comportamento della pubblica amministrazione", indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica del quadro formale in cui il comportamento deve essere svolto, e quindi "riguardano allo stesso modo l'attività volta all'emanazione di provvedimenti e quella con cui sorgono o sono gestiti i rapporti giuridici disciplinati dal diritto privato"; sicché va sempre finalizzata al perseguimento dell'interesse collettivo "ogni attività dell'amministrazione senza alcuna eccezione". La stessa Adunanza Plenaria, con decisioni nn. 4 e 5 del 22 aprile 1999, aveva del resto già affermato il principio che "l'istituto dell'accesso trovi applicazione nei confronti di ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione" e che, con particolare riferimento ai gestori di pubblici servizi, il rispetto della normativa sulla trasparenza e sul buon andamento del rapporto di lavoro con il personale coinvolga interessi di natura pubblicistica e contribuisca ad instaurare corretti rapporti, tra il gestore ed i propri dipendenti, con conseguente maggiore qualità, funzionalità ed efficienza del servizio. Da tale indirizzo, ribadito da questa Sezione con decisioni 5 marzo 2002 n. 1303 e 15 maggio 2002 n. 2618, il Collegio non ha alcun motivo di discostarsi. 3.- Il secondo motivo è fondato, nei limiti che seguono. L'appellato aveva chiesto, nella domanda d'accesso: a) i cedolini paga dal 1980 al 1994; b) i conteggi dei diritti ed onorari dei singoli avvocati dal 1980 al 1994; c) il criterio di suddivisione dei diritti ed onorari tra i togati dell'Avvocatura; d) i motivi dell'omessa corresponsione dei diritti ed onorari dal 1992 in poi; e) i motivi della mancata trasmissione all'INPS dei conteggi relativi ai diritti ed onorari relativi al 1992-1994. Ma in sede di accesso l'interessato ha soltanto diritto di visionare e di ottenere copia di documenti amministrativi detenuti dall'amministrazione; non ha anche diritto di ottenere elaborazioni o integrazioni di detti documenti o comunque chiarimenti sull'operato dell'amministrazione stessa. Di conseguenza l'interessato aveva diritto ai documenti sub a), b) e c), per i quali l'amministrazione non poteva non avere un adeguato supporto documentale; ma non aveva certo diritto alle giustificazioni sub d) ed e). La sentenza impugnata va quindi sul punto riformata. 4.- Per quanto poi riguarda la questione, lungamente dibattuta tra le parti, relativa alla natura del diritto d'accesso, questione oggetto del terzo motivo d'appello, si osserva quanto segue. Sulla natura giuridica del diritto d'accesso si sono sinora formati due diversi orientamenti giurisprudenziali. Il primo orientamento (Adunanza plenaria 24 giugno 1999 n. 16; Sez. V, 2 dicembre 1998 n. 1725) ritiene che il diritto d'accesso abbia in realtà natura sostanziale di interesse legittimo; il secondo orientamento (Sez. VI, 19 settembre 2000 n. 4880; Sez. IV, 27 agosto 1998 n. 1137 e 11 giugno 1997 n. 643; TAR Marche, 20 novembre 1997 n. 1181), seguito dalla sentenza impugnata, ritiene invece che il diritto d'accesso abbia natura sostanziale di un vero e proprio diritto soggettivo. Al secondo orientamento implicitamente aderisce la giurisprudenza, oggi pacifica (Sez. IV, 2 luglio 2002 n. 3620 e 16 aprile 1998 n. 641), secondo cui la sopravvenuta inoppugnabilità del diniego d'accesso o del silenzio sulla domanda d'accesso non preclude la facoltà di presentare di nuovo la domanda stessa; e in tal modo riconosce che la posizione soggettiva dell'interessato all'accesso può essere fatta valere senza il limite del termine di decadenza proprio dell'interesse legittimo. 4.1.- L'orientamento giurisprudenziale favorevole al riconoscimento della natura di interesse legittimo è fondato essenzialmente su tre ordini di considerazioni: a) che nella Costituzione il termine "diritto" è frequentemente utilizzato in senso generico (ad esempio, diritto al lavoro, art. 4; diritti della famiglia, art. 29; parità di diritti della donna lavoratrice, art. 37; diritto degli inabili al mantenimento e all'assistenza sociale, art. 38; diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende, art. 46), senso cioè che sarebbe comprensivo di situazioni soggettive non solo di diritto soggettivo ma anche di interesse legittimo o di aspettativa tutelata. Tale genericità di terminologia, non infrequente anche in leggi ordinarie, sarebbe presente anche nella legge 7 agosto 1990 n. 241; sicché l'uso in quest'ultima della locuzione "diritto d'accesso", peraltro priva di ogni riferimento ad un'eventuale attribuzione della materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non starebbe necessariamente a significare che con essa si sia voluto creare una situazione di vero e proprio diritto soggettivo; b) che l'attribuzione di diritti soggettivi alla giurisdizione del giudice amministrativo costituirebbe un'eccezione alla regola generale sancita dall'art. 24 della Costituzione, e quindi richiederebbe un'esplicita indicazione legislativa, nella specie mancante; c) che il diritto d'accesso è attribuito - ai sensi dell'art. 22, comma 1, della legge n. 241 - "al fine di assicurare la trasparenza dell'azione amministrativa e di favorirne lo svolgimento"; e pertanto sarebbe regolato "da normativa di settore che ne garantisce il soddisfacimento nell'ambito del contestuale e coessenziale soddisfacimento dell'interesse pubblico", e quindi previa verifica discrezionale della "eventuale preminenza delle ragioni di chi abbia chiesto l'accesso rispetto a quelle riscontrate nel diniego o alle esigenze di riservatezza del terzo cui si riferiscono i documenti", con conseguente natura sostanziale di interesse legittimo. Ritiene il Collegio che le profonde modifiche dell'ordinamento determinate dalla legge 21 luglio 2000 n. 205 e dalla riforma del titolo V della Costituzione, entrambe successive alla formazione dell'esposto orientamento giurisprudenziale, richiedano di rimeditare le considerazioni suindicate. 4.1.1.- Quanto alla considerazione sub a) va tenuto presente che la Costituzione traccia il quadro generale di riferimento entro cui deve muoversi il legislatore ordinario; quadro che, appunto perché tendenzialmente relativo alla totalità della vita civile, ha un contenuto normativo non solo immediatamente precettivo, fonte diretta di situazioni giuridiche soggettive attive e passive dei suoi destinatari, ma anche un contenuto precettivo in via mediata, con cui cioè si intende semplicemente vincolare ed indirizzare la futura attività dell'ordinamento, ed in ispecie quella del legislatore ordinario, al perseguimento di determinati valori. In particolare, con riferimento ai citati articoli 4, 29, 37, 38 e 46, la Costituzione ha inteso riconoscere la dignità dei relativi valori etico-sociali ed economici, utilizzando il termine "diritto" per indicare la situazione dei destinatari della protezione enunciata dagli articoli stessi e da realizzare dal legislatore ordinario; e ciò perché secondo un'ideologia ormai superata ma all'epoca corrente il termine "diritto" stava ad indicare il massimo livello di protezione che poteva attribuirsi ad un interesse sostanziale. Ma ciò non significa che il termine "diritto" sia stato utilizzato come categoria tecnicogiuridica pur se in senso generico, comprensivo cioè di qualsiasi situazione soggettiva attiva possibile; significa semplicemente che il termine "diritto" è stato utilizzato come categoria non giuridica, e cioè nel senso - essenzialmente di politica del diritto - di volontà di impegnare l'ordinamento a perseguire il massimo livello possibile di realizzazione di quei valori, senza però attribuire in via immediata ai diretti interessati una correlativa specifica situazione giuridica soggettiva azionabile per ottenere in concreto, ed in proprio, il conseguimento del valore costituzionalmente protetto. D'altra parte nella stessa ottica di politica del diritto destinatari di tale impegno sono non solo le istituzioni, ed in particolare il parlamento, ma anche i singoli interessati, sotto il profilo del "dovere di svolgere un'attività o una funzione....che concorra al progresso materiale o spirituale della società" (art. 4), del "dovere e diritto dei genitori" di mantenere. istruire ed educare i figli (art. 30), del riconoscimento del diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende "ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione" (art. 46), ecc. In tutti questi casi il "diritto" non ha nulla del diritto come situazione giuridica soggettiva, dal momento che è caratterizzato da una parte dalla doverosità, pur non essendo sottoposto a precisi termini, e dalla conseguente finalizzazione ad un interesse generale e dall'altra - di regola dalla non immediata azionabilità da parte dei singoli interessati; e quindi non ha nulla a che vedere con la locuzione - apparentemente identica - di "diritto soggettivo" utilizzata, questa volta in senso tecnico giuridico, dagli articoli 24, comma 1, 103, comma 1, e 113, comma 1. Ad esempio il lavoro, come oggetto di un generico diritto etico-sociale, non ha di per sé un preciso contenuto giuridico esprimibile in termine di diritti soggettivi o di altra situazione soggettiva; acquista tale contenuto a seguito della stipulazione di un contratto di lavoro, o del concretarsi di una situazione equivalente. Di conseguenza, da disposizioni inserite in un contesto generale e recanti locuzioni palesemente utilizzate in senso non tecnico-giuridico non può trarsi la conclusione che disposizioni, inserite in un contesto specialistico (qual è la legge n. 241/1990), recanti locuzioni analoghe che prevedono invece un potere, non doveroso, di agire esclusivamente nel proprio interesse, secondo termini e procedure predeterminati dalla legge, e con possibilità di ricorrere al giudice per ottenere la realizzazione coattiva dell'interesse stesso, abbiano anch'esse contenuto non tecnico giuridico. 4.1.2.- Che l'attribuzione della cognizione di diritti soggettivi alla giurisdizione del giudice amministrativo costituisca un'eccezione alla regola generale sancita dall'art. 24 della Costituzione non è più condivisibile dopo la massiccia attribuzione al giudice amministrativo di giurisdizione su diritti operata dalla legge 21 luglio 2000 n. 205. Non occorre pertanto che la legge attesti espressamente che la materia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; e del resto già sotto l'ordinamento precedente alla legge n. 205 la giurisprudenza, pur senza alcuna espressa attestazione legislativa in tal senso, aveva riconosciuto - ad esempio - che il diritto all'esecuzione del giudicato è un vero e proprio diritto soggettivo e rientra pertanto nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (come finalmente affermato dal noto disegno di legge di cui all'Atto Senato n. 1281, ormai in dirittura d'arrivo). Occorre soltanto che sussistano i presupposti per il riconoscimento di una tale situazione giuridica soggettiva, quale l'essere tutelata in via diretta per il soddisfacimento di un interesse concreto del titolare, non sottoposto ad alcuna valutazione autoritativa o comunque discrezionale dell'amministrazione, ed indipendentemente dal soddisfacimento dell'interesse generale. Vanno inoltre considerate due circostanze. In primo luogo, il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali 18 agosto 2000 n. 267, all'art. 19, assicura ai cittadini il diritto di accedere "a tutti gli atti" e "in generale, alle informazioni" di cui è in possesso l'amministrazione locale; e al successivo art. 43 stabilisce che i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere "tutte le notizie....utili all'espletamento del proprio mandato". Tali norme sono state pacificamente intese nel senso che attribuiscano agli interessati un vero e proprio diritto soggettivo d'accesso. Costituirebbe quindi un'evidente discrasia che solo gli accessi disciplinati dalla legge n. 241/1990, che oltre tutto rappresentano solo una piccola minoranza del totale degli accessi, avessero natura di interesse legittimo; ciò soprattutto ora che il nuovo testo dell'art. 114 della Costituzione ha ribaltato la tradizionale piramide delle pubbliche amministrazioni, ponendo al suo vertice Comuni e Province. In secondo luogo l'Atto Senato n. 1281, al fine evidente di eliminare ogni dubbio sorto in passato ha esplicitamente inserito il diritto d'accesso tra i "diritti civili e sociali" di cui all'art. 117, lett. m) della Costituzione ed ha precisato che il giudice amministrativo giudica sulle controversie in materia di accesso in sede di giurisdizione esclusiva; sicché ogni dubbio in proposito appare destinato ad essere tra breve formalmente eliminato dal legislatore del quale - allo stato - appare ben chiara l'intenzione. 4.1.3.- Non può neanche condividersi che il diritto d'accesso sia attribuito ai singoli interessati - ai sensi del citato art. 22, comma 1, della legge n. 241 - "al fine di assicurare la trasparenza dell'azione amministrativa e di favorirne lo svolgimento". Occorre infatti distinguere tra diritto d'accesso come istituto generale, che risponde nel suo complesso alla indicata finalità (così come, del resto, qualsiasi istituto giuridico risponde a finalità di pubblico interesse), e diritto d'accesso come situazione soggettiva personale, che ai sensi dell'articolo stesso "è riconosciuto per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti". Se anche il diritto d'accesso come situazione soggettiva rispondesse effettivamente al fine citato dovrebbe essere contraddistinto dal carattere della doverosità, e costituire quindi assieme un diritto e un dovere; ma di ciò non v'è alcuna traccia nell'ordinamento. D'altra parte l'eventuale preminenza delle ragioni di chi abbia chiesto l'accesso rispetto a quelle riscontrate nel diniego o alle esigenze di riservatezza del terzo cui si riferiscono i documenti è frutto di una valutazione che è compiuta direttamente dall'ordinamento e non dall'amministrazione; sicché dalle determinazione adottate dall'amministrazione in ordine alle domande di accesso esula qualsiasi elemento di discrezionalità in senso proprio, e cioè nel senso di opportunità, potendo al più ipotizzarsi solo ristretti margini di discrezionalità tecnica, sottoposta al rigoroso vaglio del giudice amministrativo, e relativa sia alla circostanza che il documento concreto al quale si chiede di accedere rientri o meno nelle categorie astratte di documenti che la legge dichiara accessibili sia alla circostanza che esista la posizione legittimante costituita dalla necessità di "tutela di situazioni giuridicamente rilevanti", quest'ultima peraltro negli stretti limiti precisati al successivo punto 5.1. 4.1.4.- Deve pertanto concludersi che all'attuale stato evolutivo dell'ordinamento il diritto d'accesso abbia natura di un vero e proprio diritto soggettivo: ciò sia perché inserito in una legge di settore che ne disciplina minutamente l'attribuzione e l'esercizio nell'esclusivo interesse del richiedente sia perché può trovare un limite solo in specifiche e tassative esigenze di riservatezza (dei terzi o dell'amministrazione stessa) stabilite dalla legge ma non anche in mere valutazioni di opportunità di chi detiene il documento. D'altra parte non sussistono nel caso in esame i caratteri tipici dell'interesse legittimo; manca infatti sia la correlazione ad una potestà autoritativa dell'amministrazione, perché l'amministrazione è tenuta ad un'attività meramente materiale, e cioè a offrire in visione o in copia un terminato documento amministrativo da essa detenuto, sia la predeterminazione di un termine di decadenza all'esercizio della situazione sostanziale, come precisato al successivo punto 5. 5.- Va quindi esaminato il quarto motivo d'appello, con cui si deduce che il diritto d'accesso non potrebbe essere esercitato di nuovo dopo l'inutile decorso del termine di trenta giorni per ricorrere avverso il diniego o il silenzio dell'amministrazione, stabilito dall'art. 25, comma 5, della legge n. 241/1990. 5.1.- E' indubbio che tutti i diritti soggettivi sottoposti dall'ordinamento ad un termine di prescrizione o di decadenza sono soggetti ad estinzione se non vengano esercitati entro il termine prescritto. Ma nel caso del diritto d'accesso manca un termine iniziale da cui poter far decorrere la vita normale del diritto stesso. Non è certo tale il momento iniziale della semplice conoscenza del documento, dal momento che a questa data può mancare l'interesse all'accesso. Ma non è neanche tale il momento del sorgere dell'interesse all'accesso, sia perché nulla è disposto al riguardo dalla legge sia perché nel tempo possono sorgere una pluralità di interessi all'accesso, tra loro distinti; e quindi non è certamente ammissibile che l'eventuale estinzione della possibilità di soddisfare uno di essi travolga con sé anche la possibilità di soddisfare tutti gli altri. D'altra parte può sempre essere invocata la necessità di "tutela di situazioni giuridicamente rilevanti" ai sensi del citato art. 22; necessità che, trattandosi di accedere ad un documento che - di regola - non si conosce, può essere giustificata solo sulla base di una presunzione (che ex post può risultare infondata e che quindi - sempre di regola - l'amministrazione non può ritenere a priori inammissibile) che la consultazione o l'acquisizione di copia del documento richiesto possa poi risultare effettivamente rispondente ad un interesse di tutela che soltanto il richiedente è competente a valutare. Mancando un termine iniziale manca necessariamente anche un termine finale. Sarebbe del resto palesemente assurdo che non possa accedersi ad un documento detenuto dall'amministrazione o conosciuto dall'interessato da un periodo che supera qualsiasi termine di prescrizione. La durata del diritto d'accesso può quindi essere stabilita solo in via indiretta; e cioè nel senso che tale diritto soggettivo può essere esercitato dal momento in cui l'amministrazione acquista la detenzione del documento sino al momento in cui l'amministrazione ne perde la detenzione. 5.2.- Deve pertanto escludersi che l'inutile decorso del termine di trenta giorni per proporre ricorre al giudice amministrativo estingua il diritto all'accesso dell'interessato. La citata previsione dell'art. 25, comma 5, va quindi intesa nel senso che il richiedente che non ha proposto tempestivo ricorso giurisdizionale non abbia più titolo ad ottenere l'esecuzione coattiva dell'accesso da parte del giudice sulla base della domanda d'accesso già presentata e rimasta infruttuosa; ma conservi il titolo a presentare una domanda d'accesso nuova. Sarebbe oltre tutto veramente paradossale che l'introduzione generalizzata di un istituto quale il diritto d'accesso, che ha un dichiarato fine generale di pubblico interesse in una nuova e più democratica concezione dei rapporti tra amministrazione e amministrati, e che costituisce principio generale dell'ordinamento (art. 29, comma 1, della legge n. 241/1990), venisse sottoposto ad uno speciale regime processuale che - se non fosse possibile proporre una nuova domanda d'accesso - sarebbe per l'interessato indubbiamente più restrittivo di quello generale. 6.- Va quindi esaminato il primo profilo del quinto motivo d'appello, con cui si deduce che in materia d'accesso sarebbe in a priori esclusa la proposizione di ricorso gerarchico, o comunque di un rimedio interno all'amministrazione alla quale si chiede di accedere; dal che discenderebbe che avverso il diniego di decisione del ricorso stesso non sarebbe ammissibile proporre ricorso giurisdizionale al fine di ottenere la declaratoria del diritto d'accesso. Il motivo è fondata sulla circostanza che l'art. 25 della legge n. 241/1990 tutela il diritto d'accesso con un ricorso giurisdizionale e tace di un eventuale ricorso gerarchico; il che farebbe presumere che in materia un ricorso gerarchico non sia consentito. Su tale profilo, attesa la novità della questione, il Collegio ritiene opportuno soffermarsi. 6.1.- Il problema dell'ammissibilità del ricorso gerarchico nella materia in esame va esaminato alla luce di due norme di principio. In primo luogo la norma dell'art. 1 del dPR n. 1199/1971, secondo cui il ricorso gerarchico è ammesso avverso tutti indistintamente gli atti amministrativi non definitivi; sicché è irrilevante che per l'accesso manchi una norma specifica che lo preveda, dal momento che una norma specifica sarebbe stata necessaria solo nel caso in cui lo si fosse voluto non ammettere ma vietare. In secondo luogo la norma dell'art. 20 della legge n. 1034/1971, da cui discende che avverso tutti indistintamente gli atti amministrativi non definitivi l'interessato ha non solo facoltà di scegliere tra ricorso giurisdizionale e ricorso gerarchico (sicché l'ammissione del primo comporta - di regola - l'ammissione del secondo) ma può addirittura proporre contemporaneamente entrambi i ricorsi, con conseguente parallelismo dei ricorsi stessi. D'altra parte l'art. 25 della legge n. 241 prevede il ricorso al TAR, ma non stabilisce che sia ammissibile solamente il ricorso al TAR; esistono tante altre materie che prevedono il ricorso al TAR, per le quali l'ammissibilità del ricorso gerarchico non è mai stata posta dubbio. Oltre tutto la questione di massima riguarda essenzialmente soggetti (enti locali e relative aziende speciali, Università degli studi, ecc.) dotati di ampia autonomia organizzativa e regolamentare; soggetti per i quali nessun dubbio potrebbe sorgere se si trattasse di un ricorso gerarchico in qualsiasi altra materia diversa dall'accesso. Le uniche considerazione che potrebbero farsi per superare queste norme di carattere generale sono: che il ricorso giurisdizionale per l'accesso previsto dall'art. 25 della legge n. 241/1990 è un ricorso speciale, perché accelerato e semplificato, e quindi in deroga alle norme generali avrebbe valore assorbente di qualsiasi altro rimedio; che ciò sarebbe stato riconosciuto anche dalla giurisprudenza di questo Consiglio, che ha espressamente escluso in materia l'esperibilità del ricorso straordinario al Capo dello Stato; e che l'attesa della decisione di un eventuale ricorso gerarchico, sottoposto al normale termine di trenta giorni, potrebbe rendere impraticabile il previsto ricorso giurisdizionale, sottoposto anch'esso - in materia - ad un termine di trenta giorni dal diniego o dalla formazione del silenzio, con conseguente estinzione del diritto all'accesso, creando così una sorta di alternatività tra rimedio gerarchico e rimedio giurisdizionale, alternatività che potrebbe essere stabilita soltanto dalla legge. Ma la "specialità" dell'art. 25, come integrato dall'art. 4, comma 3, della legge 21 luglio 2000 n. 205, consiste in modeste modifiche procedurali (esperibilità entro trenta anziché entro sessanta giorni; teorica possibilità del ricorrente di stare in giudizio personalmente senza l'assistenza del difensore) che non alterano in nulla la natura e la funzione del ricorso; e comunque la legge n. 205/2000 è piena di altri ricorsi in qualche modo accelerati o speciali, in relazione ai quali non si è mai posto un analogo problema di illegittimità del ricorso gerarchico. Sicché non sussiste alcuna correlazione necessaria tra specialità del ricorso giurisdizionale e scomparsa del ricorso amministrativo. Semmai, dato il parallelismo dei due ricorsi, il rafforzamento dell'effettività dell'uno dovrebbe portare al rafforzamento dell'effettività anche dell'altro, perché la specialità - in realtà - è della materia non del ricorso. Né a diversa conclusione può indurre il noto indirizzo giurisprudenziale che ha escluso l'esperibilità del ricorso straordinario in materia di accesso. Tale esclusione è stata determinata non da un'incompatibilità giuridica tra accesso e ricorso straordinario ma da una semplice incompatibilità pratica; e cioè dalla considerazione che il ricorso straordinario, non essendo sottoposto nelle sue varie fasi (relazione dell'amministrazione, espressione e comunicazione del parere del Consiglio di Stato, adozione del decreto del presidente della Repubblica) a termini perentori, è in concreto strutturalmente inidoneo a fornire il bene della vita ipotizzato dalla legge 241/1990, e cioè un accesso in un arco di tempo breve e predeterminato nel massimo. Infine il timore che la proposizione del ricorso gerarchico possa determinare l'inammissibilità o l'irricevibilità del ricorso giurisdizionale non può ritenersi condivisibile. Un timore del genere poteva, al più, essere comprensibile quando si riteneva che l'accesso avesse natura di interesse legittimo; e che quindi se non azionato tempestivamente incorresse in una decadenza. Ma una volta stabilito che a parte actoris l'accesso ha natura di un vero e proprio diritto soggettivo, e che ciò risponde alle reali intenzioni del legislatore quali evidenziate nel citato Atto Senato n. 1281, non è più prospettabile alcun problema di decadenza: perché il richiedente l'accesso, se attende la conclusioni del ricorso gerarchico e si fa scadere i termini per l'impugnazione del diniego in sede giurisdizionale, non perde nulla: basta che faccia una nuova domanda d'accesso, a costo zero, ed è rimesso in corsa. D'altra parte, anche ad ammettere che l'accesso avesse natura di interesse legittimo la conclusione non potrebbe essere diversa. E' ben noto, infatti, che nel caso in cui l'interessato ricorra in via gerarchica anziché adire immediatamente la via giurisdizionale il termine per l'eventuale successiva impugnazione in via giurisdizionale decorre non più dal momento in cui l'interesse poteva inizialmente essere azionato ma dal momento in cui è intervenuta la decisione gerarchica o si è formato il silenzio rigetto. Di conseguenza in nessun caso la proposizione del ricorso gerarchico potrebbe rendere inammissibile o irricevibile un eventuale successivo ricorso giurisdizionale avverso la decisione negativa (esplicita o implicita) dell'amministrazione. L'opposta tesi, a ben vedere, comporterebbe che avverso la decisione gerarchica o il silenzio rigetto non fosse ammessa la tutela giurisdizionale; conclusione in palese contrasto con l'art. 113, comma 1, della Costituzione. Conclusioni analoghe valgono per qualsiasi altro tipo di rimedio amministrativo interno previsto dallo specifico ordinamento dell'amministrazione considerata. 6.2.- Deve quindi concludersi che non sussista in astratto alcun motivo di ordine giuridico per escludere che in materia d'accesso sia ammissibile un ricorso di tipo amministrativo, comunque configurato o denominato (riesame, ricorso gerarchico proprio, ricorso gerarchico improprio, ecc.). E d'altra parte questa è sicuramente l'intenzione del legislatore, che nell'attuale testo dell'art. 25 della legge n. 241/1990 ha previsto un ricorso amministrativo al difensore civico (che si configura come una sorta di ricorso gerarchico improprio) e che nell'Atto Senato n. 1281 ha previsto anche un analogo ricorso amministrativo alla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi di cui all'art. 27 della legge stessa (anch'esso configurabile come ricorso gerarchico improprio).. Avverso tale conclusione non sussistono, del resto, neppure motivi di carattere più generale, dal momento che ritenere ammissibile anche un rimedio di tipo amministrativo favorisce l'esercizio effettivo del diritto d'accesso del cittadino nei confronti dell'amministrazione, tenuto anche presente il non trascurabile costo di un eventuale ricorso giurisdizionale, mentre l'indirizzo opposto favorisce quella situazione di "silenzio ostilmente preordinato" a favorire l'opacità dell'azione Amministrativa, che la giurisprudenza di questo Consiglio ha da tempo stigmatizzato. Di conseguenza, attesa la dichiarata finalità di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale, la scelta interpretativa non può che essere nel senso dell'ammissibilità, tenuto anche conto della costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, secondo cui l'autorità adita dovrebbe assicurare tutte le utilità di sua competenza senza che si debba ricorrere ad una sede superiore. 6.3.- Ciò premesso in linea generale va però esaminato se in concreto l'ordinamento dell'A.N.M. prevedesse un ricorso amministrativo al Comune di Napoli, ricorso che nel caso avrebbe avuto il carattere di ricorso gerarchico improprio (attesa la diversità soggettiva delle due amministrazioni). Infatti mentre il ricorso gerarchico proprio è un istituto di carattere generale e quindi è sempre ammissibile - ricorrendone i presupposti - qualora non sia espressamente escluso, il ricorso gerarchico improprio è un istituto di carattere eccezionale e quindi è ammissibile soltanto se espressamente previsto dalla legge o dal particolare ordinamento delle amministrazioni considerate. Ora nella fattispecie è incontroverso che nessuna norma generale o particolare prevede che avverso le decisioni dell'A.N.M. in materia d'accesso sia esperibile un ricorso gerarchico improprio al Comune di Napoli. Pertanto, in accoglimento del secondo profilo del quinto motivo di ricorso va dichiarato che il ricorrente in primo grado non aveva alcun titolo ad ottenere la declaratoria del diritto all'accesso in base al diniego di competenza comunicatogli dal Comune di Napoli, attesa l'assoluta irrilevanza di tale determinazione in ordine alla formazione di un rifiuto impugnabile in sede giurisdizionale ai fini del conseguimento di tale declaratoria. 7.- Con l'ultimo motivo d'appello l'A.N.M. deduce che in ogni caso il ricorso in primo grado sarebbe stato irricevibile. Il motivo è fondato. L'interessato aveva presentato domanda d'accesso il 18 dicembre 1997, rimasta senza esito; il 28 marzo 1998 aveva notificato atto di diffida stragiudiziale, rimasto anch'esso senza esito; ed il 5 maggio 1998 aveva proposto ricorso avverso il silenzio rifiuto. Ma ai sensi dell'art. 25, commi 4 e 5, della legge n. 241/1990 "decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta" (d'accesso) questa si intende respinta e contro il rifiuto tacito od espresso il ricorso al TAR va proposto entro il successivo termine perentorio di trenta giorni. Nel sistema stabilito dalla norma non è quindi previsto, ed è quindi logicamente escluso attese le specifiche esigenze di celerità del rito, che il termine perentorio per ricorrere in sede giurisdizionale possa essere interrotto o riaperto dalla proposizione di una diffida ad adempiere. Di conseguenza il ricorso giurisdizionale in primo grado, essendo stato proposto oltre la scadenza del prescritto termine perentorio, va dichiarato irricevibile. 8.- L'appello va pertanto accolto, con conseguente annullamento della sentenza impugnata. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio. Inizio documento P.Q.M Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie l'appello. Compensa le spese di giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, addì 15.aprile.2003 e 27 maggio 2003 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sezione Sesta - riunito in camera di consiglio con l'intervento dei seguenti Magistrati: Salvatore GIACCHETTI Presidente Sergio SANTORO Consigliere Est. Alessandro PAJNO Consigliere Carmine VOLPE Consigliere Giuseppe MINICONE Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 27 MAG. 2003.