GENNARO DELLA MONICA
(1836 – 1917)
pittore scultore architetto
Gennaro Della Monica rappresenta la punta di
diamante di una serie di espressioni artistiche
abruzzesi che da tempo si è cominciato a
valorizzare, sottraendole al cono d’ombra che le ha
caratterizzate per un lunghissimo arco di tempo.
Pittore, soprattutto, ma anche scultore di pregio e
architetto, nacque a Teramo, quarto di dieci figli, il
10 ottobre 1836 da famiglia napoletana. Il padre
Pasquale era stato anch’egli pittore ed aveva iniziato
la sua brillante attività di figurista classicheggiante
tra la stima di colleghi e maestri nell’Accademia di
Belle Arti di Napoli quando, nel 1821, per sospetto
di appartenenza alla Carboneria, fu espulso e
dovette riparare a Teramo con la moglie dove
ottenne l’insegnamento di Disegno nel locale Real
Collegio.
La spiccata disposizione naturale per l’arte del
piccolo Gennaro indusse il padre a desistere
dall’idea di avviarlo agli studi letterari e fu proprio lui ad istradare il giovane all’arte
impartendogli i primi elementi di disegno e dell’uso dei colori. Il padre fu per Gennaro il
miglior maestro che potesse avere, lo sottopose per anni ad una severa disciplina di
studio, fino a quando nel 1853, a 17 anni, gli consentì di trasferirsi a Napoli per
frequentare l’Accademia di Belle Arti. Nella capitale il giovane Della Monica si distinse a
tal punto da venire ammesso ad esporre nella Mostra Borbonica del 1855 dove ricevette
la medaglia d’argento, il primo di una lunga serie di riconoscimenti che ottenne nella sua
vita artistica.
Fu determinante per lui l’incontro con l’artista Domenico Morelli, del quale iniziò a
frequentare lo studio al di fuori degli impegni scolastici. Rimase colpito dalla sua
personalità e profondamente influenzato dalla forza decisamente innovativa del suo
romanticismo storico. Nello studio del Morelli venne in contatto con molti altri artisti
come Federico Rossano, Marco De Gregorio, Michele Cammarano, Gabriele Smargiassi
e soprattutto frequentò Filippo Palizzi, altro napoletano d’Abruzzo. Del vastese seguì gli
insegnamenti, facendo tesoro del suo magistero e mettendo in pratica con
determinazione i suoi principi incentrati sull’importanza nodale del “vero”, soprattutto
nel corso delle ricerche condotte nella campagna napoletana in compagnia degli artisti
citati. Nel 1861, in conseguenza di una rottura con Morelli, Della Monica si trasferì in
Lombardia al seguito del suo ricco mecenate, il conte ungherese Sandor Teleki,
colonnello garibaldino. Grazie al conte conobbe a Milano illustri maestri d’arte, da
Eleuterio Pagliano a Girolamo e Domenico Induno, e divenne amico e ammiratore di
Tranquillo Cremona e di Federico Faruffini. Grazie ancora al suo potente benefattore,
nel ’63 si trasferì a Firenze dove condivise lo studio con Francesco Saverio Altamura,
artista pugliese che, dopo una visita alla Esposizione Universale di Parigi, nel 1855, aveva
riportato a Firenze le nuove tendenze parigine che contribuirono alla nascita della
corrente pittorica dei Macchiaioli. Nel capoluogo toscano oltre alle nuove tendenze
pittoriche, frequentò vari circoli letterari tra cui il famosissimo e raffinato “Caffè
Michelangiolo”. Nel salotto della conterranea Giannini Milli, poetessa improvvisatrice e
animatrice di celebri circoli culturali, incontrò Edmondo De Amicis e Francesco
Dall’Ongaro, insieme ad altri personaggi d’eccezione come Michail Bakunin, il filosofo
anarchico russo col quale entrò in notevole confidenza. Il suo soggiorno a Firenze dal
1863 al 1867, ebbe certamente influenza sulla sua formazione stilistica, qui infatti, era
particolarmente praticata la pittura di soggetto storico; questo genere di pittura, e quella
di tema sacro cui si dedicava sin dagli anni giovanili, dettero a Della Monica grande
prestigio ed un inatteso successo che lo portarono ad avere contatti con i maggiori e più
affermati pittori fiorentini. Appartengono a questo prolifico periodo diverse tele di
soggetto storico delle quali particolarmente apprezzate si rivelarono “Ferruccio che
conduce i suoi a Gavignana” acquistato nel 1863 dal Comune di Napoli, e “Salvator
Rosa fra i briganti”, acquistato nel 1864 da S.M. il Re Vittorio Emanuele II. Entrambe
le opere si attestano come le sue più note opere giovanili.
Nel 1864 alla Grande Esposizione di Torino partecipò con “Il cacciatore e la quaglia”
e l’anno seguente, nel 1865, alla mostra allestita per il sesto centenario della nascita di
Dante, presentò “Stato maggiore ungherese con Garibaldi a Santa Maria di
Capua”, molto elogiato dalla stampa. Molti dei suoi dipinti che presentava alle mostre,
venivano acquistati da enti come il suo “Mosè salvato dalle acque” che fu acquistato
dal Banco di Napoli e attualmente conservato nella sede della Banca dell’Adriatico a
Teramo. Fu questo per Gennaro Della Monica il momento di maggiore considerazione
in cui era tenuto da parte dei contemporanei, le sue opere venivano esposte con vivo
apprezzamento in Toscana e a Napoli.
Il suo proficuo soggiorno fiorentino fu improvvisamente interrotto nel 1867 quando
decise di tornare a Teramo per essere vicino al padre malato. Quello che doveva essere
nelle intenzioni dell’artista un periodo di permanenza limitato, divenne invece un ritorno
definitivo nella sua città natale. A Teramo, dalla quale non si sarebbe più allontanato,
ricevette la cattedra di Disegno nel Reale Istituto Tecnico che era già stata del padre
senza però trascurare la sua attività pittorica alla quale, invece, si dedicò con rafforzato
vigore e dedizione crescenti fino alla fine dei suoi giorni. Tra gli allievi di Della Monica
grande considerazione ebbero la pittrice Carlotta De Colli, l’archeologo Vincenzo Rosati
e il letterato Fedele Romani. L’inaugurazione del nuovo Teatro Comunale di Teramo,
nell’aprile del 1868, offrì al giovane pittore l’occasione di cimentarsi in un genere, la
caricatura, nel quale rivelò eccezionale talento, prendendo in giro protagonisti e
spettatori sia del palcoscenico teatrale che del palcoscenico cittadino. Circa venti le
tavole della serie “Teatro di Teramo”, tutte di grande effetto nonostante la non eccelsa
qualità perché stampate con mezzi di fortuna.
La sua intensa attività artistica intrapresa dal suo ritorno in Patria spaziò dal genere sacro
a quello storico a impressioni dal vero, opere nelle quali è sempre evidente l’amore per la
provincia teramana. Tra i lavori a tema sacro, degne di nota la considerevole “Discesa
dalla croce”, “Sant’Andrea” e “San Gaetano” per la chiesa dell’Addolorata a
Mosciano Sant’Angelo, per la quale precedentemente aveva realizzato una “Predica di
san Vincenzo” e un “Sant’Antonio ed Ezelino da Romano”. Altre rilevanti pale
d’altare furono da lui prodotte per varie chiese di Teramo: “l’Apparizione di Cristo”,
per quella di sant’Agostino; la “Madonna di Pompei” per quella di san Matteo; il
“Martirio di santa Lucia” per la Madonna delle Grazie e una “Madonna del Rosario”
per la Cappella della Madonna della cona. Per le opere a tema storico, particolarmente
degne di rilievo si attestano la “Morte di Muzio Attendolo Sforza”, conservato a Chieti
nel Museo “Barbella” ma soprattutto “Bruto che condanna i figli”, realizzato per il
palazzo del Tribunale di Teramo, che risente di quella tendenza del romanticismo storico
napoletano amato in gioventù.
Nel 1878 gli venne riconosciuto il titolo di professore onorario nell’Accademia di Belle
Arti di Napoli e l’incarico di far parte della Commissione Provinciale per i Monumenti,
testimonianze dell’apprezzamento riservato non solo ai suoi meriti artistici, ma anche a
quelli culturali e letterari che nel tempo venne affinando e di cui si coglie più di un
significativo riflesso negli scritti da lui pubblicati come “Ricordi artistici ed
impressioni” (Teramo, Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti, 1903) e nella sua
attività di pubblicista per il “Corriere abruzzese”, diretto da Francesco Taffiorelli, sul
quale negli anni 1892 e 1900 apparvero gli articoli relativi al restauro della chiesa della
Madonna delle Grazie a Teramo.
Con l’approssimarsi alla maturità, si accentuò in lui quella propensione a dipingere al
cospetto del vero, al punto da avvertire l’esigenza di vivere a contatto con la natura.
Pertanto le pagine pittoricamente più fini ed eloquenti della sua produzione risultano
essere quelle in cui maggiore era l’interpretazione paesaggistica, relative al territorio
compreso fra la ondulata fascia collinare adriatica e l’entroterra teramano fino ai rilievi
montuosi del Gran Sasso e della Laga.
Alla fine degli anni Ottanta
dell’800, progettò e fece
costruire, in ossequio alla
moda del tempo che
imponeva ai signori di
avere un qualcosa di
medievale in casa, un vero
e proprio castello nel quale
vivere con la famiglia, sul
modello del complesso del
Valentino
a
Torino.
Terminato nel 1917, la
costruzione, oggi proprietà
del Comune di Teramo,
ancora domina la città
dall’alto del colle San
Venanzio. Per rendere il tutto ancora più autentico, l’artista fece costruire attorno
all’edifico anche il borgo. All’interno un susseguirsi di stanze e passaggi segreti arricchiti
da trompe-l’oeil del maestro e da sculture originali.
Affiliato alla loggia massonica “Melchiorre Delfico”, fu molto attivo e presente nella vita
civile della città. Fece parte di comitati elettorali prima in favore di Settimio Costantini,
deputato teramano della sinistra storica, e poi in favore di Felice Bernabei, direttore
generale delle Belle Arti che subentrò a Costantini. Tra il 1899 e il 1900 Della Monica
fece parte del comitato “Artisti teramani per Barnabei” insieme agli scultori Pasquale
Morganti e Luigi Cavacchioli, al pittore Salvatore Di Giuseppe, al fotografo
Gianfrancesco Nardi e al critico Guglielmo Aurini.
Tra le tante cose realizzate dall’artista teramano, anche il disegno delle divise della locale
banda musicale.
Gennaro Della Monica morì nella sua città il 17 maggio 1917.
Solo recentemente la figura dell’artista abruzzese è stata riscoperta e valorizzata dai critici
d’arte attraverso varie iniziative volte a far conoscere al grande pubblico la sua opera
inserita nella pittura ottocentesca del paesaggio di cui Della Monica è stato eccellente
interprete. La principale iniziativa in tal senso è stata la mostra itinerante “Italia Intatta”,
un lungo viaggio attraverso il paesaggio italiano, dai campi agricoli con i contadini e i
lavoranti, ai casolari e le colline, olii sui toni del giallo, in cui la costruzione dello spazio è
affidata ai contrasti cromatici di macchie di colore contrastanti. La mostra, curata da
Philippe Daverio, Paola Di Felice, Cosimo Savastano e Claudio Strinati, promossa dal
Comune di Milano, Comune di Teramo, Comune di Napoli, Regione Abruzzo e
dall’Ente Parco Nazionale del Gran Sasso-Laga, si è tenuta al Palazzo Reale di Milano,
dal 22 luglio al 31 agosto 2014, dove le opere dell’artista teramano hanno rievocato il
fascino di tantissimi luoghi naturali, l’immagine di una nazione prima della rivoluzione
industriale, dell’abbandono della terra e che ha rischiato di perdere, con la memoria,
l’incanto seduttivo di una antica bellezza. La mostra ha rappresentato un momento di
profonda nostalgia per un’Italia bellissima che non esiste più, per incuria, ignoranza e
speculazione, ma anche nostalgia per la capacità pittorica che sapeva esprimere. Il
percorso della mostra si è sviluppato in sei sezioni, la prima con l’impressione e la macchia,
la seconda en plein air, con molti quadri del suo periodo napoletano. Le sezioni successive
hanno rappresentato un vero e proprio viaggio attraverso il paesaggio italiano. Del periodo
toscano dell’artista erano presenti diversi elementi di derivazione macchiaiola, mentre al
periodo lombardo erano riferite le
prime austere vedute montane,
dai cieli intensi e tempestosi,
eseguite all’alba e al tramonto,
con una tavolozza intrisa di gialli
e di viola, successivamente
ripresa, ampliata, rimeditata e
confrontata con lo scenario
aspro dell’Appennino abruzzese.
L’amore per la sua terra è
emerso
nell’armonia
del
paesaggio popolato di pastorelli
e contadini e in altre scene
ispirate al folklore locale, in cui
venivano minuziosamente descritte le fiere del bestiame sullo sfondo delle valli e dei
monti abruzzesi. La stessa mostra è stata in seguito allestita a Napoli, nelle sale del Castel
dell’Ovo, dal 7 novembre 2014 al 10 gennaio 2015 dove è emerso il legame che il pittore
ebbe con l’Accademia Artistica Napoletana e con la Scuola di Resìna di Marco De
Gregorio a cui aderì e di cui sposò la causa della ricerca del vero poetico che affidava all’arte
lo studio dal vero, l’immediatezza dell’impressione e l’uso di colori puri affine a quello
dei macchiaioli.
Carlo Maria d’Este
(Centro reg.le Beni Culturali)
BIBLIOGRAFIA E FONTI:
Giacinto Pannella (a cura di), Guida illustrata di Teramo, Bezzi e Appignani, 1888,
ristampa anastatica, a cura di Alessandra Gasparroni, Teramo, Ricerche e Redazioni, 2007;
Alberto Scarselli, Gennaro Della Monica. Pittore Abruzzese dell’Ottocento, Roma, Edizioni
Conchiglia, 1954;
Cosimo Savastano, Gennaro Della Monica. 1836-1917, Sant’Atto di Teramo, Edigrafital,
2004;
Cosimo Savastano, Della Monica Gennaro, in Gente d’Abruzzo. Dizionario biografico,
Castelli, Andromeda, 2006, vol. 4
Sandro Melarangelo, Due pittori teramani: Gennaro Della Monica e Glauco Barlecchini, in
"Teramo Nostra", a. I, n.1, ottobre-dicembre 2007, p. 4
Philippe Daverio, Paola di Felice (a cura di), Gennaro Della Monica. L’Italia intatta.
Teramo (1836 -1917), Torino, Allemandi & C., 2014
Aggiunto in Sulmona il 24 marzo 2015