The Wild Party di Joesph Moncure March

La biblioteca di Florianopolis
di Patrizio S.
The Wild Party (Feste selvagge) di Joesph Moncure March
The Wild Party, poema illustrato in dieci atti di Joesph Moncure March, tavole di Art Spiegelman.
The Wild Party realizzato da Joseph Moncure March è un'opera che, tirandone le somme, riesce a
trasmettere simpatia verso un periodo molto iconicizzato come lo sono gli anni '20, stupire con un
linguaggio allusorio e saettante, divertire con una rocambolesca consecuzione di scenette esilaranti,
e se questo non bastasse c’è da mettere in più il fatto che si tratta di un romanzo in versi, che è
considerato il classico perduto, e che il disegnatore Art Spiegelman, nella versione originale uscita
nel ’94 e che ad oggi gira tra gli scaffali italiani edita da Einaudi, ne ha disegnato le illustrazioni.
TWP (da ora sempre così nel testo) per questi motivi, e per altri, è stato da me scelto come primo
testo da proporre al pubblico della Biblioteca di Florianopolis.
Iniziato a scrivere e quotidianamente portato avanti nell'estate del 1926 dal ventiseienne giornalista
Joseph Moncure March, ex segretario di redazione (ruolo che in seguito ricevette l'espressivo
appellativo di “Cristo”) dell'allora neonata rivista The New Yorker, questo libro appare per la prima
volta stampato nel 1928. Nonostante la storia fosse già stata completata alla fine della bella stagione
di due anni prima, l'avvento del fatidico giorno di lancio fu ritardato a causa delle scellerate scene di
sesso e alcolismo raccontate e il basso livello morale che i personaggi rappresentano, cose che
spinsero tutti gli editori a rifiutare il libro.
L'America era in quegli anni nel pieno del suo fallimentare periodo proibizionista nei confronti
degli alcolici, durato dal 1919 al 1933. Nel particolare si tratta della storia di una bionda e seducente
soubrette e di un povero clown violento che bazzicano gli ambienti scomodi e viziosi dello
spettacolo dei veudeville. I due all'inizio della vicenda erompono in una lite che sembra poter
portare di li a
poco a terribili conseguenze. Un omicidio infatti sarebbe potuto essere stato
commesso se non fosse che, proprio al colmo del litigio una calma piatta si interpone, come di due
eserciti dopo un tentativo di assedio. In questa situazione di stallo di tensione un'idea del clown
coinvolge la ragazza in un rito atto a far scordare loro le paturnie: ospitare una festa selvaggia. Gli
ingredienti sono: qualcosa da mangiare, molto da bere, qualche droga, e, dulcis in fundo, la
necessaria compagnia di un gruppo di amici, oltre al quale poi si intrufoleranno altri più o meno
invitati.
Per il modo in cui si viene a creare, la festa, è rappresentata come momento catartico di sfogo, al
quale vengono invitati, e devono esserlo secondo il più tradizionale spirito “più siamo meglio
stiamo”, amici e conoscenti dalle caratteristiche più disparate: musicisti omosessuali, colossi gentili,
eleganti prostitute e giovani ragazze debuttanti. Si tratta dei membri della tribù a cui appartengono
la bionda e il clown, che oltre alla veste di padroni di casa, vestono i panni di sacerdoti devoti di un
anonimo dio della follia orgiastica, che propongono ai loro adepti un ulteriore occasione di rendere
grazie e partecipare allo spirito della divinità.
Quello che viene descritto nel mirabile poema di Joseph Moncure March è, infatti, a tutti gli effetti,
un baccanale latino, un sabba medievale, un convivio bektashi, in cui aleggia il fumo delle sigarette
e delle candele assieme a una distinta aura di sacralità, e dove le bocche assumono la forma di
insazianti bicchieri di wiskhy di contrabbando mentre grazie alle droghe si toccano i culmini del
rovesciamento delle personalità e dell'annullamento inibizionale, in una stanza che pare avere
confini sterminati alle cui mura si agitano, come demoni elevati nell'estasi di languide lussurie, le
ombre dei festeggianti. Si può supporre che le musiche suonate durante quella festa fossero dei jazz
briosi e sincopati, come i ritmi dei versi usati, e possiamo anche immaginare, fantasticando, se non
fosse per un leggera discrepanza temporale, come nella mente di quel March, studente bianco
affascinato dalla vivacità dell'ambiente dei cabaret, i cui frizzanti colori erano dovuti soprattutto al
contributo della musica, dei balli, e delle parlate portate dagli afroamericani, ci potessero essere le
suggestive note di un Dead Man Blues o di un Wild Man eseguiti e registrati nel settembre '26 in un
disco memorabile per la storia della musica. I musicisti appartenevano all'orchestra dei Red Hot
Peppers capitanata dal compositore di jazz Jelly Roll Morton, che crebbe letteralmente, e quindi
artisticamente, nei bordelli di New Orleans dove le feste selvagge erano all'ordine del giorno.
Proprio quelle melodie così ritmicamente lucenti e bizzarre venivano infatti tacciate dagli ortodossi
benpensanti del tempo di essere “musiche del diavolo”. Non sarebbe inopportuno supporre infine
come a quello storcer di naso March potesse pensare, con animo provocatorio e sottile orgoglio,
quando scriveva TWP che restava comunque un episodio singolare di libertà narrativa e linguistica
nell'ovattato panorama degli scrittori americani fino a quegli anni. Per questo motivo si potrebbe
formalmente includere March nella generazione perduta di Hemingway e Fitzgerald che in quel
periodo visse, e le cui storie superarono in longevità la loro epoca. Inoltre volendo traslare un po' gli
avvenimenti descritti durante la festa si può arrivare a paragonare certe scene, per la loro comicità
grottesca, alle dionisiache avventure del triangolo Encolpio, Ascilto, Gitone presente nell'immenso
Satyricon di Petronio. Così come sono “satirici” i facili cambi di registro utilizzati con perfetto
tempismo dallo scrittore americano.
Parlando di dinamismo, esattamente come accadeva nelle scene farsesche e comiche del teatro
dell'arte, i personaggi che si muovono all'interno della festa sono psicologicamente di marmo. Dopo
una carrellata di descrizioni caricaturali per ognuno degli invitati comincia la narrazione delle loro
avventure, e non c'è da preoccuparsi sullo spessore psicologico, o morale, o di altro tipo che
potrebbero intervenire nell'alchimia organizzata da March. Ognuno interpreta la sua parte, con gli
alti e bassi previsti. I colpi di scena sono assicurati dall'elevato numero di persone e dalle loro
nature variegate e contrastanti, e il tutto procede in un caos organizzato da cui il lettore esce
piacevolmente e leggermente spaesato, ma informato sui personaggi umani, forse troppo umani, più
di quanto non avrebbero potuto fare lunghe e noiose digressioni introspettive. March ha avuto
l'indubbia capacità di saper rendere armonioso tutto questo pur concedendosi la libertà e le
invenzioni capaci di assuefare ed entusiasmare. Oltretutto la narrazione ha un perfetto stile
consequenziale secondo il quale niente di quello che viene narrato verrà ripetuto e ad ogni pagina è
prevista un'azione. Giusto per rendere più dinamica e sciolta una storia che, già lineare di suo, in
questo modo diventa un'allegra passeggiata fra le strofe.
ILLUSTRAZIONI
Ulteriori annotazioni meritano i lavori d'illustrazione del già citato Art Spiegelman. Già famoso
autore di fumetti, premiato nel 1992 con il Pulitzer per Maus, un grandioso romanzo a fumetti
semiautobiografico, Spiegelman deciderà di mettere la sua originale verve creativa al servizio dei
versi di TWP dopo aver notato con piacere la copertina del libro nella sua prima edizione. Tale
copertina era stata realizzata da Reginald Marsh per l'amico, e quasi omonimo, Joseph March,
conosciuto all'università. Ma mentre il lavoro di Marsh, che ritraeva una scena della festa, aveva più
a che fare con un quadro impressionista, le tavole realizzate da Spiegelman hanno una caretteristica
simbolica molto accentuata. E' particolare e unico infatti l'uso di questo fumettista di una tecnica
mista di disegno. Chiaro e delineato nelle forme e nelle ombre è decorato dell'inserimento
all'interno della pagina di elementari simboli grafici (fulmini, frecce, stelline ecc.) e della
riproduzione dettagliata di oggetti di uso comune (manifesti, scontrini, vasi), il tutto orchestrato con
abilità tale da ricordare l'uso della macchina da presa. Non è da considerarsi solo un caso che la
matita di Spiegelman ricordi quella di Steel Savage, che disegnò il frontespizio dell'edizione di
TWP nel 1931, perchè la prima impressione che si ha vedendo un suo disegno è che abbia molte
caratteristiche in comune con il disegno delle insegne e delle pubblicità degli anni fra le due guerre.
Grazie a questi disegni, con il loro stile calzato a pennello, il libro ottiene un'ulteriore slancio
narrativo che ne permette una lettura ricca di immagini fantasiose, come solo testo e immagini
insieme possono dare.
VERSI
Oltre al meraviglioso piano dell'immaginario che questo libro offre, è doveroso notare come la
scrittura poetica, tradotta nella versione italiana da Gianluigi Ricuperati, sia audace e piena di colpi
interessanti. Le rime vengono coniate dalle parole più scontate e per questo si possono trovare nelle
trame dell'opera stupefacenti soluzioni ritmiche da filastrocca oltre a felici spunti gergali. A
proposito di questa particolarità attorno alla “poeticità” di TWP si scatenò una diatriba fra i cultori
più puristi, che non ne accettavano certe licenze, e licenziosità, e altri secondo i quali si trattava di
una poesia nuova, liberata dalla forma standard del breve componimento in versi e dall’argomento
introiettivo. C'è un aneddoto su questo tema che vede protagonisti Art Spiegelman, l'autore delle
illustrazioni moderne, e lo scrittore William S. Burroughs. Il primo, da profano della lirica,
chiedeva al secondo un'opinione riguardo all'incerta classificabilità dell'opera, ed egli secco e sicuro
rispose: “Certo che è poesia. E' in rima.” A confermare l'amore di Burroughs per il poema di March
c'è una sua frase che dice: “Questo è il libro che mi ha fatto venir voglia di diventare scrittore.” Fu
infatti nella sua giovinezza che Burroughs incontrò per la prima volta il testo di March,
precisamente durante i suoi studi ad Harvard.
FESTE SELVAGGE A HOLLYWOOD
Ci sono parecchie curiosità che riguardano questo libro e il mondo del cinema. Nel 1929 infatti
usciva nelle sale il primo film sonoro della storia, The Wild Party (in Italia L'Allegra Brigata), un
film della regista Dorothy Arzner prodotto dalla Paramount che aveva come protagonista la
peperuta Clara Bow, filmata persino in abiti maschili, uno scandalo del tempo. Il film, da un
sceneggiatura originale, parla di un college universitario dove vengono inviati dei figli di papà
piuttosto lavativi, in cui spadroneggia come seduttore un professore di antropologia, interpretato da
un certo Frederic March! Il caso di omonimia è stupefacente, come invece non lo è la somiglianza
fra la locandina del film e le già citate illustrazioni di Spiegelman. Andando di cinquant'anni avanti
nel tempo ci si presenta un film eccezionale, Animal House (1979) di Harold Remis, Douglas
Kenney, e John Landis, rispettivamente sceneggiatori e regista. Pellicola culto per le sue scene
ironiche di lascività, spensieratezza e violenza comica, oltre che precursore del filone
cinematografico dei moderni American College Movie, sulla cui scena si dibatteva con forza il
personaggio di Bluto, interpretato da un esaltante John Belushi, che col regista poi farà un'altro film
eccezionale, The Blues Brothers. La trama è vicinissima a quella di The Wild Party del 1929, tanto
da poter far pensare a una parodia, mentre le scene e la realizzazione parrebbero un'originale
trasposizione di TWP, o comunque quella che si avvicina di più al suo spirito. Ovviamente c'è stato
anche un film direttamente tratto dal testo, si tratta di The Wild Party (e ti pareva!) del 1975 di
James Ivory con Raquel Welch e James Coco. Questo lungometraggio mischiava il poema di March
con lo scandalo in cui finì il comico del cinema muto Roscoe “Fatty” Arbuckle. La trama del film
rispetta grosso modo quello dell'originale, ma nei confronti del linguaggio e delle avventure
comiche cede un po' il passo alla versione lettararia. Pare quindi che leggendo il testo di March ci si
ritrovi di fronte a uno degli schemi sceneggiaturali più battuti dagli scrittori per il cinema, se non
fosse che questa è scritta in versi da un ex-giornalista nel 1926 prima che qualsiasi film del genere
fosse uscito!
FESTE SELVAGGE A BROADWAY
L’opera di Joseph Moncure March ha avuto anche un grande successo nei suoi recentissimi
riadattamenti teatrali. Due furono infatti i libretti estratti da TWP, uno per la grande produzione di
Broadway, e uno per la più modesta Off-Broadway, luogo per il lavoro di artisti underground, ma
non per questo meno validi. D’altronde vi sono anche le strutture dell’Off-Off-Broadway, dedicate
a rappresentazioni di nicchia e sperimentazioni particolarmente audaci. Il musical per il grande
pubblico ha avuto come regista Michael John LaChiusa ed è stato candidato a ben 7 Tony Awards,
premiazione teatrale in attività dal 1947 corrispondente agli Oscar cinematografici, tra cui quello di
Miglior Musical. Grande successo di pubblico e critica anche per la versione meno onerosa
realizzata da Andrew Lippa, la cui particolarità è data dall’accurata scelta della colonna sonora.
Optando per una calibrata distonia fra suono e scena viene effettuato un appesantimentoalleggerimento dell’atmosfera in modo da suggestionare il pubblico con anticipazioni o digressioni
veicolate dai differenti stili musicali. Un’operazione del genere la operava Kubrick nelle sue
pellicole, ripescando dai primi film muti il concetto di musica di genere. Si veda per esempio nei
primi comici la canzone monotonamente allegra, che ricordava agli spettatori la tipologia di
spettacolo nei momenti in cui sullo schermo si svolgevano azioni neutre. Come si è capito il
rapporto di March con lo spettacolo è stato stretto e prolifico, sia testualmente sia, come si vedrà,
biograficamente. Il suo libro nonostante, o forse proprio a causa de, i problemi di censura, nel 1928
vendette sufficientemente per far intraprendere seriamente a March la carriera di scrittore, sotto il
benestare del padre. Dopo la pupplicazione di TWP infatti scrisse un altro romanzo in versi col
titolo The Set Up, che però non ebbe lo stesso clamore del suo primo libro, nonostante i livelli di
vendite rimanessero comunque alti. L'argomento questa volta è la vita di un pugile, narrata anche
qui con rime crude e senza sconti all'espressività. Anche questo poema ha avuto un adattamento
cinematografico nel 1949, The Set Up di Robert Wise, un film considerato tra i più belli di tutti i
tempi sul pugilato.
Per compiacere la critica piuttosto crudele e bacchettona March, ormai vecchio nel 1968, tentò
persino la pubblicazione di una versione autocensurata e scialba di The Wild Party e di The Set Up,
che però rimasero totalmente nell'ombra. Nella sua vita lavorò con profitto come sceneggiatore a
Hollywood, fino alla collaborazione per la stesura del kolossal Hell's Angel (Gli Angeli
Dell'Inferno) nel 1930. Un film che passò alla storia per i 4 milioni di dollari spesi nella sua
registrazione, le 560 ore di pellicola girate per 127 minuti di film effettivo, e la spettacolarità delle
riprese aeree mozzafiato che rimasero uno standard di innovazione ed efficacia insuperato per
decenni. Quel film era stato fortemente voluto, prodotto e diretto da Howard Hughes, la cui vita è
raccontata nel pluripremiato film The Aviator di Martin Scorsese con Leonardo Di Caprio. Dopo la
collaborazione con Huges, Joseph Moncure March intraprese la carriera di documentarista e
giornalista del The New Yorker. Morì nel 1977 senza nessun premio o elogio per le sue
pubblicazioni che per più di mezzo secolo non videro nessuna ristampa.
Roscoe Arbackle, chiamato Fatty per la sua gigantesca mole, era un attore comico del cinema muto
della generazione di Charlie Chaplin. Insieme al creatore della maschera di Charlot infatti condivise
lo spirito di una comicità fisica e irriverente, oltre a qualche contratto durante il periodo della
gavetta. Le risate suscitate da Fatty, che era nato nel 1887 col peso di oltre 7 chili, derivavano dalle
sue grandi doti di agilità e intelligenza intuitiva nella formulazione delle gag, non certo il prototipo
del “fatty” che vuol dire “grassone”. La sua fama di ciccione bonaccione e clown a tutto tondo gli
portò anche l'appellativo di “Prince of Whales”, giocando sulla somiglianza tra Wales (Galles) e
Whales (Balene). Queste virtù, la sua simpatia, la sua affabilità e la sua pluriennale carriera nel
1917 gli permisero di aprirsi una casa di produzione propria, la Comique, che ebbe la perspicacia e
l’onore di portare alla ribalta il talento di un altro grande attore comico del tempo, Buster Keaton. I
due furono grandissimi amici, tanto da sostenersi incondizionatamente nei rispettivi momenti di
difficoltà. Come nel caso che sconvolse la vita di Roscoe Arbuckle nel 1921. Durante un party
organizzato da lui una promettente attrice, Virginia Rappe, si sentì male e, poco dopo, di peritonite,
morì. La prima diagnosi fu di intossicazione da alcolici e stupefacenti, ma gli investigatori
subodorarono un tentativo di coprire le prove di una violenza carnale tentata da Arbuckle nel
culmine dell'ubriachezza. La stampa del tempo ci sguazzò e cominciò un turbine moralizzatore che
investì tutto il jet-set del cinema hollywoodiano, fino a provocare l'arrivo del curioso Codice Hays,
una circolare proibizionista sul comportamento a cui gli attori erano invitati a attenersi. Partì un
processo nei confronti di Arbuckle con l'accusa di omicidio intenzionale e tentato stupro, a causa
del ritrovamento di chiari segni sul corpo della ragazza. I legali di Arbuckle, per difenderlo da
un’accusa che se non del tutto infondata era quanto meno esagerata, non si risparmiarono nessuna
ingiuria su Virginia Rappe accusandola di essere di fin troppo facili costumi, citando un caso in cui,
per colpa delle sue promiscue abitudini sessuali, un'intera troupe cinematografica si prese le piattole
mentre lavorava a un film del regista comico Mack Sennet, amico di Fatty. D'altronde le
imputazioni rivolte ad Arbuckle non si limitavano ad accusarlo di semplice violenza sessuale, ma
perfino di aver tentato di usare, prima intera e poi in cocci, una bottiglia di wiskhey per sopperire a
una mancanza di libido. I media e gli Studios, portandosi dietro l’opinione pubblica, non tardarono
a demonizzare Arbuckle creando il clima persecutorio che passò alla storia, e ancora a Hollywood si
ricorda, del “Linciamo Fatty”. Buster Keaton fu l'unico degli Studios a presentarsi ai processi per
difenderlo, visto che un richiamo tacito dalle alte sfere proibiva agli altri attori di partecipare.
L'innocenza di Roscoe fu infine dichiarata, ma il mondo del suo lavoro lo aveva ormai espulso e
ripudiato. Vani furono i tentativi di ripresentarsi con pseudonimi e nuovi lavori, spesso finanziati e
incoraggiati da Keaton. Il 29 giungo del 1933 il suo cuore si spense, proprio il giorno dopo la firma
di un contratto che sembrava far sperare in una sua ricomparsa nel lungometraggio. La triste storia
di Roscoe, punta dell'iceberg di un ambiente drogato, perverso, violento e lussurioso, fu sempre in
procinto di essere trasposta direttamente in film, e il copione fu presentato all'inizio degli anni '80 a
John Belushi per la parte di Roscoe “Fatty” Arbuckle. Purtroppo la funambolica vita di Belushi finì
il 5 marzo 1982, prima di poter realizzare la pellicola.
Clara Gordon Bow è nata nel quartiere di Brooklin a New York nel 1905. Oltre a vivere nella zona
allora considerata più malavitosa della Grande Mela, alle spalle, “Cosetta”, aveva una difficile
storia familiare, con una madre mentalmente malata e un padre perverso e violento. A sedici anni
grazie alla sua bellezza vince un concorso, e dotata di un fenomenale carattere istrionico ottiene
l'ingresso nel mondo dello spettacolo. La sua figura minuta, paffuta ma aggraziata, i suoi occhi
trasognanti, i suoi capelli rossi, oltre che il suo carattere tutto pepe saranno le chiavi sceniche del
successo della Bow (che significa letteralmente “arco”). Dopo numerose parti in commedie
maliziose per lei non tarderà l'arrivo della fama mondiale, così nel 1927 col film che le darà il
curioso soprannome e la consacrerà nel firmamento delle star: It (in Italia “Cosetta”). La pellicola,
lungi dall’essere un horror tratta da un romanzo di Stephen King, è la storia di una vispa cassiera
che con le arti della seduzione arriverà a conquistare il suo capo. Così iconograficamente Cosetta, e
Clara Bow in persona, divennero in men che non si dica il simbolo della possibilità d'ascesa nel
mondo dello spettacolo delle giovani donne. La fama di Clara, la più piccante pupa jazz del suo
tempo è il sogno delle migliaia di ragazzine che le invieranno fino a 45'000 lettere alla settimana.
La sua carriera cinematografica le vede impegnata in ruoli di vivacità accesa e dirompente
giovinezza, sempre attorniata da bei ragazzi prestanti disposti a tutto pur di pescare un bacio dalle
sue labbra. La sua vita privata è, come si confaceva alle dive, ricca di fuggevoli relazioni, vizi,
gioco d'azzardo e, purtroppo per loro, false amicizie. Come quella con la donna che nel 1930 le
rovinerà la carriera e la vita. Il suo nome era Daisy De Voe, e lavorava per Clara come segretaria
personale. Come se la vita di Cosetta non fosse già sufficientemente presa di mira dai tabloid, che
periodicamente la dipingevano come diva irresistibile, indebitata giocatrice ed eccentrica libertina,
la De Voe attinse alla memoria accumulata durante i quattro anni di servizio e amicizia con la Bow,
e dopo un ricatto che l'attrice rifiutò licenziandola, consegnò a Graphi-C, allora una dei rotocalchi
più bollenti, un registro con nome e cognome degli innumerevoli amanti dell'attrice, senza lasciare
alcun particolare alla fantasia nella descrizione degli incontri. Malauguratamente per lei tra le storie
venute a galla divenne leggendario il suo ruolo di accompagnatrice all'Orda Tonante, una squadra
campione collegiale di baseball, il cui difensore era Marion Morrison, in arte John Wayne. Alle
turpi scene orgiastiche e festini a base di alcol e risse, si aggiunse la lista dei personaggi famosi e
insospettabili che Clara Bow era riuscita a sedurre, tra cui spiccavano i nomi di Bela Lugosi e Gary
Cooper. Ma la De Voe non la passò liscia e dopo un tormentato processo venne chiusa in carcere
con l'accusa di truffa ai danni dei conti privati della Bow. Vittoria inutile perchè la Bow dopo
questo scandalo passò da icona del successo spettacolare a quella della decadenza morale. Inoltre
l'avvento del cinema sonoro le troncò definitivamente la carriera, visto che la sua eccezionale
presenza scenica (che a suo tempo le fece guadagnare il soprannome “Eccomi”) non si
accompagnava a una dizione ortodossa. Si è raccontato che il suo duro accento di Brooklyn, lo
stesso che più tardi altri attori come Robert De Niro, tenteranno di recidere per rendere più
fonogeniche le proprie voci, provocò l'esplosione delle valvole di registrazione proprio nel set del
film The Wild Party. Un'umiliazione che, vera o no, i giornali non mancarono di sottolineare
facendo ulteriormente sprofondare la popolarità dell'attrice nel fango. Anche dopo il matrimonio
con l'attore feticcio del retto cowboy, Rex Bell, la Bow non ebbe pace. Ripartì il motore del
"Linciamo Fatty" messo in moto da un vortice di accuse perbeniste che partiva dalla Chiesa che
accusava Hollywood di essere un “cimitero della virtù” e passava dai grandi proprietari degli
Studios che usavano Clara Bow come capro espiatorio per la condotta immorale di tutto il loro
organico. I giornali scandilistici non la risparmiarono mai fino a portarla ad un esilio forzato,
dovuto anche a delle violente crisi nervose che la costrinsero a rifugiarsi in numerose case di cura.
Proprio in una di queste nel 1965, a causa di un attacco di cuore morì, terminando una vita il cui
indice di felicità parrebbe purtroppo paragonabile a quello segnato nel suo profetico cognome.
Joan Vollmer nacque a Loudonville, una suburbia di Albany, nel 1924. La sua famiglia era
benestante ma lei lasciò casa per studiare nella vicina New York. Nei primi mesi del ‘40 sposò Paul
Adams, uno studente in legge che però venne presto richiamato a combattere nella Seconda Guerra
Mondiale. Da lui Joan ebbe una figlia, Julie, che visse con lei fino al ritorno del padre. Durante il
periodo di assenza del marito conobbe Edie Parker, futura moglie di Jack Keruac, grazie alla quale
partecipò alle vibranti ed effervescenti serate che furono il brodo primordiale da cui uscirono molte
delle idee e dei personaggi che apparterranno poi alla cosiddetta Beat Generation, come Allen
Ginsberg, Jack Keruac e William Burroughs. La Vollmer oltre a mettere al servizio di quel gruppo
la sua spiccata intelligenza e cultura in ambito filosofico e letterario ebbe dei flirt sia con Keruac
che con Ginsberg. Uno dei fermi capisaldi di quella che poi diverrà la cultura Beat, da cui poi
emerse il fenomeno Hippie, era la convinzione
che l’esperienza personale fosse il gradino
indiscutibilmente più alto del percorso verso la conoscenza e stesse alla base per una valida
comunicazione artistica. Così, oltre ai viaggi, alle scorribande, ai rapporti sessuali promiscui,
cominciarono a provare le più disparate sostanze stupefacenti disponibili all’epoca. Narcotici,
sedativi, eccitanti, stimolanti e sostanze psicotrope in genere. L’uso massiccio di droghe, legato
pure a una poliomielite contratta in giovane età, portarono la Vollmer ad avere crisi nervose che
sfociarono in allucinazioni. Quando il marito tornò dalla guerra come marine la trovò in uno stato
pietoso e chiese e ottenne il divorzio oltre all’affidamento della piccola Julie. Era il 1946, anno in
cui Joan cominciò la sua relazione con Burroughs, che fino ad allora era considerato uno schivo
omosessuale, con il benestare di Ginsberg che considerava l’unione di quelle due menti una
possibilità stimolante per entrambi. In quell’anno suo malgrado la Vollmer venne anche ricoverata
nell’ospedale psichiatrico di Bellevue di NY dopo un abuso di amfetamine. Da quel luogo poi
Burroughs la portò via, e i due convolarono a nozze col rito civile. Da allora lei si fece sempre
chiamare Joan Vollmer Burroughs. Il loro amore li portò a condividere case, viaggi, feste, denuncie,
droghe, amici e portò alla nascita di William Burroughs Jr. nel ‘47. Ma l’affetto smisurato che lei
provava per il suo “Bill” non era ricambiato da quell’uomo alienato e introspettivamente contorto
che era il mentore della Beat Generation. Alla fine degli anni ’40 l’intera famiglia si trasferì a
Messico City, luogo da cui subito il marito partì alla volta del Sud America in compagnia di un
ragazzo. A quel punto il legame era incrinato dai numerosi risentimenti della Vollmer per le
continue scappatelle omosessuali del marito, fino ad allora tollerate, di cui quella era solo l’ultimo
magro esempio. Lo stesso Ginsberg si accorse che la situazione era diventata sentimentalmente
devastante per la Vollmer, di fronte alla quasi indifferenza di Burroughs. Venne avviata così una
pratica di divorzio con il consenso di entrambi. Il processo però risentì della lentezza di tutte le
cause legali. Poco prima della sentenza di separazione, il 6 settembre 1951 Bill e Joan so trovavano
ospiti nella soffitta di un bar di un amico. Durante una festa a base di alcool e droghe Bill disse
scherzosamente agli amici presenti che nel futuro aveva intenzione di mantenere la famiglia
andando a caccia di orsi. Joan, che in quel periodo non si lasciava scappare occasione per umiliare il
marito infedele, gli rispose che allora sarebbe morta di fame. L’orgoglio di Burroughs riguardo alle
sue capacità di tiratore venne così ferito. Egli così propose alla moglie una dimostrazione della sua
mira, alla Guglielmo Tell. Le mise un bicchiere sulla testa e la fece appoggiare al muro. La
Vollmer, ebbra e rancorosa ma consenziente, disse provocante a Bill di stare attento perchè lei non
sopportava la vista del sangue, provocando una risata generale in quell’ambiente giocoso. Tutti si
fidavano ciecamente dell’effettiva abilità di Burroughs più volte in altre occasioni dimostrata. Ma a
causa della lucidità precaria, mentre egli si stava accertando che la pistola fosse carica, partì uno
sparo che colpi la testa di Joan e la uccise. Lei cadde lentamente fra le braccia disperate del marito
mentre il bicchiere finì per terra perfettamente integro. Questa fu la prima versione dell’accaduto,
coadiuvata da testimoni. Successivamente ne vennero tirate fuori molte altre contrastanti e infine,
sotto consiglio dell’avvocato Bernabè Jurado, Burroughs dichiarò in tribunale di aver fatto partire
un colpo accidentale durante la trattativa con un acquirente per la pistola. Per lui non si potè
comunque evitare un’incarcerazione che durò due settimane. William Burroughs venne scarcerato
grazie all’immancabile intervento della famiglia nelle sue numerose situazioni di difficoltà, che,
nella persona del fratello di William, pagò migliaia di dollari in cauzione e spese legali, incluse
mazzette per secondini e dirigenti della prigione. Joan Vollmer, la donna che per le sue attitudini
letterarie, e non, venne considerata la principale musa ispiratrice del movimento Beat, aveva 27
anni. In una dichiarazione molto successiva all'accaduto Burroughs ammetterà che la morte della
moglie e il suo successivo essere preda di un Ugly Spirit (lo Spirito Abominevole), lo avrebbero
costretto a rinchiudersi in se stesso e a trovare come unico metodo di liberazione la scrittura.