Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Tigor Rivista di scienze della comunicazione A.1 (2009) n.2 (luglio dicembre) Sommario 2 Presentazione 4 Gabriele Qualizza Lo storytelling nella comunicazione d’impresa 18 Enzo Marigonda Esperienze e forme di scrittura online 23 Katia Laura Sidali, Achim Spiller Tradizione e tecnologia online a confronto. Il passaparola elettronico: perché l’imprenditore agrituristico dovrebbe tenerne conto 32 Stefano Amadeo Produzioni alimentari legate al territorio: le forme e l’intensità della protezione giuridica nel mercato europeo 50 Moreno Zago Conoscere e ospitare ... con più gusto. Viaggio nel turismo enogastronomico 56 Laura Capuzzo Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 75 Alberto Berardi Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro 82 Serena Tomasi Il pluralismo linguistico tra identità e differenza 95 Francesca Fabris Il diritto alla privacy tra passato presente e futuro 100 Eugenio Ambrosi A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 110 Caterina Dolcher Amministrazione e cittadino: quale comunicazione. Il ruolo del difensore civico 122 Marco Cossutta Alcune digressioni sull’esecuzione della pena con particolare riguardo al cittadino straniero. Dalla comunicazione interculturale alla funzione rieducativa della pena ed al pieno sviluppo della persona umana. 166 Stefano Favaro L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa e la nuova positività: riflessioni per l’inquadramento del dibattito sull’interpretazione giuridica nel novecento italiano 192 Miguel Ayuso Francesco Maurizio Di Giovine La presenza Carlista a Trieste 1 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Presentazione I l secondo fascicolo della rivista raccoglie una serie di contributi, i quali, se appaiono tra loro distanti per l’oggetto ed il metodo con cui viene approcciato, sono accomunati dalla prospettiva di indagine; questa, infatti, volge ad affrontare in vari modi ed in diversi aspetti il problema della comunicazione, la cui analisi caratterizza la presente iniziativa editoriale. Partendo da una ricognizione sulle nuove forme di comunicazione di impresa, dallo storytelling, che rappresenta l’oggetto del contributo di Qualizza, al passaparola elettronico, di cui si occupa, nella dimensione dell’agroalimentare, Sidali, si giunge all’analisi della comunicazione del rischio, trattata da Ambrosi con particolare riguardo al modo in cui la regione Friuli Venezia Giulia ha affrontato il fenomeno della cosiddetta influenza suina. Il rapporto fra cittadino e pubblica amministrazione viene altresì analizzato nel contributo di Dolcher, già difensore civico del Friuli Venezia Giulia, ove si discute sulla qualità della comunicazione pubblica e sul modo in cui i cittadini percepiscono il linguaggio delle amministrazioni. Ancora di comunicazione, questa volta declinata sul versante privato, si occupa Marigonda, il quale concentra la propria attenzione sulle modalità di scrittura on line, con particolare riguardo agli stili di scrittura interattivi come le chat lines ed i gruppi di discussione in internet. Su fronte della tutela della privacy interviene Fabris ripercorrendo le tappe che hanno portato a riconoscere, nell’ordinamenPresentazione to giuridico italiano, la tutela dei dati personali evidenziando, nel contempo, la natura poliedrica del concetto di privacy. Un campo d’indagine molte volte sottovalutato viene affronto dal contributo di Capuzzo, nel quale si indaga sulla presenza di organi di stampa e più in generale di strumenti di comunicazione promossi e gestiti dalle comunità italiane residenti all’estero. Gli italiani all’estero, anche per tramite dei loro mezzi di comunicazione si palesano sempre più quale momento di rilancio del “sistema Italia” sui mercati mondiali. Il tema del pluralismo linguistico con particolare riguardo al mondo del diritto è oggetto di riflessione nel contributo di Tomasi, che, attraverso un approccio critico, analizza lo Statuto della Corte Penale Internazionale. La questione giuridica trova ulteriore specificazione nell’articolo di Favaro, che affronta il tema della interpretazione normativa proponendo una breve ma articolata disamina delle principali teorie interpretative sviluppatesi nella cultura giuridica italiana del secondo Novecento. Parimenti di tenore giuridico sono i contributi di Berandi e di Cossutta; il primo, partendo delle recenti vicende Welby ed Englaro, si incentra sull’attuale dibattito in ambito bioetico, il secondo, riflettendo sulle recenti normative in tema di immigrazione, propone una disamina della funzione rieducativa della pena nell’ordinamento giuridico italiano. Di sapore apparentemente locale appare l’articolo di Ayuso e Di Giovine, i quali, riper2 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) correndo la vicenda triestina dell’esilio Carlista, offrono nel contempo spunti di riflessione sul pensiero tradizionalista, di cui i richiamanti sovrani di Spagna si fanno testimoni. I contributi di Amadeo e di Zago chiudono idealmente il presente fascicolo; in questi riportano i loro interventi alla tavola rotonda su Sapere creare e comunicare i sapori, organizzata lo scorso settembre nell’ambito del convengo nazionale di studi … il più vicino possibile ai cittadini …, promosso dall’Associazione di Studi su «Diritto e società» e dal corso di master in primo livello in Analisi e gestione della comunicazione. In questo semestre, la rivista Tigor ha organizzato a cavallo dei mesi di maggio e giugno, di concerto con il predetto master e con il Centro di Ricerca sulla Metodologia Giuridica, il seminario di studi su Comunicare la comunità, al quale sono intervenuti di professori Capano, Fileni, Lanzillo e Moro, nonché l’incontro su Quando il linguaggio pubblico veicola pregiudizio e discriminazione, ove è intervenuta la professoressa Ravenna. Più di recente, fra ottobre e dicembre, la rivista si è impegnata nell’organizzazione della tavola rotonda su Comunicazione e plurilinguismo nel processo di integrazione europea. Il caso del litorale adriatico, con interventi di Lazzari, Capuzzo, Dorigo, Forza, Turcinovich Giuricin, Di Leva, Rocco, Rossetti e Zanini, del seminario di approfondimento su Davanti alle parti. Regole del contraddittorio e logica della decisone penale, ove sono intervenuti Marandola, Moro, Rigo, Seibold e Spangher, della tavola rotonda su Diritto e costruzione narrativa. La connessione fra diritto e letteratura, con interventi di Cossutta, Heritier, Mittica e Restivo, nonché della tavola rotonda Comunicare la società multiculturale: esperienze a confronto, in collaborazione con COSPE – Cooperazione pr lo Sviluppo dei Paesi Emergenti, progetto MediAttori con interventi di Malafronte, Giannoni, De Oliveira, De La Cruz, Soukova, Becce, Cantarut, Samba, Misso e Gon. I contributi lì presentati troveranno ospitalità, parimenti a quelli del seminario di discussione su Didattica forense. Il metodo di formazione dell’avvocato, tenuto a Pordenone dalla locale Scuola Forense, in collaborazioPresentazione issn 2035-584x ne con il master in Analisi e gestione della comunicazione, sui prossimi fascicoli della rivista. 3 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Lo storytelling nella comunicazione d’impresa* Gabriele Qualizza Abstract Parole chiave Il presente contributo propone una ricerca esplorativa, focalizzata su aziende italiane, che hanno sviluppato la formula dello storytelling per la comunicazione con i propri stakeholder. È una soluzione innovativa, che implica il superamento degli approcci tradizionali, basati sulla trasmissione unilaterale del messaggio: invece di proporre una manifestazione egocentrica della corporate identity, si tratta di realizzare un modello d’interazione più evoluto, che dia all’interlocutore un ruolo attivo, basato non solo su un più intenso coinvolgimento emozionale, ma anche sulla sua attiva partecipazione come partner del processo comunicativo. advergame; infotainment; stakeholder; storytelling; corporate branding; comunicazione istituzionale. D fondatore della Apple (la storia di un ragazzo povero, che dopo aver abbandonato l’Università si trova a frequentare un corso di calligrafia: un imprinting che orienta il suo interesse verso la comunicazione visiva), la seconda è una vicenda di amore e di abbandono (la creazione del primo Macintosh nel garage dietro casa, l’incontro con la futura moglie, l’allontanamento dall’azienda e il successivo rientro), la terza è una storia di morte e di resurrezione (la diagnosi di una terribile malattia, alla quale sopravvive per miracolo). La conclusione è un invito a credere nel domani, sempre e comunque. Steve Jobs parla con voce rotta dall’emozione, in maniera coinvolgente e appassionante. In realtà, la performance è attentamente preparata a tavolino: nel raccontare la sua storia di vita, il titolare della Apple si adegua alle norme dello storytelling management. Non parla di business, di dati, di argomentazioni noiose. Lascia spento il PowerPoint. Per introdurre i suoi ascoltatori in un cosmo ricco di miti e di alla metà degli anni Novanta lo storytelling, ossia l’arte di raccontare storie, incontra un sorprendente successo in molteplici ambiti della vita sociale: dalla politica al marketing, dalla pubblicità alla formazione, dalla progettazione dei parchi a tema ai videogiochi. In questo contesto, numerose aziende – da Geox a Nike, da Apple a Microsoft – cominciano a ricorrere a formule narrative per la costruzione e per la comunicazione della propria identità istituzionale1, inserendo il corporate theme e la mission aziendale nella trama di un racconto, in modo che la fredda logica del business lasci spazio ai significati, alle intenzioni, alle emozioni. Un esempio eloquente è il discorso pronunciato il 12 giugno 2005 da Steve Jobs all’Università di Stanford. È un “racconto” articolato in tre parti: la prima è il romanzo di formazione del 1 B. Czarniawska, Narrating the organization. Dramas of institutional identity, Chicago, 1997; trad.it. di L. Morra, Narrare l’organizzazione. La costruzione dell’identità istituzionale, Torino, 2000. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa 4 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) simbologie, abitato da eroi e anti-eroi, che sperimentano passioni antiche come il mondo, universali. Come nelle fiabe e nei romanzi. Sembra dunque attualizzarsi un’inedita alleanza tra letteratura e impresa. La crisi delle moderne meta-narrazioni di emancipazione2 apre il varco a una proliferazione di micronarrazioni, riferite ad ogni ambito dell’esperienza umana: in questo senso, anche il mondo dell’impresa sembra investito dall’inatteso revival del racconto3. In realtà, lo storytelling promette molto di più: si propone come forma discorsiva dell’azienda post-moderna4, un’impresa allo stato gassoso, liquida e plurale, in continuo cambiamento, che declina la propria comunicazione di corporate secondo i criteri dell’emotional branding5. È vero che piccole fiction e slice of life erano presenti in pubblicità fin dai tempi del Carosello, con l’obiettivo di catturare l’attenzione dello spettatore, ma l’advertising in quel momento ruotava per intero attorno al prodotto, alle sue funzionalità e alle sue prestazioni. Nell’era post-pubblicitaria siamo invece posti di fronte a un doppio movimento: la prima novità è lo sviluppo narrativo a partire dal brand. Ciò presuppone che la marca abbia una personalità, un carattere, un temperamento, che possono evolvere e cambiare nel corso del tempo6. La seconda novità è che le narrazioni vengono sempre più spesso collegate alla comunicazione istituzionale, elaborata secondo il concetto del corporate branding 7. 2 J.F. Lyotard, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, Paris, 1979; trad.it. di C. Formenti, La condizione post-moderna, Milano, 1981. 3 Si pensi al romanzo collettivo Le Aziende In-visibili, scritto da un centinaio di personalità dell’economia e della cultura, che utilizzano la metafora dell’azienda per parlare del mondo contemporaneo. Cfr. M. Minghetti (a cura di), Le aziende in-visibili, Milano, 2008. 4 C. Salmon, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, Paris, 2007; trad.it. di G. Gasparri, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, 2008. 5 M. Gobé, Emotional Branding. The new paradigm for connecting brands to people, New York, 2001. 6 M. Lombardi (a cura di), La marca, una come noi, Milano, 2007. 7 Cfr. M.J. Hatch, M. Schultz, Are the strategic stars aligned for your corporate brand?, in “Harvard Business Review”, 79/2 (2001), pp. 128-134; Id., Bringing the corporation into Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x È su questo tema che intendiamo focalizzare l’attenzione, con particolare riguardo per quanto si sta muovendo nel nostro Paese. Gli obiettivi del presente studio si possono ricondurre a tre principali esigenze: innanzitutto, offrire dati ed elementi di riflessione, utili a mettere in luce le caratteristiche e a individuare le specificità di questo fenomeno; in secondo luogo, comprendere le motivazioni che giustificano l’ampio e crescente ricorso da parte delle aziende a formule narrative per la comunicazione istituzionale; infine, valutare il ruolo acquisito dagli stakeholder di volta in volta coinvolti nel processo comunicativo. Per raggiungere tali obiettivi, seguiamo un percorso di tipo induttivo, mediante la tecnica dello studio di casi: a partire da concreti esempi di “racconti aziendali” utilizzati a livello istituzionale, cerchiamo di trarre considerazioni trasversali, utili a “leggere” tale forma di comunicazione nel suo complesso. L’analisi dei casi aziendali è preceduta da un inquadramento teorico e si conclude con l’esame delle implicazioni manageriali e con l’indicazione di possibili percorsi per la ricerca futura. 1. Riferimenti teorici: due diversi approcci allo storytelling Il tema dello storytelling è stato finora affrontato a partire da due diversi approcci: - il primo filone, quello dello storytelling management, prende le mosse da un interesse prevalentemente strumentale8. L’arte di raccontare storie è intesa come tecnica, espediente utilizzabile per rendere la comunicazione più coinvolgente e accattivante. A tal fine, diventa oggetto di interesse tutto ciò che può incorporare al proprio interno un elemento narrativo, traducibile a sua volta in un artefatto simbolico, capace di “parlare” a pubblici diversi9: in corporate brand, in “European Journal of Marketing”, n. 7/8 (2003) pp. 1041-1064; E. Scholes, D. Clutterbuck, Communication with Stakeholders. An Integrated Approach, in “Long Range Planning”, 31(2), 1998, pp. 227-238. 8 A titolo di esempio, cfr. S. Denning, Squirrel Inc. A fable of leadership through storytelling, San Francisco, 2004; trad. it. di N. Gaiarin, Scoiattoli SpA. Storie ������������������������ di noci e leadership, Milano, 2005. 9 A. Fontana, Manuale di Storytelling. Raccontare con ef- 5 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x questa prospettiva, possono diventare “storie” tutti i discorsi con cui la direzione strategica cerca di orientare l’opinione pubblica, ma possono essere rielaborati in termini narrativi anche i messaggi diffusi all’interno dell’organizzazione, così come i processi comunicativi tesi a presidiare i significati che le persone attribuiscono alle proprie esperienze di consumo. Un meeting, un commercial, un comunicato stampa, il design di un prodotto, una newsletter, un logo aziendale, un programma di infotainment, un advergame, le dichiarazioni valoriali contenute nei documenti che definiscono l’identità d’impresa: tutte queste espressioni possono trasferire all’interlocutore un elemento narrativo, che può essere anche soltanto accennato, non necessariamente sviluppato in forma organica e compiuta. Non mancano, all’interno di questo filone, le applicazioni originali: basta pensare alle campagne pubblicitarie sviluppate in forma di fiction a puntate (Barilla, Tim, Lavazza), secondo la logica dell’advertainment10. Tuttavia, il prezzo da pagare per l’uso sempre più largo e comprensivo del termine è la banalizzazione del concetto stesso di narrazione, che rischia di trasformarsi in una marca fonetica priva di significato11; - il secondo filone, quello dell’organizational storytelling12, si sviluppa nell’ambito degli studi organizzativi: il punto di partenza è l’idea che storie, saghe, miti, riti e cerimoniali possano essere considerati espressioni del nucleo profondo di una cultura organizzativa13. Da lì, l’attenzione si dilata al vissuto concreto delle per- sone che operano in azienda, a ciò che rimane nell’ombra dietro i discorsi e i comportamenti ufficiali. L’analisi delle storie organizzative, raccolte dalla viva voce dei protagonisti, porta alla luce un complesso e polifonico intreccio di racconti che si parlano, si scambiano, si contraddicono14. Emergono narrazioni parallele, diverse e alternative rispetto a quelle canoniche: tracce, rumori di fondo, materiali di scarto, frammenti, nei quali si depositano le vite personali, con tutto il carico di desideri e vissuti inconsapevoli, spazi interstiziali in cui si annida la storia profonda dell’organizzazione15. Si evidenzia come le narrazioni offrano agli individui e ai gruppi «uno spazio poetico in cui la fantasia prevale sulla realtà»16, per il forte contenuto immaginifico ed emozionale che sono in grado di esprimere. All’interno di questo filone di ricerche si sviluppa inoltre una crescente consapevolezza delle rilevanti implicazioni di carattere teorico, che il tema dello storytelling sottende. In prima istanza, l’attenzione si focalizza sulla necessità di un approccio “narrativo” alla conoscenza, a partire dalla nota distinzione introdotta da Bruner tra comprensione paradigmatica e comprensione narrativa17. La prima modalità cognitiva procede in modo lineare, logico-scientifico, puntando a separare, a individualizzare, a comparare, a calcolare. Essa ammette solo un’unica rappresentazione della realtà alla volta, in quanto è orientata alla validazione secondo il criterio del vero e del falso. Il pensiero narrativo consente invece una ficacia prodotti, marchi e identità d’impresa, Milano, 2009, p. 26. 10 P. Musso, I nuovi territori della marca. Percorsi di senso, discorsi, azioni, Milano, 2005. 11 ������������ C. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, cit., p. 10. 12 ������������������������������������������������������ Per un quadro d’insieme, cfr. C. Rhodes, A.D. Brown, Narrative, organization and research, in “International Journal of Management Review”, 7 (3), 2005, pp. 167-188. 13 ����������������������������� I.I. Mitroff, R.H. Kilmann, Stories managers tell: a new tool for organizational problem solving, in “Management Review”, 67(7), 1975, pp. 18-28; E. Schein, Coming to a New Awarness of Organizational Culture, in “Sloan Management Review”, 25(4), 1984, pp. 3-16; trad.it. “Verso una nuova consapevolezza della cultura organizzativa”, in P. Gagliardi (a cura di), Le imprese come culture. Nuove prospettive di analisi organizzativa, Torino, 1995², pp. 395-415. 14 ������������ D.M. Boje, The Storytelling Organization: A Study of Story Performance in an Office-Supply Firm, in “Administrative Science Quarterly”, n. 36 (1991), pp. 106-126 15 ������������� Y. Gabriel, Organizations and their Discontents: A Psychoanalytic Contribution to the Study of Corporate Culture, in “Journal of Applied Behavioural Science”, n.27 (1991), pp. 38-336. 16 Op.cit., p. 333. 17 J. Bruner, J., The narrative construction of reality, in “Critical Inquiry”, n. 18 (1991), pp. 1-21; trad.it. “La costruzione narrativa della realtà”, in M. Ammaniti, D.N. Stern (a cura di), Rappresentazioni e narrazioni, Laterza, 1991. Simile è la distinzione tra paradigma del mondo razionale e paradigma narrativo proposta da W.R. Fisher. Cfr. Id., Narration as a human communication paradigm: the case of public moral argument, in “Communication Monographs”, n. 51 (1984). Lo storytelling nella comunicazione d’impresa 6 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) pluralità di rappresentazioni contemporanee del mondo, dal momento che il suo criterio di validazione è la plausibilità. Questa modalità cognitiva si nutre dunque di simboli, di miti, di metafore e di analogie, occupandosi di ciò che muta un semplice comportamento in un’azione umana, dotata di intenzioni e di significati18. In particolare, la conoscenza narrativa consente di stabilire un legame tra l’eccezionale e l’ordinario: attraverso le narrazioni le persone cercano dunque di elaborare spiegazioni, interpretazioni e giustificazioni per quanto di imprevedibile avviene nella vita quotidiana. In seconda battuta, «la nozione di sapere narrativo si accosta alla metafora del mondocome-testo»19. Si assiste dunque ad uno shift: dallo stoytelling visto in chiave epistemologica allo storytelling come ontologia20, via per costruire un’identità “narrativa” della stessa impresa. La crisi del fordismo mette in discussione i significati prescritti e prevedibili: si tratta allora di ripensare l’organizzazione come comunità di pratiche e di discorsi, sforzo collettivo di generazione del senso, secondo la prospettiva del sensemaking disegnata da Weick21, dunque come racconto in costante cambiamento. All’identità organizzativa, intesa come sostanza, si sostituisce un nuovo modello, nel quale l’identità è vissuta invece come racconto: non più una struttura monolitica, ma un filo che continuamente si dipana nel tempo, attraverso le storie dei diversi stakeholder con cui l’azienda interagisce22. I due filoni non si escludono a vicenda, la18 Come spiega Barbara Czarniawska, «all’interno del modo logico scientifico di sapere si ottiene una spiegazione riconoscendo un evento come un caso di una legge generale, o come appartenente a una certa categoria. All’interno del modo narrativo di sapere, una spiegazione consiste nel collegare un evento a un progetto umano». Cfr. B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit. p. 27. 19 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit. p. 9. 20 C.G. Cortese, L’organizzazione si racconta. Perché occuparsi di cose che effettivamente sono “tutte storie”, Milano, 1999, p. 9. 21 K.E. Weick, Sensemaking in Organizations, Thousand Oaks, Cal., 1995; trad.it. di L. Formenti, Senso e significato nell’organizzazione, Milano, 1997. 22 A. Fontana, Manuale di Storytelling, cit., p. 59. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x sciano anzi spazio ad un ampio set di variazioni intermedie: in definitiva, per essere efficace, l’astratto potere del pensiero narrativo deve comunque tradursi in oggetti fisici, in simboli, in manifestazioni e artefatti concreti. 1.1 - La fabbrica delle storie Del resto, come nota Barthes23, «il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti». Le narrazioni rispondono infatti a una molteplicità di compiti e di funzioni, che risultano centrali per l’identità dei singoli e dei gruppi: - fin dalla notte dei tempi, le storie (orali, poi scritte, oggi multimediali) si propongono come dispositivi di organizzazione del pensiero e di conservazione della memoria24; - per un verso, in quanto schemi cognitivi (di carattere narrativo), le storie allestiscono la “cornice di riferimento” entro cui i soggetti possono trovare un senso alla propria esperienza professionale e di vita, partecipando in prima persona al processo di generazione dei significati (sense co-makership)25. Le strutture narrative sono dunque le forme attraverso cui le persone comprendono la realtà, le proprie vite, le proprie azioni26: l’inserimento in una trama, «rende ciascun evento comprensibile alla luce della totalità in cui esso si colloca e che, al tempo stesso, contribuisce a generare»27; - per un altro verso, lo storytelling è in stretto rapporto con la memoria “autobiografica”, individuale e collettiva: questa agisce infatti come un “dispositivo narrativo”, chiamato a restituire il filo della coerenza agli atti unici della nostra vita, in connessione con quella de23 �������������������������������������������������������� R, Barthes, R. (1966), “Introduction to the Structural Analysis of Narratives”, in S. Heath, Image – Music – Text, Glasgow, 1966, pp. 79-124; trad.it. “Introduzione all’analisi strutturale dei racconti», in R. Barthes et al., L’analisi del racconto, Milano, 1969, pp. 7-46, p. 7. 24 ��������� W. Ong, Orality and literacy. The technologizing of the word, New York, 1982; trad.it. di A. Calanchi, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, 1986. 25 A. Fontana, Manuale di Storytelling, cit., p. 29. 26 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit. p. 19. 27 G.C. Cortese, L’organizzazione si racconta, cit., p. 13. 7 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) gli altri28. Da questo punto di vista, ogni comunità umana è formata e mantenuta in vita da storie che si diffondono, si ripetono e si cristallizzano nelle tradizioni e nelle realtà sociali29: l’emergere di un’organizzazione è legato alla possibilità per i suoi membri di riconoscersi in schemi interpretativi condivisi, che diventano la base della cultura collettiva30; - in questo senso, lo storytelling si propone come potente dispositivo di allineamento tra i tanti racconti del business: le costellazioni di storie proposte dalle persone che vivono in azienda, l’ “autobiografia” dell’impresa e i molteplici discorsi sviluppati nell’interazione con i mercati di riferimento31; - considerando nello specifico la comunicazione diretta agli stakeholder interni dell’impresa, la declinazione in chiave narrativa del corporate theme32 consente di ottenere ricadute positive in termini di commitment, tensione al cambiamento, responsività, integrazione tra le diverse parti dell’organizzazione, clima, senso di appartenenza e partecipazione; - i costrutti narrativi rappresentano infatti un sofisticato mezzo retorico di presidio e scambio di potere: chi possiede le chiavi d’accesso ai “cancelli del senso”, cioè ai processi di generazione dei significati, plasma e definisce la percezione del reale e dunque anche i piani d’azione che sono possibili in un determinato contesto33. Assumendo la funzione di gatekee28 A. Fontana, Manuale di Storytelling, cit., pp. 14-16. 29 B. Poggio, Mi racconti una storia? Il metodo narrativo nelle scienze sociali, Roma, 2004. 30 ���������������������������������������������������� L. Smircich, “Organization as Shared Meanings”, in L.R. Pondy, P.J. Frost, G. Morgan, T. Dandridge (a cura di), Organizational Symbolism: Monographs in Organizational and Industrial Relations, vol. 1, Greenwich, 1983, pp. 55-56. 31 R. Noceti, “Di che storia sei? Lo storytelling nelle attività di head hunting secondo l’esperienza Key2People”, in A.Fontana, Manuale di Storytelling, cit., pp.159-167, p. 162. 32 U. Collesei, V. Ravà, “La comunicazione integrata”, in Id. (a cura di), La comunicazione d’azienda, Torino, 2004, pp. 47-61 33 ��������������� P. Gagliardi, The creation and change of organizational culture. A conceptual framework, in “Organizational studies”, n. 7 (1986), pp. 117-134; trad.it., “Creazione e cambiamento delle culture organizzative: uno schema concettuale di riferimento”, in Id. (a cura di), Le imprese come culture. Nuove prospettive di analisi organizzativa, Torino, 1995, pp. 417438. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x per narrativi, imprenditori e manager cercano dunque di presidiare le “posizioni di confine” nell’intento di definire l’universo di senso controllato dalle proprie imprese34. D’altro canto, ogni organizzazione vive di tante storie: quelle canoniche sostenute dalla coalizione dominante, quelle apocrife proposte da sottogruppi di minoranza e quelle nascenti, ancora in formazione e alla ricerca di un audience35. Le storie non danno necessariamente luogo ad un coro unitario, ma si dispongono più spesso secondo linee alternative e contrastanti36; - non rientra invece tra i compiti dello storytelling la registrazione fedele di una (supposta) realtà oggettiva, esterna all’osservatore37: la trama di un racconto non è intrinseca agli eventi, ma imposta dall’autore attraverso la narrazione38. Ogni storia può dunque proporre un mix di fatti accaduti e di fatti immaginati, ove l’obiettivo è riconoscere, ricostruire e concettualizzare le esperienze vissute. Insomma, lo storytelling non è un mezzo per nascondere la realtà sotto un velo di invenzioni ingannevoli: un racconto non è né vero, né falso, ma può essere “autentico”, nella misura in cui rende 34 A. Fontana, Manuale di Storytelling, cit., p. 39. Come nota Azzoni, le visionary companies, imprese di eccellenza caratterizzate da una cult-like culture, tracciano netti confini tra che è dentro e chi è fuori dall’organizzazione: l’appartenenza all’azienda e la professione del “credo” aziendale diventano dunque tutt’uno. Cfr. G. Azzoni, Le religioni aziendali, relazione presentata al Convegno di Sociologia del Diritto su “Diritto/Diritti, Morale/Morali, Religione/Religioni”, organizzato dall’Associazione di Studi su Diritto e Società, Cagliari, 19-20 settembre 2003, p. 14 (testo dattiloscritto). Va per altro notato che fusioni, acquisizioni, reti digitali, società transnazionali rendono sempre più inconsistente l’idea di un confine da presidiare (B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit., p. 6). Nei nuovi modelli organizzativi le linee di confine tendono infatti a sciogliersi, trasformandosi in ampi e variegati territori di frontiera: luoghi fluidi, mobili, dinamici, in continua evoluzione. 35 ������������������������������������������ D. Sims, “Organizational Learning as the Development of Stories: Canons, Apocrypha and Pious Myths”, in M. Easterly-Smith, J. Burgosue, L. Arayo (a cura di), Organizational Learning and the Learning Organization, London, 1999. 36 ������������ D.M. ������ Boje, Stories of the storytelling organization: a postmodern analiysis of Disney as “Tamara-land”, in “Academy of Management Journal”, 38(4), 1995, pp. 997-1035. 37 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit. 38 G.C. Cortese, L’organizzazione si racconta, cit., p. 16. 8 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) conto del mondo organizzativo così come è esperito, vissuto, dai diversi attori39. Una delle ipotesi più suggestive, formulate dagli studiosi, è che tutte le narrazioni ricorrano ad alcuni topoi o schemi narrativi permanenti, che rappresentano altrettanti vettori di senso, attraverso i quali le culture umane costruiscono le esperienze di vita personale e organizzativa40. In altri termini, gli elementi di ogni narrazione, variamente combinati, vengono sempre posizionati entro un format di base, una sorta di meta-copione, che riprende le caratteristiche dello schema narrativo canonico41: ogni racconto parte da una situazione iniziale di equilibrio, che viene all’improvviso infranto dall’emergere di una mancanza, di una minaccia, dal prefigurarsi di una realtà potenzialmente ostile. Il quadro, che così si delinea, pone il protagonista di fronte ad una difficile sfida, che egli affronta acquisendo innanzitutto le competenze necessarie e successivamente affrontando vari ostacoli e peripezie, fino allo scontro decisivo con il principale antagonista. Con la vittoria ottenuta sul campo il protagonista porta a termine la sfida ed è in grado di ristabilire, su nuove basi, l’equilibrio perduto42. Non si tratta tuttavia di un ritorno alla status quo precedente, in quanto la nuova situazione presuppone un reframing del campo percettivo. Il cerchio non si chiude: anche l’Ulisse che ritorna ad Itaca è diventato nel frattempo un altro Ulisse, che ritrova un’altra Penelope43. 39 Op.cit., p. 146. 40 In genere, nelle narrazioni personali e professionali si ritrovano i seguenti elementi: un eroe alla ricerca di se stesso; un’impresa da compiere, un insieme di gesta straordinarie; un avversario che ostacola l’eroe; un conflitto, una battaglia tra i soggetti eroici e i loro antagonisti; un tesoro da scoprire; un trauma, una violenza gratuita da cui l’eroe deve riprendersi; uno o più oggetti magici, che aiutano l’eroe nella realizzazione dell’impresa; alcuni aiutanti, che sostengono l’eroe nella sua esperienza di vita; le nozze finali, che rappresentano metaforicamente il coronamento dell’impresa eroica (cfr. Fontana, Manuale di Storytelling, cit., p. 19). 41 G. Marrone, Il discorso di marca, Roma-Bari, 2007. 42 V. Propp, Morfologija skazki, Sankt Peterburg, 1928; trad.it. Morfologia della fiaba, Torino, 1966 43 V. Jankélévitch, L’irreversible et la nostalgie, Paris, 1974; trad.it. (parziale) di A. Serra, “La nostalgia”, in A. Prete (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Milano, 1992, Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x In maniera analoga a quanto avviene nelle altre narrazioni, pure lo storytelling aziendale presuppone l’esistenza di un conflitto, di un paradosso, di uno scontro tra visioni diverse della realtà, che la ragione solo calcolante non è in grado di tenere insieme e di rimarginare. In altri termini, «si racconta perché i conti non tornano»44, perché c’è un vuoto che il racconto è chiamato a riempire. L’esistenza di un conflitto esclude la possibilità di una lettura univoca delle realtà: richiede piuttosto l’attivazione di un processo di interpretazione, orientato a ridefinire continuamente le cornici di senso con cui persone e organizzazioni ricostruiscono gli eventi narrati. Bisogna inoltre sottolineare che, mentre la logica scientifica si propone di stabilire connessioni rigide, causali, tra i fatti osservati, la narrazione lascia aperta la natura della connessione: questo significa che «lo stesso insieme di eventi può essere organizzato intorno a trame differenti»45. 2. Definizione del campo d’indagine Alla luce di queste considerazioni, la presente indagine focalizza l’attenzione su una specifica dimensione dello storytelling aziendale, ossia sulla possibilità di ricostruire e comunicare in chiave narrativa, a fini strategici e istituzionali, l’identità e l’immagine dell’impresa, a prescindere dalla ricerca di immediati ritorni di carattere commerciale. L’ipotesi sottesa è che la diffusione dello storytelling istituzionale non sia soltanto una moda passeggera, ma possa essere collegata a nuove modalità di fare impresa, nelle quali è implicito un più forte coinvolgimento dei diversi stakeholder. Siamo dunque nell’ambito della comunicazione istituzionale: un’attività indirizzata a costruire, diffondere, consolidare – secondo un orientamento strategico di lungo periodo – un’immagine forte e attrattiva dell’impresa con l’obiettivo di generare consensi sociali, il pp. 119-176. 44 G.P. Quaglino, “Di ciò di cui si narra nelle organizzazioni”, saggio introduttivo a C. Cortese, L’organizzazione si racconta, Milano, 1999, pp. IX-XVI, p. XIII. 45 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit. p. 26. 9 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) cui accumularsi possa riverberarsi nuovamente sulla stessa immagine46. È un compito, sviluppato in staff con la direzione generale, che sviluppa uno specifico elemento del valore: le relazioni con l’ambiente e con i portatori di risorse47. I suoi interlocutori sono dunque gli stakeholder, così come definiti da Freeman: Any group or individual who can affect or is affected by the achievement of the organization’s objectives48. Non semplici “pubblici”, destinatari passivi del massaggio, ma portatori attivi di interessi (attuali o potenziali): i clienti, i dipendenti, la comunità in cui l’impresa è inserita, gli azionisti. Questa relazione non ha necessariamente carattere formale, ufficiale e contrattuale, né identifica un qualche potere di condizionamento, esercitato dall’una o dall’altra parte49, ma va fondamentalmente intesa come base per la legittimazione delle attività dell’impresa50, tenendo presente che tale legittimazione è sempre “negoziata” attraverso uno scambio comunicativo51. Per usare il modello di Thompson, questo è l’aspetto della comunicazione sviluppato a livello istituzionale, cioè dal vertice dell’organizzazione, incaricato di definire le strategie e di controllare le fonti dell’incertezza, operando secondo criteri di razionalità limitata52. In questo contesto le attività di corporate sto46 V. Coda, Identità e immagine nella strategia dell’impresa, Torino, 1991. p. 8. 47 R. Fiocca, Relazioni, valore e comunicazione d’impresa, Milano, 1993, p. 43. 48 ��������������� R.E. Freeman, Strategic management: a stakeholder approach, Boston, 1984, p. 46. Notiamo per inciso che Freeman parla di affect e non di influence: già nella definizione di “stakeholder” si introduce dunque una componente emozionale, che va oltre il calcolo razionale e il linguaggio formale ispirato al paradigma logicoscientifico. 49 �������������������������������� R. Mitchell, ���������������������������� B. Agle, D. Wood, Towards a Theory of Stakeholder Identification and Salience: Defining the Principle of Who and What Really Counts, in “Academy of Management Review”, 22(4), 1997, pp. 853-886, p. 862. 50 ����������������������������� T. ������������������������� Donaldson, J.E. Preston, The stakeholder theory of the corporation: concepts, evidence and implications, in “Academy of Management Review”, 20(1), 1995, pp. 6591. 51 �������������������������������� R. Mitchell, ���������������������������� B. Agle, D. Wood, Towards a Theory of Stakeholder Identification and Salience…, cit., p. 867. 52 �������������� J. Thompson, Organizations in Action, New York, 1967; trad.it. L’azione organizzativa, Torino, Isedi, 1988. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x rytelling non sono un semplice espediente retorico, finalizzato ad incrementare l’appeal della comunicazione, ma assumono una valenza strategica, incorporando al proprio interno un modello di razionalità “narrativa” che è affine a quello utilizzato dal vertice istituzionale per negoziare con gli stakeholders i valori e i significati che legittimano l’organizzazione: ne consegue che «la reputazione (positiva o negativa) e il ricordo coinvolgente o irritante delle aziende derivano da un complesso gioco di interscambio tra le storie interne e le storie esterne»53. L’implicito sottointeso di questa impostazione è una lettura più ampia del concetto di accountability, da intendersi non solo come “responsabilità”, ma anche come capacità di “offrire un resoconto” di ciò di cui si è autori, situando le azioni in un racconto denso di significati54. ������������������������������� Come suggerisce lo stesso Freeman, «our task is to take metaphors like the stakeholder concept and embed it in a story about how human beings create and exchange value»55 (corsivo nostro). In questo senso, l’attività di corporate storytelling non coincide con l’allestimento di fatti e di sequenze cronologiche, ma prevede la formulazione di racconti che consentano il presidio e la rielaborazione di vissuti esperienziali e l’immaginazione di territori ancora inesplorati. Non sono dunque pertinenti cronache e giornali d’impresa, diari aziendali in forma di blog, cronologie e bilanci, concorsi letterari rivolti a stakeholders e dipendenti, books con elencazione delle tappe della storia aziendale, commemorazioni di eventi, musei allestiti con esclusivi criteri catalografici. 2.1. Approccio metodologico Data la novità del tema, ci preme sottolineare il carattere eminentemente esplorativo del presente contributo. La ricerca è partita da una fase di desk analysis, che si è focalizzata sulla letteratura riguardante il tema prescelto (cor53 A. Fontana, Manuale di Storytelling, cit., p. 30. 54 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit. 55 ��������������� R.E. ��������� Freeman, The politics of stakeholder theory: some future directions, in “Business Ethics Quarterly”, 4 (4), 1994, pp. 409-421, p. 418. 10 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) porate storytelling e sue implicazioni nell’ambito della stakeholder theory), alla quale ha fatto seguito una fase di analisi empirica (field work), basata su studi di caso56, riferiti ad aziende che utilizzano questa formula innovativa. A tal fine, abbiamo ritenuto di concentrare l’attenzione sul nostro Paese, considerando gli ultimi cinque anni: un arco di tempo, nel corso del quale è emerso un crescente interesse per questo format comunicativo, non sempre sostenuto da un adeguato sforzo di approfondimento e di concettualizzazione. I materiali raccolti derivano da varie fonti di informazione, quali stampa specializzata, siti internet, strumenti audiovisivi, pubblicazioni aziendali, dialoghi con esperti e professionisti del settore, visite e sopralluoghi, nell’ambito dei quali abbiamo fatto ricorso alla metodologia dell’osservazione partecipante. In alcuni casi siamo stati direttamente coinvolti, per attività di consulenza professionale, nella progettazione di specifici strumenti di comunicazione ispirati a logiche di corporate storytelling. 3. I risultati dell’indagine Il risultato di questo lavoro è una sorta di work in progress, che si arricchisce continuamente di nuovi materiali. Tra i numerosi casi aziendali raccolti, segnaliamo di seguito quelli più significativi, raccordandoli a sei chiavi di lettura, che possono spiegare il crescente successo dello storytelling istituzionale: - l’analogia tra reti narrative e costellazioni d’imprese e l’emergere della nuova “azienda cognitiva”; - il ruolo di collante organizzativo assunto in tali contesti dal discorso di marca, sempre più spesso sviluppato in forma di racconto; - la ricerca di storie contestuali, di esempi di vita densi di significato, come via per superare l’impasse decisionale, generata dall’eccesso di informazioni disponibili sul tavolo dei manager; - il ricorso a “tradizioni inventate” come garanzia e giustificazione degli avvenimenti del presente; 56 ����������������������� Cfr. K.M. Eisenhardt, ������������ Building Theories From Case Study Research, in “Academy Of Management Review”, 14(4), 1989, pp. 532-550. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x - la “teatralizzazione” degli ambienti di lavoro, investiti da una pressante richiesta di visibilità e di trasparenza; - la trasformazione dell’impresa in un “regista di esperienze”, nelle quali coinvolgere – in veste di co-autori – i diversi stakeholders. 3.1. Reti di racconti e costellazioni di imprese C’è un evidente parallelismo tra le “reti narrative” che avvolgono le imprese e le formule organizzative più evolute57. La crisi del fordismo va infatti di pari passo con l’affermazione di nuovi modelli organizzativi ispirati alla metafora della “rete”: un insieme di soluzioni basate non più sull’integrazione verticale del processo, ma sull’interdipendenza organica tra imprese diverse, collegate nella supply chain58. Possiamo parlare a questo proposito di “reti del valore”59 e di “costellazioni”, generate dal fitto intreccio di relazioni fra «attori economici diversi - fornitori, partner in affari, alleati, clienti - che operano insieme nella co-produzione del valore»60. Nelle strutture di questo tipo i presupposti della comunicazione e della cooperazione devono essere continuamente ricostruiti attraverso le relazioni tra gli attori: in altri termini, la comunicazione non è soltanto un mezzo attraverso cui si veicolano i messaggi, ma è anche un dispositivo di creazione del senso, un ambito nel quale «si mettono a punto il linguaggio e i significati in modo appropriato rispetto agli usi pratici»61. Sullo sfondo, emerge la nuova prospettiva dell’azienda cognitiva, che non ha più come principale obiettivo la produzione delle merci, ma «la condivisione delle conoscenze, la cir57 G.P. Quaglino, “Di ciò di cui si narra nelle organizzazioni”, cit. 58 R. Grandinetti, Reti di marketing. Dal marketing delle merci al marketing delle relazioni, Milano, 1993. 59 C. Parolini, Rete del valore e strategia aziendale, Milano, 1996. 60 ������������������������� R. Normann, R. Ramirez, From value chain to value constellation: designing interactive strategy, in “Harvard Business Review”, luglio-agosto, 1993, pp. 65-77, p. 66. 61 R. Grandinetti, Evoluzione del distretto industriale e delle sue formule imprenditoriali, in “Economia&Management”, n. 4 (1998), pp. 79-98, p. 81. 11 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) colazione delle informazioni, la gestione delle emozioni»62. In questo contesto la narrazione si propone – insieme – come modalità di conoscenza e come modalità di comunicazione63. Ci sembrano interessanti, a questo proposito, le esperienze di incentive e di team building realizzate da alcune aziende (Insiel, Kpmg) con il supporto di “Log607”, giovane agenzia, nata da una costola di H-Farm, centro per la ricerca e l’innovazione con sede vicino a Venezia: si tratta di veri e propri urban games, che integrano in un sistema cross-mediale una molteplicità di strumenti, dal catalogo a stampa all’audiovisivo, dall’instant messaging alla performance dal vivo. Il filo conduttore è un racconto dato per frammenti, che i giocatori sono invitati a dipanare, identificando – come in una “caccia al tesoro” - originali punti di connessione con le persone e con i luoghi. A questo filone si può ricollegare anche la convention di rilancio del brand Buitoni, realizzata a gennaio del 2007: tutto ruota attorno al tema dell’inizio, che i partecipanti (oltre 250 dipendenti) vengono sollecitati a vivere in presa diretta, confrontandosi con il racconto di avventure esistenziali, sportive ed umane – dal Cirque du Soleil alla campionessa di ginnastica Vanessa Ferrari – nelle quali traspaiono i valori del brand (innovazione, perseveranza, ricerca dell’eccellenza, spirito di squadra). Mettendo in scena valori, lo storytelling intende favorire la connessione a livello emotivo fra le persone, prospettando un’interpretazione condivisa e condivisibile del contesto e dell’identità degli attori coinvolti64. 3.2. Racconti di marca L’obiettivo di trascendere la frammentazione e di consolidare le relazioni tra i diversi partner del network conferisce un risalto particolare alle risorse simboliche di cui un’organizzazione dispone65: in tale contesto la marca ac62 C. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, cit., p. 38. 63 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit. p. 24. 64 ��������������� P. Gagliardi, The creation and change of organizational culture. A conceptual framework, cit. 65 ������������� M.J. Hatch, Organization Theory: Modern, Symbolic and Postmodern Perspectives, Oxford, 1997; trad.it. di A. Visentin, Teoria dell’organizzazione, Bologna, 1999, p. 192. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x quista il ruolo di collante organizzativo, fino a diventare un riferimento essenziale per le attività di comunicazione a livello di corporate66. Il presupposto è uno slittamento dei termini e dei significati, per cui non si parla più di marchio (semplice “etichetta” applicata ad un prodotto), ma di marca, intesa come dispositivo che assicura la produzione e la messa in forma del senso, condensando un insieme di contenuti complessi in una Gestalt immediatamente riconoscibile e di facile accesso. Ogni marca presidia dunque un territorio, elabora un universo simbolico, propone una visione del mondo, si esprime con una propria estetica e una propria etica: così, Barilla rappresenta la casa e gli affetti familiari, Alfa Romeo la sportività, Mulino Bianco il ritorno alla natura, Levissima l’archetipo dell’onestà e della purezza. D’altro canto, il discorso di marca diventa efficace nella misura in cui i valori vengono declinati in racconto, prendendo a prestito e ricombinando immagini, frammenti di storie e suggestioni, sedimentati nei vasti territori dell’immaginario collettivo67. Come spiega Semprini, una marca non enuncia mai direttamente i propri valori, che restano dei principi astratti e fortemente sintetici, dotati di un’esistenza esclusivamente concettuale, ma li inserisce nel contesto di «narrazioni più o meno strutturate, all’interno delle quali i valori possono attivarsi e sviluppare tutti i loro sensi»68. In definitiva, ogni marca «narra delle storie»69. Cfr. anche G. Azzoni, Le religioni aziendali, cit., p. 6. 66 ������������������������� M.J. Hatch, M. Schultz, Are the strategic stars aligned for your corporate brand?, cit.; Id., Bringing the corporation into corporate brand, cit. 67 V. Codeluppi, Verso la marca relazionale, relazione presentata al convegno “Le tendenze del marketing in Europa”, Università Ca’ Foscari, Venezia, 24 novembre 2000. 68 A. Semprini, La marca. Dal prodotto al mercato, dal mercato alla società, Milano, 1996, p. 135. 69 Ibidem. Come nota Azzoni, la forze normativa delle cosiddette “religioni aziendali” non risiede nei principi astratti a cui fanno riferimento, ma nel fatto che i valori dichiarati possono “prendere corpo” in una storia, che li attualizza e li rende efficaci (riemerge dunque il concetto di Wirkungsgeschichte). Esemplare è in questo senso la gestione del caso Tylenol da parte di Johnson&Johnson: in quel momento «si è creata una storia di cui J&J è la protagonista positiva» e che dà legittimazione pubblica al “credo” 12 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Si potrebbe citare a questo proposito il caso di Enel: nel 2006 l’azienda realizza una campagna corporate, per raccontare tutto quello che va oltre il lavoro di produzione e distribuzione dell’energia, con l’obiettivo di dare un forte segnale della propria responsabilità verso il Paese, presso istituzioni, opinion leaders, cittadini, azionisti, clienti. L’idea si traduce in tre spot, che assumono la forma di “favole poetiche”, raccontate dall’attore Giancarlo Giannini. Al centro, i valori chiave dell’azienda: l’impegno verso un progresso rispettoso e naturale (“Il cervo”), l’attenzione per la ricerca e il potere delle idee (“Il cuoco”), la responsabilità verso le comunità nelle quali opera (“Lo studioso”). Il pay-off unifica in un unico concetto il tema chiave di questa campagna di comunicazione istituzionale: «L’energia va oltre quello che vediamo». 3.3. L’impatto dei nuovi media Il tema dell’overload informativo acquista particolare rilevanza in un contesto caratterizzato dalla proliferazione dei media e dei messaggi. Ogni giorno le scrivanie dei manager sono “sommerse” da una quantità di dati superiore a quella che essi stessi sono in grado di elaborare70. La situazione produce effetti paradossali, come il ritardo nelle decisioni cruciali legato all’eccesso di informazioni disponibili. Ai dati tradizionali si aggiungono poi le informazioni veicolate attraverso i nuovi media. Non più asettiche tabelle fornite dalla Nielsen, non più eleganti rapporti relativi ai focus group, ma messaggi spontaneamente generati dai clienti: file audio e filmati, blog ed immagini. L’analisi delle informazioni veicolate dai diversi media richiede nuove chiavi di lettura, che sfuggono alla “gabbie” di carattere quantitativo solitamente utilizzate nel mondo manageriale. In definitiva, solo una ricostruzione di tipo narrativo è in grado di offrire l’accesso a una molteplicità di fenomeni e di osservazioni, che sembrano altrimenti sottrarsi a un filo interaziendale. Cfr. G. Azzoni, Le religioni aziendali, cit., p. 18. 70 A. Boaretto, G. Noci, F.M. Pini, Marketing reloaded. Leve e strumenti per la co-creazione di esperienze multicanale, Milano, 2007, p. 212. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x pretativo unitario71. Come suggerisce Smorti, il pensiero narrativo usa un tipo di logica mossa dall’esigenza di arrivare a una rappresentazione il più verosimile del mondo a partire dal minor numero possibile di esempi di questo mondo. Il pensiero narrativo si svolge nella vita quotidiana, dove innanzitutto è indispensabile fare delle scelte. E per poter fare una scelta non si può aspettare di poter ispezionare le complesse concatenazioni logiche di un pensiero deduttivo72. Quello che può sembrare un elemento di debolezza (l’inclusione nelle narrazioni del punto di vista soggettivo), si rivela adesso un punto di forza, in quanto consente l’accesso a “storie locali”, cioè a informazioni contestuali, concrete, lontane dall’astratta generalità delle leggi e dei principi scientifici73. A questo approccio fa riferimento anche Franke Italia. Alla fine del 2006 l’azienda realizza un book, interamente scritto dai dipendenti – con il supporto editoriale di un consulente esterno – per “raccontare” i primi quarant’anni di attività. Il cuore di queste pagine è la testimonianza diretta dei protagonisti, che raccontano i vissuti e le emozioni, i sogni e i progetti, ma anche i dubbi e le difficoltà, che hanno fatto da sfondo ai brillanti risultati conseguiti in questi anni. Il documento non ha un carattere agiografico e memorialistico: punta piuttosto a far emergere ed attualizzare le “tracce di futuro” depositate nel racconto del passato, assumendo una prospettiva di lungo periodo, nella quale si fondono creativamente tradizione e innovazione. 3.4. Tradizioni “inventate” Muovendosi in ambienti caratterizzati da elevata turbolenza, le aziende assomigliano sempre più a entità usa e getta, spazi di aggregazione temporanea per nomadi, pronti ad andare continuamente incontro a nuove sfide74. 71 Op.cit. 72 A. Smorti, Narrazioni. Cultura, memoria, formazione del sé, Firenze-Milano, 2007, p. 145. 73 Cfr. F. La Cecla, Mente locale, Milano, 1993; B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit., p. 33; G.C. Cortese, L’organizzazione si racconta, cit., p. 21. 74 ������������������������������� J. Ridderstråle, K. Nordström, Funky Business. Talent makes capital dance, Stockholm, 1999; trad.it. di R. 13 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) E’ dunque necessario offrire una giustificazione “retorica” delle premesse su cui si regge l’organizzazione, dal momento che queste non appaiono più dotate di una validazione empirica75. In altri termini, mentre l’azienda di stampo fordista poteva presentare la propria attività come risposta a bisogni, concretamente rilevabili, del consumatore (es.: la produzione di automobili come risposta ad una crescente domanda di mobilità), in un contesto di mercato maturo tutto appare più incerto e più sfumato, per cui l’azienda è costretta a darsi una “ragion d’essere”, che faccia appello alle componenti espressive e simboliche della propria cultura, costruendo un “racconto” del proprio passato a garanzia e giustificazione degli avvenimenti del presente. Come ricordano Hobsbawm e Ranger76, nei momenti di passaggio, segnati dalla frantumazione dei codici e degli ordini sociali, istituzioni politiche e movimenti di massa hanno fatto ampio ricorso a tradizioni, simboli e rituali “inventati” di sana pianta, allo scopo di tenere insieme su nuove basi le collettività umane. Le tradizioni inventate rappresentano dunque «risposte a situazioni affatto nuove, che assumono la forma di riferimenti a situazioni antiche», o che si costruiscono un passato attraverso la ripetitività quasi obbligatoria del rito77. È il caso della Geox: tutta la comunicazione istituzionale ruota attorno al “mito di fondazione” dell’azienda, l’invenzione della calzatura che respira. Durante un viaggio in America, l’imprenditore Mario Moretti Polegato pratica dei fori nella suola delle scarpe, trovando una soluzione efficace per far fuoriuscire il calore in eccesso: da questo semplice insight ha origine un’azienda di grande successo, che in pochi anni raggiunge una posizione di leadership a livello mondiale nel settore della calzatura da città. In realtà, Geox nasce dalla ricerca di un’alSpaventa, Funky Business. Il libro culto della net generation, Roma, 2000. 75 D. Romano, R. Felicioli, Comunicazione interna e processo organizzativo, Milano, 1992. 76 E.J. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge, 1983; trad.it. di E. Basaglia, L’invenzione della tradizione, Torino, 1987. 77 Op.cit., p. 4. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x ternativa alla crisi dello sportswear, che attanaglia il distretto di Montebelluna all’inizio degli anni Novanta: mescolando abilmente realtà e finzione, il mito di fondazione si propone come racconto di uno “strappo” rispetto alle convenzioni e agli schemi consolidati. E’ una storia romanzata, una tradizione “inventata” appunto, che tuttavia integra al proprio interno la testimonianza autentica delle emozioni vissute dai protagonisti del cambiamento. 3.5. Il passaggio dalla fabbrica al teatro L’evoluzione verso nuove formule organizzative accentua la valenza comunicativa degli ambienti di lavoro: questi non solo diventano permeabili all’ambiente esterno, ma vengono sempre più investiti da una pressante richiesta di visibilità e di trasparenza, fino a trasformarsi in media building, luoghi in cui lo “spettacolo” della produzione (merci o servizi) viene offerto allo sguardo e messo in scena78. Assistiamo dunque al passaggio “dalla fabbrica al teatro”79. Questo movimento è il risultato di un modello culturale dominato dall’ideologia della trasparenza assoluta, che oggi emerge in stretta connessione con le esigenze del nuovo processo produttivo post-fordista, il quale ha bisogno che l’individuo «renda pubblico il suo consumo privato, per poter sintonizzare con esso le strategie di produzione»80. In coerenza con queste 78 T. Ito, L’immagine dell’architettura nell’era dell’elettronica, in “Domus”, n. 800 (1998), p. 28; P. Virilio, Dal media building alla città globale, in “Crossing”, n. 1 (2000), pp. 7-8. 79 F. Carmagnola, M. Ferraresi, Merci di culto. Ipermerce e società mediale, Roma, 1999. Un eloquente esempio di questa tendenza alla “teatralizzazione” degli spazi del lavoro è rappresentato dalla sede della L’Oreal ad Aulnay, alle porte di Parigi: visto dall’alto, il complesso ha la forma di un’orchidea, con i tetti degli edifici che, come altrettanti petali, si distendono sopra strutture interamente rivestite di materiali trasparenti. Al centro vi è uno specchio d’acqua, sopra il quale si eleva – come una palafitta – il centro direzionale. I camminamenti interni – strutture metalliche sospese a mezz’aria – mettono in rapporto le diverse aree del centro ricerche e dello stabilimento di produzione. Tutto è centrato sui valori della visibilità e della trasparenza comunicativa. In proposito, cfr. M. Augè, L’impossible voyage. Le tourisme et ses images, Paris, 1997; trad.it. di A. Salsano, Disneyland e altri nonluoghi, Torino, 1999. 80 V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale, Torino, 2007, p. 14 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) premesse, viene meno ogni distinzione tra la scena e il retroscena: non solo il lavoro viene inserito in un regime di piena visibilità, dal quale vengono tendenzialmente eliminati quelle zona d’ombra e quei margini d’incertezza, su cui si esercitava nel passato il potere discrezionale dei soggetti81, ma la fabbrica si trasforma in un grande dispositivo teatrale, diventando un’impresa-fiction82, una sorta di “vetrina”, un’interfaccia comunicante e interattiva. Un esempio eloquente viene dalla distilleria Nardini, che trasforma gli ambienti di lavoro in un dispositivo narrativo, grazie al grande “alambicco” di vetro progettato da Massimiliano Fuksas, per ospitare il Research & Multimedia Center. E’ un insieme formato da due mondi: il primo è uno spazio “sospeso”, costituito da due bolle trasparenti che racchiudono i laboratori; il secondo è uno spazio “sommerso”, un auditorium con cento posti a sedere, scolpito nel terreno come un canyon. Il complesso, nel suo insieme, riproduce il percorso di tipo ascensionale disegnato nel mito della caverna platonica, con l’auditorium sotterraneo, dedicato agli eventi e alle presentazioni multimediali (le nuove “ombre” in versione tecnologica), avvolto nella semioscurità, debolmente rischiarato dalla luce solare che proviene dall’alto, ove lo sguardo incrocia le bolle trasparenti, chiamate ad ospitare al proprio interno il centro ricerche, allegorica raffigurazione del mondo delle idee. Utilizzando il linguaggio dell’architettura contemporanea, l’ascesa verso il mondo delle idee suggerisce l’inalterabilità dei valori che stanno alla base della cultura aziendale. L’impresa si propone dunque come depositaria di un sapere immutabile, che può essere ri-conosciuto dai suoi interlocutori, ma mai integrato, confrontato o messo in discussione. 3.6. L’impresa come “regista di esperienze” Se l’ambiente di lavoro assume sempre più un impianto scenografico, l’azienda si trasforma a sua volta in un regista di esperienze, chia17. 81 M. Crozier, Le phénoméne bureaucratique, Paris, 1963; trad.it. Il fenomeno burocratico, Milano, 1969. 82 Cfr. C. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, cit. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x mato ad offrire ai propri interlocutori non soltanto beni o servizi, ma anche esperienze “teatrali”, ricche di sollecitazioni sensoriali83. Vale la pena segnalare, a questo proposito, la performance recentemente proposta da Molteni, uno dei maggiori gruppi industriali nel settore del mobile, presso la propria sede di Giussano. Lo spettacolo, intitolato “La vita in un armadio”, ruota attorno a sei carismatiche donne del Novecento: Frida Kahlo, Marguerite Yourcenar, Evita Peron, Maria Callas, Elisabetta II d’Inghilterra, Marilyn Monroe. La rappresentazione si sviluppa in sei diversi ambienti, ciascuno dei quali dominato da un armadio della collezione Gliss 5th, chiamato a mettere in mostra i prodotti che hanno caratterizzato la vita di una delle sei protagoniste: oggetti della quotidianità, immagini, fotografie. Gli sfarzosi abiti di scena della Callas si alternano così alle pellicce, ai profumi e alle medicine di Evita Peron. La performance, composta da sei monologhi – uno per ciascuna protagonista – viene portata in scena dall’attrice Anna Galiena. Per raggiungere le diverse installazioni, gli spettatori sono invitati a muoversi in uno spazio complesso, che richiama gli archetipi del sentiero e del labirinto, introducendo continui elementi di novità e di sorpresa84. Chi partecipa alla performance è dunque sollecitato ad assumere uno sguardo prospettico e multipolare, in costante movimento: l’assenza di rigidi elementi di separazione tra la scena e lo spazio circostante favorisce inoltre un più intenso coinvolgimento emozionale, implicando il superamento della tradizionale distinzione tra attori e spettatori85. Nel loro insieme, queste soluzioni sembrano anticipare in forma me83 ������������������������������� Cfr. B. Schmitt, A. Simonson, Marketing aesthetics. The strategic management of brands. identity, and image, New York, 1997; J. Pine, J.H. Gilmore, The Experience Economy. Work Is Theatre & Every Business a Stage, Boston, 1999; trad.it. di A. Scott-Monkhouse, L’economia delle esperienze, Milano, 2000; M. Ferraresi, B. Schmitt, Marketing esperienziale, Milano, 2006. 84 Per una più dettagliata analisi di questo caso, rinviamo a P. Musso (a cura di), Internal Branding. Strategie di marca per la cultura d’impresa, Milano, 2007. 85 Alla preparazione della performance e delle installazioni contribuiscono gli stessi dipendenti dell’azienda, invitati successivamente a partecipare all’evento. 15 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) taforica un nuovo modello di business, basato sul coinvolgimento attivo – in veste di co-autori – dei principali stakeholder. 4. Dallo storytelling allo storylistening In definitiva, dall’analisi dei casi aziendali emerge l’opposizione tra due diversi modi di fare storytelling, che può essere inteso, da un lato, come arte del possibile, rivolta all’immaginazione del domani (cfr. il caso di Molteni) oppure alla ri-lettura da una differente angolazione del passato (Franke Italia, Geox); da un altro lato, come strumento di presidio dell’esistente, utile a sollecitare l’adeguamento degli interlocutori a un quadro di valori e di modelli già consolidati (Nardini). In altri termini, alcune aziende interpretano lo storytelling istituzionale come occasione per “ingessare” in un racconto agiografico l’attività dell’impresa, altre lo ripensano «come un processo continuo di narrazione» nel quale sia l’azienda che si racconta, sia i suoi stakeholder, possono in varia misura essere coinvolti «nel formulare, rivedere, applaudire e rifiutare i vari elementi della narrazione perennemente messa in scena»86. Il dibattito su questi temi è aperto e offre lo spunto per ulteriori ricerche, analisi e approfondimenti. Alcuni evidenziano il rischio che l’impresa-fiction si trasformi in una sorta di parco a tema, astratto e decontestualizzato spazio del gioco e del divertimento87: un sistema chiuso, autarchico, purificato da ogni possibile conflitto, un luogo in cui il confine tra il vero e il falso si assottiglia sempre più, basato su «una condizione di equilibrio entropico, che esclude per principio ogni sbocco sull’altrove»88. Altri sottolineano come una trama narrativa non possa mai ridursi a semplice monologo89. 86 B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione, cit. p. 70. 87 Cfr. F. Varanini, L’organizzazione come rete di storie e lo storytelling come furto, in “Sviluppo & Organizzazione”, n. 220 (2007), pp. 69-74; C. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, cit. 88 I. Auricoste, Parchi o utopie mortali? La posta in gioco del tempo libero, in “Ottagono”, n. 99 (1991), pp. 15-23, p. 23. 89 ������������ D.M. Boje, ������ Stories of the storytelling organization: a postmodern analiysis of Disney as “Tamara-land”, cit. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa issn 2035-584x Poiché questa formula espressiva non è assoggettata all’obbligo della coerenza interna, il piacere narrativo prende origine dalla curiosità di sapere “cosa accadrà dopo” e, nel contempo, dalla possibilità di tenere sempre aperto uno iato, che consente al fruitore di attendersi qualunque cosa, anche l’imprevedibile90. Insomma, dare vita a una struttura narrativa significa creare un intreccio di pieni e di vuoti: varchi aperti a molteplici passaggi, capaci di stimolare la partecipazione attiva degli interlocutori e i rapporti con altre aziende e con altri media. Le implicazioni manageriali connesse a questa seconda prospettiva ci sembrano di particolare rilievo: invece di “persuadere” gli interlocutori, proponendo una manifestazione egocentrica della corporate identity, si tratta di realizzare un modello d’interazione più evoluto, che dia all’interlocutore un ruolo attivo, basato non solo su un più intenso coinvolgimento emozionale, ma anche sulla sua attiva partecipazione come partner del processo comunicativo. Per giungere a questo risultato, lo storytelling d’impresa non può però prescindere dallo storylistening91. Sullo sfondo si profilano nuove figure – ownsumer, citizen brand – che anticipano una nuova prospettiva: quella di una costruttiva alleanza tra produttori e consumatori responsabili, che delinea nuovi modelli d’impresa (si pensi a Linux e Wikipedia) e nuovi scenari, nei quali gli stakeholder si trasformano in co-creatori di valore92, non solo concorrendo a definire il sistema dell’offerta, ma anche diventando parte attiva nella programmazione e nella definizione delle scelte strategiche. * Il presente contributo è la rielaborazione di un lavoro presentato al Convegno “L’azienda e i suoi stakeholder”, organizzato da AIDEA Giovani, Accademia Italiana di Economia Aziendale, presso la sede di Gorizia dell’Università di Udine (26-27 giugno 2009). 90 ������������� H. Jenkins, Convergence culture: where old and new media collide, New York, 2006; trad.it. di V. Susca e M. Papacchioli, Cultura convergente, Milano, 2007. 91 ���������������������������������� Cfr. E. Scholes, D. Clutterbu���� ck, Communication with Stakeholders. An Integrated Approach, cit. 92 ������������������������������ C.K. Prahalad, V. Ramaswamy, The future of competition. Co-creating unique value with customers, Boston, 2004; trad.it. di F. Guaraldo e R. Ricca, Il futuro della competizione. Co-creare valore eccezionale con i clienti, Milano, 2004. 16 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Gabriele Qualizza, assegnista di ricerca presso il LAREM – Laboratorio di Ricerca Economica e Manageriale dell’Università di Udine, sede di Gorizia. Docente a contratto Area marketing e comunicazione d’impresa all’Università di Trieste. Lo storytelling nella comunicazione d’impresa 17 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Esperienze e forme di scrittura online Enzo Marigonda Abstract Parole chiave L’esperienza dello scrivere online varia in misura notevole col variare delle forme e dei contesti di comunicazione in cui si dà a vedere. Prendendo in esame quattro ambienti di comunicazione scritta online (non unidirezionali) – posta elettronica, Twitter, chat, gruppi di discussione – è possibile far emergere alcuni tratti distintivi, riguardanti le strategie e gli stili di scrittura. Un fattore differenziale di cui tenere conto è anche la relazione tra scrittura e tempo, ovvero le diverse attese in termini di durata e permanenza del testo scritto. comunicazione online; scrittura; produzione del testo; relazioni interpersonali; gruppi online; ricerche psicosociali. P ni, strumenti e possibilità, fino agli attuali fasti di Twitter, ampiamente utilizzato, per esempio, dall’opposizione iraniana nel suo sforzo di far filtrare tra le maglie della censura preziosi frammenti d’informazione sui misfatti repressivi del regime teocratico. Per non parlare dell’uso di Twitter nelle attività di comunicazione e soccorso durante il recente terremoto in Abruzzo. Prima ancora di questi accadimenti, più d’uno si era stupito del successo di Twitter (d’altronde, i grandi successi spiazzano e stupiscono sempre), non ravvisando nello strumento nessun particolare elemento di originalità, a differenza di un altro fenomeno telematico di grandissima diffusione come Facebook. In effetti, Twitter si distingue, e si raccomanda, per il suo minimalismo comunicativo: messaggi molto sintetici, in quanto costretti entro un numero predefinito e limitato di battute (140). È abbastanza evidente la similarità con l’usuale messaggistica via cellulare, anch’essa dominata da finalità di contatto - continuo, costante, reiterato - e di condivisione d’informazioni con interlocutori privilegiati. er chi non si limita a una frequentazione passiva del Web, ma lo usa per le proprie comunicazioni personali, lo scrivere è una delle pratiche d’uso più comuni, e per certi aspetti la più articolata. Per marcare le distanze dalle forme tradizionali, per lo più cartacee, va subito riconosciuto che la scrittura online si presenta spesso come ibrida, ricca di contaminazioni visive (o audiovisive), più vicina al linguaggio dello story-board che alla pagina di diario. E’ quindi arbitrario, in certa misura, isolare le pratiche di scrittura come oggetto di osservazione privilegiato. Tuttavia, pur tenendo conto della forzatura, può risultare di qualche interesse uno sguardo, per quanto rapido e parziale, alla pluralità delle forme e delle esperienze di comunicazione interpersonale online attraverso i testi scritti. Nel presente articolo, si prendono brevemente in considerazione quattro ambienti di produzione testuale: la messaggistica di Twitter, la posta elettronica, la chat, i forum in differita. Dal tempo delle prime email, la pratica di scrivere in Rete si è ramificata secondo più direzio- Esperienze e forme di scrittura online 18 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Anche in Twitter abbondano i riferimenti a ciò che si sta facendo in un dato momento, al luogo in cui ci si trova, etc., ma con una più spiccata accentuazione pratico-operativa, senza fronzoli. Il ping-pong informativo di Twitter, quanto più si fa serrato, tanto più sembra favorire il costituirsi di consuetudini comunicative e correnti di simpatia tra i corrispondenti che trovano espressione in giri di frase abituali, parole-chiave, tic verbali, etc. equivalenti a cenni d’intesa o strizzate d’occhio, senza neppure bisogno di conferme paralinguistiche codificate come gli emoticon. Tuttavia, al di là delle intese e dei legami derivanti dall’infittirsi stesso degli scambi, un aspetto notevole della comunicazione su Twitter è proprio l’esistenza di una norma rigida, ovvero l’impossibilità di eccedere il numero di battute previsto. Si sa che la presenza di vincoli precisi, lungi dall’ostacolarlo, favorisce e migliora il rendimento estetico di una produzione espressiva; per contro, l’assenza di regole, e l’apparente libertà creativa totale che ne discende, porta di solito a risultati insignificanti. È questo un principio che vale per qualsiasi forma di scrittura, con o senza ambizioni estetiche, e Twitter non fa eccezione. Per quanto frammentari e microscopici, i messaggi che circolano su Twitter spesso sanno trarre beneficio dall’obbligo di asciuttezza, con buoni risultati in termini di efficacia e piacere della concisione. La comune corrispondenza via email non conosce lo stesso tipo di restrizioni, anche se poi spesso nella pratica si manifesta anche qui la tendenza a produrre testi brevi, incoraggiata in certa misura da un contesto che di norma è anche troppo affollato, sovraccarico d’informazioni superflue, se non moleste o addirittura maligne (spamming, phishing, etc.). La brevità delle comunicazioni trova sostegno anche nella quantità dei messaggi contenenti allegati: se lo scopo principale della mail è trasmettere un documento (immagini, musiche, testi, etc.) già esistente, saranno sufficienti poche righe di accompagnamento, niente di più. Premesso che oggi come oggi la posta elettronica contiene un po’ di tutto, e quindi lascia spazio a ogni sorta di stili e tipi di scrittura, apEsperienze e forme di scrittura online issn 2035-584x pare improprio e riduttivo considerarla come un semplice sostituto della posta tradizionale, anche volendo riandare a tempi lontani, precedenti alla diffusione del telefono, in cui la corrispondenza scritta era dominante. L’erede di questa corrispondenza minuta, pervasiva, finalizzata al contatto e al controllo, destinata a persone con cui s’intrattiene un legame particolarmente stretto, affettivo o operativo, sembra essere piuttosto il cellulare, con i suoi sms. La posta elettronica, e ancor più i servizi di messaggi istantanei via Internet, li completano o li surrogano, dando vita a forme di scrittura non troppo dissimili: secche, tronche, ricche di acronimi e forme abbreviate, etc. Nella congerie di messaggi svelti, informali, prossimi all’oralità, di cui le caselle di posta elettronica sono piene, s’insinua di tanto in tanto qualche lettera di taglio tradizionale, introdotta da un ‘Cara’ o ‘Caro’ e chiusa con formule di cortesia caratteristiche del supporto cartaceo. Per un istante, chi legge avverte una sorta di straniamento, come di fronte a una palese, inattesa infrazione della regola. Subito dopo però il senso viene recuperato: in mancanza di un deliberato effetto ironico, o se il mittente non è un tipo noto per il suo attaccamento alle tradizioni, dovrà trattarsi di una comunicazione formale (un atto burocratico, per esempio) o comunque di una lettera seria, che prende a prestito le antiche sembianze epistolari per sottolineare la sua differenza con il disinvolto ciarpame che le fa da contorno. Tolta di mezzo la corrispondenza indesiderata, la maggior parte delle mail che si ricevono (e che s’inviano) ha come tratto comune una scrittura facile e sciolta, aliena da ogni eccesso di cerimoniosità e intenzione di ricalco dei modi epistolari di un tempo. Certamente, le diffuse esigenze di praticità e le intrinseche doti di velocità del mezzo sono alla base di un costume di scrittura quanto mai libero, tollerante, non impegnativo. Ciò deve aver facilitato parecchio il diffondersi della posta elettronica presso persone che prima scrivevano pochissimo e malvolentieri. È un’osservazione, talvolta una piacevole scoperta, che tutti abbiamo fatto, in qualche momento, leggendo per la prima volta un 19 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) testo (breve, si capisce) scritto da quella tal persona, frequentata e conosciuta fino ad allora solo attraverso il colloquio diretto. Spesso a quell’interlocutore non si era attribuita alcuna attitudine allo scrivere, e invece ora ci sorprende per la vivacità dello stile, la freschezza e l’originalità dei termini con cui dà corpo alle sue idee. Per quanto informale e volatile, soggetta a continue cancellazioni, una email è pur sempre un messaggio scritto, che può essere salvato, riletto, riprodotto, rimeditato, criticato. Forse è proprio il sentimento latente di una possibile persistenza che può spiegare quel quid di originale e di accurato che avviene di notare nei messaggi di posta elettronica, anche provenienti da persone in apparenza distanti da qualsiasi attenzione alla retorica o allo stile. Perfino quando si riducono a poche righe frettolose, le email trovano spesso il modo di concedersi un guizzo, un’arguzia, uno scarto laterale che ci diverte e ci delizia per la sua inventiva. Attraverso queste minute invenzioni la persona che scrive riesce a lasciare una lieve traccia di sé, si fa ricordare, si distacca dalla routine comunicativa quotidiana, costellata e resa noiosa da una quantità di formule, gesti, parole usa-e-getta. La scrittura della chat è caratterizzata da estrema rapidità e da una vicinanza all’oralità che le deriva direttamente dal modello della conversazione a più voci. L’andamento errabondo, se non anarchico, dello scambio verbale è la regola, più che l’eccezione. È determinato infatti da una condizione strutturale: gli interventi in contemporanea, che s’interpongono tra i messaggi appena visionati (a cui si replica), e il proprio atto di scrittura. In questo senso, una circostanza offline a cui accostare il clima della chat potrebbe essere il classico party baccanoso, con la musica tenuta piuttosto alta e tanta gente che parla tutta insieme. Su uno sfondo così irrimediabilmente caotico e rumoroso, il singolo intervento testuale rischia sempre la sfasatura, l’irrilevanza, il fuori tema, qualora la chat abbia preso un’altra strada, in quel breve intervallo di tempo. Quanto più invece saprà essere tempestivo, Esperienze e forme di scrittura online issn 2035-584x tanto più sarà facile che riesca efficace, ossia in grado di collocarsi al centro della conversazione, e non alla sua periferia. Ciò significa riflessi fulminei, battute pronte, alta tensione costante, specie quando (come accade spesso) la conversazione diventa pepata, competitiva, ricca di umori erotici o aggressivi. In effetti, il gioco al rialzo, l’escalation provocatoria, la disposizione a spararle grosse risultano abbastanza frequenti, temperati però da una comune volontà di sdrammatizzazione, scherzo, parodia, presa in giro. Si ha così a volte un andamento ondulatorio della conversazione: a momenti di massima eccitazione e scambio intenso, senza esclusione di colpi, seguono fasi di tranquillità e ricarica, in attesa che i fuochi si riaccendano ancora. Nei momenti migliori, il divertimento è diffuso, condiviso. I partecipanti più a loro agio sono senz’altro i battutisti migliori, ma più in generale coloro che si lasciano andare al libero gioco associativo, producendo una scrittura irriflessiva, bizzarra, senza censure di ragionevolezza e preoccupazioni di buona forma. Il protocollo di una chat sufficientemente animata e veloce si presenta spesso come una nebulosa verbale di sapore vagamente futurista, ricca di salti, interruzioni, “non sequitur” (i “cadaveri squisiti” surrealisti, al confronto, appaiono come modelli di linearità). Oltre al gusto (generalizzato) per lo spiazzamento e il paradosso, si rileva di frequente il costituirsi di sottogruppi o di coppie dialoganti, che danno vita a sequenze più serrate d’interventi, tali da facilitare la comprensione da parte di un osservatore esterno. Tutto sommato, però, leggere (o anche rileggere) le verbalizzazioni della chat trattandole come un’unità di tipo lineare, eventualmente con l’ambizione di trovarvi un senso latente, non è molto rilevante né sensato. La ricostruzione dell’esperienza conversazionale e delle sue dinamiche sarà sempre lacunosa, per chi non si è trovato “dentro”, immerso nell’immediatezza della produzione testuale, nello spettacolo di fuochi d’artificio delle schermaglie, del botta-e-risposta, dei colpi a effetto. Va perciò sottolineato piuttosto il carattere istantaneo, “cotto e mangiato”, della scrittura 20 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) della (o nella) chat, spesso più vicina alla performance teatrale (o forse cabarettistica) che all’autobiografismo e alla funzione informativa del messaggio breve. Sempre rimanendo nell’ambito della comunicazione di gruppo, vale la pena aggiungere qualche commento su un’ulteriore forma di scrittura online, apparentemente più vicina alla tradizione: quella dei newsgroup e dei forum. Le dinamiche di gruppo possono essere altrettanto intense della chat, ma certo si presentano assai diverse, stante la diluizione degli interventi in un arco di tempo molto ampio e la relativa lentezza degli scambi. Più precisamente, l’elemento differenziale decisivo è il funzionamento in differita, l’assenza di una contemporaneità programmatica. La condizione in cui più membri del gruppo sono connessi nello stesso momento è incidentale, non è una regola (anche se di fatto può produrre effetti rilevanti sull’andamento della discussione). Il setting dei gruppi in differita mette in conto l’assenza contingente degli altri, e anche una certa distanza psicologica. Si presuppone cioè una partecipazione relativamente costante, ma limitata a determinati momenti di vita quotidiana, a discrezione dei singoli membri del gruppo. Dal punto di vista della comprensibilità e dell’orientamento – in una parola, della leggibilità della discussione – gli’interlocutori si trovano avvantaggiati rispetto alla chat: il testo complessivo che documenta l’andamento della discussione del gruppo - anzi, che è la discussione - appare ordinato, chiaro, eventualmente ripartito su più argomenti, su cui si sviluppano intrecci d’interventi di alcuni membri, sottogruppi spontanei che si costituiscono in base a interessi specifici o a spinte del momento. Per quanto possa essere articolata e abbondante la mole dei messaggi altrui su cui aggiornarsi per poter intervenire non a sproposito, la cronologia degl’interventi è indicata con chiarezza, così come le loro relazioni reciproche (battibecchi, precisazioni, metacomunicazioni etc.). Il singolo partecipante ha tutto l’agio necessario per elaborare il suo punto di vista e dargli espressione in un testo scritto che sarà, a suo piacere, svelto o meditato, secco o barocco, riEsperienze e forme di scrittura online issn 2035-584x volto a tutti o destinato soprattutto a un dato membro del gruppo. Premuto il tasto d’invio, il nuovo intervento ottiene a volte una risposta immediata, ma altre volte può passare anche parecchio tempo prima che qualcun altro lo raccolga e decida di rispondere (per non parlare dei casi, più o meno frustranti, in cui non viene commentato da nessuno). Basta una rapida scorsa al testo di qualsiasi forum o newsgroup sufficientemente vivo e consolidato per rendersi conto che tra i partecipanti sussistono complesse relazioni di amicizia e di condivisione, con una forte coloritura di esibizione e competizione, dove la posta in gioco, spesso non dichiarata, è la conquista o il mantenimento di una qualche forma di leadership, oppure, più in generale, la ridefinizione incessante delle gerarchie, delle influenze, delle posizioni all’interno del gruppo. La misura forse più evidente di tali rapporti di potere è data proprio dalla risonanza, dal ruolo-guida che il singolo intervento testuale è in grado di conseguire. Gl’indizi sono di solito abbastanza eloquenti: l’intensità e il numero delle repliche, anche polemiche, le citazioni personali all’interno di altri interventi, i riconoscimenti espliciti del tipo ‘come ha notato giustamente X’, e altro ancora. Il silenzio generale è la risposta peggiore, che fa sentire il singolo partecipante in disparte, ai margini del gruppo, come se le sue parole fossero irrilevanti, svuotate di senso. Per evitare questo, la scrittura è obbligata a una continua ricerca d’incisività, che si abbia o meno a disposizione un’argomentazione forte o qualcosa d’importante da dire. Ciò che si persegue nelle discussioni di gruppo online, più o meno implicitamente, è un risultato di rilevanza della propria parola scritta. Rilevanza da intendere come possibilità di essere considerati con attenzione dagli altri, e in secondo luogo come influenza, facoltà di agire sugli altri modificandone opinioni, affetti, atteggiamenti. La pratica di scrittura si orienta spontaneamente verso tali obiettivi e si caratterizza per la costante ricerca dell’espressione efficace, icastica, memorabile, ma anche sciolta, non artificiosa, non tale cioè da apparire troppo 21 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) studiata e formale, e dunque inadatta al mezzo online. Analizzati con attenzione, i testi tradiscono l’accuratezza della formulazione, ma al primo impatto devono suonare spontanei e immediati. Nella scrittura dei gruppi online redomina quindi un registro intermedio, tra il colloquiale e l’aforistico: l’argomentazione risponde alla necessità di lasciare traccia di sé, prima ancora di obbedire al desiderio di convincere o sedurre. Abbiamo visto che anche nella scrittura delle email – di quelle con un valore aggiunto di comunicazione personale, quanto meno – si può individuare una fantasia latente di permanenza, di resistenza all’usa-e-getta. Si può allora sostenere che sia nelle discussioni di gruppo online sia nelle comunicazioni interpersonali della posta elettronica sopravvive una suggestione di durata nel tempo, propria della nozione tradizionale di scrittura. Viceversa, nelle chat e nei rapidi messaggi di Twitter la scrittura appare oralizzata al massimo, pressoché priva di elaborazione. Scrittura del preconscio, nel caso delle chat, sovente aperte alle bizzarrie, alle associazioni libere, alla programmatica sospensione del controllo razionale. Scrittura secca e pragmatica, quasi militaresca, nel caso dei “cinguettii” della messaggistica breve, volti a isolare e a restituire immediatamente l’essenziale di una circostanza e di un’esperienza in atto, o appena vissuta. La produzione del testo scritto, in ambedue i casi, si organizza intorno a un ideale d’immediatezza e istantaneità, quasi di annullamento del tempo. I contenuti possono volgersi alla realtà esterna o alle fantasticherie del mondo interno, ma sempre nella consapevolezza di una comunicazione impermanente, volatile, che vive e si consuma nel presente. issn 2035-584x Carlini, F.: Parole di carta e di web, Torino, 2004. Carrada, L.: Il mestiere di scrivere: le parole al lavoro, tra carta e web, Milano, 2008. Castells , M.: Galassia internet, Milano, 2006 Giordano, V. e Parisi, S.: Chattare: scenari della relazione in rete, Roma, 2007. Hansoon, T. (ed.): Handbook of research on digital information technologies: innovations, methods and ethical issues, Hershey, PA, IGI Global, 2008. Lughi, G.: Parole on line: dall’ipertesto all’editoria multimediale, Milano, 2000. O’Reilly, T. e Milstein, S.: The Twitter Book, Sebastopol, CA, O’Reilly Media, 2009. Pravettoni, G.: Web psychology, Milano, 2002. 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Esperienze e forme di scrittura online 22 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Tradizione e tecnologia online a confronto. Il passaparola elettronico: perché l’imprenditore agrituristico dovrebbe tenerne conto… Katia Laura Sidali Achim Spiller Abstract Parole chiave Il passaparola elettronico può aiutare gli operatori agrituristici a relazionarsi in maniera più efficace con il consumatore. Il presente lavoro analizza, attraverso un esperimento, il grado di fiducia che hanno gli utenti nei riguardi delle recensioni digitali e offre degli spunti di riflessione per la commercializzazione dell’agriturismo in Internet. passaparola elettronico; agriturismo; promozione online; tecnologie dell’informazione; recensioni digitali 1. Introduzione1 N elson Mandela una volta disse che «parlare in una lingua comprensibile permette al messaggio di raggiungere la mente della persona che sta ascoltando. Per raggiungere però il suo cuore occorre utilizzare la sua stessa lingua»2. Nel mercato dei beni turistici una comunicazione che «arrivi direttamente al cuore» del consumatore è il risultato di un lungo e costo1 Questo articolo presenta nello studio descritto nel paragrafo 3 la sintesi di due lavori, un articolo e un capitolo di una tesi di dottorato precedentemente pubblicati. I riferimenti di entrambi i lavori sono i seguenti: K. L. Sidali, H. Schulze, A. Spiller, The impact of online reviews on the choice of holyday accomodation, in W. Höpken, U. Gretzel, R. Law (a cura di), Information and Communication Technologies in Tourism, Vienna, 2009, pp. 87-98 e K.L. Sidali, Farm tourism: A cross-country empirical study between Germany and Italy, tesi di dottorato, Università di Bologna, 2009. 2 Libera trad.it. a cura dell’autore. Il testo originale è il seguente «If you talk to a man in a language he understands, that goes to his head. If you talk to him in his language, that goes to his heart». L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa so processo di studio e sperimentazione, alla realizzazione del quale partecipano esperti di diverse discipline. È quindi evidente che non tutte le imprese possono permettersi simili investimenti. Soprattutto in mercati di nicchia, quale quello dell’agriturismo, le competenze volte a creare una comunicazione emozionale con i consumatori sono alquanto limitate. Numerosi studi dimostrano infatti che per molti imprenditori agrituristici è spesso un problema relazionarsi efficacemente con il consumatore3. In primo luogo mancano molto spesso le risorse economiche (soprattutto in un contesto di riduzione delle sovvenzioni all’agricoltura) e di tempo (accavallamento dei picchi turistici durante la stagione agricola). Ma è soprattutto la limitata conoscenza del mercato (agri) turistico a determinare le maggiori difficoltà. Infatti oggigiorno il turista, definito da 3 Si vedano cfr. A. M. Hjalager, Agricultural diversification into tourism, in “Tourism Management”, 17 (1996), n. 2, p. 109 e R. W. Slee, R. Yells, Some aspects of marketing farm holiday accommodation, in “Farm Management” 5 (1985), n. 8, p. 322. 23 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) molti autori come «post-turista»4, è sempre più esigente e al contempo meno prevedibile nelle sue decisioni di spesa. Si delineano nuovi modelli di fruizione della vacanza, all’interno dei quali gli individui tendono ad attribuire meno importanza alle caratteristiche estrinseche di prodotti e servizi, per valorizzare maggiormente la natura simbolica del consumo. Inoltre si viaggia più frequentemente rispetto al passato ma in maniera più autonoma, privilegiando il contatto diretto con gli operatori turistici finali e premiando chi offre prodotti flessibili e innovativi. In questo contesto, il settore comunemente definito dell’information technology può aiutare ad avvicinare gli operatori agrituristici al postturista. Così ad esempio la tecnologia GPS può aiutare a creare maggiore visibilità soprattutto per gli agriturismi situati in località rurali difficilmente raggiungibili, sfruttando canali di distribuzione alternativi o complementari a quelli tradizionali. Ma è soprattutto l’avvento di Internet che offre agli imprenditori agrituristici i vantaggi più evidenti, non solo in termini di maggiore visibilità, ma anche dando agli utenti sia la possibilità di interagire direttamente fra di loro attraverso il cosiddetto passaparola elettronico5, sia quella di comunicare direttamente con gli operatori del settore (ad es. con le prenotazioni online, scambiando informazioni via e-mail, ecc.). Pur trovandosi ancora in una fase di sviluppo iniziale, questa industria dei «neo-beni»6 digitali, basata su tecnologia Internet registra promettenti prospettive di crescita. Nel presente lavoro si cercherà di analizzare il suo ruolo per promuovere lo sviluppo del settore agrituristico e, a tale scopo, si dedicherà par4 Trad. it. a cura dell’autore. Il termine in inglese è «post-tourist» espressione usata spesso nella letteratura turistica. Si vedano a riguardo D. B. Clarke, M. A. Doel, K. M. Housiaux (a cura di), The consumption reader, London, 2003 e L. Roberts, D. Hall (a cura di), Rural tourism and recreation. Principles to practice. Oxford, 2001. 5 Per una definizione del termine «passaparola elettronico» si rimanda al paragrafo 2.1. 6 Cfr. Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), Pronunce 54 – Osservazioni e proposte – L’industria dei contenuti digitali. Gli ostacoli e le condizioni di sviluppo, Roma, 26 febbraio 2009. Tradizione e tecnologia online a confronto issn 2035-584x ticolare attenzione al passaparola elettronico, così come è trasmesso attraverso le recensioni digitali di prodotti e servizi7. Nel prossimo paragrafo verrà avviata una riflessione sulle varie forme che può assumere il passaparola elettronico (2.1). La relazione tra il settore dell’agriturismo e le nuove tecnologie sarà presentata nel paragrafo 2.2. Successivamente (3) sulla base dei primi risultati di una ricerca internazionale mostreremo il primato della comunicazione online su altre fonti di informazione e riveleremo, attraverso la statistica descrittiva, quali elementi sono capaci di creare un alto grado di fiducia nel passaparola elettronico attraverso l’esempio della recensione digitale. Infine (4) verrà offerta una riflessione sui modi in cui la comunicazione online possa essere utilizzata per migliorare la relazione tra gli operatori agrituristici e i consumatori. 2. Quadro teorico 2.1. Il passaparola elettronico In questo articolo ci riferiamo al termine «passaparola elettronico»8 come all’insieme delle comunicazioni fra diversi utenti (Web output) che scorrono sulla rete o World Wide Web. Dal punto di vista linguistico il passaparola è una forma di comunicazione tra individui che, prendendo a prestito il modello «organon» di Bühler9, può essere rappresentata come un sistema imperniato su un segno (signifiant) che ricopre la funzione di rappresentare la realtà esterna. Detto segno è l’oggetto stesso della comunicazione tra un mittente ed un destinatario, sebbene questi ultimi possano conferirgli diversi significati (signifié del mittente e signifié del destinatario)10. Sulla base di quanto 7 Per una definizione del termine «recensioni digitali» si rimanda al paragrafo 2.1 8 Trad. it. a cura dell’autore. Il termine in inglese è «electronic word of mouth» spesso usato nella forma abbreviata di «e-WOM». 9 K. Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache, Stuttgart/New York, 1992. 10 I termini «signifiant» e «signifié» vengono introdotti nella linguistica da F. de Saussure, considerato il padre dello strutturalismo linguistico, cfr. F. de Saussure, Cours de linguistique générale. Paris, 1949. 24 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x detto possiamo tracciare una prima classificazione del passaparola elettronico. La forma (signifiant) più ricorrente che assume il passaparola elettronico (il «segno» nel modello di Bühler) è sicuramente l’e-mail, la quale può essere utilizzata sia a scopo ricreativo sia professionale (signifié del mittente e del destinatario). Un’altra «manifestazione» del passaparola elettronico è la recensione digitale11 che può essere definita come il giudizio che il consumatore scrive online sui più svariati servizi o prodotti, collocandolo su un’apposita piattaforma digitale12. In questo caso la comunicazione ha prevalentemente natura contingente e divulgativa. Altre forme del passaparola elettronico sono i blogs, i fori di discussione, le chats e i social networks, nelle quali il significato del passaparola elettronico è particolarmente legato alla «mission» del sito ove la stessa è posta (fori medici, blogs istituzionali, ecc.). Newsletter e messaggi tramite tecnologia RSS vengono invece frequentemente utilizzati dalle aziende per fidelizzare quei consumatori che sono già entrati in contatto con l’impresa almeno una volta e che accettano questo tipo di comunicazione selettiva per difendersi dal cumulo indiscriminato di informazioni elettroniche13. Da questa breve rassegna è evidente che la forma del passaparola elettronico spesso coincide con lo stesso canale di trasmissione della comunicazione online, che, a sua volta, influenza il signifié cioè il significato del messaggio comunicato tramite il passaparola e, di conseguenza, il suo grado di rappresentazione della realtà. La questione non è di poco conto soprattutto per beni, come i prodotti turistici, altamente esperienziali, dove cioè non è possibile determinare la qualità del bene da acquistare se non consumandolo, e, quindi, trasformandolo in un’esperienza unica e memorabile. La decisio- ne d’acquisto per questo tipo di beni avviene pertanto alla fine di un processo oneroso in termini di tempo dedicato alla ricerca di informazione e alla selezione della stessa. Ciò richiede un’attenta scrematura di molteplici fonti di informazione, operazione non facile visto che il consumatore è generalmente svantaggiato rispetto alla controparte14. In questo contesto il passaparola, anche di natura elettronica, assume un’importanza fondamentale. Come già accennato, nel seguito di questo articolo analizzeremo ulteriormente il passaparola elettronico circoscrivendolo al fenomeno delle recensioni digitali di prodotti e servizi turistici. In particolare riporteremo i risultati di uno studio condotto in Germania, attraverso il quale intendiamo dimostrare l’importanza del passaparola online per il settore dell’agriturismo in quanto dotato di una forte valenza emotiva. Sulla base di detti risultati offriremo degli spunti di riflessione per la commercializzazione di questa particolare nicchia turistica. 11 Libera trad.it. a cura dell’autore. Corrisponde al termine inglese «electronic» o «e-review». 12 Siti nati appositamente per ospitare recensioni digitali sono gli storici www.tripadvisor.com diffuso soprattutto negli Stati Uniti e www.holidaycheck.com consultato più frequentemente in Europa. 13 Problema, questo, a cui si fa riferimento nella letteratura con il termine di information overload si veda cfr. R. E. Mayer, Nine ways to reduce cognitive load in multimedia learning, in “Educational Psychologist”, 38 (2003), n. 1, pp. 43-52. 14 Nelle scienze economiche ci si riferisce a questo problema impiegando l’espressione «informazione asimmetrica» si veda G. A. Akerlof, The market for «lemons»: quality uncertainty and the market mechanism, in “Quaterly Journal of Economics”, 84 (1970), pp. 488-500. 15 Questa definizione è valida solo per l’Italia, l’unico paese europeo dotato di un corpus giuridico espressamente dedicato all’agriturismo. Per approfondimenti si rimanda alle leggi n. 96 del 2006 e n. 730 del 1985. 16 Hjalager (1996). Opera cit. Tradizione e tecnologia online a confronto 2.2. Agriturismo e nuove tecnologie L’accostamento di «passaparola digitale» con «agriturismo» potrebbe sembrare a prima vista improbabile o azzardato. L’agriturismo, definito come «attività turistica connessa ad attività agricola»15 è per lo più associato con paesaggi romantici, tradizioni popolari antiche e, in generale, una vita contadina cadenzata da ritmi lenti, che evoca nostalgia. In verità le zone rurali sono già da tempo meccanizzate e ciò che viene offerto al turista cittadino tramite accurate politiche di commercializzazione (il corso di cucina tradizionale piuttosto che la scuola di agricoltura biologica, ecc.) è piuttosto una «re-invenzione della realtà»16. La modernizzazione dell’agriturismo è visi- 25 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) bile anche in Internet. Nel mare magnum digitale infatti gli imprenditori agrituristici più attenti alle cangianti esigenze dei consumatori si sono velocemente provvisti di una pagina Web (propria o della associazione agrituristica cui appartengono) per approfittare dell’incredibile chance data dalla «rete» in termini di visibilità planetaria. Inoltre, in questo modo, possono anche far fronte all’alto tasso di concorrenza che caratterizza questo settore. Ma se la maggior parte degli imprenditori agrituristici non ha perso il treno tecnologico partito con la diffusione di Internet (provvedendo ad esempio, a fornirsi di una home page) e denominato Web 1.0; la sfida odierna si identifica con la seconda generazione di tecnologie digitali, riunite nell’espressione Web 2.0. Questo salto numerico sta ad indicare le nuove caratteristiche del web utente il quale si è liberato del suo ruolo passivo di osservatore della vetrina digitale per interagire direttamente con un’impresa, come nel caso dell’online banking, o con i suoi simili (peers), come accade nei forum di boicottaggio, nei blogs o sulle piattaforme online ospitanti le recensioni digitali di beni. È proprio attorno a quest’ultimo tipo di passaparola elettronico che, come già accennato, ruoterà l’analisi seguente con l’obiettivo di capire l’influenza della comunicazione online rispetto ad altri generi di comunicazione, sulle decisioni di spesa del consumatore ed evincere quindi quali siano le componenti chiave della fiducia che il consumatore ripone in questo genere di comunicazione. 3. Lo studio Per raggiungere gli obiettivi sopraccitati la sezione di Marketing Agro-Alimentare dell’Università di Göttingen ha elaborato un apposito questionario. Quest’ultimo si articola in quattro sezioni principali. Nella prima sono inserite domande relative al processo decisionale che viene intrapreso dal turista prima di iniziare un viaggio. In particolare viene chiesto di selezionare le fonti di informazione considerate più importanti per l’acquisto di un prodotto turistico. Nella seconda sezione viene presentato Tradizione e tecnologia online a confronto issn 2035-584x un esperimento in base al quale i rispondenti devono scegliere per quattro volte tra due strutture turistiche dello stesso genere che si differenziano unicamente per la fonte di informazione che recensisce la struttura. In ognuno dei casi presentati, la recensione digitale fornita da altri consumatori compete con altre fonti di informazione: una guida turistica molto conosciuta in Germania, il numero di stelle utilizzate nel settore alberghiero ed i consigli di un’agenzia di viaggio tedesca molto rinomata a livello nazionale17. Le opzioni scelte dai partecipanti sono state in seguito codificate e trasformate in un indice in grado di misurare il livello di preferenza dell’utente per il passaparola online trasmesso attraverso la recensione digitale18. Nella terza parte del questionario le domande identificano le componenti che rendono la recensione online degna di fiducia agli occhi degli utenti. L’ultima sezione riguarda la raccolta di informazioni sui dati anagrafici: stato civile, età, professione e reddito della famiglia, ecc. Sulla base di tale questionario durante il mese di maggio 2008 è stato costruito un campione di 216 soggetti scelti casualmente fra i residenti della città di Goettingen. La popolazione del campione19 risulta così composta: L’età media dei rispondenti è 39 anni. In particolare la fascia di età maggiormente rappresentata è tra i 21 e i 30 anni (40,4%), seguita da quella tra i 31 e i 50 anni (35,2%) ed infine quella degli ultra cinquantenni (22%). Solo l’1,6% del campione ha un’età inferiore ai 20 anni. Inoltre, nel campione prevalgono le donne (54% contro il 46% degli uomini). Per quanto riguarda la fase della preparazione della vacanza il campione dimostra un alto livello di «impegno» (o involvement come vie17 Non potendo condurre le interviste online è stato utilizzato in sede di esperimento il logo di famosi siti ospitanti recensioni digitali in maniera tale da simulare l’ambiente Internet. 18 Si tratta di un indice costruito con la seguente scala di valori: da 0= non è mai scelta la struttura ricettiva con la recensione digitale migliore 5= in tutti i casi viene scelta la struttura ricettiva con la recensione digitale migliore. 19 trattasi di cosiddetto “convenience sample” cioè campione non rappresentativo. 26 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) ne definito nella terminologia del marketing). Infatti, ben il 43,5% dei partecipanti afferma di investire molto, in termini sia di tempo sia di energia, nell’attività pre-viaggio. Ma il dato più interessante riguarda proprio l’uso delle nuove tecnologie in supporto a tale attività: il 63,5% del campione dichiara di far uso della tecnologia Internet per pianificare le vacanze e il 56,6% degli intervistati dichiara di aver già prenotato in passato una vacanza in Internet. 3.1. Fonti di informazione a confronto: primato della comunicazione online Attraverso l’utilizzo di domande Likert è stato chiesto ai participanti di selezionare le fonti di informazione considerate più importanti per valutare la qualità di un prodotto turistico. Le fonti di informazione proposte spaziavano da quelle considerate più oggettive nel veicolare informazioni concernenti la qualità di un prodotto turistico, come ad esempio il sistema della classificazione alberghiera basato sulle stelle, ad altre più soggettive come il passaparola di amici/colleghi, brochures turistiche e, naturalmente, anche il passaparola elettronico. Come mostra la tabella 1, le prime quattro fonti di informazione dichiarate più importanti sono risultate essere le seguenti: il passaparola di amici/colleghi (cosiddetto passaparola offline), il sistema della classificazione a stelle del settore alberghiero, il passaparola elettronico nella forma della recensione digitale e i consigli delle agenzie di viaggio. Questo primo risultato è importante perché mostra come il passaparola elettronico, strumento di comunicazione relativamente nuovo, riesca comunque ad essere percepito come più importante del tradizionale agente di viaggio. Tuttavia, per comprendere a fondo il complesso fenomeno del processo decisionale precedente l’acquisto di un bene turistico, è necessario analizzare ciò che avviene nella vita reale in quanto, secondo Hato (et alii) ,20 20 �������������������������������������������������� E. Hato, M. Taniguchi, Y. Sugie, M. Kuwahara, H. Morita, Incorporating an information acquisition process into a route choice model with multiple information sources, in Transportation Research Part C: Emerging Technologies, 7 (1999), n. 2-3, pp. 109-129. Tradizione e tecnologia online a confronto issn 2035-584x mentre «gli individui nella fase di ricerca acquisiscono le informazioni da molteplici fonti di informazione, il numero di queste ultime si riduce sensibilmente al momento di provvedere effettivamente all’acquisto del bene». I risultati dell’esperimento sembrano supportare tale tesi in quanto i precedenti risultati vengono «ribaltati»: la maggioranza dei rispondenti sceglie, nella simulazione della vita reale rappresentato dall’esperimento, prioritariamente la struttura ricettiva con la recensione digitale migliore indicando in questo modo chiaramente un alto livello di preferenza per questo tipo di passaparola elettronico. A grande distanza seguono le guide turistiche, i consigli delle agenzie di viaggio e, solo per ultimo, il sistema di classificazione alberghiero. Come si giustifica il ruolo predominante dato al passaparola online nella forma delle recensioni digitali? Sicuramente, come sostengono Molina e Esteban 21, diverse fonti di informazione trasmettono diverse aspettative. Così è plausibile pensare che, se per l’acquisto di un genere alimentare una fonte di informazione percepita come molto oggettiva (es. il marchio di qualità assegnato da un certificatore esterno) possa avere un’influenza molto forte in quanto agisce sulla sfera cognitiva dell’essere umano (che vuole sapere cosa mangia), per un bene tuttavia altamente esperienziale, è plausibile che altre fonti di informazione, più influenti sulla sfera affettiva, esercitino un ruolo principe, innescando l’insorgere di sogni/speranze (es. la promessa di riposo di una vacanza in agriturismo) che sarà poi premura dell’imprenditore (agri)turistico rafforzare. 21 ������������������������ A. Molina, A. Esteban, Tourism Brochures - Usefulness and Image –, in “Annals of Tourism Research”, 33 (2006), n.4, pp. 1036-1056. 27 issn 2035-584x Le più importanti fonti di informazione sono… Le fonti di informazione scelte più frequentemente in sede di esperimento 1 Consigli di amici/colleghi 1 Recensione digitale 2 Classificazione alberghiera 2 Guida turistica 3 Recensione digitale 3 Suggerimento dell’agenzia di viaggio 4 Agenzia di viaggio 4 Sistema alberghiero Fonte: propria elaborazione Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Tabella 1. Confronto tra le risposte date dagli intervistati ed i risultati dell’esperimento 3.2. Elementi chiave nella creazione di fiducia verso le recensioni digitali peerto-peer Per comprendere il livello di fiducia che i consumatori riversano nei confronti della comunicazione online è stato chiesto agli intervistati di indicare la propria opinione nei riguardi delle recensioni digitali di prodotti turistici. In generale, la netta maggioranza del campione (61%) dichiara che le recensioni digitali sono «molto utili» nella pianificazione della vacanza e addirittura il 75% degli intervistati dichiara che sarebbe disposto a pagare un prezzo maggiore per un hotel recensito positivamente da peers in Internet. La statistica descrittiva ci viene in aiuto anche al momento di analizzare quali aspetti di questo tipo di comunicazione sono percepiti come particolarmente importanti per determinare un alto livello di fiducia nel consumatore (vedi Tabella 2). Il 67% degli intervistati dichiara di affidarsi soprattutto a recensioni ricche di dettagli (utili al fine della pianificazione della vacanza) mentre il 64% attribuisce un alto grado di fiducia alle recensioni dalle quali traspare un’alta esperienza di viaggio dell’autore. Altri elementi atti a creare fiducia verso questo tipo di comunicazione online sono uno stile amichevole (33%), una (percepita) empatia (in termini di comunanza di interessi, visione del mondo, ecc.) tra il lettore e l’autore della recensione (33%) ed, infine, il numero totale di recensioni scritte dall’autore (30%). Caratteristica della recensione digitale in grado di Percentuale degli intervistati che si definiaumentarne la fiducia nel lettore1: scono molto o abbastanza d’accordo2: Ricchezza di dettagli 67% Alta esperienza di viaggio dell’autore 64% Stile amichevole 33% Empatia con l’autore 33% Numero di recensioni scritte dall’autore 30% 1 Domanda del tipo Likert con scala di valori da (+2) =assolutamente d’accordo a (-2) =assolutamente in disaccordo 2 Le percentuali si riferiscono alle risposte con valore (+1) e (+2) Tabella 2. Analisi degli elementi che concorrono a creare fiducia nelle recensioni digitali Tradizione e tecnologia online a confronto 28 Fonte: propria elaborazione Il primato della recensione digitale su fonti più oggettive come la classificazione alberghiera può essere quindi spiegato in quanto la prima agisce sulla sfera affettiva dell’individuo. Come spiegare però il primato della stessa anche su altre fonti di informazioni, quali gli agenti di viaggio, che utilizzano raffinate tecniche di comunicazione creativa (story-telling, slogan d’effetto, foto e video accattivanti sulle brochures, ecc.) al fine di creare un legame emozionale con l’utente? La spiegazione è data probabilmente dal particolare rapporto di fiducia che si instaura tra l’utente che legge la recensione digitale e colui che descrive il bene basandosi sulla sua precedente esperienza. Nel paragrafo successivo tale rapporto sarà esaminato ulteriormente. Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Come precedentemente accennato il canale di trasmissione di un messaggio digitale è parte integrante della comunicazione. Nella fattispecie, le recensioni di strutture turistiche come quelle proposte in sede di esperimento possono trovarsi sia su siti istituzionali (ad es. il sito turistico ufficiale della regione) sia su portali privati (come nel caso dei portali delle associazioni di operatori agrituristici). Nella Tabella 3 analizziamo, attraCaratteristica della piattaforma in grado di aumentarne la fiducia nel lettore1: Indipendenza della piattaforma Disponibilità di informazioni aggiornate Notorietà della home page che ospita la piattaforma Customization della piattaforma Popolarità della piattaforma Numero di funzioni per raffinare la ricerca Incentivi economici Pubblicità esterna dal 12% degli intervistati) né gli incentivi economici offerti da talune piattaforme digitali per aumentare il numero di recensioni (15% del campione) sembrano capaci di innalzare il grado di fiducia nella piattaforma. 3.4. Considerazioni generali In generale risulta evidente che la recensione più è percepita come dettagliata più è considerata affidabile. Non stupisce che, soprattutto in tempi di ristrettezze economiche, il consumatore premi la comunicazione che meglio di altre permette di ridurre al miPercentuale degli intervistati che si definiscono molto o abbastanza d’accordo2: 82% 68% 61% 59% 53% 51% 15% 12% Fonte: propria elaborazione 3.3. Elementi chiave nella creazione di fiducia verso le piattaforme digitali ospitanti le recensioni issn 2035-584x 1 Domanda del tipo Likert con scala di valori da (+2) =assolutamente d’accordo a (-2) =assolutamente in disaccordo 2 Le percentuali si riferiscono alle risposte con valore (+1) e (+2) Tabella 3. Analisi degli elementi che concorrono a creare fiducia nei siti Internet (piattaforme) che ospitano le recensioni digitali verso la statistica descrittiva, quali elementi concorrono a creare un legame di fiducia tra il fruitore della recensione e la piattaforma sulla quale tale recensione è posta. L’indipendenza della piattaforma dal proprietario della struttura ricettiva è l’elemento indicato dalla maggioranza del campione (82%), seguito dall’aggiornamento delle informazioni presenti sulla piattaforma (68%), il livello di notorietà della home page (se presente) ospitante la piattaforma (61%) il grado di adeguamento (customization) della piattaforma alle esigenze degli utenti (59%), il grado di popolarità della piattaforma stessa (53%) ed il numero di funzioni offerte per raffinare la ricerca (51%). Al contrario, né la pubblicità esterna (considerata importante solo Tradizione e tecnologia online a confronto nimo il rischio di spendere male i soldi destinati all’acquisto di un bene turistico. Inoltre, come abbiamo visto, la stessa piattaforma dove è posta la recensione, deve essere percepita come credibile. Questo significa forse che recensioni poste sulla propria home page debbano essere escluse a priori? Uno sguardo al settore alberghiero, dove non è raro trovare questo genere di passaparola elettronico come ulteriore servizio di cortesia per i potenziali clienti sembrerebbe smentire questa limitazione. Vero è comunque che qualora un imprenditore agrituristico decidesse di ospitare sul proprio sito Internet recensioni relative alla propria offerta, le precauzioni da usare sono molteplici. A tale genere di riflessioni è dedicato il paragrafo seguente. 29 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Implicazioni per gli imprenditori agrituristici Abbiamo visto nelle sezioni precedenti che il passaparola elettronico in generale e le recensioni digitali in particolare, esercitano una forte valenza emotiva sul consumatore. Ciò implica che gli imprenditori agrituristici non possono più ignorare questo genere di comunicazione, che sembra, tra l’altro, destinata a diffondersi considerevolmente anche per la diffusione di informazioni riguardanti beni diversi da quelli turistici. A questo punto è plausibile supporre che per gli operatori del settore agrituristico ci siano due possibilità di inclusione delle recensioni digitali nella rete di promozione e commercializzazione della loro struttura. In primo luogo l’imprenditore potrebbe decidere di ospitare le recensioni digitali sul suo stesso sito Internet. In questo caso, e posto che venissero pubblicate sia le recensioni positive sia quelle negative per rendere maggiormente credibile la comunicazione peer-to-peer, il vantaggio più evidente sarebbe l’aumento della reputazione dell’agriturismo in questione, vista la totale trasparenza segnalata dall’imprenditore ai suoi utenti. Un altro vantaggio derivante da tale decisione è legato alla miniera di informazioni assolutamente gratuita, autentica e aggiornata di cui l’operatore agrituristico disporrebbe sui suoi clienti. Dall’altro lato però, tale disponibilità di dati si rivelerebbe inutile e addirittura costosa se l’operatore agrituristico non pianificasse, parallelamente, un continuo e attento lavoro di controllo redazionale atto a catalogare le informazioni a fini statistici, cancellare dati inopportuni (informazioni obsolete o lesive della privacy propria o altrui, informazioni false, ecc.). Inoltre, un’altra conseguenza negativa di cui l’operatore agrituristico dovrebbe tenere conto sarebbe la diffusione incontrollabile di un eventuale passaparola negativo dovuto al reale problema che nulla di ciò che viene pubblicato in Internet può essere definitivamente cancellato. Per cercare di ridurre al minimo tale rischio l’operatore agrituristico ha a sua disposizione un’altra possibilità: quella di affidarsi ad un Tradizione e tecnologia online a confronto issn 2035-584x soggetto esterno. I portali promozionali di agriturismi22, ad esempio, sono specializzati nella promozione di tali strutture e dispongono delle necessarie risorse, in termini sia di know-how tecnologico sia di tempo, per effettuare un controllo redazionale continuo. Inoltre, ospitando diverse strutture ricettive queste piattaforme vengono percepite dagli utenti come indipendenti dal singolo operatore agrituristico aumentando, di conseguenza, anche il grado di fiducia nelle recensioni ospitate. Dovendosi però affidare ad un soggetto esterno è però evidente che i costi per l’operatore agrituristico aumentano notevolmente. Questo è quindi il principale svantaggio riguardante la decisione di affidare un sistema di comunicazione peer-to-peer ad un soggetto esterno. In generale possiamo concludere che, come ribadito più volte nella letteratura23, alla comunicazione online dovrebbe venire riconosciuta maggior importanza considerato il suo impatto sulle decisioni di spesa dei consumatori. Ciò dovrebbe venire spiegato agli operatori turistici soprattutto in quei settori, come quello del turismo rurale e dell’agriturismo, in cui l’affinità con gli strumenti dell’information technology è particolarmente carente sia per motivi infrastrutturali (dividendo digitale infrastrutturale) sia, soprattutto, per motivi socio-culturali (dividendo digitale culturale). Maggiori investimenti per aumentare la ricerca sperimentale in questo campo e un più effettivo approccio interdisciplinare potrebbero agire da motore propulsivo per ampliare le conoscenze in questo recente e complesso campo di studio. 22 Portali italiani di agriturismi sono ad esempio www. agriturismo.it e www.agriturismoitaliano.it. 23 ������������������������������� T. Hennig-Thurau (a cura di), ‘Word-of-Mouse’: why consumers listen to each other on the Internet Berlin, n. 3, 2005. 30 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Katia L. Sidali è specializzata in teoria del consumatore e marketing agro-alimentare e turistico. Attualmente è titolare di una borsa di post-dottorato presso l’Università di Goettingen, Dipartimento di Economia Agraria e Sviluppo Rurale. Achim Spiller è professore di Marketing agroalimentare presso l’Università di Goettingen, Dipartimento di Economia Agraria e Sviluppo Rurale. Tradizione e tecnologia online a confronto 31 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Produzioni alimentari legate al territorio: le forme e l’intensità della protezione giuridica nel mercato europeo Stefano Amadeo Abstract Parole chiave Nel diritto dell'Unione europea la regolazione delle indicazioni geografiche risale a tempi recenti. Tuttavia essa è caratterizzata da un notevole grado di sviluppo e complessità. Ispirato alla normativa convenzionale, motore di ulteriori evoluzioni sulla scena internazionale, il diritto comunitario esprime un sistema uniforme su base regionale, e un elevato grado di tutela dei segni distintivi legati al territorio. Il presente contributo ricostruisce le articolazioni essenziali della disciplina, valorizzando il contributo della giurisprudenza nell'individuazione di un “punto di equilibrio”, per certi versi peculiare o atipico, fra le opposte esigenze della tutela dei segni e della libera circolazione dei prodotti nel mercato europeo prodotti agricoli prodotti alimentari indicazioni geografiche diritti di privativa registrazione comunitaria protezione mercato unico europeo misure di effetto equivalente Sommario: 1. La specificità della protezione giuridica delle indicazioni geografiche nel mercato europeo: “bella addormentata nel bosco” o “gatto con gli stivali”? 2. La coesistenza e le relazioni tra i vari regimi: normative nazionali e strumenti internazionali; 3. Le indicazioni geografiche nel diritto comunitario; 4. I presupposti della tutela 5. Contenuto e limiti della tutela; 6. La protezione delle indicazioni geografiche in deroga alla libera circolazione delle merci; 7. Il carattere esauriente della disciplina comune e la possibile protezione “complementare” prevista dal diritto nazionale. nel bosco” della privativa internazionale1. Il riferimento corre al crescente e progressivo “risveglio” degli interessi commerciali che circondano, a livello mondiale e soprattutto europeo2, i segni distintivi geografici (i segni che permettono di collegare un prodotto alla località, al territorio o allo Stato di origine)3. Dinanzi agli insospettabili “passi” che la disci- 1. La specificità della protezione giuridica delle indicazioni geografiche nel mercato europeo: “bella addormentata nel bosco” o “gatto con gli stivali”? L e denominazioni d’origine (dette anche indicazioni geografiche, o secondo l’acronimo inglese, GIs) dei prodotti agricoli e alimentari sono state definite la “bella addormentata Produzioni alimentari legate al territorio 1 Cfr. M. Höpperger, in www.wipo.int/export/sites/ www/wipo_magazine/en/images/banner.git 2 Cfr. B.A. Babcock, R. Clemens, Geographical Indications and Property Rights: Protecting Value-Added Agricultural Products, Matric Briefing Paper 04-MBP 7, in www.matric.iastate.edu, spec. p. 16 s. 3 Cfr. M. D’Addezio, La promozione e la regolazione del mercato alimentare nell’Unione europea. Esperienze giuridiche comunitarie e nazionali, in M. D’Addezio e A. Germanò (a cura di), La regolazione e la promozione del mercato alimentare nell’Unione europea, Milano, 2007, p. 3; L. Francario, La valorizzazione del patrimonio gastronomico italiano attraverso i segni del territorio, ibidem, p. 55. ������������������� Cfr. anche, in senso critico, K. Rustiala, S.R. Munzer, Global Struggle over Geographical Indications, in UCLA School of Law, Research Paper No. 06-32, in http://ssen.com/abstract=925751. 32 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) plina dei segni geografici ha compiuto e si appresta a compiere, a livello regionale europeo, e dell’impulso ulteriore che ne potrebbe derivare per la disciplina internazionale, a buon diritto le denominazioni d’origine andrebbero definite, piuttosto, come il “gatto con gli stivali” della privativa internazionale. Sebbene l’origine della normativa di settore, in ambito comunitario, sia alquanto recente, il sistema di tutela posto in essere risulta articolato. Si tratta di un sistema sui generis, che solo in parte presenta analogie con gli strumenti di tutela della privativa commerciale4. La protezione delle denominazioni d’origine nel diritto dell’Unione europea si colora, in effetti, di una particolare intensità. Ciò in ragione del preminente interesse che la Comunità nutre per la qualità dei prodotti agricoli5 e per il sostegno del reddito delle popolazioni rurali; ma altresì per il contributo dato dalle indicazioni di qualità alla conservazione e alla promozione del patrimonio culturale del territorio6. In ogni caso l’intensità delle garanzie che circondano le indicazioni geografiche è tributaria, in gran misura, dello sforzo interpretativo della Corte di giustizia, che a partire dai primi anni ‘90 ha non solo formulato le coordinate di sviluppo della legislazione derivata7, ma ha inoltre impresso alle forme della protezione e agli strumenti di tutela previsti a livello normativo un’ampiezza insospettata8. Ciò è particolarmente evidente se l’estensione della tutela conferita alle denominazioni di origine viene esaminata come un’ipotesi di deroga al fondamentale principio della libera circolazione delle merci nell’ambito del mercato interno9. Ma risalta altresì se la protezione delle de4 Infra, n. 2. 5 Cfr. il Libro Verde della Commissione europea del 15 ottobre 2008 sulla qualità dei prodotti agricoli: norme di prodotto, requisiti di produzione e sistemi di qualità (COM/2008/0641 def); v. anche C. Cattabriga, E. Monaguti, P. Ruggeri Laderchi, Art. 37 TCE, in A. Tizzano (a cura di), Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, Milano, 2004, p. 338 ss., 346. 6 Infra, n. 1.3. 7 Infra, n. 4. 8 Infra, n. 5. 9 Infra, n. 3 e 6. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x nominazione d’origine è posta a raffronto con le garanzie di cui godono altri segni distintivi privi di radicamento territoriale: per esempio, nell’ambito della disciplina dei vini, con le indicazioni di qualità10. La tutela uniforme delle indicazioni geografiche garantita in tutto il territorio dell’Unione, a partire da un complesso procedimento di registrazione delle medesime a livello comunitario, non sembra peraltro escludere una protezione complementare prevista, all’occorrenza, dagli ordinamenti nazionali mediante figure che tutelino il legame tra prodotto e territorio d’origine in forma più attenuata11. 1.1. In senso ampio, le indicazioni geografiche hanno tradizionalmente una duplice funzione. Consentono al consumatore di selezionare prodotti genuini che traggono la loro reputazione e la loro unicità dal territorio d’origine, e dall’uso e dall’affinamento delle tecniche adoperate, nel tempo, dagli operatori ivi stabiliti. Premiano insomma, attraverso il riferimento a un contesto territoriale, la qualità dei prodotti, qualità che è all’origine del carattere rinomato della denominazione e che è sempre più apprezzata dai consumatori12. Alla base dell’istituto vi è insomma il legame specifico tra la terra e l’unicità qualitativa del prodotto che è espresso dalla nozione francese di terroir13. 10 Sulla controversia relativa all’uso di indicazioni omonime, di cui l’una espressiva di un riferimento geografico (la denominazione di origine ungherese “Tokai”) l’altra di un’indicazione di qualità (“Tocai”) relativa a un vitigno e a una produzione localizzata nel nord est d’Italia, v. Corte giust., 12 maggio 2005, C-347/03, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e ERSA, in Racc., p. I-3785 e soprattutto ordinanza 12 giugno 2008, C-23/07 e C-24/07, Confcooperative Friuli Venezia Giulia e altri, in Racc., p. I-4277. Sul tema F. Spitaleri, Denominazioni d’origine e indicazioni omonime: la Corte di giustizia definisce la controversia sul caso Tocai, in Diritto unione europea, 2008, p. 835, ove anche indicazioni di dottrina. 11 Infra, n. 7. 12 Cfr. Corte di giustizia, 16 maggio 2000, C-388/95, Belgio c. Spagna, in Racc., p. I-3123, cpv. 56; 20 maggio 2003, C-108/01, Consorzio del Prosciutto di Parma, in Racc., p. I-5121, cpv. 48. 13 Secondo Le Petit Larousse, Paris 1992, la parola terroir esprime la “terre considérée sous l’angle de la produc- 33 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Sul versante dell’offerta, le indicazioni geografiche garantiscono ai produttori situati nelle zone rurali una ricompensa per la qualità conseguita (c.d. premium prize), tanto maggiore quanto più i prodotti che se ne fregiano sono riconosciuti e apprezzati dal consumatore; stimolano la diversificazione della produzione e proteggono contro appropriazioni indebite da parte dei terzi14. In effetti “nella percezione del consumatore, il nesso tra la reputazione dei prodotti e la qualità dei prodotti dipende … dalla sua convinzione che i prodotti venduti con la denominazione di origine sono autentici”15. 1.2. Sotto quest’ultimo profilo, e benché sul piano internazionale le opinioni non siano concordi, le indicazioni geografiche hanno una base concettuale comune con i diritti di privativa16. Esse rientrano “nel campo dei diritti di proprietà industriale e commerciale. La normativa [che le prevede] tutela i beneficiari contro l’uso illegittimo delle dette denominazioni da parte di terzi che intendano profittare della reputazione da esse acquisita”17. Esse contribuiscono a garantire condizioni leali di contion ou d’une production agricole caractéristique”; cfr. ad esempio, sulla “sfida” dei crus du terroir, per ciò che riguarda il Barolo delle Langhe e il Pinot di Borgogna, La Stampa del 22 novembre 2009, p. 33. ���������������������������������� F. Addor, N. Thumm, A. Grazioli, Geographical Indications: Important Issues for Industrialized and Developing Countries, in The IPTS Report, 5/2003, p. 23, 25; cfr. anche le motivazioni iniziali del reg. CE n. 510/2006 del 20 marzo 2006 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea (GUUE), L 93 del 31 marzo 2006, p. 12 15 Corte giust., 20 maggio 2003, Consorzio del Prosciutto di Parma, cit., cpv. 64. 16 Si tratta di diritti di proprietà (privativa commerciale) alquanto atipici, nella misura in cui non appartengono a un solo titolare: ne possono beneficiare tutti i produttori che operano in un determinato contesto geografico, a condizione che rispettino, nell’elaborazione del manufatto, determinate prescrizioni (usi leali e costanti, indicati nel “disciplinare”). Inoltre tali prescrizioni, in genere a tutela della qualità, sono elaborate da associazioni private (consorzi o associazioni) e approvate o rese vincolanti da atti della pubblica autorità. 17 Corte giust., 16 maggio 2000, Belgio c. Spagna, cit., cpv. 54; 20 maggio 2003, Consorzio del Prosciutto di Parma, cit., cpv. 48. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x correnza tra produttori di beni simili nonché a “facilitare il conseguimento, da parte [di questi ultimi], di migliori redditi in contropartita di uno sforzo qualitativo reale”18. In tale misura le indicazioni geografiche condividono le finalità generali che caratterizzano il diritto industriale e dei marchi in particolare19. 1.3. Strumento di garanzia della qualità dei prodotti legati al territorio, le denominazioni d’origine non esauriscono tuttavia la loro funzione nella tutela di interessi economici di carattere privatistico. I titoli di proprietà intellettuale, industriale e commerciale favoriscono lo sforzo creativo, l’innovazione e il progresso tecnologico. Le indicazioni geografiche costituiscono, altresì, espressione di “identità, valori e significati culturali”20. In tale prospettiva i segni distintivi alimentari appaiono portatori di dati storici e geografici obiettivi. Svolgono un ruolo strumentale alla tutela del patrimonio culturale dei popoli e delle loro conoscenze tradizionali, in quanto manifestazione delle vocazioni e delle tradizioni produttive – dunque dell’identità – di un territorio21. Il legame tra prodotto e territorio appare, tuttavia, tanto più attenuato quanto 18 Corte giust., 20 maggio 2003, Consorzio del Prosciutto di Parma, cit., cpv. 63, in fine. 19 Corte giust., 17 ottobre 1990, C-10/89, Hag, in Racc., p. I-3711, spec. cpv. 13, che ricorda quasi letteralmente il ragionamento della Corte richiamato nella nota che precede. ���������������������������� Cfr. tuttavia D. Gervais, Traditional Knowledge & Intellectual Property: A TRIPS-Compatible Approach, in Michigan State Law Review, 2005, p. 137 ss. 21 V. in generale B. de Witte, Trade in Culture: International Legal Regimes and EU Constitutional Values, in Gráinne de Búrca, J. Scott (eds.), The EU and the WTO – Legal and Constitutional Issues, Oxford, Portland Oregon, 2001, p. 237 ss.; G. Coscia, I rapporti fra sistemi internazionali e comunitari sulla protezione delle indicazioni di qualità, in B. Ubertazzi, E. Muňiz Espada (a cura di), Le indicazioni di qualità degli alimenti - Diritto internazionale ed europeo, Giuffrè, 2009, p. 43 ss., in fine. Per un’approfondita e critica analisi di tale approccio, cfr. T. Broude, Taking “Trade and Culture” Seriously: Geographical Indications and Cultural Protection in WTO Law, in http://papers.ssrn. com., p. 1-43, che valuta la tutela della cultura attraverso le indicazioni d’origine come un’ipotesi più prossima al “protezionismo culturale” che alla “protezione della cultura”, ibidem, p. 42. 34 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) più indeterminate o “delocalizzate” sono le caratteristiche che il prodotto deve presentare per il conferimento dell’indicazione d’origine22. L’estesa e articolata protezione riconosciuta alle indicazioni d’origine nell’ordinamento comunitario23 sembra potersi rappresentare come uno strumento di protezione della diversità culturale nazionale e regionale (o territoriale) attraverso la privativa commerciale, in armonia con quanto stabilito dall’art. 151 TCE. Il principio di protezione “trasversale” della cultura che tale norma incorpora24 risulta internazionalmente rafforzato per effetto della Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, firmata a Parigi il 20 ottobre 2005 ed entrata in vigore, con la partecipazione della Comunità e dei suoi Stati membri, il 18 marzo 2007. L’art. 20 di tale strumento vincola in effetti i contraenti a “tener conto” della Convenzione nell’interpretazione e nell’applicazione degli altri trattati internazionali di cui sono parti25. 2. La coesistenza e le relazioni tra i vari regimi: normative nazionali e strumenti internazionali. Le indicazioni geografiche fruiscono di forme di protezione differenziate negli ordinamenti nazionali, in funzione delle discipline sostanziali e processuali che le prevedono. Così le indicazioni geografiche possono trovare variabile garanzia nelle norme sulla concorrenza sleale, nelle norme a tutela del consumatore, o in specifiche previsioni di diritto industriale, 22 Cfr. D. Sarti, Segni e garanzie di qualità, in B. Ubertazzi, E. Muňiz Espada (a cura di), Le indicazioni di qualità, p. 112 ss., e infra, n. 4.1. e 4.2. 23 Cfr. infra, n. 3. 24 Cfr. l’art. 151, par. 4, TCE: “La Comunità tiene conto degli aspetti culturali nell’azione che svolge a norma di altre disposizioni del presente trattato, in particolare ai fini di rispettare e promuovere la diversità delle sue culture”; e l’analogo disposto dell’art. 167 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, dopo le novelle di Lisbona. 25 La Convenzione è stata adottata sotto gli auspici dell’UNESCO: vedila tra gli strumenti giuridici pubblicati nel sito ufficiale dell’Organizzazione, www.unesco. org. Sulla bozza di Convenzione, cfr. T. Broude, Taking “Trade and Culture” Seriously, cit. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x come avviene nell’ordinamento italiano26, o nel diritto dei marchi, come avviene negli Stati Uniti27. Possono altresì trovare tutela (indiretta) nelle norme che proibiscono la pubblicità ingannevole28. 2.1. L’efficacia degli strumenti predisposti dagli ordinamenti nazionali è tuttavia relativa. Tali strumenti hanno un ambito d’applicazione limitato dalle frontiere nazionali, secondo il principio di territorialità. I fenomeni di imitazione o appropriazione parassitaria delle indicazioni geografiche da parte dei terzi, al contrario, si verificano prevalentemente al di là delle frontiere del paese di origine del prodotto (interessato alla sua tutela)29. E’ alla luce delle considerazioni che precedono – l’esigenza di garantire un minimo standard di protezione delle indicazioni geografiche attraverso le frontiere nazionali – che sono da intendersi le numerose convenzioni internazionali multilaterali (o bilaterali) adottate in materia, nonché le pertinenti disposizioni dell’Accordo sugli aspetti della proprietà intellettuale collegati al commercio30. 26 Cfr. in Italia gli art. 29 e 30 del codice della proprietà industriale (decreto lgs. n. 30 del 2005). 27 ������������������ Cfr. T. Josling, What’s in a Name? The economics, law and politics of Geographical Indications for foods and beverages, IIIS Discussion Paper, 2006, p. 11 s., in http://eulaw.typepad.com. 28 Cfr. per esempio gli art. 3 e 4 del decreto lgs. n. 145 del 2007 (attuazione dell’art. 14 della direttiva 2005/29/ CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole), in GURI n. 207 del 6 settembre 2007. 29 �������� Cfr. l’Handbook commissionato dalla Commisssione europea allo studio O’Connor & Company – European Lawyers, Geographical indications and TRIPs: 10 Years Later... A roadmap for EU GI holders to get protection in other WTO Members, p. 1, reperibile in trade.ec.europa.eu/doclib/ html/135088.htm. 30 Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (c.d. TRIPs), allegato al Trattato istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (1994), art. 22-24: lo si veda al sito ufficiale dell’Organizzazione (www.wto.org), comprensivo di una versione integrata con le pronunce dell’Organo di soluzione delle controversie. La disciplina dei diritti di privativa nell’ambito delle norme sul commercio internazionale sono giustificate, come ricorda il preambolo dell’Accordo, dall’esigenza di promuovere una protezione “effettiva e adeguata” di tali diritti, evitando al contempo che l’eserci- 35 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) 2.2. Gli strumenti multilaterali non importano in genere armonizzazione né uniformazione delle discipline nazionali in materia di indicazioni geografiche. Più modestamente, essi affermano obblighi, applicabili a tutti gli Stati membri, in materia di trattamento nazionale dei cittadini degli altri Stati contraenti, titolari di diritti di privativa, anche sotto il profilo dell’accesso ai procedimenti giurisdizionali31. Prevedono disposizioni “autonome” sulla definizione delle indicazioni geografiche e dispongono, soprattutto, che gli Stati medesimi debbano vietare – e predisporre rimedi avverso – comportamenti privati idonei a pregiudicare l’affidabilità delle indicazioni geografiche. Fra questi l’impiego di “false indicazioni di origine”32, di “indicazioni false o ingannevoli”33, ovvero “l’uso di ogni mezzo nella designazione o presentazione di un bene che indichi o suggerisca un’origine geografica diversa da quella effettiva in una maniera idonea a ingannare il pubblico sulla provenienza del bene”34; nonché le prassi industriali o commerciali “sleali” o disoneste, fra le quali l’uso di indicazioni idonee a confondere il pubblico circa la natura il processo produttivo o le caratteristiche dei beni35. Talora una protezione aggiuntiva è prevista rispetto ai titoli di privativa “antagonisti”, quali i marchi, che consistano di, o rechino, indicazioni idonee a ingannare il pubblico zio dei medesimi costituisca un ostacolo al “legittimo commercio”. Cfr. A. Lupone, Il dibattito sulle indicazioni geografiche nel sistema multilaterale degli scambi: dal Doha Round dell’Organizzazione Mondiale del Commercio alla protezione Trip plus, in B. Ubertazzi, E. Muňiz Espada (a cura di), Le indicazioni di qualità, cit., p. 36, 39. 31 Cfr. per esempio l’art. 2 della Convenzione per la protezione della proprietà intellettuale, fatta a Parigi il 20 marzo 1883 e più volte emendata, nonché l’art 1, par. 3, del TRIPs. 32 V. art. 10 della Convenzione per la protezione della proprietà intellettuale, cit. 33 V. l’art. 1 e l’art. 3 bis dell’Accordo relativo alla repressione delle indicazioni di provenienza false o fallaci dei prodotti, fatto a Madrid il 14 aprile 1891. 34 Art. 22, par. 2, lett. a, e par. 4 del TRIPs. 35 Art. 10bis della Convenzione per la protezione della proprietà intellettuale, richiamato dall’art. 22, par. 2, lett. b del TRIPs. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x circa la “vera” origine del prodotto36. Gli Stati parte conservano autonomia circa la scelta dei mezzi per adeguare il proprio ordinamento a tali divieti37; e possono predisporre una tutela maggiore rispetto a quanto previsto dagli strumenti qui sommariamente richiamati, nel rispetto di eventuali clausole di compatibilità38. 2.3. Un’autonoma menzione merita l’Accordo relativo alla protezione delle denominazioni d’origine e alla loro registrazione internazionale, fatto a Lisbona il 31 ottobre 1958 e più volte modificato. Esso si distingue dai precedenti in quanto prevede, come recita il titolo, un procedimento di registrazione internazionale delle denominazioni d’origine dei vari Stati membri, che può essere attivato a richiesta dagli stessi e “a nome delle persone fisiche o giuridiche ... titolari del diritto di utilizzo delle denominazioni secondo la loro legislazione nazionale”39. Le denominazioni registrate godono, negli Stati membri, della protezione prevista in modo autonomo dall’Accordo40, che configura uno standard ampio e cumulativo rispetto alle garanzie già previste da altri strumenti internazionali. Ciascuno Stato membro si impegna ad assi36 Art. 22, par. 3 del TRIPs. Sulla struttura della disciplina prevista dal TRIPs per le indicazioni geografiche, con particolare riguardo alla tutela accresciuta predisposta a favore delle indicazioni d’origine dei vini e dei prodotti alcolici (art. 23) e sulla clausola “evolutiva” di cui all’art. 24, v. G. Contaldi, Il conflitto tra Stati Uniti e Unione europea sulla protezione delle indicazioni geografiche, in B. Ubertazzi, E. Muňiz Espada (a cura di), Le indicazioni di qualità, cit., p. 27, dove ulteriori (spec. p. 53) riferimenti di dottrina e cenni alla prassi recente. 37 Art. 1 del TRIPs. Si vedano anche le numerose disposizioni della Convenzione per la protezione della proprietà intellettuale, che rinviano agli ordinamenti nazionali per le modalità concrete della protezione, talora graduando gli obblighi pattizi secondo alternative che tengano conto dello specifico modo di essere dei primi (ad esempio l’art. 9, spec. paragrafo 6). Sulle modalità attraverso le quali l’ordinamento della Comunità europea si conforma agli obblighi derivanti dal TRIPs nel settore delle indicazioni geografiche, cfr. G. Coscia, op. cit., p. 44-49. 38 Cfr. l’art. 1, par. 1, dell’Accordo. 39 Cfr. l’art. 5 dell’Accordo di Lisbona. 40 Art. 1 dell’Accordo di Lisbona. 36 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) curare, alle denominazioni d’origine protette dagli altri Stati membri e registrate, tutela “contro ogni usurpazione o imitazione, anche se la vera origine del prodotto è indicata o se la denominazione è impiegata in traduzione o s’accompagna a espressioni come “genere”, “tipo”, “maniera”, “imitazione”, et similia”41 2.4. A parte l’Accordo sugli aspetti della proprietà intellettuale legati al commercio, di cui la Comunità è parte a fianco dei suoi Stati membri42, tutti gli altri accordi annoverano la partecipazione (limitata) dei soli Stati membri43. Per ciò che concerne il TRIPs, che annovera, rispetto agli accordi citati, un’ampia partecipazione44, esso condiziona il modo di essere del diritto dell’Unione europea solo attraverso l’attività normativa delle istituzioni; la sua autonoma rilevanza in sede giurisdizionale è invece, come noto, del tutto recessiva45. E’ dunque per il tramite del diritto derivato che gli obblighi internazionali della Comunità, e degli Stati membri assieme, trovano espressione nel mercato unico europeo. L’elevato grado di protezione che tale diritto predispone contribuisce, peraltro, ad evitare la frammentazione “soggettiva” del regime comune che conseguirebbe all’applicazione della “deroga” prevista dall’art. 307 TCE a favore degli obblighi internazionali previgenti degli Stati membri. 2.5. Un progresso ulteriore nella disciplina internazionale delle indicazioni geografiche è stato realizzato sovente su base bilaterale, 41 Art. 3 e 4 dell’Accordo di Lisbona. 42 La Comunità è membro del WTO e dei suoi accordi plurilaterali a partire dal 1° gennaio 1995. La partecipazione della Comunità o dei suoi Stati membri si articola in base a criterio della competenza nelle materie oggetto dell’accordo. 43 Così 26 Stati membri partecipano alla Convenzione di Parigi (che annovera 173 Parti contraenti); 14 all’Accordo di Madrid (35 Parti contraenti); 10 all’Accordo di Lisbona (26 Parti contraenti). 44 L’Organizzazione mondiale del Commercio annovera 153 Parti contraenti. 45 Cfr. Corte giust., 9 settembre 2008, C-120/06 e C-121/06, FIAMM c. Consiglio e Commissione, in Racc., p. I-6513; sul problema D. Boni, Accordi OMC norme comunitarie e tutela giurisdizionale, Milano, 2008, spec. p. 262 ss., 330 ss., 372 ss. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x grazie a una rete di accordi attraverso i quali gli Stati europei maggiormente coinvolti – in particolare del centro e sud Europa – hanno tentato, sin dai primi decenni del secolo scorso, di “esportare”, su base di reciprocità, le indicazioni geografiche, e il livello di protezione previsto nel proprio ordinamento, nello Stato di importazione (o di smercio) del medesimo. Tale risultato è conseguito attraverso l’applicazione del principio del paese di origine dell’indicazione geografica, in sostituzione del principio del paese di importazione cui generalmente si ispirano le convenzioni multilaterali citate. Il riferimento alla disciplina del paese di origine consente di conciliare tollerabili difformità nelle normative nazionali con lo standard di tutela – verosimilmente elevato – previsto dallo Stato che ha il maggiore interesse nella tutela dell’indicazione geografica; e permette di evitare le flessioni nella protezione derivanti, sotto il profilo fattuale, dalla diversa valutazione che i consumatori esteri possono avere dell’identità e della reputazione del prodotto46. La giurisprudenza comunitaria offre vari esempi di tali convenzioni, che a fronte del livello elevato di protezione, e dei conseguenti ostacoli alla circolazione delle merci che comportano, nei rapporti fra Stati membri possono essere applicate solo in quanto compatibili con i principi del mercato interno e con la normativa derivata. Le convenzioni bilaterali degli Stati membri possono “interferire” con le regole del mercato interno in vario modo: in passato, potevano precostituire il titolo in base al quale un’indicazione geografica, originaria di uno Stato membro, viene tutelata in un altro Stato membro47; attualmente possono determinare il contesto giuridico e fattuale nell’ambito del quale si inserisce il diritto comunitario, e l’applicabilità 46 Corte giust., 10 novembre 1992, C-3/91, Exportur, in Racc., p. I-5529, cpv. 12. Per un esempio di protezione delle indicazioni secondo il principio del paese di origine, v. la Convenzione italo-francese firmata a Roma il 28 aprile 1964 ed evocata nella sentenza Corte giust., 20 maggio 2003, C-469/00, Ravil, in Racc., p. I-5053, cpv. 3 ss. 47 Corte giust., 10 novembre 1992, Exportur, cit.; 37 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) degli istituti da questo previsti è valutata48. In tempi recenti la rilevanza di tali convenzioni è stata esaminata con riguardo al problema del se la regolamentazione comunitaria che disciplina le indicazioni geografiche abbia, o meno, carattere esaustivo49. 3. Le indicazioni geografiche nel diritto comunitario. La tutela delle indicazioni geografiche dei prodotti alimentari coinvolge vari settori del diritto dell’Unione europea. In primo luogo tale protezione è l’oggetto di un ampio corpus normativo adottato nell’ambito della politica agricola comune, in origine con riferimento alle denominazioni dei vini, e a partire dagli anni novanta con riferimento altresì alle produzioni alimentari. Tale regolamentazione s’ispira agli accordi multilaterali di cui gli Stati membri o la Comunità sono parte, e per vari profili è migliorativa di tali discipline. In secondo luogo le indicazioni geografiche sono oggetto di norme nazionali, autonome o adottate in esecuzione di obblighi pattizi o comunitari; esse sono applicabili, come è noto, nella misura in cui non contrastino con le regole del Trattato sulla libera circolazione delle merci. In tal caso il diritto comunitario s’occupa della protezione ma indirettamente, in senso permissivo. La giurisprudenza esamina dunque se la portata del “privilegio territoriale” di cui godono le indicazioni geografiche sia coperta dalla deroga concernente la tutela della proprietà industriale o commerciale e, in caso positivo, se le modalità della protezione esprimano un adeguato “bilanciamento” con il principio della libera circolazione delle merci50. Infine la tutela delle indicazioni geografiche trova spazio e regolamentazione nell’ambito dei rapporti commerciali internazionali dell’Unione. Per un verso attraverso l’attività delle Commissione nell’ambito dell’Organiz48 Per esempio Corte giust., 4 marzo 1999, C-87/97, Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, in Racc., p. I-1301, spec. cpv. 35. 49 Infra, n. 7. 50 V. infra, n. 6. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x zazione mondiale del Commercio, intesa – in essenza – a tradurre nella disciplina del TRIPs il sistema di registrazione internazionale, e relative garanzie, vigente nell’ordinamento comunitario. Per altro verso, a livello di rapporti bilaterali, l’azione dell’Unione si esprime nella stipula di accordi sul mutuo riconoscimento delle indicazioni d’origine (ma non degli standard di protezione) delle Parti contraenti51, in applicazione dunque del principio dello Stato di origine; ovvero nella stipulazione di accordi commerciali complessi che dettano, in aggiunta, norme specifiche per il coordinamento della protezione garantita da ciascuna Parte52. Numerosi accordi comportano una disciplina delle indicazioni geografiche più efficace di quella predisposta, a livello multilaterale, nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del Commercio. 4. I presupposti della tutela. La protezione giuridica prevista dal diritto dell’Unione si fonda attualmente su due regolamenti della Comunità relativi, rispettivamente, alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei 51 Si vedano l’Accordo tra la Comunità europa e l’Australia sul commercio dei vini, firmato a Bruxelles e a Camberra il 25 e il 31 gennaio 1994, art. 6 (le modalità della protezione delle indicazioni geografiche ricadono nella competenza dello Stato o della Parte di importazione del prodotto, v. art. 3, 6 e 13); l’Accordo tra il Canada e la Comunità europea sul commercio dei vini firmato a Niagara-On-The-Lake il 16 settembre 2003; e l’Accordo tra la Comunità europea e la Repubblica del Sud Africa sul commercio dei vini, firmato a Paarl SA il 28 gennaio 2002 (ispirato alla medesima disciplina dell’Accordo tra la Comunità europea e l’Australia). 52 Accordo tra la Comunità europea e gli Stati Uniti sul commercio del vino, firmato a Londra il 10 marzo 2006: oltre al mutuo riconoscimento delle pratiche enologiche rispettive, l’accordo prevede che gli Stati Uniti riservino talune denominazioni “semi-generiche” (quali Champagne, Chianti, Sauterne, Madeira, Marsala, Retsina, Sherry, Tokai, ecc.) ai vini originari della Comunità europea sul mercato statunitense, e che la Comunità europea consenta l’impiego, da parte dei vini originari degli Stati Uniti, di talune espressioni precedentemente proibite quali chateau, clos, fine, vintage, ecc.; inoltre le Parti contraenti si impegnano a riconoscere nel rispettivo mercato interno talune denominazioni d’origine della controparte. 38 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) prodotti agricoli e alimentari53, nonché alle specialità tradizionali garantite dei prodotti agricoli e alimentari54. Una disciplina analoga nei contenuti e nella struttura è oggi prevista nel regolamento relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo, per quanto riguarda, appunto, i vini55. Il regolamento n. 510 del 2006, al quale si limita il presente esame, comprende una normativa articolata su vari profili, relativi alla definizione e ai presupposti positivi e negativi delle denominazioni protette; al procedimento comunitario di registrazione delle medesime e alle autorità competenti per i controlli; ai contenuti della protezione a queste conferita, anche in rapporto con altri titoli di privativa. 4.1. Per quanto concerne l’identificazione delle indicazioni geografiche, il reg. 510 del 2006 si pone ampiamente in linea di continuità con la disciplina precedente56. Questa 53 Reg. (CE) n. 510/2006, cit. 54 Reg. (CE) n. 509/2006 del Consiglio del 20 marzo 2006 relativo alle specialità tradizionali garantite dei prodotti agricoli e alimentari, in GUUE L 93 del 31 marzo 2006, p. 1. Le cosiddette STG riguardano un prodotto che “si distingue nettamente”, in ragione delle sue caratteristiche, da altri prodotti analoghi appartenenti alla stessa categoria, in uso nel mercato comunitario da almeno 25 anni (art. 2). La disciplina del regolamento è sostanzialmente ispirata a quella del reg. 510/2006, salvo per ciò che concerne i contenuti della protezione delle STG, che appaiono notevolmente attenuati e vengono affidati alla normativa adottata dagli Stati membri (art. 17). 55 Cfr. reg. (CE) n. 479/2008 del 29 aprile 2008 relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo, in GUUE L 148 del 6 giugno 2008, p. 1, art. 34 ss. (per le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche) e 54 ss. (per le menzioni tradizionali). Il considerando n. 27 ricorda espressamente che la disciplina della qualità nel settore dei vini è “in linea con l’impostazione seguita nell’ambito della normativa trasversale della qualità applicata [...] ai prodotti alimentari diversi dal vino e dalle bevande spiritose” dal reg. (CE) n. 510 del 2006. Cfr. C. Dordi, La regolamentazione internazionale del vino: profili rilevanti degli accordi dell’Organizzazione mondiale del Commercio, in F. Albisinni (a cura di), Le regole del vino. Disciplina internazionale, comunitaria, nazionale, Milano, 2008, p. 137; R. Mildon, The Reform of the Common Market Organisation for Wine, ibidem, p. 255. 56 �������������������� L. Gonzales Vaqué, Indications géographiques et appellations d’origine: interprétation et mise en œuvre du nouveau règlement n. 510/2006, in Revue droit de l’Union eur., 2006, Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x era stata adottata all’inizio degli anni ‘9057, in coincidenza con due sentenze (i casi Delhaize58 e Exportur59) in cui la Corte di giustizia, alla luce di un esame comparato degli ordinamenti nazionali, aveva introdotto una prima distinzione fra denominazioni e indicazioni di origine. Mentre le denominazioni di origine intendono garantire che il prodotto “provenga da una zona geografica determinata e possieda alcune caratteristiche particolari”, derivanti dal territorio di cui è originario e stabilite con atto della pubblica autorità60, le indicazioni di origine (o di provenienza) hanno, più modestamente, la funzione di attestare l’origine geografica del prodotto, senza stabilire un legame necessario (bensì solo eventuale) tra le sue caratteristiche qualitative e l’origine territoriale. La regolamentazione attuale preserva e precisa la sostanza di tali aspetti definitori. Agli articoli 2 e 3 il reg. n. 510 delinea i presupposti costitutivi delle denominazioni e delle indicazioni che devono essere soddisfatti ai fini della registrazione. Le “denominazioni d’origine” consistono dunque nel “nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese” attribuito a un prodotto che, cumulativamente, è originario di tale territorio, le cui qualità o caratteristiche “sono dovute essenzialmente o esclusivamente a un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani” e la cui “produzione, trasforp. 795 ss. ������������������������������������������ Il motivo del “rinnovamento” normativo intervenuto nel 2006 deve individuarsi nell’esigenza di “sanare”taluni profili di contrasto emersi, ed accertati da un panel il 15 marzo 2005, tra la disciplina comunitaria previgente e le norme, su ricordate, dell’OMC, in particolare per ciò che concerne pretese “discriminazioni” (sul piano sostanziale e procedimentale) a carico dei cittadini originari di Stati membri dell’OMC: v. G. Contaldi, Il conflitto fra Stati Uniti e Unione europea, cit.; e ampiamente J. Hughes, Champagne, Feta, and Bourbon: The Spirited Debate About Geographical Indications, in Hastings Law Journal, 2006, p. 299, 323 ss. 57 Regolamento (CEE) del Consiglio del 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari, in GUCE L 208, p. 1. 58 Corte giust., 9 giugno 1992, C-47/90, Delhaize, in Racc., p. I-3669. 59 Corte giust., 10 novembre 1992, Exportur, cit. 60 Corte giust., 9 giugno 1992, Delhaize, cit., cpv. 17. 39 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) mazione e elaborazione” avvengono nella zona geografica delimitata. Le “indicazioni geografiche” si differenziano dalle prime in quanto, salva l’attestazione dell’origine cui il nome geografico si riferisce, le qualità, reputazione o altre caratteristiche del prodotto “possono essere attribuite a tale origine geografica” mentre, alternativamente o cumulativamente, la produzione, la trasformazione o l’elaborazione del medesimo avvengono nella zona geografica delimitata. Gli elementi indicati devono essere comprovati da un disciplinare, ossia un protocollo contenente gli elementi descrittivi del prodotto, della sua origine e del legame fra le sue caratteristiche qualitative e il territorio61. A fianco di tali presupposti il regolamento delinea varie condizioni negative od ostative alla registrazione, fra le quali il carattere generico acquisito dalla denominazione; i casi del conflitto e dell’omonimia, anche parziale, con una precedente denominazione registrata, ovvero con un marchio già utilizzato rispetto al quale la denominazione possa indurre in errore il consumatore62. 4.3. Per avere valore giuridico in tutto il territorio dell’Unione la denominazione dev’essere registrata. Il procedimento, sebbene unitario, consta di due fasi e autonome, a livello nazionale e comunitario. i) La prima fase si esaurisce nell’ordinamento dello Stato membro ove è localizzata la zona 61 Art. 4 del reg. n. 510 del 2006. 62 Art. 3 del reg. n. 510 del 2006. Per ciò che concerne la volgarizzazione delle denominazioni, l’art. 3, par. 1, dispone che “le denominazioni divenute generiche non possono essere registrate”, precisando che tale situazione ricorre quando il nome di un prodotto, pur collegato al territorio in cui è stato inizialmente prodotto o posto commercializzato, è divenuto “il nome comune” di un prodotto agricolo o alimentare nella Comunità. La norma va posta sistematicamente in rapporto con l’art. 13, par. 2, secondo cui per converso “le denominazioni protette non possono diventare generiche”. Cfr. in argomento ...(azione internazionale per “bloccare” la volgarizzazione di indicazioni geografiche europee). Per i rapporti tra marchi e denominazioni geografiche, regolate dal principio del preuso, cfr. oltre all’art. 3, par. 4 (a tutela del marchio preesistente), l’art. 14, par. 1 (a tutela della denominazione preesistente). Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x d’origine cui si riferisce la denominazione. Il procedimento prende avvio con la domanda dell’associazione o (per le denominazioni relative a zone transfrontaliere) alle associazioni interessate. Lo Stato membro verifica se le condizioni stabilite dal regolamento sono soddisfatte63. Qualora la valutazione sia positiva, e non vi siano opposizioni “ricevibili” (che dimostrano, cioè, la sussistenza di una condizione ostativa), lo Stato membro adotta una decisione favorevole. Possono introdurre una domanda, o presentare opposizione solo i soggetti che risiedano o siano stabiliti nello Stato membro64 (con modulazione di tale regola nel caso di denominazioni relative a zone d’origine situate a cavallo di due o più Stati membri o Stati terzi65). La decisione nazionale favorevole, una volta trasmessa alla Commissione, abilita lo Stato interessato ad accordare alla denominazione una “protezione transitoria”, entro i confini nazionali e sotto la responsabilità esclusiva del medesimo qualora l’esito del procedimento comunitario sia negativo. ii) Con la trasmissione della decisione favorevole alla Commissione a cura dello Stato membro prende avvio la seconda fase. Nel caso in cui la domanda di registrazione riguardi una zona di origine situata in un paese terzo, gli interessati possono trasmetterla alla Commissione direttamente ovvero (come nella disciplina previgente) attraverso le autorità del paese terzo riguardato. Il procedimento di valutazione della Commissione presenta una “dimensione comunitaria” e talune specificità rispetto a quello che si svolge a livello nazionale. Possono infatti presentare opposizione gli (altri) Stati membri o i 63 Cfr. art. 7, par. 3, del reg. n. 510 del 2006, che alle condizioni già previste dagli art. 2 e 3 del reg., aggiunge l’ipotesi del pregiudizio all’esistenza di prodotti che si trovano già legalmente sul mercato in uno Stato membro diverso dallo Stato di origine della denominazione (lett. c). 64 Art. 5 del reg. n. 510 del 2006. 65 V. art. 16, lett.. d, del reg. n. 510 del 2006 e art. 12 del reg. (CE) n. 1898/2006 della Commissione, del 14 dicembre 2006, recante modalità di applicazione del reg. (CE) n. 510/2006, in GUUE L 369 del 23 dicembre 2006, p. 1. 40 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) paesi terzi ovvero ogni persona interessata che sia stabilita o risieda in uno Stato membro o in un paese terzo66. Se l’opposizione è ricevibile, la Commissione invita le parti che si contrappongono ad avviare consultazioni allo scopo di pervenire a un accordo; e in caso negativo adotta una decisione secondo una procedura aggravata67. Qualora l’esame della domanda dia risultato favorevole e non vi siano opposizioni ricevibili, la Commissione registra la denominazione; questa è conservata a cura della Commissione in un registro “aggiornato delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette”68. iii) La giurisprudenza ha precisato il contenuto di ciascuna fase del procedimento in una spirito di sussidiarietà. E’ stato così riconosciuto che gli accertamenti di fatto e le qualificazioni giuridiche necessarie ai fini della registrazione devono essere svolte dallo Stato membro territoriale, cui spetta altresì promuovere la fase “comunitaria” del procedimento: “tale sistema di ripartizione delle competenze si spiega in particolare con la circostanza che la registrazione presuppone la verifica che un certo numero di requisiti sono soddisfatti, il che richiede, in larga parte, conoscenze approfondite di elementi particolari dello Stato membro interessato, elementi che possono essere meglio verificati dalle autorità competenti di tale Stato”69. Per converso alla 66 Art. 7, par. 1 e 2 del reg. n. 510 del 2006. Cfr. per esempi di opposizioni sollevate dagli Stati membri nel procedimento di registrazione della denominazione di origine greca “Feta”, in considerazione del preteso carattere generico acquisito dal termine in taluni Stati membri, v. Corte giust., 16 marzo 1999, C-289/96, C-293/96 e C-299/96, Danimarca e altri c. Commissione, in Racc., p. I-1541; 25 ottobre 2005, C-465/02 e C-466/02, Germania e Danimarca c. Commissione, in Racc., p. I-9115; o con riferimento al procedimento di registrazione dell’indicazione geografica “Bayerisches Bier” (birra bavarese), in considerazione dell’esistenza di marchi contenenti il termine “Bayerisches”, che avrebbe peraltro asssunto un carattere generico, Corte giust., 2 luglio 2009, C-343/07, Bavaria, non ancora pubblicata in Racc. 67 Art. 15, par. 2, del reg. n. 510 del 2006, che prevede l’intervento di un procedimento intergovernativo. 68 Art. 7, par. 6, del reg. n. 510 del 2006. 69 Corte giust., 6 dicembre 2001, C-269/99, Kühne, in Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x Commissione compete “soltanto un semplice esame formale per verificare se i requisiti posti dal regolamento sono soddisfatti”70. La natura comunitaria del procedimento, nel quale è integrata la fase nazionale71, implica peraltro che – in ossequio al principio della tutela giurisdizionale effettiva – gli interessati debbano poter disporre, dinanzi ai giudici nazionali, di adeguati mezzi di ricorso avverso gli atti dell’autorità nazionale che possano “incidere sui diritti che derivano ai terzi dal diritto comunitario”. A fronte del margine di valutazione “limitato o inesistente” di cui dispongono le istituzioni comunitarie, e dell’ampia competenza di cui dispongono, per contro, le autorità dello Stato membro negli accertamenti relativi alla domanda di registrazione, l’onere del controllo giurisdizionale è dislocato essenzialmente nelle mani delle giurisdizioni nazionali. Pertanto è “compito dei giudici nazionali statuire sulla legittimità di una domanda di registrazione di una denominazione [...], conformemente alle modalità di controllo giurisdizionale applicabili a qualsiasi atto definitivo [...] e di conseguenza considerare ricevibile il ricorso proposto a questo scopo, anche se le norme procedurali nazionali non lo prevedono in un caso del genere”72. iv) La primazia dello Stato di origine del nome geografico riverbera peraltro, al di là dei Racc., p. I-9517, cpv. 53, con riferimento ad una domanda pregiudiziale relativa alla validità del regolamento mediante il quale la Commissione aveva registrato come indicazione geografica protetta (“Spreewälder Gurken”) le conserve di cetriolini coltivati nel terreno alluvionale della valle dello Sprea, regione situata a sud di Berlino. Tale questione era stata sollevata dal giudice di Amburgo, su richiesta della società Jütro, sita all’esterno dell’area geografica dell’IGP e convenuta in un procedimento inibitorio promosso dalla Kühne avverso l’impiego, da parte della prima, dell’indicazione «Spreewälder Art» (cetrioli alla maniera dello Spreewald). 70 Corte giust., 6 dicembre 2001, Kühne, cit., cpv. 52. 71 Corte giust., 8 settembre 2009, C-478/07, Budĕjovický Budvar, non ancora pubblicata in Racc., cpv. 117: “Le procedure nazionali di registrazione sono [...] integrate nella procedura nazionale comunitaria”. 72 Corte giust., 6 dicembre 2001, Kühne, cit., cpv. 57 e 58; 2 luglio 2009, C-343/07, Bavaria, non ancora pubblicata in Racc., cpv. 56 e 57. 41 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) profili procedurali legati alla registrazione, sul piano del riparto delle competenze “orizzontali” fra Stati membri per ciò che concerne la tutela dell’indicazione geografica. Secondo la Corte – che rigetta sul punto un ricorso per inadempimento portato dalla Commissione contro la Germania – anche la responsabilità dei controlli “pubblicistici”, o di polizia amministrativa, relativi alla protezione giuridica dell’indicazione compete, in via di principio, allo Stato di origine di questa. Non invece allo Stato di importazione e di smercio, come sostenuto dalla Commissione, il quale deve però approntare nel proprio ordinamento strumenti di tutela effettiva dei diritti che i singoli traggono dal regolamento comunitario73. La Corte ha fondato tale conclusione, conforme ai principi generali del mercato interno, sull’interpretazione letterale e sistematica del regolamento previgente e sulla constatazione che la Commissione non aveva dimostrato che gli strumenti di garanzia predisposti dalla Germania – norme sulla concorrenza sleale, norme sulla tutela dei marchi e altri segni distintivi, con riconoscimento di un’ampia legittimazione ad agire dei singoli interessati, produttori, concorrenti, associazioni dei consumatori – non siano idonee a tutelare la denominazione di un altro Stato membro74. 5. Contenuto e limiti della tutela. Per effetto della registrazione solo gli operatori che commercializzano prodotti conformi al disciplinare possono utilizzare la denominazione corrispondente75. Il regolamento assicura alla denominazione registrata una tutela intensa e quasi assoluta nell’intero territorio dell’Unione, per taluni aspetti “esaurendo” l’ambito di discrezionalità del legislatore tracciato dalla Corte nella sua 73 Corte giust., 26 febbraio 2008, C-132/05, Commissione c. Germania, in Racc., p. I-957, cpv. 73 ss. 74 Corte giust., 26 febbraio 2008, Commissione c. Germania, cit., cpv. 80. Sulla scelta della Corte, cfr. M. Cian, Le indicazioni di qualità, cit., p. 199 s., anche per analogie con la situazione italiana. 75 Art. 8 del reg. n. 510 del 2006. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x giurisprudenza fondativa76. I titolari possono infatti impedire ai terzi impieghi commerciali che abbiano lo scopo di sfruttare indebitamente o usurpare la reputazione del prodotto, o che si avvalgano di indicazioni false o ingannevoli, o che abbiano comunque l’effetto di indurre in errore il consumatore77. Gli strumenti di tutela concretamente utilizzabili (azione inibitoria, azione di nullità, azione di risarcimento, ad esempio) devono essere rintracciati nell’ordinamento nazionale, salvi i principi del diritto comunitario. La giurisprudenza conferma, in sede applicativa, il carattere ampio della tutela, che risponde sul piano interpretativo al principio di effettività. La Corte ha ritenuto, in una controversia sorta in Austria concernente l’uso del marchio “Cambozola”, riferito a un formaggio a pasta molle di origine tedesca, che 76 Corte giust., 10 novembre 1992, Exportur, cit., cpv. 14, in cui la Corte si pronuncia peraltro con riferimento alla disciplina (assai) protettiva di indicazioni geografiche posta da una convezione bilaterale franco-spagnola, ritenuta compatibile con il sistema del Trattato. 77 L’art. 13 par. 1 tutela le denominazioni registrate contro a) qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di una denominazione registrata per prodotti che non sono oggetto di registrazione, in quanto comparabili ai prodotti registrati ovvero in quanto sfruttino la reputazione della denominazione registrata; b) qualsiasi usurpazione imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata, o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera” e simili; c) qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza all’origine ecc. usata nella confezione, nell’imballaggio, nel condizionamento o nella pubblicità; d) qualsiasi altra prassi che possa indurre in errore il consumatore. Sulle implicazioni internazionali di tale rigorosa disciplina, cfr. Irene Calboli, Expanding the Protection of Geographical Indications of Origin Under TRIPS: Old Debate or New Opportunity?, in Marquette University Law School Legal Studies, Research Paper Series, Research Paper No. 06-19, 2006, p. 181-203, p. 200 ss. Per evitare che la registrazione di una denominazione finisca per “ingessare” le attività produttive e per impedire lo sviluppo di altre iniziative economiche, M. Cian (Le indicazioni di qualità dei cibi nella UE: il contenuto della tutela, in B. Ubertazzi, E. Muňiz Espada (a cura di), Le indicazioni di qualità, cit., p. 191, 197 s.) ha proposto una lettura non estensiva della norma, e della nozione di “sfruttamento” della reputazione, in quanto riferita a prodotti non comparabili originari della zona di produzione. 42 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x potesse sussistere il rischio di evocazione della denominazione di origine italiana “Gorgonzola” registrata ai sensi del regolamento, pur in mancanza di qualsiasi rischio di confusione e sebbene nessuna tutela comunitaria si applichi ai singoli elementi della denominazione di riferimento78. Tale approccio è stato ribadito, e ulteriormente rafforzato, in una controversia che opponeva la denominazione “parmesan” alla denominazione di origine protetta “Parmigiano Reggiano”. La Corte, pur senza affermare esplicitamente che la tutela della denominazione registrata si estende – in quanto tale – ai singoli elementi di cui si compone, e senza chiarire se la tutela riguardi altresì la traduzione del termine contenuto nella denominazione, ha ammesso che l’uso dell’espressione (tedesca) parmesan costituisse un’evocazione (vietata) della denominazione Parmigiano Reggiano. Tale conclusione è stata raggiunta, ancora una volta, con riguardo alle circostanze fattuali in cui si era posta la questione, ossia alla sussistenza di una similarità nell’aspetto esterno dei prodotti, associata ad analogie “fonetiche e ottiche” fra le due denominazioni, e ad una “somiglianza concettuale” tra i due termini, “pur di due lingue diverse”. Invero “tale somiglianza, come già le somiglianze fonetiche e ottiche, è idonea a indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP “Parmigiano Reggiano” quando si trova dinanzi ad un formaggio a pasta duro, grattuggiato o da grattuggiare, recante la denominazione “parmesan””79. 5.1. Per effetto della registrazione la denominazione è posta al riparo da eventuali fenomeni di volgarizzazione80. Inoltre la denominazione registrata preclude la successiva domanda di registrazione di un marchio, concernente lo stesso tipo di prodotto, che possa ledere le garanzie di cui è circondata la stessa, e determina la nullità dei marchi registrati nonostante tale preclusione81. Tale disposizione equipara la natura della protezione assicurata alle denominazioni o indicazioni geografiche a quella dei marchi; e sembra giustificare l’opinione di quanti valutano la tutela delle indicazioni geografiche addirittura superiore a quella dei marchi, tenuto conto dei presupposti che si accompagnano alla titolarità di tale ultimo tipo di diritti di privativa82. Peraltro, e a temperamento del carattere assoluto della protezione delle denominazioni, talune tutele sono assicurate ai diritti dei terzi in buona fede, tutele che implicano delicati bilanciamenti di natura fattuale e giuridica. In primo luogo i terzi possono utilizzare il nome contenuto in una denominazione registrata se questo “è considerato generico”, nonostante la corrispondenza dei prodotti agricoli o alimentari riguardati, senza che i titolari della denominazione registrata possano invocare le prerogative conferite dal regolamento83. Da questa disposizione la Commissione desume, a contrario, che la protezione si estende anche ai singoli termini che compongono la denominazione – salvo che, appunto, siano 78 Corte giust., 4 marzo 1999, Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, cit., cpv. 26. Secondo la Corte “trattandosi di un formaggio a pasta molle erborinato il cui aspetto esterno presenta analogie con quelle del formaggio “Gorgonzola”, sembra legittimo ritenere che vi sia evocazione di una denominazione protetta qualora la parola utilizzata per designarlo termini con le due medesime sillabe della detta denominazione e ne comporti il medesimo numero di sillabe, risultandone una similarità fonetica ed ottica manifesta tra i due termini”. La Corte ha dato anche risalto al fatto che, a partire da un documento pubblicitario dell’impresa titolare del marchio, “l’analogia fonetica fra le due denominazioni non [pareva] frutto di circostanze fortuite” (cpv. 27 e 28). 79 Corte giust., 26 febbraio 2008, Commissione c. Germania, cit., cpv. 46-48. 80 Secondo l’art. 13, par. 2, “Le denominazioni protette non possono diventare generiche”. 81 Art. 14, par. 1, del reg. n. 510 del 2006. 82 Cfr. nella dottrina italiana, M. Cian, Le indicazioni di qualità, cit., p. 195; D. Sarti, Segni e garanzie di qualità, cit., p. 124; nella dottrina straniera, D. Gangjee, Quibbling Siblings: Conflicts between Trademarks and Geographical Indications, in Chicago-Kent Law Review, 2007, passim e in http://papers.ssm.com/sol3/papers.cfm?abstract_ id=1000467, secondo cui “Despite their apparent functional similarity to trademarks, Gis are ontologically distinct beasts (...). These considerations results in a sui generis GI protection framework which has relatively stronger levels of producer protection when compared to trademark law”. 83 Art. 13, par. 1, co. 2 del reg. n. 510 del 2006. Produzioni alimentari legate al territorio 43 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) divenuti generici84. In secondo luogo le denominazioni non registrate e preesistenti, che siano fondate su usi leali, costanti e soddisfino talune condizioni cumulative, possono essere autorizzate dalla Commissione su domanda e con procedura aggravata, per un periodo di quindici anni, anche se siano identiche alla denominazione registrata85. Infine, e ancora in conformità con il principio del preuso (first in time, first in right), l’utilizzo di un marchio depositato, registrato o acquisito con l’uso in buona fede sul territorio comunitario può proseguire, anche dopo la registrazione della denominazione o dell’indicazione geografica, a condizione che il marchio esista anteriormente alla data di protezione della denominazione o dell’indicazione geografica nel paese di origine, e che il marchio stesso non incorra in nullità o decadenza per i motivi previsti dagli strumenti comunitari pertinenti86. 5.2. Nel contenzioso comunitario il problema del carattere “generico” della denominazioni d’origine o dell’indicazione geografica è immancabilmente invocato, come mezzo difensivo o offensivo, avverso il privilegio che alle prime si accompagna. Tale carattere è conseguenza del successo e della diffusione di un segno indicativo dell’origine del prodotto87: attraverso l’impiego diffuso, esso “perde il suo significato geografico e acquisisce un diverso significato, basato sulle qualità non geografiche del prodotto, come accade quando i parigini vanno al ristorante cinese negli Champs-Elysées, o a distanza di nove fusi orari, quando i californiani ordinano le French fries con un hamburger”88. Come si è vi84 Cfr. Corte giust., 26 febbraio 2008, Commissione c. Germania, cit., cpv. 21. 85 ������������������������������������������ Art. 13, par. 4 del reg. n. 510 del 2006. 86 ������������������������������������������ Art. 14, par. 2 del reg. n. 510 del 2006. 87 Sull’attuale approccio dell’Unione europea rivolto al “recupero” di denominazioni considerate generiche negli Stati Uniti, cfr. da ultimo D. Snyder, Enhanced Protections for Geographical Indications Under TRIPs: Potential Conflict Under the U.S. Constitutional and Statutory Regimes, in Fordham Intell. Prop. Media & Ent. L.J., 2008, p. 1297 ss. (e in http://ssm.com/abstract=1275543) 88 ������������ J. Hughes, Champagne, Feta, and Bourbon, cit., p. 304. Secondo la Corte “per quanto concerne un’IGP, una de- Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x sto il carattere generico di una denominazione ne preclude la registrazione, mentre la volgarizzazione di un termine fra quelli registrati che compongono la denominazione comporta la facoltà di impiego del termine stesso per prodotti agricoli o alimentari corrispondenti. Come si ricorderà, già nel seminale caso Exportur la Corte aveva ammesso che una convenzione franco-spagnola potesse estendere, su base bilaterale, la tutela delle indicazioni geografiche prevista da una Parte contraente all’altra Parte, purché tali indicazioni “non [avessero] acquistato, al momento dell’entrata in vigore della convenzione o in un momento successivo, natura generica nello Stato d’origine”, e che tale estensione “condizionata” era giustificabile alla luce del principio della libera circolazione delle merci89. Il regolamento n. 510 precisa che si ha volgarizzazione quando una denominazione, già collegata col nome del territorio di cui il prodotto è originario, è divenuta successivamente “il nome comune di un prodotto agricolo o alimentare nella Comunità”. Profilo cruciale nell’accertamento del carattere generico di una denominazione è l’individuazione dei “mezzi di prova” a tal scopo utilizzabili; l’art. 3, par. 1, del regolamento fornisce al riguardo sommarie indicazioni, prescrivendo che nello svolgimento dell’esame “si tiene conto di tutti i fattori, in particolare [..] della situazione esistente negli Stati membri e nelle zone di consumo [e] delle pertinenti legislazioni nazionali o comunitarie”. 5.3. La giurisprudenza valuta conseguentemente in maniera estensiva le categorie di dati rilevanti per accertare la genericità di una denominazione90, e ha talora annullato le reginominazione diventa generica solo se il nesso diretto tra, da un lato, l’origine geografica del prodotto e, dall’altro, una qualità determinata dello stesso, la sua reputazione o un’altra caratteristica del medesimo, attribuibile a detta origine, sia scomparsa e la sua denominazione descriva ormai soltanto un genere o un tipo di prodotti”: sentenza 2 luglio 2009, Bavaria, cit., cpv. 103. 89 Corte giust., 10 novembre 1992, Exportur, cit., cpv. 3538. 90 Trib. primo grado, 12 settembre 2007, T-291/03, Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano c. Ufficio 44 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) strazioni conseguite senza che l’autorità competenza avesse tenuto conto dei fattori essenziali indicati dal regolamento91 eventualmente integrati in via interpretativa92. Benché “il divieto di registrare denominazioni generiche o divenute tali [sia] generale e incondizionato”93, la prassi rivela come la dimostrazione del carattere generico della denominazione, proprio in considerazione della quantità e della complessità degli elementi di fatto rilevanti, costituisce uno “scoglio” probatorio notevole, quando non insormontabile, per gli Stati membri e i terzi interessati94. Ad esempio nel caso Germania e Danimarca c. Commissione, che conclude la più complessa controversia sul preteso carattere generico di una denominazione, la Corte ha escluso che il nome “Feta”, registrato a livello comunitario per l’armonizzazione nel mercato interno (UAMI), in Racc., p. II-3081, cpv. 65-67, che fornisce una sintesi dei dati ritenuti pertinenti nella prassi giurisprudenziale; ciò in occasione di un ricorso, promosso dal Consorzio nominato, contro la sentenza che, nell’ambito del contenzioso sulla validità del marchio “Grana Biraghi” per contrasto con le denominazioni d’origine e i marchi precedenti Grana e Grana Padano, aveva ritenuto che il termine “grana” era generico, nonché descrittivo di una qualità dei formaggi in oggetto. Nella sentenza del 26 febbraio 2008, Commissione c. Germania, cit., la Corte ha ricordato, più concisamente, che “nel valutare la genericità di una denominazione occorre prendere in considerazione [...] i luoghi di produzione del prodotto considerato sia all’interno sia al di fuori dello Stato membro che ha ottenuto la registrazione della denominazione in oggetto, il consumo di tale prodotto e il modo in cui viene percepita dai consumatori la sua denominazione all’interno e al di fuori del detto Stato membro, l’esistenza di una normativa nazionale specifica relativa al detto prodotto, nonché il modo in cui la detta denominazione è stata utilizzata nella legislazione comunitaria” (cpv. 53). 91 Corte giust., 16 marzo 1999, C-289/96, C-293/96, C-299/96, Danimarca e Germania c. Commissione, in Racc., p. I-1541. 92 Trib. primo grado, 12 settembre 2007, Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano c. Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (UAMI), cit., il quale annulla la sentenza della commissione di ricorso in materia di marchi per non aver l’organo giurisdizionale preso in considerazione i criteri “espressi dalla giurisprudenza comunitaria” (cpv. 69). 93 Corte giust., 16 marzo 1999, Danimarca e Germania c. Commissione, cit., cpv. 52. 94 Corte giust., 28 febbraio 2008, Commissione c. Germania, cit., cpv. 57; Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x come denominazione di origine di una parte del territorio greco, avesse carattere generico, sebbene il nome del formaggio in questione derivasse dall’italiano “fetta”, il formaggio stesso presentasse un’ampia e precedente diffusione nei Balcani sotto altra denominazione e fosse da molto tempo regolarmente prodotto e commercializzato in vari Stati membri (Germania, Francia e Danimarca) con la stessa denominazione95. Per raggiungere tale soluzione essa si è basata su vari elementi, quali la preponderanza del consumo comunitario di tale formaggio in territorio greco, la percezione dei consumatori greci secondo cui il nome feta avrebbe connotazione geografica e non generica, il fatto che negli altri Stati membri il feta sarebbe commercializzato con etichette che richiamano le tradizioni culturali e la civiltà greche, e infine, sotto il profilo normativo, il fatto che in Danimarca la produzione e il commercio di “feta danese” suggerissero che “la denominazione feta senza ulteriore qualificazione ha mantenuto la sua connotazione greca”96. 6. La protezione delle indicazioni geografiche in deroga alla libera circolazione delle merci. La protezione dei segni geografici da parte del diritto nazionale può pacificamente comportare un pregiudizio alla libera circolazione delle merci nel mercato unico europeo, ai sensi degli articoli 28 e 29 del Trattato97, nella misura in cui ostacola il commercio dei prodotti non riconducibili all’area di origine della denominazione (anche a prescindere, come detto, da un rischio di confusione del consumatore). La struttura del sistema di protezione su base territoriale può determinare altresì effetti discriminatori. Tale trattamento deteriore concerne (normalmente) i prodotti degli altri Stati membri, nella misura in cui solo i prodotti nazionali originari della zona delimitata posso95 Corte giust., 25 ottobre 2005, C-465/02 e C-466/02, Germania e Danimarca c. Commissione, in Racc., p. I-9115. 96 Corte giust., 25 ottobre 2005, Germania e Danimarca c. Commissione, cit., cpv. 75-99. 97 Cfr. L. Daniele, Diritto del mercato unico europeo, Milano, 2006, p. 59 ss. spec. 78. 45 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) no beneficiare del segno distintivo98. Ma può concernere anche i prodotti nazionali, configurando un ostacolo all’esportazione di questi, quando implichi un regime asimmetrico di circolazione “interna” ovvero “internazionale” in relazione ai medesimi prodotti99. In ragione dei descritti effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci, la tutela delle indicazioni geografiche può essere ammessa solo se giustificata da motivi di tutela della proprietà industriale o commerciale (art. 30 del Trattato). E’ richiesto allora che la tutela sia idonea alla “salvaguardia dei diritti che costituiscono l’oggetto specifico di detta proprietà”100, ossia, nel linguaggio della Corte, tenuto conto della peculiarità dei segni geografici in esame, sia necessaria (e proporzionata) rispetto allo scopo di garanzia dell’origine e della qualità del prodotto. 6.1. Una prima linea giurisprudenziale si è occupata della protezione accordata dagli Stati membri ai segni distintivi che non comportano uno “specifico” riferimento all’origine del prodotto, bensì un generico riferimento geografico. Secondo la Corte tali segni (c.d. segni di qualità) non rientrano nella deroga relativa alla proprietà industriale e commerciale, poiché mirano semplicemente a garantire la qualità dei prodotti agli occhi del consumatore, o a promuovere il consumo di specialità tradizionali. Si è così ritenuto, ad esempio, che la disciplina francese che subordina il commercio dei prodotti francesi provenienti da zone montane al conferimento amministrativo dell’appellativo “montagna”, senza esigere che tali prodotti siano riconducibili a zone montane determinate, contrasta con l’art. 28 del Trattato e non è coperto dalla deroga di cui all’art. 30 in quan98 V. per un’illustrazione più articolata, Corte giust., 10 novembre 1992, Exportur, cit., cpv. 18-20. 99 Corte giust., 9 giugno 1992, Delhaize, cit., cpv. 12-14; 16 maggio 2000, Belgio c. Spagna, cit., cpv. 38-41, in relazione all’obbligo, posta dall’ordinamento spagnolo, dell’imbottigliamento all’interno della zona di produzione “Rioja” del vino che voglia fregiarsi dell’appellativo “denominación de origen calificada Rioja”, ma con possibilità di circolazione del vino sfuso solo all’interno della zona delimitata dell’origine. 100 Corte giust., 10 novembre 1992, Exportur, cpv. 23-25. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x to tale segno “non può essere qualificat[o] alla stregua di un’indicazione di provenienza”101. Ne risulta che affinché le indicazioni geografiche possano avvalersi della deroga ex art. 30 è imprescindibile il collegamento del segno con una specifica realtà territoriale. 6.2. Tanto severa è la Corte nei confronti delle normative nazionali che non esprimono segni legati al territorio, quanto permissiva nei confronti degli ostacoli alla circolazione dei prodotti posti in essere dalla disciplina nazionale che tutela – sotto la “copertura” del diritto derivato – denominazioni di origine o indicazioni di provenienza in senso proprio. Il problema che si è posto recentemente alla giurisprudenza è relativo a quali operazioni, inerenti ai prodotti tutelati, possano essere riservate alle imprese stabilite nella zona di origine del prodotto, e quali invece debbano essere consentite ai terzi che esportano e commercializzano il prodotto originale. Il problema, insomma, di individuare un adeguato “punto di equilibrio” fra la tutela della privativa e le esigenze della libera circolazione delle merci. In tale settore la Corte non sembra dare rilievo a distinzioni relative alla categoria (produzione, condizionamento, modalità di vendita o di impiego del prodotto) in cui l’operazione si colloca102, come invece nell’ambito applicativo 101 Corte giust., 7 maggio 1997, C-321/94, C-322/94, C-323/94, C-324/94, Pistre, in Racc., p. I-2343, cpv. 53; 5 dicembre 2000, C-448/98, Guimont, in Racc., p. I-10663 (divieto francese di produzione e messa in commercio di un formaggio privo di crosta con la denominazione Emmenthal); 5 novembre 2002, C-325/00, Commissione c. Germania, in Racc., p. I-9977 (il marchio di qualità Markenqualitat aus deutschen Landen” - conferito ai prodotti tedeschi che presentino determinati requisiti qualitativi, siano prodotti in Germania con materie prime sia tedesche che importate, “non può in alcun caso essere considerat[o] come un’indicazione geografica che possa essere giustificata in base all’art. [30] del Trattato, cpv. 27). 102 Corte giust., 16 maggio 2000, Belgio c. Spagna, cit., cpv. 49: “Ai fini della soluzione della presente controversia occorre non tanto stabilire se si debba considerare come una fase del procedimento d’elaborazione di un vino che può fruire di una «denominación de origen calificada» il suo imbottigliamento nella regione di produzione, quanto piuttosto valutare i motivi per cui, 46 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x generale dell’art. 28 del Trattato103 e del diritto derivato104. Coerentemente con la teoria dell’oggetto specifico della privativa, la Corte utilizza piuttosto un criterio di tipo finalistico. Possono restare nella potestà esclusiva delle imprese titolari della denominazione (o indicazione) d’origine, senza dar adito a dubbi di “protezionismo alimentare”, tutte le operazioni che sono suscettibili di incidere in modo peggiorativo sulla qualità, e dunque sulla reputazione, del prodotto qualora lasciate all’intervento dei terzi. In punto di proporzionalità, peraltro, la Corte non s’accontenta di valutare se esistano strumenti alternativi ed efficaci di tutela, però meno ostativi alla circolazione delle merci. Richiede, invece, che i mezzi alternativi siano idonei a garantire o a preservare la migliore qualità del prodotto, enfatizzando in tale prospettiva le indicazioni “legislative” risultanti dai regolamenti comunitari105. È soprattutto in punto di qualificazione degli elementi fattuali che la giurisprudenza esprime un atteggiamento permissivo106, ispirato a una particolare sen- sibilità per le esigenze di qualità dei prodotti, a dispetto della torsione che tale approccio arreca a uno dei fondamenti del mercato comune. In concreto i requisiti che devono cumulativamente sussistere affinché le operazioni di intervento sul prodotto possano restare in via esclusiva nella responsabilità delle imprese della zona d’origine, ad esclusione di tutte le altre imprese europee, e possano essere opposte a queste ultime, sono molteplici. In punto di forma, le operazioni di cui si tratta devono essere previste dal disciplinare, e questo deve risultare adeguatamente accessibile alle imprese degli altri Stati membri107; in punto di sostanza, le operazioni devono contribuire sensibilmente a preservare, attraverso la specificità tecnica dei controlli cui il prodotto è assoggettato, la qualità del medesimo. Per converso la Corte ha dato – sinora – rilevanza non decisiva alla possibilità di “decentrare”, in modo altrettanto efficace, i controlli specialistici al di fuori della zona di produzione (considerando tale delocalizzazio- secondo il governo spagnolo, tale operazione dev’essere effettuata nella regione di produzione. Infatti, la condizione controversa può essere considerata conforme al Trattato malgrado i suoi effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci solo ove detti motivi siano di per sé idonei a giustificarla”. 103 �������������������� Cfr. L.W. Gormley, The Definition of Measures Having Equivalent Effect, in A. Arnull, P. Eeckhout & T. Tridimas (eds.), Continuity and Change in EU Law, Essays in Honour of Sir Francis Jacobs, Oxford, 2008, p. 189 ss. 104 Cfr. reg. n. 1898 del 2006, cit., art. 8, che prescrive un obbligo di specifica motivazione della restrizione alla libera circolazione delle merci e dei servizi qualora l’associazione richiedente stabilisca nel disciplinare che il “condizionamento del prodotto agricolo o alimentare” debba avvenire nella zona geografica delimitata. 105 Corte giust., 16 maggio 2000, Belgio c. Spagna, cit., cpv. 53. 106 V., con riguardo al se l’obbligo di imbottigliamento del vino nella regione di produzione costituisca un requisito indispensabile a garantire la qualità del prodotto tutelato, Corte giust., 9 giugno 1992, Delhaize, cit. (che conclude in senso negativo, poiché non era stato provato che l’ubicazione delle attività di imbottigliamento sia di per sé atta a incidere sulla qualità del vino, cpv. 23); 16 maggio 2000, Belgio c. Spagna, cit. (che conclude in senso positivo, dopo una dettagliata analisi delle caratteristiche della disciplina del vino di qualità in esame: “Pertanto, occorre riconoscere che la condizione controversa, la quale è diretta a preservare la notevole reputazione del vino Rioja potenziando il controllo delle sue caratteristiche particolari e della sua qualità, è giustificata come misura di tutela della «denominación de origen calificada» di cui gode la collettività dei produttori interessati e che per essi riveste un’importanza decisiva”, cpv. 75); con riguardo al se l’obbligo di effettuare la grattuggiatura e il confezionamento del formaggio Grana Padano nella zona di produzione contribuisca in modo decisivo a preservare la qualità del medesimo, Corte giust., 20 maggio 2003, Ravil, cit. (che conclude in modo positivo, cpv. 48 ss., spec. 52 ss.); con riguardo al se l’obbligo di affettamento e confezionamento del Prosciutto di Parma nella zona di produzione sia giustificata a preservazione della qualità e della reputazione del prodotto, Corte giust., 20 maggio 2003, Consorzio del Prosciutto di Parma, cit. (che conclude in senso positivo: cpv. 65 ss., spec. 78: “Pertanto, la condizione di affettamento e di confezionamento nella zona di produzione, la quale è diretta a preservare la reputazione del prosciutto di Parma potenziando il controllo delle sue caratteristiche particolari e della sua qualità, può essere considerata giustificata come misura di tutela della DOP di cui beneficia la collettività degli operatori interessati e che riveste per questi ultimi un’importanza decisiva”). 107 Corte giust., 20 maggio 2003, Ravil, cit., cpv. 100102; Corte giust., 20 maggio 2003, Consorzio del Prosciutto di Parma, cit., cpv. 82-98. Produzioni alimentari legate al territorio 47 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) ne “difficilmente concepibile”108); né ha ritenuto dirimente, a dimostrazione del carattere non necessario della restrizione, il fatto che almeno in talune ipotesi il trattamento del prodotto non viene necessariamente effettuato (come nel caso del consumo al dettaglio o nei luoghi di ristorazione) nella zona di produzione. In modo alquanto contraddittorio la Corte ha ritenuto che, in tali ipotesi, l’accertamento dell’origine del prodotto permanga nel controllo (eventuale) del consumatore109. Infine, distanziandosi dall’approccio adottato con riguardo alle generiche produzioni tradizionali (quali la “birra tedesca”) non coperte da garanzie comunitarie, la Corte ha ritenuto che un mezzo altrettanto efficiente (e meno restrittivo) non potesse essere ravvisato in un obbligo di “adeguata etichettatura” che permetta al consumatore di essere informato del fatto che il trattamento o alcune fasi del trattamento del prodotto sono svolti fuori dalla zona di produzione110. 7. Il carattere esauriente della disciplina comune e la possibile protezione “complementare” prevista dal diritto nazionale. Un ultimo e cruciale problema di cui si è occupata la giurisprudenza, con esiti non lineari e ancora in evoluzione, è relativo al se la disciplina delle denominazioni che discende dal regolamento abbia carattere esaustivo, ovvero lasci spazio alla protezione “nazionale” (o nazionale e convenzionale assieme) di segni indicativi in cui il legame fra segno e territorio appare attenuato o meno caratterizzato rispetto a quanto previsto dalla disciplina comune. Nel vigore del precedente regolamento la Corte aveva più volte affermato che la disciplina delle indicazioni geografiche da questo po108 Ad esempio, Corte giust., 20 maggio 2003, Consorzio del Prosciutto di Parma, cit., cpv. 75. 109 Così, ancora, Corte giust., 20 maggio 2003, Consorzio del Prosciutto di Parma, cit., cpv. 77. Cfr. in argomento le insuperate critiche dell’Avvocato generale S. Alber nelle conclusioni in causa C-108/01, spec. cpv. 112. 110 Corte giust., 20 maggio 2003, Consorzio del Prosciutto di Parma, cit., cpv. 80. Produzioni alimentari legate al territorio issn 2035-584x sta non impedisse – salve le regole sulla libera circolazione delle merci – agli ordinamenti nazionali di predisporre ulteriori ipotesi o forme di tutela, per esempio in relazione alle cosiddette “indicazioni di origine geografica semplici”, intendendosi con tale espressione i segni geografici che “non implicano nessun rapporto fra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica”111, in particolare, nessun rapporto di tipo qualitativo112. Da ultimo nella sentenza Budejovický Budvar la Corte ha confermato che la normativa comunitaria non si oppone al riconoscimento da parte di uno Stato membro (l’Austria), per effetto di una convenzione bilaterale, di una indicazione di origine geografica (della Repubblica ceca) che “non fa parte delle designazioni che rientrano nella sfera d’applicazione del regolamento n. 2081/92”, il quale limita la sua disciplina “alle designazioni relative ad un prodotto per il quale esiste un nesso particolare tra le sue caratteristiche e la sua origine geografica”113. Secondo la Corte la denominazione in esame, qualificabile come indicazione di origine semplice e indiretta, “non è di per sé una denominazione geografica, ma almeno è idonea ad informare il consumatore del fatto che il prodotto che la reca proviene da un luogo, da un regione o da un paese determinati”. Rimane oscuro, nel ragionamento della Corte, 111 Corte giust., 7 novembre 2000, C-312/98, Warsteiner, in Racc., p. I-9187, cpv. 47. Confronta, a contrario, per l’ipotesi in cui la disciplina nazionale interferisca con la normativa comunitaria, Corte giust., 6 marzo 2003, C-6/02, Commissione c. Francia (marchi regionali), in Racc., p. I-2389, cpv. 13 (per la tesi della Commissione, apparentemente accolta dalla Corte). 112 Cfr. D. Sarti, La tutela delle indicazioni geografiche nel sistema comunitario, in B. Ubertazzi, E. Muňiz Espada (a cura di), Le indicazioni di qualità degli alimenti, cit., p. 324 ss., spec. 345 ss., per un’interpretazione ampia di tale nozione, che potrebbe estendersi, ad esempio, alle indicazioni in cui il nesso fra “provenienza territoriale e caratteristiche del prodotto non è stato accertato nell’ambito di un procedimento comunitario [...] ancorché possa eventualmente sussistere”; così come alle “denominazioni che in alcuni paesi conservano carattere distintivo di una tradizione produttiva locale, ma che nella maggior parte del territorio comunitario sono considerate generiche”. 113 Corte giust., 18 novembre 2003, C-216/01, Budejovický Budvar, in Racc., p. I-13617, cpv. 73-78. 48 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x quale possa essere la tutela conferita a tali indicazioni semplici. Deve ritenersi che essa si collochi all’estremo “esterno” della protezione consentita dall’art. 30; in conseguenza gli strumenti nazionali di garanzia dovrebbero risultare proporzionati al limitato significato che tali indicazioni rivestono tra i segni geografici. In tale ordine di idee, nella sentenza in esame, la Corte ha escluso che la disciplina controversa potesse “essere giustificata in forza della tutela della proprietà industriale e intellettuale”114, a causa precisamente della protezione assoluta – che prescinde da qualsiasi rischio di inganno del consumatore – prevista dal diritto nazionale. Tale approccio parrebbe destinato a sopravvivere anche nel vigore del reg. n. 510 del 2006. Nella sentenza Budejovický Budvar (II), in effetti, la Corte ha bensì riconosciuto che il regolamento mira a “prevedere un sistema di tutela uniforme ed esauriente”, tanto sotto il profilo sostanziale che sotto il profilo procedurale, delle “indicazioni geografiche qualificate”115; ma ha preso le mosse dal presupposto, evidenziato dal giudice del rinvio, che la denominazione in oggetto fosse tutelata dall’ordinamento ceco (e austriaco) in quanto denominazione d’origine e non come indicazione di provenienza geografica semplice116. In altri termini, il regolamento comunitario osterebbe alla disciplina nazionale delle indicazioni geografiche solo in caso di coincidenza negli istituti (nelle “figure”) tutelati da parte del diritto interno e del diritto comunitario, anche nel caso in cui questi rivelino non incompatibilità, ma semplice differenziazione. Stefano Amadeo, professore associato di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Trieste, Facoltà di Giurisprudenza. 114 Corte giust., 18 novembre 2003, Budejovický Budvar, cit., cpv. 54, 107-111. 115 Corte giust., 8 settembre 2009, Budejovický Budvar, cit., cpv. 114 e 117. 116 Corte giust., 8 settembre 2009, Budejovický Budvar, cit., cpv. 96. Produzioni alimentari legate al territorio 49 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Conoscere e ospitare ... con più gusto. Viaggio nel turismo enogastronomico Moreno Zago Abstract Parole chiave L’approccio al viaggio del what to do today fa sì che gli interessi turistici si focalizzino sempre più su vacanze brevi ma che privilegiano interessi particolari. Il turismo enogastronomico è espressione di questa modalità di scoperta e di conoscenza dei territori, alla ricerca di sapori e di tradizioni autentiche. Cibo e identità; Turismo del gusto; Specialità tradizionali; Sviluppo locale; Ospitalità. 1. Autenticità vs. creolizzazione del prodotto locale S ociologi e antropologi1 hanno ampiamente evidenziato come l’atto del mangiare sia uno degli ambiti privilegiati di espressione dell’identità sia a livello individuale che in ambito sociale. Il cibo, quale frontiera culturale simbolica, è il medium attraverso il quale l’individuo esprime se stesso e, allo stesso tempo, si differenzia dagli altri. Da un lato, quindi, il cibo crea appartenenza ad una comunità, membri di un’unica cultura e, dall’altro lato, sottolinea una differenza con chi non condivide le medesime abitudini alimentari, rimarcando un “noi” da un “loro”. In particolare, gli studi sulla nostalgia come costruzione simbolica collettiva hanno dimostrato come, sia nella migrazione interna italiana dei meridionali al Nord del Novecento, 1 Cfr. R. Sassatelli, L’alimentazione: gusti, pratiche e politiche, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, (2004), n. 4, pp. 1-18; A. Guigoni, Antropologia del mangiare e del bere, Lungavilla, 2009; E. Battaglini (a cura di), Il gusto riflessivo. Verso una sociologia della produzione e del consumo alimentare, Roma, 2007. Conoscere e ospitare... con più gusto sia in quella oltreoceano così come in quella straniera odierna in Italia, la cucina costituisca il nucleo attorno cui costruire la resistenza individuale e familiare ad un ambiente visto come estraneo e ostile. Attraverso il cibo si attua un’operazione di resistenza all’assimilazione in grado di rimuovere le frustrazioni causate dallo status di minoranza2. Inoltre, l’adesione ad una cultura culinaria delle proprie radici rappresenta una forma di resistenza alla globalizzazione del gusto, la c.d. McDonaldizzazione, e all’inserimento nelle tradizioni culinarie locali di ingredienti gastronomici provenienti da altre culture. È la riscoperta di una storia e di una tradizione locale che ha indotto alcuni sindaci ad imporre veti alla presenza di ristoranti etnici all’interno dei centri storici, visti come elementi estranei al tessuto culturale urbano. Parlando di cibo, quindi, si gioca con le nozioni di inclusione/esclusione ed il disprezzo delle abitudini alimentari altrui 2 D.R. Gabaccia, We are what we eat: ethnic food and the making of Americans, Cambridge, 1998. 50 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) così come l’accento sui tratti diversificanti dei saperi culinari sono spesso presenti nei discorsi d’intolleranza culturale e di xenofobia3. Contro questa politica eccessivamente localista si è costituita l’associazione Cous Cous Clan la cui food-losophy dei suoi membri si fonda sulla convinzione che: a) ogni cultura gastronomica è frutto di incontri e scambi avvenuti con le altre culture gastronomiche (art. 1 dello statuto) e che, pertanto, è destinata a cambiare e ad evolversi nel corso del tempo (art. 2); b) che gli xenofobi che urlano nei loro comizi “Polenta Si - Couscous No” dimenticano che il mais non è un prodotto tipico della Padania, ma del centro America (art. 8); c) che l’amore per le cucine, i prodotti ed i cibi esotici, può tranquillamente convivere con l’amore per i piatti, i prodotti ed i cibi della terra nativa (art. 7); d) che il protezionismo economico, il fanatismo, l’orgoglio nazionalista e i precetti alimentari delle religioni, sviluppano solo ideologie, barriere culturali e pregiudizio (art. 4). Il movimento mette in risalto un aspetto importante: gli alimenti che definiscono il senso di identità di una nazione hanno spesso storie complesse, fatte di scambi commerciali e culturali cosicché le cucine nazionali sono sempre sottoposte ad un processo di creolizzazione attraverso cui il passato si sedimenta nel presente. Anderson4 sostiene che, così come la nazione e la lingua nazionale, anche la dieta nazionale altro non sia che una rassegna di piatti e tradizioni immaginate. A titolo di esempio, Hall5 ricorda che, nonostante non vi sia una singola piantagione di tè in tutto il Regno Unito, questo sia diventato la simbolizzazione dell’identità inglese, così come è trascurabile per l’identità italiana ricordare che la pasta sia stata portata dalla Cina da Marco Polo6. I popoli, come ha presente Douglas7, neces3 C. Fischler, L’onnivoro. Il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, Milano, 1992. 4 B. Anderson, Comunità immaginate, Origine e diffusione dei nazionalismi, Roma, 1996. 5 S. Hall, Old and new identities, old and new ethnicities, in M. Featherstone, Global Culture, cit., p. 39. 6 F. La Cecla, La pasta e la pizza, Bologna, 1998. 7 M. Douglas, Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Bologna, 1985, pp. 193-229. Conoscere e ospitare... con più gusto issn 2035-584x sitano di una cucina tipica come strumento di affermazione della propria identità e, nel mosaico incongruente dei consumi postmoderni, è in costante crescita la richiesta di autenticità da parte delle persone e dei turisti, in particolare. Il turismo enogastronomico è espressione di questa ricerca della tipicità locale che lega il cibo all’identità del territorio. 2. Dimensione e localizzazione del fenomeno L’Italia è un paese ricco di tradizioni gastronomiche e di prodotti tipici che gli italiani hanno saputo mantenere vive. Il nostro paese è il primo produttore mondiale di vino con 316 vini a Denominazione di origine controllata, 41 a Denominazione di origine controllata e garantita e 120 a Indicazione geografica tipica. A ciò si devono aggiungere l’individuazione e la valorizzazione di ben 118 prodotti a Denominazione di origine protetta e a Indicazione geografica protetta, 4.396 specialità tradizionali regionali, 18mila agriturismi, 4mila ristoranti, 61mila tra frantoi, cantine, malghe e cascine8. Il turismo enogastronomico contribuisce a valorizzare questo patrimonio, da un lato, richiamando un numero sempre crescente di appassionati alla ricerca di sapori e tradizioni autentiche e, dall’altro lato, facendo del cibo un vettore di culture e valori saldamente legati al territorio e alle proprie radici9. Secondo i risultati di una ricerca del BitLab, l’Osservatorio sull’Immagine del Turismo Italiano all’estero10, su questa tipologia di viaggi, l’Italia è il paese più citato nelle riviste internazionali. Lo studio che ha preso in esame 3.492 articoli di circa 100 testate giornalistiche con sede in 20 differenti nazioni, ha anche evidenziato le mete valutate come interessanti dai turisti del gusto: i parchi dell’Aspromonte in 8 BITEG, Enogastronomia, motore per il turismo in Italia e in Piemonte, www.biteg.it/Public/News/ Enogastronomia%20motore%20del%20Turismo.pdf; Sito consultato il 13/09/2009. 9 A. Antonioli Corigliano, G. Viganò, Turisti per gusto: Enogastronomia, territorio, sostenibilità, Novara, 2004. 10 BitLab, Bit/4, Italia meta preferita per l’enogastronomia, www.travelnostop.com/news.aspx?id=60404; Sito consultato il 13/09/2009. 51 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Calabria, le colline dell’Umbria, le campagne del Lazio, i boschi e i vigneti del Piemonte. Il turismo enogastronomico in Italia produce un volume d’affari annuo di 2,5miliardi di euro e conta circa 5milioni di appassionati, pari al 60% di visitatori provenienti dall’Europa e al 32% dell’Italia che, abbandonando le motivazioni di viaggio più classiche, come il mare e le città d’arte, organizzano vacanze brevi all’insegna del wine&food11. L’importanza assunta dal settore è testimoniata dal BITEG - la Borsa Internazionale del Turismo Enogastronomico -, l’unico evento italiano per l’incontro tra domanda e offerta, tra i più qualificati a livello internazionale e dall’istituzione, presso il Ministero del Turismo, della Commissione per la promozione ed il sostegno del turismo enogastronomico le cui finalità sono da rintracciarsi a) nella presa di coscienza collettiva della quantità e della qualità del nostro tesoro agroalimentare, unico al mondo anche per la sua varietà in rapporto all’estensione territoriale e b) nel coordinamento a tutti i livelli, indispensabile per razionalizzare la varietà dell’offerta e consentire la creazione di iniziative e network enogastronomici capaci di attirare turismo anche destagionalizzato. Quest’ultimo punto è rilevante perché la ricchezza legata alla cultura della buona tavola ha la potenzialità di attrarre turisti anche nei periodi di bassa stagione, coniugando con naturalezza il consumo di specialità locali con gli altri segmenti turistici quali: terme, attività sportive, escursionismo, visite alle città, shopping, ecc. In quest’ottica, attraverso il turismo enogastronomico, passa anche il rilancio del brand Italia e del Made in Italy. Secondo un sondaggio della Coldiretti12, il cibo e la buona cucina sono, per quasi due italiani su tre - e uno straniero su due - il simbolo proprio del Made in Italy superando la cultura e l’arte ferme al 24%, la moda all’8%, la tecnologia al 3% e lo sport al 2%. A conferma dell’importanza assunta dalle specialità locali, uno 11 Eurispes, XXI Rapporto Italia, Roma, 2009. 12 Coldiretti, In vacanza spopola il souvenir enogastronomico, www.newsfood.com/q/53456/coldiretti-in-vacanza-spopola-il-souvenir-enogastronomico; Sito consultato il 13/09/2009. Conoscere e ospitare... con più gusto issn 2035-584x studio dell’Istituto Piepoli-Leonardo-Ice ha evidenziato come i turisti italiani e stranieri che trascorrono le ferie estive in Italia preferiscano come souvenir il prodotto enogastronomico tipico del luogo di vacanza. Per sei turisti su dieci, il prodotto alimentare caratteristico del territorio, come vino, formaggio, olio di oliva, salumi o conserve, è stato il souvenir più apprezzato rispetto ai prodotti artigianali locali (25%) e ai ricordi più commerciali come cartoline, gadget e magliette (5%)13. Specificatamente per i turisti stranieri, particolarmente attratti dalle specialità italiane sono gli svedesi (70%) e gli americani (58%), mentre il gradimento più basso lo registrano i cinesi (31%) e i russi (28%) che preferiscono i prodotti della moda. L’acquisto di questi ricordi appetitosi rappresenta un modo per rendere meno traumatico il rientro a casa e nella routine della quotidianità e per prolungare quello stato di grazia che attenua manifestazioni di cattivo umore, insonnia e mal di testa. Lo sviluppo del turismo enogastronomico è andato di pari passo con la crescente diffusione di una cultura dell’alimentazione di qualità e la riscoperta del terroir. Movimenti culturali come Slow food e il Gambero rosso hanno contribuito, a partire dagli anni ottanta, a diffondere un approccio conoscitivo del cibo più attento attraverso pubblicazioni di critica gastronomica, corsi di degustazione ed eventi di grande impatto mediatico e le aziende hanno compreso l’importanza di aprire le loro porte ad un pubblico desideroso di entrare nel vivo del processo produttivo. In questi ultimi anni, inoltre, si è visto in molte città e località turistiche l’apertura dei mercati degli agricoltori organizzati dalla Coldiretti dove è possibile acquistare prodotti genuini direttamente dal campo. Una menzione speciale va sicuramente al Movimento del turismo del vino che, nel 1993, convince alcune decine di aziende vitivinicole dapprima solo toscane e poi, nel corso degli anni, centinaia di imprese di tutta la penisola, a restare aperte al pubblico l’ultima domenica di maggio. Quale grande produttore di vino, l’Ita13 Coldiretti, Vacanze: coldiretti, 6 su 10 rientrano con cibo e vini come souvenir, www.coldiretti.it/docindex/cncd/ informazioni/643_09.htm; Sito consultato il 13/09/2009. 52 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x lia ha saputo valorizzare le località e i prodotti vinicoli delle principali regioni produttrici con itinerari e percorsi segnalati da cartelli informativi che indirizzano nelle principali cantine e aziende vitivinicole del territorio. Oggi, sono circa 140 le Strade del Vino e dei Sapori e 1.300 sono i comuni attraversati da questa rete capillare che comprende quasi 400 denominazioni territoriali di vini, oltre 4mila ristoranti, quasi 33mila prodotti vitivinicoli e più di 3,3mila cantine che spesso accolgono turisti e curiosi per una degustazione dei loro vini. Il 62% dei produttori delle aziende oggetto del sondaggio dell’Osservatorio delle Città del Vino-Censis14 ha visto aumentare mediamente del 19% il numero di visitatori nel 2008, sempre più attratti dalle degustazioni (94%), dalle visite delle cantine (86%) e dalla vendita diretta dei vini (57%). La crescita del numero di turisti appassionati di vino è in linea con la tendenza vacanziera affidata ad una cultura del what to do today, basata su vacanze brevi, più frequenti e meglio organizzate. Un ulteriore elemento che ha contribuito allo sviluppo del turismo enogastronomico è stata la crescita delle vacanze nel verde e degli agriturismi. L’Italia può contare su 772 parchi e aree protette (il 10% del territorio nazionale) e sulla leadership europea nella produzione biologica che contribuiscono al successo dei week end nel verde. La vacanza a contatto con la natura in campagna, nei parchi o nelle oasi naturalistiche ha fatto registrare nell’estate del 2009 un aumento di quasi l’80% rispetto all’anno precedente, coinvolgendo circa 5milioni di turisti15. Nella sola Regione del Friuli Venezia Giulia, in dieci anni, le aziende agrituristiche sono pressoché raddoppiate, passando dalle 233 del 1998 alle 453 del 2007 per un totale di arrivi pari a 34mila e di presenze pari a 105mila. Rispetto all’anno precedente, l’incremento delle presenze è stato di ben 27 punti percen- tuali16. A spingere i turisti nel verde c’è, da un lato, la volontà di trascorrere il tempo libero all’aria aperta, lontano dal caos delle città e, dall’altro lato, la voglia di riscoprire le tradizioni alimentari realizzate con ricette uniche ed ingredienti sani. Infine, ad attirare turisti in queste strutture è l’offerta di programmi ricreativi come l’osservazione naturalistica, l’equitazione, il trekking, il wellness, le visite guidate ai luoghi archeologici o ai borghi d’arte, ecc. Ma qual è l’identikit del turista enogastronomico? Rispetto al passato, il turista in veste di consumatore è sicuramente più preparato, esigente e selettivo. Ha imparato a riconoscere la qualità dei prodotti agroalimentari, anche attraverso la lettura delle etichette. Inoltre, i suoi comportamenti sono orientati all’individualismo e al contingente; non è un caso che Bauman17 utilizzi il turista come metafora della vita postmoderna basata sulla ricerca di diversità, di nuove esperienze e sul rifiuto a legarsi ad identità stabili. Pertanto, non è possibile delineare con precisione il profilo del turista enogastronomico e il mercato si articola in un’infinità di possibili consumatori ciascuno dei quali è portare di una specifica e personale identità, cultura e aspettativa. Una nota classificazione suddivide i turisti del sapore in due categorie: i gastronauti e i foodtrotter18. I primi vedono nel giacimento enogastronomico l’esclusivo motivo del viaggio e riservano al territorio circostante un ruolo secondario. I secondi, viceversa, pur permanendo la centralità della risorsa enogastronomica, sono interessati anche alle altre risorse del territorio. La lunghezza del viaggio (vacanze brevi o week end per i primi e vacanze più lunghe per i secondi) e il grado di cultura alimentare del fruitore (già esperti i primi, assetati di conoscenze i secondi) costituiscono ulteriori elementi discriminanti sul modo di accostarsi alla visita del territorio, all’azienda di pro- 14 Osservatorio sul Turismo del Vino delle Città del Vino, Rapporto annuale, n. 7, Castelnuovo Berardenga, 2009. 15 Coldiretti, Questa estate è boom per le vacanze verdi, www.newsfood.com/q/a5556ae8/turismo-coldirettiquesta-estate-e-boom-per-le-vacanze-verdi-80; Sito consultato il 13/09/2009. 16 G. Dominutti, I. Plet, L’agriturismo in Friuli Venezia Giulia al 31.12.2007, Servizio statistica-Regione Fvg, Trieste, 2008. 17 ������������ Z. Bauman, Modernity and ambivalence, Cambridge, 1991. 18 D. Paolini, I luoghi del gusto. Cibo e territorio come risorsa di marketing, Milano, 2000. Conoscere e ospitare... con più gusto 53 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) duzione e alla degustazione. Le due tipologie rappresentano gli estremi di un continuum all’interno del quale si collocano diverse figure di fruitori dei sapori occasionali quali i gitanti della domenica, i visitatori delle fattorie didattiche, i consumatori attenti, i vip, ecc. Croce e Perri19 ben sintetizzano questo turista come un soggetto con un livello culturale elevato, abituato ad organizzare autonomamente le proprie vacanze perché scettico sulle competenze specifiche dei tour operator, esigente nei confronti dei territori visitati in cui cerca bellezza, qualità, professionalità, accoglienza e un flavour caratteristico e inequivocabile, desideroso di trascorrere momenti di esperienza educativa, curioso di entrare in contatto diretto con la filiera produttiva del cibo gustato a tavola e predisposto a considerare questo come un mezzo per comprendere un’identità culturale, al pari di un’opera d’arte. 3. La cultura dell’ospitalità Il turismo enogastronomico quando è ben progettato rappresenta un’importante risorsa per la valorizzazione ambientale, economica, sociale delle zone interessate dai flussi turistici. E una buona progettazione implica necessariamente un’adeguata comunicazione del territorio e dei prodotti, un’accoglienza di qualità, un’attenzione alle modalità di mobilità, il confezionamento di un prodotto turistico tematico inconfondibile. La Regione Friuli Venezia Giulia ha puntato molto sulla valorizzazione del patrimonio enogastronomico. Friuli Doc, Cantine aperte, BioFattorie aperte, Aria di festa a San Daniele sono solo alcuni dei grandi eventi in grado di far conoscere i prodotti locali e capaci di attrarre decine di migliaia di visitatori. All’interno del Parco agro-alimentare di San Daniele, le aziende aderenti al Consorzio di tutela del prosciutto di San Daniele marchiano oltre 2,6milioni di cosce l’anno. Nel 2008 è nata la card Via dei Sapori grazie alla quale si può disporre dell’esperienza e dell’alta professionalità dei 19 E. Croce, G. Perri, Il turismo enogastronomico, Progettare, gestire, vivere l’integrazione tra cibo, viaggio, territorio, Milano, 2008, p. 54. Conoscere e ospitare... con più gusto issn 2035-584x ristoranti top della regione che propongono quanto di meglio offre questa terra. Inoltre, la Regione, attraverso l’Agenzia TurismoFvg, ha basato la propria strategia promozionale sullo slogan: “Ospiti di gente unica” affiancato, per quanto riguarda il prodotto enogastronomico, dai claim “Gusti e profumi autentici” e “Sapori di gente unica”. Oggi, con lo slogan “Ospiti di gente unica”, l’esperienza turistica vuole essere diversa non per i luoghi ma grazie alle persone e al contesto culturale e sociale in cui si approfondisce l’esperienza turistica. Il fattore umano è l’elemento su cui si è voluta differenziare la regione: un diverso modo di ospitare il turista, fondato sull’autenticità e sulla qualità che sono alla base della costruzione di un rapporto di fedeltà con il cliente20. Nella primavera del 2007, lo scrivente ha condotto una ricerca su “Le competenze emergenti nel sistema dell’offerta turistica del Friuli Venezia Giulia”21. Ad un campione regionale stratificato di 400 residenti è stato chiesto di valutare complessivamente l’operato di quanti lavorano nel turismo in regione e di esprimere un’opinione sul claim “Ospiti di gente unica” e, in particolare, in cosa la gente di questa regione fosse unica. Nell’insieme, gli operatori sono stati valutati positivamente. Emerge lo stereotipo della laboriosità del popolo friulano ma anche l’affidabilità, l’ospitalità e l’onestà. In misura minore, gli operatori sono considerati socievoli, dinamici e cooperativi. Alla domanda successiva sul significato di “gente unica”, ha risposto il 74% degli intervistati. I 294 significati attribuiti all’aggettivo “unica” sono stati raggruppati in sei categorie. Il 21,4% degli intervistati pensa che la gente della regione sia troppo legata alla propria terra, alle tradizioni locali e alla lingua. Un’eccessiva attenzione alle tradizioni, agli usi e ai costumi locali, inclusa la lingua friulana, rischia di far rimanere indietro rispetto ad una realtà, come quella turistica, sempre più a valenza 20 J. Ejarque et al., Piano di sviluppo turistico del Friuli Venezia Giulia, Torino, 2005. 21 M. Zago, L’offerta turistica di una regione di frontiera: movimenti, strategie, professionalità, Dipartimento di Scienze dell’Uomo, Trieste (in preparazione), 2009. 54 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) internazionale. Gli intervistati, inoltre, sottolineano il carattere introverso e riservato del friulano e lo descrivono come una persona isolata, rigida, a tratti scontrosa, incapace di dare confidenza e poco propensa al sorriso. Il 19% del campione fa emergere la qualità delle risorse naturali e culturali della regione. La posizione geografica di frontiera che ne ha fatto una terra di transito e la varietà morfologica evidenziano i punti di forza del patrimonio ambientale a cui si devono collegare gli aspetti specificatamente storici che emergono con forza da ogni angolo umanizzato e quelli gastronomici. Non secondari sono gli elementi della multiculturalità che arricchiscono il Friuli Venezia Giulia. Il 17,3% evidenzia l’operosità e lo spirito imprenditoriale della gente. I numerosi eventi organizzati in regione - dalle sagre alle mostre internazionali - confermano di essere in presenza di persone dinamiche e lavoratrici. Il 17% delle risposte attiene ad aspetti caratteriali positivi di questa “gente unica”. Le persone vengono identificate come semplici, genuine e schiette. Persone su cui poter contare per la loro onestà, serietà e coerenza. Sanno essere socievoli, di compagnia e capaci di godersi la vita. Il 17% degli intervistati evidenzia l’aspetto strettamente utilitaristico dello slogan il cui scopo è esclusivamente di incuriosire e attrarre i turisti. L’aspetto ingannevole viene riscontrato anche nella gestione troppo individualistica e competitiva dei servizi turistici e con una visione eccessivamente localista. L’8,2%, infine, non vede aspetti di esclusività né positiva né negativa, ritenendo la gente della regione “unica” tanto quanto quella di altre regioni italiane. I promotori istituzionali considerano il claim efficace. Esso evidenzia una caratteristica importante di questa terra: la capacità di ospitare il cliente. In questo senso, il claim ha la duplice valenza di trasmettere un’immagine positiva al di fuori della regione, nei confronti del mercato turistico internazionale, e di rafforzare un tratto dell’identità. Inoltre, lo slogan è forte dal punto di vista comunicativo perché s’imprime facilmente nella memoria. È evidente che lo stesso crei nel turista delle Conoscere e ospitare... con più gusto issn 2035-584x aspettative che devono trovare adeguate risposte. Attorno a questo slogan si deve così costruire un prodotto migliore e diffondere la cultura dell’ospitalità attraverso un’attività di formazione che coinvolga, non solo gli operatori, ma soprattutto la popolazione. Chi è formato nel settore del turismo comprende chiaramente l’importanza della cortesia e di un sorriso, ma il turista si muove in uno spazio in cui vivono persone che non necessariamente lavorano nel settore. La qualità dell’ospitalità è fatta anche dal residente che deve percepire il turista come una risorsa. Anche se non c’è una partecipazione diretta nel settore turistico, diverse possono essere le attività (uffici pubblici, banche, ecc.) e le professionalità (tassisti, benzinai, negozianti, ecc.) che ne beneficiano. Inoltre, la creazione dell’ambiente di accoglienza è realizzata dal residente attraverso la cura e l’attenzione che egli manifesta per gli spazi (pulizia dei cortili e delle piazze, potatura delle piante, abbellimenti delle abitazioni, ecc.). In conclusione, come scrive Savelli22, l’unicità di un luogo - e, aggiungerei, della gente dipende «dalle strategie innovative poste in essere contemporaneamente da residenti, operatori locali, operatori esterni e consumatori elaborate sulla base di un sistema efficiente e il più possibile aperto (non esclusivo) di informazione e di comunicazione tra le diverse tipologie di soggetti». In questo senso, l’unicità diventa qualcosa di costruito assieme e non qualcosa che viene sbandierata come una caratteristica intima e peculiare della popolazione regionale che rischia di non trovare effettivo riscontro nella realtà e di mandare in frantumi un sogno, quello del viaggio. Moreno Zago è ricercatore presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste dov’è titolare dei corsi di Sociologia del Turismo e di Sociologia del Confine [email protected] 22 A. Savelli, Mutamenti di significato dei luoghi e degli sguardi turistici, in R. Bonadei, U. Volli (a cura di), Lo sguardo del turista e il racconto dei luoghi, Milano, 2003, p. 145. 55 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo Laura Capuzzo Abstract Sono varie centinaia le testate italiane all’estero. Sparse in tutti i continenti. Perlopiù si tratta di giornali, sorti per rispondere al bisogno degli emigranti di mantener vivo un legame con il Paese d’origine. Ma non mancano le radio, le tv e, più recentemente, forme nuove di comunicazione realizzate attraverso Internet. I cambiamenti sociali ed economici intervenuti negli ultimi decenni e l’affermarsi, per quanto lento, di una nuova visione della presenza italiana nel mondo, considerata non più come un problema, ma come una risorsa per il “sistema Italia”, impongono nuovi compiti ai media italiani all’estero. In particolare, se vogliono sperimentare il futuro, essi devono riuscire a farsi interpreti di un’alternativa culturale e porsi come strumento di rilancio economico. Ne deriva, in questo momento, un’emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo, che implica da un lato una rivisitazione della stampa di settore e un potenziamento delle radio e tv “etniche” e, dall’altro, una loro collaborazione per favorire Stampa, radio, tv e testate on-line C omunicare. Informarsi. Tra gli italiani che a partire dalla seconda metà dell’800 lasciarono l’Italia per cercar fortuna altrove1, il bisogno di mantenere vivo un legame con il Paese d’origine si fece sentire presto e fu motivo della nascita di una miriade di fogli, disseminati nei cinque continenti. 1 A partire dall’unificazione del 1861, l’Italia ha conosciuto un espatrio di poco meno di 30 milioni di persone e conta attualmente, sparsi nei cinque continenti, più di tre milioni di cittadini e più di 60 milioni di oriundi, a tener conto delle stime che circolano. Cfr. F. Pittau (a cura di), I flussi migratori degli italiani con l’estero, in Fondazione Migrantes, Rapporto italiani nel mondo 2006, Idos Centro studi e ricerche, Roma, 2006, p. 16. la conoscenza, in Italia, dell’attività dei connazionali nel mondo.. A supporto di questa nuova strategia della comunicazione, servono interventi mirati, che puntino, ad esempio, ad un forte impiego della tecnologia, all’avvio di flussi informativi “di ritorno”, in particolare a livello regionale, allo sviluppo dell’informazione di carattere economico e soprattutto al coinvolgimento delle nuove generazioni. Occorre formare i giovani operatori della comunicazione nell’ottica di un nuovo rapporto dell’Italia con i suoi connazionali all’estero e, per fare questo, grande responsabilità spetta alle Università e alle Scuole di giornalismo. Parole chiave comunicazione; informazione; emigrazione; italiani all’estero; giornalisti; università; editoria; media; giovani. Grandi e piccole, finora trascurate dalla ricerca accademica, se non per l’aspetto storiografico2, le testate italiane che ancora oggi escono in giro per il mondo, sono tante. Sup2 Una sintesi degli sviluppi, dalle origini alla crisi del secondo dopoguerra, della stampa italiana all’estero è quella di B. Deschamps, Echi d’Italia. La stampa dell’emigrazione, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, II, Arrivi, Roma, 2002, pp. 313-334, cui ha fatto seguito più di recente E. Franzina (a cura di), La stampa italiana nel secondo dopoguerra, Archivio storico dell’emigrazione italiana 001, Sette Città, 2005, http://www.asei.eu/index. php?option=com_content&task=view&id=72&Item id=262; sito consultato il 6/9/2009. In precedenza, un punto di riferimento per questi studi è stato V. Briani, La stampa italiana all’estero dalle origini ai nostri giorni, Poligrafico dello Stato, Roma, 1977. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 56 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) portate (di rado) da una struttura redazionale oppure (la maggior parte) affidate allo spirito di intraprendenza del singolo, che è insieme editore, direttore, redattore e responsabile amministrativo, hanno soddisfatto, durante il periodo di inserimento delle collettività italiane nelle società di accoglienza, la loro esigenza di partecipazione alle vicende italiane e vivono oggi una delicata fase di trasformazione, determinata sia dai cambiamenti sociali ed economici intervenuti negli ultimi decenni, sia dall’avvento delle nuove generazioni3. Sul loro numero, i dati a disposizione non sono precisi. In un’indagine realizzata nei primi anni Novanta del secolo scorso da Assocamerestero per conto del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri4, si parla di 392 testate, con prevalenza della carta stampata (213 giornali e riviste a periodicità variabile, che tirano ogni anno più di 100 milioni di copie, 150 radio e 29 programmi tv), e di 2.370 dipendenti, di cui 1.318 a tempo pieno. Una decina d’anni più tardi, nel 2004, la Federazione unitaria della stampa italiana all’estero (FUSIE), in un altro studio condotto per conto del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, riporta a sua volta il dato di quasi 400 testate della stampa italiana edite all’estero, ma precisa che “altrettanto numerose sono le radio e le televisioni in lingua italiana che operano nei Paesi di emigrazione. Circa 50 - aggiunge sono i giornali per l’emigrazione editi in Italia”5 3 Per la stesura di queste pagine ampi stralci e spunti ho tratto da un’ottima tesi di laurea di cui sono stata correlatrice (L. Cechet, L’informazione italiana nel mondo tra stereotipi e innovazione. Analisi di due casi vicini al confine, Istria e Svizzera, tesi di laurea inedita, Università di Trieste, a.a. 2004-2005, relatore Gianfranco Battisti, correlatrice Laura Capuzzo) e dai materiali (documenti, articoli, relazioni, interventi perlopiù inediti a convegni di settore ecc.) che in quella circostanza avevo messo a disposizione della laureanda. 4 Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, I media della diaspora. Giornali, radio e televisioni dell’Italia fuori d’Italia, fuori commercio, [1994?]. 5 Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, La comunicazione interculturale. Indagine e riflessioni sulla stampa di immigrazione in Italia e sulla stampa italiana all’estero, issn 2035-584x da enti, associazioni, sindacati, patronati. Nello stesso anno escono i risultati di un censimento curato da Mediapress srl sui mass media ed i comunicatori italici6 nel mondo. I dati rilevati sono stati inseriti in due Annuari7: — l’Annuario dei mass media italici nel mondo è una mappatura del sistema di comunicazione italico; in esso sono infatti contenute tanto le testate in lingua italiana o bilingue all’estero rivolte al pubblico italico, quanto le pubblicazioni edite in Italia ma rivolte comunque alle comunità italiane che si trovano fuori dei confini nazionali. In 61 nazioni sono stati individuati circa 700 mass media, tra pubblicazioni cartacee (369), testate on-line (28), newsletter (70), emittenti radiofoniche (186), stazioni televisive (24). Di essi 128 sono nel Nord America, 214 nell’America Latina, 267 in Europa, 34 in Oceania, 20 in Asia, 16 in Africa; — l’Annuario dei comunicatori italici nel mondo, nato come pubblicazione complementare all’Annuario dei mass media italici nel mondo, riguarda giornalisti, editori, comunicatori pubblici e pubblicitari di origine italiana che vivono e lavorano all’estero. La directory dalla quale origina l’Annuario, riunisce i nominativi di circa 1.440 comunicatori provenienti da 50 diversi Paesi. I due Annuari hanno fornito il materiale di base di due banche dati presenti dal 2007 nel sito del Ministero degli Affari esteri8, in base ad un protocollo d’intesa stipulato con l’Ordine nazionale dei giornalisti: Roma 25 marzo 2004, fuori commercio, parte seconda, p. 5. In Italia ha sede anche quella manciata di agenzie di stampa (una decina, più o meno) specializzate nel campo dell’emigrazione, che garantiscono con regolarità a giornali, radio e tv i materiali informativi di base. 6 Il termine “italico” fa riferimento alla definizione introdotta da Piero Bassetti, presidente dell’Associazione “Globus et Locus”, per indicare non solo la comunità di italiani d’origine e di oriundi, ma anche gli italofoni, gli italofili e tutti coloro che, anche senza sangue italiano nelle vene, hanno abbracciato valori, stili di vita e modelli dell’Italian way of life. V. http://www.globusetlocus.org/it/italici ; sito consultato il 20/9/2009. 7 Esiste una versione cartacea degli Annuari, uscita nel 2004, ed una versione on-line diffusa attraverso il portale Media & Comunicatori Italici (www.mediaecomunicatoriitalici.net ). 8 www.esteri.it/MAE/IT/Italiani_nel_Mondo/ Pubblicazioni/ ; sito consultato l’11/9/2009. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 57 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) — nel link “L’Italia dell’informazione nel mondo” sono presenti oggi 814 media in lingua italiana diffusi nel mondo (stampa 494, radio 274, tv 46); — nel link “Comunicatori italiani nel mondo” quasi mille operatori della comunicazione italiani e di origine italiana operanti all’estero. Ridotto è il numero dei quotidiani. “America Oggi”, il tabloid fondato da Andrea Mantineo per gli italiani della East Coast statunitense, esce a New York. Ad esso si aggiungono “La Voce issn 2035-584x del Popolo” a Fiume, il “Corriere canadese” a Toronto, “Il Globo” a Melbourne e “La Fiamma” a Sydney. E’ diventata quotidiano dal 2002 anche “La Voce d’Italia” di Caracas, fondata come settimanale da Gaetano Bafile. Nel 1999 è nato “Gente d’Italia” diretto da Mimmo Porpiglia, che dopo un’iniziale diffusione a New York e Miami, è ‘sbarcato’ anche a Montevideo. Più dell’80% dei giornali italiani all’estero appartiene a proprietari-editori privati. Poi ci sono i giornali cattolici, soprattutto quelli sca- (Fonte: MediaPress srl; questo grafico non tiene conto dell’editoria per gli italici prodotta in Italia e in San Marino e distribuita nel mondo) (Fonte: MediaPress srl) Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 58 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x (Fonte: MediaPress srl) (Fonte: MediaPress srl) Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 59 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x (Fonte: MediaPress srl) (Fonte: MediaPress srl) Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 60 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x (Fonte: MediaPress srl) (Fonte: MediaPress srl) (Fonte: MediaPress srl) Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 61 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x (Fonte: MediaPress srl) (Fonte: MediaPress srl) labriniani; una piccola fetta è riservata infine alle Camere di Commercio italiane all’estero. Nonostante la lontananza geografica che separa i vari luoghi di edizione, questi periodici presentano caratteristiche comuni facilmente enucleabili: il formato più diffuso è il tabloid; quanto alla scelta delle notizie, poi, si tratta di prodotti del tutto differenti rispetto ai giornali nazionali. Le vicende politiche italiane interessano quando ci sono notizie “di sostanza”: la riforma del sistema previdenziale o le novità dell’ultima legge finanziaria sì, i battibecchi, le polemiche a distanza, il gossip parlamentare no. Bandita la cronaca nera, a meno che non si tratti di fatti davvero eclatanti: terremoti, alluvioni, rapimenti ed attentati eccellenti fanno notizia anche oltreoceano, l’uxoricidio o il colpo in banca no. Una attenzione particolare è dedicata all’informazione regionale: spesso l’italiano all’estero ha mantenuto un legame fortissimo con la sua città o paese, ed è interessato a ricordarne le tradizioni, gli avvenimenti culturali, le bellezze naturali ed artistiche. In generale destano un grande interesse tutte le notizie sull’ “italian way of life” e sul “made in Italy”: design e arte, cucina e moda italiani sono diventati fenomeni di tendenza ed esercitano una potente attrattiva nei confronti delle gio- Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 62 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) vani generazioni di oriundi. Vi sono poi tutte le informazioni specifiche del settore: dalle novità sul voto all’estero alle leggi regionali per l’emigrazione, dai convegni alle mostre sul tema, un fronte di notizie molto più vasto di quanto non si possa sospettare sfogliando un qualsiasi giornale italiano “d’Italia”. Importantissimo, infine, il capitolo dello sport: sono molto richieste le notizie ed i commenti sul campionato di serie A, ma anche su quelli minori, per non parlare delle imprese sportive della Ferrari. In linea di massima questo schema è valido anche per i pochissimi quotidiani italiani all’estero, considerando però le differenze dovute alla periodicità della pubblicazione9. Società e informazione: cambiamenti e nuove esigenze «L’italiano non era lettore di carta stampata in patria, ma lo è diventato attraversando il mare», scrisse monsignor Alberto Giovannetti, osservatore permanente della Santa Sede all’Onu dal 1964, autore del saggio su “L’America degli italiani”10. I giornali italiani all’estero hanno innanzi tutto soddisfatto il bisogno degli emigrati di mantener vivo il senso di appartenenza all’Italia, a quel Paese lasciato spesso per necessità, ma mai abbandonato completamente. Senza questi giornali, senza informazione, le comunità all’estero non avrebbero avuto una voce, una identità11. 9 Editoria italiana nel mondo: il ruolo delle agenzie di stampa specializzate, intervento letto da Roberto Secci (Grtv) a nome delle agenzie di emigrazione al quarto Congresso mondiale della Fusie, Catania 25-28 aprile 2005, in “Italia Estera” 3/5/2005, http://www.italiaestera.net/modules. php?name=News&file=print&sid=2061; sito consultato il 20/9/2009. 10 Ibidem. 11 La nostra identità si intitolava l’editoriale di Mario Basti, uscito nel 1977 sul primo numero di “Tribuna Italiana”, settimanale di Buenos Aires. Trent’anni dopo, il figlio del fondatore, Marco Basti, ha riproposto lo stesso titolo per l’editoriale con cui ha celebrato l’anniversario. L’articolo è presente nella rivista on line ”Visioni Latino Americane” del Centro Studi America Latina dell’Università di Trieste http://www2.units.it/~csal/ home/?file=contributo_basti.htm; cfr. anche F. Lazzari, issn 2035-584x «Nel corso della storia - ricorda Bénédicte Deschamps - i periodici in lingua italiana pubblicati fuori della penisola assunsero molteplici ruoli. Paladina del mantenimento della lingua madre, guardiana del legame affettivo che unisce ogni emigrante alle proprie radici, cemento della comunità, portavoce delle rivendicazioni degli italiani e specchio dei loro problemi, spazio di ricostruzione dell’identità etnica, intermediaria tra le autorità italiane e il governo dei Paesi di adozione, promotrice dell’economia comunitaria, tribuna di libera espressione in tempi di oppressione, interprete della realtà locale, educatrice politica, organizzatrice sindacale, traghettatrice tra due sponde culturali, la stampa italiana all’estero svolse, malgrado i suoi limiti e le sue contraddizioni, ognuna di queste funzioni, anche se non necessariamente allo stesso tempo»12. Nell’ultimo dopoguerra, però, vennero rapidamente meno alcune condizioni di fondo che avevano consentito la grande espansione fra Otto e Novecento di un tipo di comunicazione e di collegamento congeniale ai bisogni della maggior parte degli “antichi” emigrati13. Dopo il 1945 si assiste ad un declino quantitativo e qualitativo del fenomeno, nonostante la ripresa delle correnti di espatrio, interrotte per oltre vent’anni dalla chiusura degli sbocchi emigratori e dal divampare del secondo conflitto mondiale. Sulla scena, inoltre, compaiono radio e televisioni e il computer apre alla comunicazione orizzonti insperati. L’Italia d’oggi non è più quella di un tempo. Ed anche la presenza italiana all’estero è cambiata. Quella che è stata una sorta di vergogna nazionale su cui per molto tempo è calato il silenzio, un “ottuso e indecente silenzio” lo definisce Gian Antonio Stella14, o di cui si parlava L’attore sociale tra appartenenza e mobilità. Analisi comparate e proposte socio-educative, Cedam, Padova, 2000. 12 �������������� B. Deschamps, Op. cit., pp. 333-334. 13 E. Franzina, La stampa italiana nel secondo dopoguerra, Asei 001, 2005. http://www.asei.eu/index. php?option=com_content&task=view&id=72&Itemi d=262 ; sito consultato il 6/9/2009. 14 G. A. Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, 2002, Rizzoli, p. 9. «La feccia del pianeta, questo eravamo. Meglio: così eravamo visti», ricorda Stella. «Non potevamo mandare i figli - racconta - alle scuole dei bianchi Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 63 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) malvolentieri, nel giro di tre o quattro generazioni è stata vista in una maniera nuova e positiva. I discendenti di quegli emigrati si sono trasformati pressoché in ogni parte del mondo in cui hanno messo radici, in protagonisti e vengono additati come modelli di integrazione riuscita. Oggi il numero di italiani che lasciano il proprio Paese per trasferirsi all’estero, si è fortemente ridotto, anche se non si è completamente esaurito. Ciò che è mutato, è la qualifica professionale degli emigranti. Negli ultimi quindici/venti anni l’emigrazione italiana ha cambiato aspetto, tanto da rendere non più appropriato il termine “emigrato” per indicare l’italiano che ha scelto (e non è stato costretto) di cercare fortuna fuori dai confini nazionali. Si tratta di persone che hanno sostituito la vecchia valigia di cartone con la ventiquattrore, spinte non dalla necessità di trovare un’occupazione, ma dalle opportunità offerte da un mondo globalizzato. Sono tecnici, ingegneri, medici, artisti, scienziati che guardano al mercato. E che il mercato mondiale cerca anche per l’immagine positiva che i loro predecessori più sfortunati hanno saputo costruire in decenni di lavoro all’estero15 . Tantissimi sono anche i giovani che passano fuori dall’Italia periodi mediamente lunghi per studiare e specializzarsi, maturando così un’esperienza a contatto con due sistemi e due stili di vita diversi. L’emigrazione italiana ha cominciato a non porsi quindi più come un problema. «Fino a poco tempo fa – sottolinea padre Graziano in Louisiana. Ci era vietato l’accesso alle sale d’aspetto di terza classe alla stazione di Basilea. Venivamo martellati da campagne di stampa indecenti contro “questa maledetta razza di assassini”. Cercavamo casa schiacciati dalla fama d’essere “sporchi come maiali”. Dovevamo tenere nascosti i bambini come Anna Frank perché non ci era permesso portarceli dietro. Eravamo emarginati dai preti dei Paesi d’adozione come cattolici primitivi e un po’ pagani. Ci appendevano alle forche nei pubblici linciaggi perché facevamo i crumiri o semplicemente perché eravamo “tutti siciliani”. “Bel paese, brutta gente”. Ce lo siamo tirati dietro per un pezzo, questo modo di dire diffuso in tutta l’Europa e scelto dallo scrittore Claus Gatterer come titolo di un romanzo in cui racconta la diffidenza e l’ostilità dei sud-tirolesi verso gli italiani» (p. 7). 15 R. Romoli Venturi, Italia Nazione Globale. Riflessioni in libertà sull’essere italiani nel XXI secolo, Roma, 2003, p. 58. issn 2035-584x Tassello – esisteva un certo pudore da parte dell’emigrato a pubblicizzare la sua storia ed i suoi mutamenti. La comunicazione di notizie si esauriva all’interno di un preciso sistema parentale, unico legame che sembrava durare nel tempo. Di recente, tuttavia, si registrano segnali di un mutamento di atteggiamento. Persone, considerate portatrici di “problemi” e che costituivano un “problema” per l’Italia e per le autorità consolari e nei cui confronti venivano proposti dei sussidi, sono state improvvisamente valutate come una grande risorsa economica e politica a disposizione dell’Italia, una media potenza che intende giocare, anche attraverso i suoi “figli all’estero”, un ruolo più aggressivo in campo internazionale»16. Di fronte ai mutamenti che hanno attraversato l’Italia e il mondo dell’emigrazione italiana, diventa inevitabile anche per i media italiani all’estero un cambiamento di ruolo. È convinzione diffusa che essi potranno continuare a essere importanti strumenti della comunicazione a condizione che sappiano rinnovarsi. A condizione che sappiano farsi interpreti, in un mondo come quello attuale che tende sempre più all’omogeneizzazione, di un’alternativa culturale e sappiano porsi come strumento di sviluppo economico. Questo nuovo ruolo, però, va costruito. Partendo da alcuni dati di fatto, purtroppo di per sé negativi: innanzi tutto, la scarsa conoscenza in Italia del fenomeno, che porta molto spesso a liquidare l’informazione italiana all’estero come un prodotto destinato ad una cerchia talmente ristretta di utenti da non meritare attenzione; in secondo luogo, la scarsa consapevolezza da parte dei giornalisti italiani all’estero di poter ricoprire quel ruolo, dal momento che manca molto spesso un’adeguata qualificazione e men che meno una qualche forma di riconoscimento professionale17. 16 G. G. Tassello, Il diritto ad essere conosciuti, il dovere di conoscere, in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata. Italiani all’estero e informazione nel Friuli-Venezia Giulia, Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, 2000, fuori commercio, p. 102. 17 L. Capuzzo, Introduzione al convegno “Italia-Brasile. Informazione in viaggio - Primo congresso dei giornalisti italiani, italo-brasiliani e brasiliani”, San Paolo, 1718 giugno 2003. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 64 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Già nel 1996, nel corso della Conferenza mondiale per una politica dell’informazione italiana all’estero, l’allora presidente del CNEL, Giuseppe De Rita, invitava a «ragionare in termini di offerta di un tipo di informazione che non sia soltanto delegata a coloro i quali confermano la dimensione etnica regionale o patriotticonazionale. Altrimenti l’informazione italiana all’estero – avvertiva – sarebbe destinata al residuo, a morire poco a poco, con la derubricazione del suo messaggio all’italianità stereotipata»18. Le premesse per un’inversione di tendenza, in altre parole, stanno maturando, legate in primo luogo al cambiamento di ottica con cui si guarda, o, meglio, si dovrebbe guardare agli italiani nel mondo: non più un fenomeno patetico, segno dell’inadeguatezza di una società a rispondere ai bisogni dei suoi cittadini, ma una risorsa, «il nostro maggior strumento di internazionalizzazione ed il nostro maggior fattore di potenza internazionale», come scriveva lo stesso De Rita in un memorabile articolo apparso sul “Corriere della Sera”19. Di conseguenza, al compito unanimamente riconosciuto ai media italiani all’estero, di mantenere informata l’”altra Italia” su quanto accade nella Penisola, se ne aggiungono altri. Per esempio, dopo l’approvazione da parte del Parlamento italiano della legge n. 459 del 27 dicembre 2001 che riconosce il diritto di voto ai cittadini italiani residenti all’estero, il problema dell’informazione in occasione di consultazioni elettorali è divenuto di grande attualità. «L’elezione di 18 rappresentanti diretti delle nostre collettività nel Parlamento italiano - rilevava Bruno Zoratto, che fino al 2004, anno della sua prematura scomparsa, è stato presidente della Commissione Informazione del Consiglio generale degli italiani all’estero - oltre a porre fine ad una assurda discriminazione, inserisce a pieno titolo nel “sistema Italia” milioni di cittadini italiani che risiedono all’estero, finora abbandonati e misconosciuti. Questo fatto destabilizzante, oltre a squinternare le logiche antiche e perverse, permette18 Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, La comunicazione interculturale cit., parte seconda, p. 9. 19 G. De Rita, La grande carta degli emigranti, in “Il Corriere della Sera”, 10 novembre 1993. issn 2035-584x rà obbligatoriamente un approccio nuovo al problema della informazione e della comunicazione degli italiani nel mondo. Se prima era un optional, ora vi è un obbligo istituzionale di informare adeguatamente le nostre collettività. La legge ordinaria sull’esercizio del voto all’estero, tra l’altro, contempla non a caso dei riferimenti obbligatori alla informazione e alla comunicazione delle nostre comunità20». Per gli italiani nel mondo c’è dunque in questo momento un’emergenza comunicazione, che implica da un lato una rivisitazione della stampa di settore e un potenziamento delle radio e tv “etniche” e, dall’altro, una loro collaborazione per favorire la conoscenza, in Italia, della presenza italiana nel mondo. Per raggiungere lo scopo, servono interventi mirati, a cominciare da un progetto politico organico in questo senso21 e da una revisione della normativa statale riguardante l’assegnazione dei contributi22. 20 B. Zoratto, Relazione alla Conferenza Stato-RegioniProvince autonome-Cgie, Roma, 11-12 febbraio 2002, http://www.italiamiga.com.br/noticias/artigos/relazione_di_bruno_zoratto_alla_.htm; sito consultato il 14/9/2009. 21 «L’Italia non dimentichi l’”altra Italia”», invoca padre Luciano Segafreddo, direttore del “Messaggero di Sant’Antonio”, nel suo editoriale sul numero di ottobre 2009, anticipato dalle agenzie (http://www.mclink. it/com/inform/art/09n17220.htm; sito consultato il 22/9/2009). Secondo Segafreddo, «si attende un progetto politico in grado di assicurare risorse e porre nuovi obiettivi al ruolo delle sedi consolari, degli istituti di cultura e di altre realtà come i patronati, le associazioni e gli organi di informazione. Realtà che possono concorrere al recupero del senso di “cittadinanza attiva” dei nostri connazionali e del senso di appartenenza affettiva e culturale degli oriundi e di tanti italofili. Un progetto politico che darebbe credibilità alle istituzioni governative e parlamentari italiane e una risposta alle attese dei nostri connazionali e dei loro discendenti». 22 L’argomento è stato affrontato dal presidente della FUSIE, Domenico De Sossi, nell’audizione dell’1 luglio 2009 davanti al Comitato per le questioni degli italiani all’estero del Senato. Dopo aver ribadito l’importanza di una «uniformità di trattamento normativo tra stampa nazionale e quella edita all’estero», De Sossi ha sostenuto che «oggi più che mai serve un intervento normativo di riassetto della disciplina della stampa italiana all’estero, poiché essa attualmente riguarda solamente la carta stampata e non i nuovi media, assegna fondi di entità insufficiente [circa 2 milioni di euro l’anno, N.d.A.] e presenta lacune che ne rendono talvolta incerti i margini ap- Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 65 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Nel corso del convegno sull’informazione svoltosi a Roma nel dicembre 2000, nell’am bito della Prima Conferenza degli italiani nel mondo, si erano studiati i modi per dar luogo a nuove forme di comunicazione con i connazionali d’oltreconfine, visti come una risorsa per l’informazione. Nella relazione introduttiva che io stessa avevo presentato, invitavo a riflettere sulla «necessità di chi opera nel campo dell’informazione italiana, di sprovincializzarsi, di aprirsi al confronto con culture e stili professionali diversi, di inserirsi nei processi di globalizzazione. Per contro, si consideri - continuavo - la “fame” di notizie sull’Italia che caratterizza non solo le nostre comunità all’estero, ma anche, per determinati settori, il più vasto pubblico straniero. Riuscire ad avviare iniziative attraverso le quali far entrare nei giornali italiani la realtà dei nostri connazionali all’estero e arricchire le testate straniere di informazioni sull’Italia - concludevo - significa proiettare il discorso in una dimensione mondiale, con positive ricadute sul sistema Italia nel suo complesso, e allargare le prospettive professionali sia per i giornalisti italiani che per quelli italiani all’estero»23. Da queste considerazioni deriva l’urgenza di mettere in atto una strategia informativa che poggi su quattro linee di forza, l’una intimamente connessa con l’altra. Tali linee consistono nel ricorso ad un forte impiego della tecnologia, nell’avvio di flussi informativi “di ritorno”, soprattutto a livello regionale, nella grande attenzione da riservare per l’informazione di carattere economico e nel contributo delle giovani generazioni. L’uso della tecnologia Un prodotto dei tempi moderni in fulmiplicativi». V. http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/ frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=16&id e http:// www.italiachiamaitalia.net/print.php?a=16399; siti consultati il 22/9/2009. I finanziamenti alla stampa italiana all’estero sono regolati sulla base della legge 416 del 1981 sull’editoria e successive modificazioni. 23 Ministero degli Affari Esteri, Prima Conferenza degli italiani nel mondo, Atti del Convegno Italiani nel mondo: una risorsa per l’informazione, Roma 13 dicembre 2000, intervento di L. Capuzzo, Roma, 2001, p. 32. issn 2035-584x nea evoluzione, di cui, senz’altro, va incentivato l’uso, è la tecnologia. Da quando, nel 1993, Internet è esploso24, il mondo della Rete è diventato a tutti gli effetti parte integrante della comunicazione, un importantissimo vettore di diffusione di notizie, destinato ad avere un impatto eguale o superiore a quelli del telegrafo e del telefono. Per gli italiani all’estero, in particolare, la presenza e le potenzialità di questo nuovo strumento hanno significato un balzo in avanti considerevole e inaspettato sia dei rapporti tra le comunità dei diversi Paesi che delle loro relazioni con l’Italia. Annullando le dimensioni di tempo e spazio, le nuove tecnologie hanno introdotto una grande novità rispetto al passato, rendendo più facile il dialogo, lo scambio di informazioni a distanza. Per gli italiani nel mondo, di colpo sono cadute quelle barriere spazio-temporali e quei condizionamenti che per decenni avevano ostacolato la comunicazione, e si sono dischiuse opportunità insperate. 24 La prima pubblicazione in cui si teorizza una rete di computer mondiale ad accesso pubblico è On-line man computer communication dell’agosto 1962, pubblicazione scientifica degli statunitensi Joseph C.R. Licklider e Welden E. Clark. Nella pubblicazione Licklider e Clark, ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, danno anche un nome alla rete da loro teorizzata: “Intergalactic Computer Network”. Ma prima che tutto ciò diventi una realtà è necessario attendere fino al 1991 quando il governo degli Stati Uniti d’America emana la High performance computing act, la legge con cui per la prima volta viene prevista la possibilità di ampliare, ad opera dell’iniziativa privata e con finalità di sfruttamento commerciale, una Internet fino a quel momento rete di computer mondiale di proprietà statale e destinata al mondo scientifico. Sfruttamento commerciale che subito viene messo in atto anche dagli altri Paesi. Nel 1993 il CERN, l’istituzione europea dove nasce il World Wide Web, decide di rendere pubblica la tecnologia alla base del World Wide Web in modo che sia liberamente implementabile da chiunque. A questa decisione fa seguito un immediato e ampio successo del World Wide Web in ragione delle funzionalità offerte, della sua efficienza e, non ultima, della sua facilità di utilizzo. Da tale successo ha inizio la crescita esponenziale di Internet che in pochissimi anni porterà la rete delle reti a cambiare per sempre la società umana rivoluzionando il modo di relazionarsi delle persone come quello di lavorare tanto che nel 1998 si arriverà a parlare di “nuova economia”. Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Internet; sito consultato il 20/9/2009. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 66 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Vari e per tanti versi ancora inesplorati sono i modi in cui Internet e, più in generale, l’Information and communication technology (Ict) sta modificando la comunicazione e gli stili di vita, di chi sta in Italia o in qualsiasi altra parte del mondo, indifferentemente. E’ in corso quella che Giovanni Giovannini ha definito la “Grande Mutazione”25, paragonabile a pochi altri eventi nella storia dell’umanità: alla nascita della scrittura (per rimanere nel campo della comunicazione) cinquemila anni addietro, o all’invenzione gutenberghiana della stampa a caratteri mobili della metà del Quattrocento. Il travolgente, continuo incalzare dell’innovazione nell’information technology permette sempre di più ad ogni essere umano di essere vicino nei tempi e nei modi ad un altro essere umano, a dispetto della lontananza fisica che li separa, facendo sempre più diventare tutti cittadini nel villaggio globale: Weltburger, cittadini del mondo. Non è di poco conto che oggi, grazie alle nuove tecnologie, una persona che si trasferisce all’estero, non subisca più un black out forzato di notizie in tempo reale dalla sua comunità d’origine. In questi ultimi anni, infatti, i giornali raggiungibili su Internet hanno un rapporto diretto con gli italiani residenti all’estero, che partecipano in pieno alla Grande Mutazione e possono addirittura leggere un quotidiano prima dei compatrioti, se si calcolano le differenze di fuso orario fra un continente e l’altro. E’ un settore, questo delle news on line, che in Italia è in forte sviluppo e vede impegnati tutti i grandi gruppi editoriali. Con il passar del tempo, sono sorte molte webzine, pubblicazioni solo on line dedicate specificatamente al mondo dell’emigrazione e quindi spesso consultabili sia in italiano che nella lingua del Paese in cui vengono create. Anche la televisione, la radio, le agenzie di stampa si sono trasferite sul Web, coltivando nuove nicchie di mercato e contribuendo a sviluppare una nuova architettura di rapporti fra le diverse comunità sparse per il mondo, ma legate da radici e cultura simili. Sono così nate web-radio, web-tv, newsletter, portali, blog, 25 G. Giovannini, La “mutazione” tecnologica, in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata cit., pp. 72-75. issn 2035-584x tutti prodotti in costante crescita, anche se, al di là delle visioni più ottimistiche, rimane comunque opinione comune il fatto che i portali ed i canali d’informazione italiani che guardano all’Italia al di fuori dei confini nazionali, abbiano ancora molta strada da fare prima di riuscir a promuovere, con costanza ed impegno, il nuovo volto dell’emigrazione italiana all’estero. A ciò vanno aggiunte le modalità di comunicazione informatizzata utilizzate dalle istituzioni italiane, come il Ministero degli Esteri, che ha creato “In rete con l’Italia”, una newsletter rivolta agli italiani all’estero, il Ministero dell’Interno, che riporta i dati delle Anagrafi degli italiani residenti all’estero (Aire), la Rete internazionale della pubblica amministrazione, promossa dal Ministero per l’Innovazione e le tecnologie e dal Ministero degli Esteri per estendere agli uffici esteri il Sistema pubblico di connettività, la Rete delle Camere di commercio italiane all’estero. I cambiamenti innescati dallo sviluppo dell’Ict, però, sembra non coinvolgano solo l’area della produzione, ma stiano toccando in maniera profonda - come osserva Maddalena Tirabassi26 - sia l’agenda degli studi sull’emigrazione italiana, sia gli esiti del fenomeno migratorio. A proposito della ricerca, il Web fornisce un facile accesso alle fonti mondiali, dalle più tradizionali a quelle più innovative, elemento essenziale per una storia interdisciplinare e intrinsecamente transnazionale come quella dell’emigrazione. Favorisce e accelera il dialogo tra gli studiosi, consentendo un aggiornamento continuo sui progressi della ricerca nel settore su scala mondiale. Il Web è anche riuscito a dare visibilità agli italiani che attraverso i secoli si sono dispersi nel mondo. Sul Web gli italiani emigrati si contano, si vedono attraverso le fotografie, i percorsi museali, i film, si ascoltano nei siti di dibattito e attraverso la musica. Ma al di là di tutti questi aspetti abbastanza 26 Nel saggio Gli italiani sul Web, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, Arrivi, cit., pp. 717-738, M. Tirabassi presenta i primi risultati di una interessante ricerca avviata nel 1996 dalla Fondazione Giovanni Agnelli sui siti utili per lo studio dell’emigrazione italiana. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 67 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) ovvii, ciò che colpisce è l’influenza che le nuove opportunità create dall’Ict esercitano sulla presa di coscienza etnica. In un’epoca di identità deterritorializzate, sempre meno legate a luoghi fisici, l’identità della diaspora italiana muta e si rafforza attraverso le nuove opportunità, offerte dal Web, di stabilire contatti rapidi e diretti e con il Paese d’origine e con gli altri membri della diaspora. In altre parole, Internet non è semplicemente una forma di accesso a informazioni su un soggetto dato, ma è una forza che concorre a ridefinire in profondità il soggetto stesso. Come conferma Robin Cohen, uno dei principali studiosi dei fenomeni delle diaspore, «in epoca di globalizzazione i moderni mezzi di trasporto, comunicazione e di trasmissione culturale fanno sì che il mantenimento di lingua […] legami familiari e di rapporti commerciali e politici tra comunità sparse in Paesi diversi sia facile come non è mai stato»27. Ancorché l’affermazione di Cohen sia riferita alle diaspore in generale, essa si adatta particolarmente bene all’esperienza degli italiani nel mondo. Gli italiani che non avevano mai completamente interrotto i legami con le comunità d’origine, oggi sembrano avvalersi appieno delle nuove risorse. Hanno inoltre colto l’opportunità di estendere quei legami attraverso nuove reti: i forum di discussione che consentono il dialogo con i membri della diaspora italiana nel mondo, bypassando anche il Paese d’origine, mentre è ancora tutta da verificare la loro presenza sulle piattaforme di social network28, recentissima ma probabilmente non ultima innovazione tecnologica dove si intrecciano sentimenti di appartenenza e scambi di dati, suscitando nuovi tipi di emozioni, nuovi generi di rapporti. Dimensione regionale e informazione “di ritorno” Un secondo elemento da tener presente, è �������������� R. Cohen, Rethinking «Babylon»: Iconoclastic Conceptions of the Diasporic Experience, in «New Community», XXI, 1995, 1, pp. 5-18. 28 Un’approfondita disamina sul fenomeno dei social network in senso generale, è presente nel numero speciale Social network, cultura come valore della rivista “Media Duemila”, n. 268, settembre 2009. issn 2035-584x il valore della dimensione regionale dell’informazione, non certo intesa in un’accezione folcloristica e nostalgica, ma come condizione per accrescere i flussi informativi verso l’estero, e soprattutto per introdurre nei giornali locali italiani un’informazione regolare, costante, non episodica, circa i corregionali che stanno fuori Italia. L’obiettivo da perseguire è un salto di qualità dell’informazione verso quello che è stato definito, con brutta parola, il glocal, in cui tutto è globale e anche, allo stesso tempo, locale. Un salto di qualità non facile che, nel rispetto delle diversità regionali, porti a reinterpretarle, agganciandole a un contesto più ampio, universale, anziché a ridurle a espressione di un localismo fine a se stesso. La regionalità, in altre parole, è un patrimonio ad alto valore aggiunto, una risorsa culturale decisiva che, attraverso i corregionali all’estero, vive nel mondo e che, collegata all’attualità, deve essere messa in rete con la realtà che sta all’interno dei confini nazionali. In questo quadro si inserisce un’altra constatazione: l’orgogliosa difesa di un’identità regionale di origine, che caratterizza il mondo italiano all’estero e che ben si sposa con la tendenza, emergente in questi ultimi anni in Italia, a valorizzare le peculiarità del territorio, in un’ottica di agire sul locale, ma ragionando sul globale. Qui il discorso si intreccia inevitabilmente con la richiesta, emersa in più occasioni negli ambienti degli italiani all’estero, della cosiddetta “informazione di ritorno”, con ciò intendendo un’informazione sulla vita politica, sociale, culturale ed economica delle collettività italiane all’estero, avente lo scopo, tra gli altri, di far uscire dai luoghi comuni l’immagine che degli italiani all’estero si ha in Italia. Nei vari convegni ed incontri sui temi dell’emigrazione si è parlato spesso di un’informazione di ritorno integrata nella normale programmazione della stampa quotidiana e periodica e della testate radiofoniche e televisive, ritenuta molto utile perché tratta tematiche alle quali l’Italia, Paese di recente immigrazione, si sta affacciando solo ora. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 68 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Finora, però, l’informazione di ritorno è rimasta confinata in Italia a oggetto di dibattito, «vissuta - diceva Niccolò D’Aquino29 - come qualcosa a metà tra l’oggetto misterioso e, nel migliore dei casi, l’oggetto dei desideri»: sui quotidiani ci sono pochissimi articoli dedicati agli italiani nel mondo, in radio ed in tv si sente raramente parlare di loro30. Al momento attuale gli italiani all’estero che sembrano interessare i connazionali in patria o, quantomeno, i media italiani, sono soltanto quelli che hanno avuto successo. L’unica e rara informazione di ritorno, che qualche volta compare sui mezzi di informazione italiani, è quella che racconta le vicende, di solito travagliate, di connazionali che ad un certo punto, in virtù dei loro sacrifici e delle loro capacità, sono riusciti ad affermarsi e di ciò vanno giustamente orgogliosi. Ma c’è anche un’altra presenza italiana all’estero, molto più articolata e complessa, che dovrebbe venir conosciuta ed invece non trova spazio nei circuiti dell’informazione italiana, perché molto spesso ci si trincera dietro la considerazione che gli italiani all’estero non fanno notizia, a meno che non si rendano protagonisti di episodi di cronaca nera, ed allora non vale neanche la pena di perdere tempo su tale tematica.31. 29 N. D’Aquino, Informazione di ritorno tra business e regionalità, intervento al convegno “Informazione e business, strumenti per valorizzare l’identità di origine nella nuova Europa: il caso Italia-Germania”, Francoforte sul Meno, 6 giugno 2002. 30 Un caso a sé è stato quello del sen. Luigi Pallaro, eletto in Sud America come indipendente nella tornata elettorale del 9 e 10 aprile 2006 e diventato l’ago della bilancia al Senato per garantire al centrosinistra di Romano Prodi la possibilità di governare. L’episodio che ha visto protagonista il senatore italo-argentino, per quanto inserito in un evento storico come la prima votazione per corrispondenza degli italiani all’estero, è stato trattato dalla stampa italiana esclusivamente per la sua valenza politica, non sembra aver avuto un effetto di trascinamento, non sembra cioè aver determinato nel mondo dell’informazione italiana un’apertura di interesse verso tematiche sempre trascurate, come gli italiani all’estero e l’America Latina. Una volta conclusa quella vicenda, tutto è rientrato nei soliti binari. 31 L. Capuzzo, Linee guida per un’efficace informazione da e per i corregionali nel mondo, intervento nell’ambito di “Friuli-Venezia Giulia nel mondo”, Trieste, 24 novembre 2003. issn 2035-584x Il Consiglio generale degli italiani all’estero e la FUSIE hanno più volte posto l’accento su questa situazione, sollecitando le istituzioni, il Parlamento, il Governo, le Regioni a porsi realisticamente di fronte al problema della informazione e della comunicazione in modo moderno ed adeguato, «superando il concetto unidirezionale dell’informazione tendente a favorire esclusivamente chi si informa di quello che succede in Italia, puntando anche ad una informazione di carattere bidirezionale, se non addirittura, come qualche addetto ai lavori ha dichiarato, grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie, circolare»32. E’ assolutamente necessario rendere appetibile al mondo dei media italiani il “sistema emigrazione”, non guardando al passato ma seguendo l’evoluzione in corso, non cavalcando la nostalgia ma aprendo gli occhi sul nuovo che avanza e che molte volte, in questo campo, può offrire spunti anche per capire altri fenomeni contemporanei, come quello dell’immigrazione, e costringendo così la società italiana ad un esercizio complesso, ma civilmente utile, qual è quello dell’educazione alla multiculturalità, al rispetto delle singole identità culturali e linguistiche. Un tentativo per comprendere meglio i contorni del fenomeno, ivi compresa l’eventuale spendibilità di un’informazione di ritorno, è stato fatto nel 1997 dall’Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia, che ha commissionato alla SWG un sondaggio su un campione di 58 giornalisti pubblicisti e professionisti e 500 residenti in Regione33. Lo studio ha messo in rilievo come lo spazio attuale nell’informazione regionale occupato dal tema “italiani all’estero” sia piuttosto modesto. Inoltre non sembra che le comunità di emigrati del Friuli Venezia Giulia suscitino particolare interesse tra i residenti in Regione. I mezzi di comunicazione regionale - secon32 B. Zoratto, Relazione alla Conferenza Stato-RegioniProvince autonome-Cgie, Roma, 11 e 12 febbraio 2002, http://www.italiamiga.com.br/noticias/artigos/relazione_di_bruno_zoratto_alla_.htm; sito consultato il 14/9/2009. 33 I risultati del sondaggio sono stati pubblicati in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata cit., pp. 19-44. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 69 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) do gli esiti del sondaggio - danno largo spazio a notizie riguardanti gli incontri con delegazioni regionali o all’attività delle associazioni degli emigrati. Poca attenzione viene dedicata alle persone e alle informazioni di carattere economico. In particolare i laureati mostrano di gradire l’informazione economica, i più giovani e le donne articoli sulle persone, i più vecchi ed i soggetti caratterizzati da un basso profilo scolare, le notizie che descrivono incontri pubblici-istituzionali. «Molte cose quindi allontanano – osservano i responsabili del sondaggio – le due sponde del mare. Ma ci sono anche degli elementi che possono unire: gli spostamenti rapidi, le maggiori disponibilità economiche, la progressiva mondializzazione dell’economia, la tecnologia delle comunicazioni. Ovviamente tra gli intervistati questo tipo di consapevolezza è ben presente, forse però non rappresenta ancora una spinta per poter agire sul percorso che dal “ricordo/nostalgia” porti verso una dimensione nuova del fenomeno, la dimensione delle potenzialità (economiche e culturali) che il mondo della “vecchia” emigrazione può recare con sé. Certamente questo passaggio non è semplice, non è semplice perché richiede – in qualche misura – un contenimento delle emozioni ed un incremento della razionalità. E’ certamente un possibile incontro diverso, forse con una diversa profondità, ma probabilmente è un incontro che guarda verso il futuro del passato fenomeno migratorio». Promozione del “sistema Italia” Un terzo aspetto va analizzato se si vuole immaginare un nuovo modello di sviluppo dell’informazione italiana all’estero. Ed è quello dell’interesse da rivolgere alla comunicazione di carattere economico e alla promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo. È presumibile che «la conoscenza delle imprese, delle attività produttive in un numero svariatissimo di campi, delle aziende, delle risorse culturali che sono controllate dai nostri connazionali, e reciprocamente, la conoscenza da parte degli stessi della potenzialità produttiva delle Regioni - sottolineava Gui- issn 2035-584x do Barbina, docente dell’Università di Udine - possono diventare un motivo di ulteriore progresso economico e creare flussi di scambio del tutto nuovi e impensati»34. La promozione dell’immagine italiana nel mondo, a livello sia culturale che economico, è un elemento da tenere in forte considerazione quando si parla di potenziamento della rete comunicativa con le comunità di italiani che vivono all’estero. L’italian style, dalla moda alla cucina, dall’arte al design, oggi fa tendenza; l’italian style, però, «non è solo un’espressione di italianità o un fenomeno commerciale, è un modello di vita» 35 e come tale va valorizzato, attraverso un miglioramento del sistema informativo a tutti i livelli. Le comunità italiane all’estero sono una risorsa essenziale per diffondere il made in Italy, amato ed apprezzato in tutto il mondo. È arrivato il momento, come sostengono anche Giovanna Chiarilli e Antonella Pontuti36, di esprimere la presenza internazionale dell’Italia in maniera più attiva, rendendo partecipi nel processo di affermazione anche le comunità all’estero. E il mondo dell’informazione, in questo senso, ha un preciso ruolo per uscire dall’immobilismo. Una comunicazioneinformazione per l’estero e all’estero, significa anche promozione della lingua, della cultura, del prodotto turistico, gastronomico: le grandi potenzialità del Paese, a cominciare dall’arte, la moda, il successo delle piccole e medie imprese, rendono molto fertile questa “missione”. Attualmente in Italia, quando si parla del made in Italy, la maggior parte delle persone fa riferimento ad Armani, Gucci e Prada, alla Fiat, alla Ferrari, ecc. In realtà, al di là dei grandi marchi a tutti noti, esistono tantissimi italiani ed oriundi che con grande volontà e capacità, nel corso dei decenni, hanno saputo imporre lo stile italiano, dal cuoco all’imprenditore, dal dirigente aziendale all’operatore 34 G. Barbina, Gli scambi informativi come premessa alla penetrazione economica, in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata cit., p. 99. 35 R. Romoli Venturi, Italia Nazione Globale cit., p. 49. 36 G. Chiarilli e A. Pontuti, intervento al convegno “Comunicazione ed emigrazione”, Padova, 11 novembre 2000, in Grtv del 17/1/2001. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 70 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) dell’industria turistica. In un mondo globalizzato è necessario definire una politica che abbia l’obiettivo della piena valorizzazione del patrimonio economico rappresentato dagli italiani nel mondo e che parallelamente possa offrire alle nostre comunità ed in particolare ai giovani, come ha affermato il presidente del CNEL, Pietro Larizza37, «un riferimento solido, organizzato e duraturo nel tempo, sulla cultura, sull’informazione, sull’assistenza e, quando necessario, sulla formazione, per progredire negli stessi Paesi di accoglienza». L’informazione italiana all’estero, quindi, se adeguatamente coinvolta, potrebbe garantire un ottimo ritorno di immagine, e perché no, economico se si parla di turismo, senza trascurare il prodotto gastronomico, il patrimonio culturale e quant’altro l’Italia è in grado di offrire, sia alle comunità italiane, sia autoctone. Basti solo pensare che la lingua italiana è al diciannovesimo posto tra le lingue più parlate al mondo, ma nonostante ciò, si colloca al quinto posto per il numero di studenti che aspirano ad apprenderla. La domanda di apprendimento è inoltre in costante crescita in ragione di vari fattori: da quelli, più tradizionali, collegati allo studio delle discipline artistiche o musicali, a quelli, più recenti, derivanti dallo sviluppo dei rapporti economici con i Paesi esteri, dall’incremento dei flussi turistici e dei servizi ad essi collegati, sino alle opportunità di lavoro in Italia o con l’Italia. Da “lingua della memoria e della cultura” l’italiano si sta diffondendo, in talune aree, anche come “lingua degli affari e del lavoro”. Giovani protagonisti del futuro Quarto elemento cui rivolgere attenzione, sono le tendenze, le scelte delle giovani generazioni che guardano all’Italia con occhi diversi dai padri o dai nonni, più disincantati e tendenti a porre a confronto le novità e le risorse che hanno a disposizione nella Nazione di accoglienza con l’immagine ormai superata dell’Italia perpetuata dal microuniverso fami37 P. Larizza, intervento alla Prima Conferenza degli italiani nel mondo, cd-rom ADN-Kronos Libri. issn 2035-584x liare. Sono giovani nati e cresciuti spesso in società multiculturali, che si interrogano sulle proprie origini e parlano il linguaggio di Internet e della nuova economia. I giovani italiani nel mondo38 sono una risorsa importantissima alla quale l’Italia può legare la proiezione della sua immagine nel mondo; sono una nuova potenzialità di valori culturali, sociali ed economici. «Vi è una necessità (…) di guardare al futuro e di costruire ponti con le nuove generazioni - avvertono Franco Narducci e Graziano Tassello nella Prefazione ad un’indagine sui giovani svolta dall’Iref per conto del Ministero degli Affari esteri39 - per preservare il patrimonio secolare di valori solidali e culturali costruito faticosamente dai nostri connazionali in oltre un secolo di emigrazione di massa. Non basta riscoprire la memoria e codificarla per salvaguardare il legame che attraverso i decenni ha unito la diaspora con l’Italia, bisogna osare il futuro. (…) Soltanto rinvigorendo la loro identità, i giovani potranno confrontarsi in modo corretto con i valori dell’italianità, evitando il pericolo della massificazione e della invisibilità». Si fa un gran parlare di italianità e di italiani all’estero come risorsa. Spesso però gli studiosi - continuano Narducci e Tassello40 - riservano questi dibattiti alle prime generazioni. Le seconde e successive generazioni sembrano un corpo estraneo, quando invece ogni autentica strategia deve coinvolgere i 38 Tra gli italiani all’estero, i giovani, compresi in una fascia d’età dai 18 ai 35 anni, sono 929.249, pari al 24% della collettività, con preponderanza in Europa e Nord Africa (53,9%), poi in America Latina (33,1%) e nei Paesi anglofoni (10,1%). V. http://www.esteri.it/MAE/IT/App rofondimenti/2008/11/20081128_ConferenzaGiovani; sito consultato il 29/11/2008. 39 F. Narducci e G. G. Tassello, Prefazione, in C. Caltabiano e G. Gianturco (a cura di), Giovani oltre confine. I discendenti e gli epigoni dell’emigrazione italiana nel mondo, Carocci editore, 2005, p. 12. Narducci e Tassello firmano la Prefazione in qualità rispettivamente di segretario del Consiglio generale degli italiani all’estero e di presidente del Comitato scientifico. 40 Ibidem, p. 13. Di giovani “protagonisti del rilancio delle politiche migratorie” parla anche la coordinatrice organizzativa della Uim nazionale, Laura Garavini, nel numero di settembre 2007 del “Messaggero di Sant’Antonio” (v. NIP 25/7/2007). Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 71 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) giovani come protagonisti nella ricerca di piste nuove. Non si tratta più di un ricordo nostalgico, ma di recepire l’evoluzione in atto e scoprire i protagonisti del futuro. Protagonisti del futuro che chiedono di comunicare tramite i mass-media, «per esempio i giornali - suggerisce Francesco Robles - che devono essere di alta qualità e devono raggiungere tutti i giovani e tutti quanti siano interessati alla cultura italiana. Inoltre, stazioni radiofoniche e trasmissioni televisive, quali potrebbero essere quelle di Rai International - aggiunge - devono permettere l’accesso all’informazione, alla formazione, alla lingua e alla cultura della moderna Italia, ormai tanto dissimile da quella dei nostri genitori o nonni (…). I giovani hanno bisogno di essere informati sulla possibilità di eventuali viaggi in Italia, ovunque in Italia, non solo Regione per Regione (…). C’è infine bisogno di aumentare gli scambi culturali e programmi di studio soprattutto a livello di scuola secondaria, a livello universitario e post-universitario»41. Analoghe istanze emergono dal Documento approvato dalla Conferenza mondiale dei giovani italiani nel mondo, svoltasi dal 10 al 12 dicembre 2008 a Roma. L’Informazione è il primo dei temi di interesse prioritario proposti dai giovani italiani nel mondo alle assise42. Nel testo si evidenzia una forte richiesta di informazione «a tutti i livelli ed in tutti gli ambiti perché senza informazione non vi è possibilità di un recupero della memoria, della sedimentazione della memoria e del rafforzamento dell’identità italiana in un contesto globale in cui l’interculturalità sussiste come dato di fatto imprescindibile e di cui occor41 F. Robles, Atti del convegno “Le nuove generazioni: tendenze, aspettative, richiami, opportunità”, Campobasso, 9-10 dicembre 2000, cd-rom ADN-Kronos Libri. 42 Gli altri sono Identità, Interculturalità, Interscambio, Formazione professionale e mondo del lavoro. I cinque punti di discussione si ritrovano nella totalità dei documenti risultati dalle riunioni, incontri e consulte che alcune Regioni hanno sperimentato per i propri giovani nel mondo e nei documenti scaturiti dai giovani partecipanti alle riunioni continentali che hanno preceduto la Conferenza. Cfr. Consiglio generale degli italiani all’estero – Ministero degli Affari Esteri, Documento propositivo in vista della Conferenza mondiale dei giovani italiani nel mondo, Roma 10-12 dicembre 2008, p. 2. issn 2035-584x re tenere il massimo conto. Di qui l’esigenza - secondo i giovani italiani di tutto il mondo che hanno partecipato alle riunioni preparatorie dell’evento - di un interscambio fra le comunità e l’Italia, dal quale non può essere disgiunto il momento formativo. In particolare, la formazione professionale è uno dei punti salienti – recita il Documento – che emergono dal dibattito dei nostri giovani all’estero, come momento di arricchimento per una migliore affermazione nel mondo del lavoro». Nel Documento si chiede il riconoscimento dei titoli di studio fra i vari Paesi «come condizione necessaria per l’agevolazione alla mobilità professionale e scolastica oramai indispensabile nella nostra società globalizzata» e di «facilitare la formazione professionale e post laurea con possibilità di stage e workshop ai vari livelli»43. Se si trasferisce il discorso della formazione professionale al campo della comunicazione, si aprono prospettive interessanti al fine di delineare un nuovo ruolo per l’informazione italiana nel mondo. È evidente che il processo di rinnovamento di una prassi consolidata parte nel momento in cui si ha coscienza del problema e se ne intravvedono le soluzioni. Ecco, una delle soluzioni - e forse quella più determinante, a mio parere, per gli sviluppi futuri - è la formazione di una nuova generazione di operatori della comunicazione, sia in Italia che all’estero, più consapevoli, da un lato, del potenziale rappresentato dagli italiani nel mondo, e più preparati professionalmente, dall’altro, a reggere le sfide del futuro. Nella società contemporanea, la nuova generazione di giornalisti italiani ha una forte necessità di entrare in contatto con le diverse realtà straniere e di capire cosa rappresenta la presenza italiana nel mondo, allargando le proprie conoscenze ed i propri orizzonti professionali. Viceversa i giornalisti italiani che vivono all’estero, necessitano di avvicinarsi maggiormente alla realtà italiana e, così facendo, possono anche capire quali sono le notizie da produrre in loco per suscitare un vivo interesse non solo nella comunità italiana del Paese in cui risiedono, ma anche nell’Italia stessa. Un’adeguata formazione professionale dei 43 Ibidem, p. 5. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 72 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) giornalisti italiani e dei loro colleghi che vivono all’estero, gioca insomma un ruolo importantissimo nel miglioramento dell’attuale informazione sia “di andata” che “di ritorno”. Formare gli operatori dell’informazione nell’ottica di un nuovo rapporto con gli italiani nel mondo significa creare consapevolezza, negli italiani d’Italia e negli italiani all’estero, dei nuovi scenari e disporre di professionisti da un lato (quelli in Italia) sensibili alle tematiche internazionali ed in grado di valorizzare la presenza italiana nel mondo, e dall’altro (quelli all’estero) capaci di trasformarsi in canali di accesso privilegiato alla realtà dei Paesi d’accoglienza. «Perché il consenso intorno all’esigenza di diffondere l’informazione sul fenomeno migratorio non sia scontato, o velleitario, o di adesione superficiale - osserva Ulderico Bernardi - la prima necessità è quella di formare gli opinion-maker da destinare a questo specifico servizio»44. Non sfugge, in questo contesto, la responsabilità delle Università e delle Scuole di giornalismo nel saper cogliere questi segnali e favorire una partecipazione attiva dei giovani ai processi comunicativi che intercorrono tra gli italiani che vivono in Italia e la comunità dei connazionali all’estero. Nell’ambito della formazione giornalistica, i giovani studenti di Scienze della Comunicazione e delle Scuole di giornalismo diventano così un’importante risorsa da tenere in considerazione per l’organizzazione di corsi, Master, Summer school, stage, tirocini formativi, interscambi, che prevedano l’inserimento di giovani aspiranti comunicatori italiani in alcune testate italiane all’estero e, viceversa, di giovani aspiranti giornalisti italiani all’estero nelle strutture italiane, dove potrebbero trovare anche occasioni di approfondimento della lingua del luogo e di migliore conoscenza del territorio. Per fare ciò occorrono borse di studio, agevolazioni ed accordi bilaterali, che aiutino i giovani ad introdursi nelle realtà straniere45. 44 U. Bernardi, La condizione migrante e l’educazione alla interculturalità, in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata cit., pp. 111-113. 45 Un esperimento pilota di successo in questo senso venne condotto in due edizioni successive, nel 1998 e nel 1999, dall’Ordine regionale dei giornalisti del Friuli issn 2035-584x Le università del Nord-Est ed in particolare l’Università di Trieste, per la storia della città, la sua posizione geografica, il passato di emigrazione vissuto, comprensivo anche delle tragedie dell’esodo istriano46, per la sua vocazione naturale all’internazionalizzazione delle conoscenze, derivata anche dalla presenza di una folta comunità di scienziati e ricercatori stranieri, si configura come luogo ideale per interventi di questo tipo. Interventi che non sono certo facili, ma indispensabili nella realtà odierna e che rivestono un carattere fortemente innovativo proprio perché, toccando il mondo della comunicazione e, nello stesso tempo, i rapporti dell’Italia con i Paesi che sono stati segnati dalla Venezia Giulia, attraverso alcune Borse di studio sponsorizzate dallo SMAU, che avevano consentito l’interscambio di giovani giornalisti tra la Regione e il Canada e la realizzazione di stage presso testate del Paese ospite. 46 V. C. Donato, P. Nodari, Emigrazione giuliana nel mondo: note introduttive, Trieste, 1996; G. Cresciani, Storia e caratteristiche dell’emigrazione giuliana, istriana e dalmata in Australia, in “Qualestoria”, n. 2, dicembre 1996; A. Kalc, L’emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due guerre, in Friuli e Venezia Giulia. Storia del ‘900, Gorizia, 1997; S. Bon, Trieste La Porta di Sion. Storia dell’emigrazione ebraica verso la Terra d’Israele 1921-1940, Firenze, 1998; P. Purini, L’emigrazione da Trieste nel dopoguerra, in “Annales. Annali di studi istriani e mediterranei” Koper, n. 10, 1997; F. Cecotti, Guerra, miseria, emigrazione. Motivazioni e caratteristiche di una emigrazione insolita. Venezia Giulia 1945-1960, in P. Pedron, N. Pontati (a cura di), Il novecento tra storia e memoria, Trento, Museo storico in Trento (Quaderni di didattica della storia, 6) 1999; F. Fait, L’emigrazione giuliana in Australia 1954-1961, Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, Udine 1999; P. Purini, L’emigrazione non italiana dalla Venezia Giulia dopo la prima guerra mondiale, in “Qualestoria”, n. 1, a. XXVIII, giugno 2000; F. Cecotti, Emigranti e marinai. I cittadini del Litorale trattenuti all’estero 1914-1919, in «un esilio che non ha pari». 1914-1918 profughi, internati ed emigrati di Trieste, dell’Isontino e dell’Istria, a cura di F. Cecotti, Gorizia, 2001; D. Krmac, L’emigrazione istriana nel passaggio dall’impero asburgico al regno d’Italia (1918-1924), in S. Allievi (a cura di), Islam in Europa, Islam d’Europa, Centro studi emigrazione, Roma, 2002; M. Cattaruzza, M. Dogo, R. Pupo (a cura di), Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Napoli, 2000; R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, 2005; C. Colummi, L. Ferrari, G. Nassisi, G. Trani, Storia di un esodo, Istria 1945-1956, Istituto Regionale di Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste, 1980; F. Rocchi, L’esodo dei 350.000 giuliani, fiumani e dalmati, Difesa adriatica, Roma, 1970. Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 73 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x sua emigrazione, aprono l’Italia al mondo e fanno entrare direttamente il mondo in Italia. Laura Capuzzo, triestina, lavora dal 1979 come giornalista presso l’Agenzia Ansa, alla quale ha dedicato la tesi di laurea, premiata nel ’77 con il Saint Vincent di giornalismo e pubblicata nel ’90 con il titolo Notizie in viaggio. Dalle agenzie ai quotidiani: il processo di riscrittura giornalistica, da Franco Angeli, Milano. E’ stata co-curatrice di Contarsi. Raccontarsi. Contare. La donna come protagonista dei media (Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, 1994) ed ha curato nel 2000 la realizzazione di La diaspora negata. Italiani all’estero e informazione nel Friuli–Venezia Giulia per conto dell’Ordine regionale dei giornalisti. Ha ricoperto vari incarichi negli organismi di categoria a livello nazionale e regionale ed organizzato manifestazioni, in Italia e all’estero, su tematiche attinenti all’attività giornalistica. Dal 1997 si occupa di comunicazione italiana nel mondo. [email protected] Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo 74 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro* Alberto Berardi Abstract Le vicende Welby ed Englaro vengono osservate muovendo dall’esame di due decisioni giudiziarie, la sentenza pronunziata dal G.u.p. di Roma nel caso Welby e la sentenza della Cassazione che ha aperto la strada all’epilogo del procedimento Englaro. Tali sentenze fanno interamente propria l’idea, condivisa, che non sussista alcun criterio razionale di demarcazione del trattamento terapeutico dal sostegno vitale, oltre che l’idea, contestata, che l’art. 32 Cost. consacri il dogma dell’autodeterminazione volontaristica in materia di trattamento terapeutico, che si esprime nel diritto soggettivo perfetto del paziente a pretendere dal medico la prestazione sanitaria invocata o rifiutata, cui corrisponde il dovere giuridico del medico di consentirne l’attuazione. Su tale terreno di ricostruzione, peraltro, viene denunziato il limite giuridico ed epistemologico della sentenza della Cassazione civile sulla vicenda Englaro, la quale ha inteso colmare la fisiologica assenza di una manifestazione di volontà attuale e giuridicamente rilevante nel senso del rifiuto del trattamento di sostegno alimentare e idrico in capo alla paziente, che versava in stato vegetativo persistente, con una inaccettabile ricostruzione induttiva di una supposta volontà presunta, a partire da una valorizzazione generale dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato. Tale chiarissima forzatura giuridica appare suggestiva del bisogno di una legislazione sul testamento biologico, sulla cui efficacia risolutiva delle vicende controverse, peraltro, si nutre più di qualche dubbio. V che attiene al sostegno di funzioni vitali»2. Nell’uno e nell’altro di tali passaggi motivazionali convivono, uno accanto all’altro, inscindibilmente, in un rapporto di compenetrazione reciproca, l’idea del sostegno, del soffio vitale, assieme a quella del presidio terapeutico. A ben vedere, tali annotazioni motivazionali, a mio sommesso giudizio, colgono interamente nel segno; esse rendono ragione di un dato di fatto, incontestabile, in forza del quale, la pervasività della penetrazione della tecnica, da intendersi quale passaggio applicativo dell’invasione orrò dar corso al mio approfondimento prendendo le mosse da due riferimenti testuali, estratti da due note sentenze che occupano la materia del mio intervento; il primo è della Corte Suprema di Cassazione, secondo la quale «non v’è dubbio che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscono un trattamento sanitario, […] un presidio proporzionato al mantenimento del soffio vitale»1, mentre il secondo è del Tribunale di Roma, per il quale «non può escludersi la natura di terapia di ciò 1 Cass. Civ., Sez. I, 16.10.2007, n. 21784, in Foro It., 2008, I, p. 3042. Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro Parole chiave Welby, Piergiorgio; Englaro, Eluana; testamento biologico; art. 32 Costituzione; trattamento terapeutico; sostegno vitale. 2 G.u.p. Roma, 23.07.2007, in Foro It., 2008, II, p. 105. 75 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) della scienza, nello scandire ogni istante della vita dell’uomo, sia oramai talmente profonda e per l’appunto penetrante, da rendere oggi non più predicabile qualsivoglia criterio razionale di distinzione tra ciò che è naturalmente vitale e ciò che è tecnicamente terapeutico. Mi si perdoni la banalità, che vuol essere solo metaforica, ma quando rifletto sul più banale dei “sostegni” alla vita piegata dalla senescenza, il bastone della vecchiaia, mi avvedo che esso reca con sé tale e tanta scienza – medica, ortopedica, bio-ingegneristica, ergonomica et similia – che nemmeno rispetto ad esso mi sento di poter escludere la medesima natura ambivalente. Le ragioni di questa premessa sono presto spiegate: la tesi della quale intendo farmi latore è che l’atteggiamento intellettuale di chi voglia difendere il bene della vita, affermandone l’indisponibilità giuridica – si badi l’indisponibilità giuridica, non sociologica, non di fatto –, in quanto bene relazionale oltre che individuale, sostenendo la pretesa di sottrarre dal dogma della libertà di autodeterminazione individuale i presidi di sostegno vitale, versus il riconoscimento acritico della totale disponibilità volontarista dei trattamenti sanitari, si fa latore di una difesa dell’indisponibilità del diritto alla vita, al contempo molto debole, destinata a soccombere, e prim’ancora di retroguardia. Che si tratti di una difesa debole, mi sembra tragicamente confermato dalla modestia intellettuale del dibattito sul punto, soprattutto politico e ai suoi epifenomeni parlamentari, ad ogni livello; dibattito che quotidianamente ci rammostra un dialogo tra sordi, che non appare minimamente in grado di far accrescere di alcunché lo spessore della conoscenza, su di un tema, come quello che ci occupa, invero di conoscenza assetato. Ma come ho poc’anzi riferito, oltre che debole e destinato alla soccombenza, a mio giudizio tale atteggiamento è anzitutto di retroguardia, posto che accetta in modo affatto supino l’idea, assolutamente dominante nel diritto vivente, che, mercé il presidio costituzionale del comma II dell’art. 32 della Carta fondamentale, quello del rifiuto alle cure sia incontestabilmente un diritto soggettivo perUna breve disamina dei casi Welby ed Englaro issn 2035-584x fetto, e quindi azionabile, in relazione al quale sussiste il correlato dovere giuridico di consentirne l’esercizio effettivo; e pertanto, che, affermato il dominio incontrastato della volontà individuale, anche distruttiva e di morte, in termini di diritto soggettivo, ogniqualvolta questa si esprima attraverso il rifiuto alle cure, a tale rifiuto deve corrispondere un autentico dovere giuridico. La citata sentenza del G.u.p. di Roma, sul punto, è assolutamente paradigmatica, per chiarezza espositiva, e diffusamente condivisa; «quando si riconosce l’esistenza di un diritto di rango costituzionale – ricorda il Giudice capitolino –, quale quello all’autodeterminazione individuale e consapevole in materia di trattamento sanitario, non è, poi, consentito lascarlo senza tutela, rilevandone, in assenza di una normativa secondaria di specifico riconoscimento, la sua concreta inattuabilità sulla scorta dell’esistenza di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore […] se si accogliesse una tale conclusione, potremmo incorrere in una palese violazione dei principî che presiedono alla disciplina della gerarchia delle fonti, in quanto non è consentito disattendere una norma costituzionale sulla scorta dell’esistenza di norme contrastanti di valore formale inferiore […] il giudice tra interpretazioni diverse avrebbe dovuto privilegiare quella conforme alla norma costituzionale immediatamente applicabile, potendo autonomamente disattendere interpretazioni di segno diverso […] certamente non si può lasciare inattuato un principio costituzionale e senza tutela giuridica il diritto soggettivo che da esso discende». A fronte di tale indicazione assertoria e aproblematica, intendo invece problematizzare l’argomento e sollecitare proprio il ragionamento critico, articolando un quesito, che mutuo dall’intelligenza argomentativa degli amici e colleghi Giovanni Caruso e Fabio Pinelli, che, recentemente, in occasione di un consesso medico, di questi argomenti si sono occupati con altissima originalità scientifica e metodologica3. 3 Il riferimento è alla relazione dal titolo I casi Welby ed Englaro pronunziata il 19 dicembre 2008 da Fabio Pinelli in occasione di un convegno medico di anestesisti e rianimatori, in Firenze, inedita. 76 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Esiste una qualche ragione giuridica per la quale, colui che con la forza bruta impedisce l’altrui suicidio, non risponde, al cospetto dell’ordinamento penale, del delitto di violenza privata? Se la volontà di morire integrasse un diritto soggettivo perfetto, espressione della massima estensione della libertà di autodeterminazione, il dovere sarebbe di assecondarla, ed illegittima dovrebbe essere pensata ogni manovra interdittiva al perseguimento dello scopo prefisso. Se così non fosse, come non è, questo mi sembra già un buon indizio falsificante dell’impostazione dominante: se la manovra interdittiva è legittima, ciò significa che il bene della vita prevale, e non cede al cospetto della libertà di autodeterminazione. Posso immaginare la replica a tale esemplificazione: l’impedimento del suicidio è condotta giuridicamente infungibile, rispetto a quella del medico, invero obbligato ad assecondare la volontà anticonservativa del paziente. Ma la replica non basta, a mio giudizio, essendo sufficiente riconnotare l’esemplificazione in termini un po’ più articolati. Si pensi all’aspirante suicida che non riesce nell’intento, ma all’esito del gesto si procuri solo delle lesioni gravissime, che, se non curate, lo porterebbero certamente a breve termine ad assecondare il tragico intento iniziale; e si pensi, al contempo al medico, magari anestesista rianimatore, che assiste al compimento del gesto, dopo aver dialogato con il malcapitato ed aver dunque appreso la di lui irreversibile ed informata volontà di morte. Forse che quel medico si asterrebbe dal prestargli le prime cure salvavita, titubante di fronte al rischio di subire una condanna per violenza privata – o fin’anche per lesioni volontarie se si determinasse a praticare una tracheotomia – avendo egli impedito l’esercizio di un diritto soggettivo perfetto? Mi arresto qui con l’esasperazione delle esemplificazioni, perché esse mi sembrano sufficienti a mettere in evidenza il florilegio di aporie, alle quali conduce la pretesa aproblematica di esasperare il principio volontarista nel rapporto tra medico e paziente. Donde la necessità conoscitiva di determinarsi a mettere in discussione il dogma di Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro issn 2035-584x riferimento: a mio giudizio esistono ragioni fortissime, d’esegesi storica e di consistenza giuridica e deontologica, per potersi determinare a tale esercizio intellettuale. Anzitutto e con grande brevità, non è rinvenibile traccia nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, di una sacralizzazione assolutista di un principio volontaristico come incarnato dall’art. 32 comma II Cost., che a ben vedere non ha inteso in alcun modo innovare rispetto al principio giuridico dell’indisponibiltà della vita umana; la natura e la funzione della norma, nell’intento dei padri costituenti, erano molto meno spregiudicate, e al contempo particolarmente dignitose; rendere illegittime e vietate con assolutezza – qui sì con assolutezza esasperata – tutte quelle pratiche sanitarie coattive e non consentite, dalla sterilizzazione alla sperimentazione umana, che avevano tragicamente contraddistinto la storia europea dell’immediato pre conflitto mondiale4. Ma è soprattutto sul piano del significato giuridico e deontologico, del rapporto tra medico e paziente, che il dominio dell’autodeterminazione volontarista del malato produce i suoi effetti più nefasti, posto che sottrae il medico al dovere dell’alleanza terapeutica, e quindi al dovere di condividere con il malato, nella direzione deontologica del principio di beneficità, la fissazione dei presidi curativi, da praticare e/o da omettere, nella direzione del maggior bene per il paziente, ricostruito dialetticamente attraverso l’incrocio della scienza medica con i bisogni, fin’anche con i semplici desiderata, del malato. Orbene, riconosco che dietro l’esasperazione del volontarismo terapeutico individualista può militare una comprensibile reazione al modello paternalistico del rapporto medico-paziente, 4 C. Mortati, La tutela della salute nella costituzione italiana, ora in Id., Raccolta degli scritti, III, Milano, 1979, pp. 433-446; D. Morana, La salute nella Costituzione italiana. Profili sistematici, Milano, 2002, p. 201; M. Ronco, L’indisponibilità della vita: assolutizzazione del principio autonomistico e svuotamento della tutela penale della vita, in Cristianità, maggio-agosto 2007, n. 341-342, pp. 11 ss.; L. Eusebi, Note sui disegni di legge concernenti il consenso informato e le dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari, in Criminalia, 2006, pp. 252 ss. 77 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) in forza del quale il malato, ed il suo tragico portato di sofferenza, dovrebbero essere strumenti silenti della somministrazione unilaterale e benefica di una scienza medica, così signora di sé, da non potersi permettere di dialogare con il proprio oggetto d’applicazione. Ma è altrettanto incontestabile l’irrazionalità ideologica del voler ribaltare questo eccesso atomistico con il suo opposto, altrettanto tale, che determinerebbe il medico a divenire il mero esecutore delle volontà individuali del paziente, in una relazione che, da terapeutica, finisce per essere puramente negoziale, con il medico obbligato a eseguire la prestazione dedotta nel rapporto sinallagmatico, senza interferenza alcuna delle ragioni etiche e benefiche di una medicina, al contrario, così poco signora di sé. E della quale, a bene vedere, non vi sarebbe alcun bisogno, essendo sufficiente un tecnico sedatore e somministratore di sostanze venefiche, vieppiù all’altezza del proprio compito di adempiere al dovere impostogli dal diritto del paziente. Ed allora deve il diritto denunziare il negativo giuridico di una relazione medico-paziente nella quale il secondo scompare, mercé il dominio della primo; al contempo tuttavia è ben paradossale che l’ordinamento possa ergersi a sostenitore del diritto del paziente ad ottenere dal medico ciò che vuole, nei termini giuridici di un dovere, ed a prescindere da un apprezzamento valoriale del significato concreto particolarissimo, in termini di beneficità medica o meno, di quel desiderio. Mi si consenta, epistemologicamente non è una forzatura, il confronto con l’esperienza giuridica; verrebbe a mente a taluno di considerare dovere del difensore penale l’introduzione consapevole di un falso testimone nel processo, nel contesto del rapporto negoziale di patrocinio ed in adempimento del volere individuale assolutizzato dell’assistito? Si badi, un volere magari assolutamente orientato al bene, individualmente ricostruito da costui, alla sacrosanta conservazione della propria libertà individuale! È noto, non è un dovere per il difensore, e nemmeno una facoltà, bensì è il prodromo di una gravissima responsabilità. E perché mai l’ordinamento dovrebbe, in misura affatto contraria, accordare al bene inUna breve disamina dei casi Welby ed Englaro issn 2035-584x dividualmente ricostruito dell’insostenibilità dell’esistenza, la caratura fin’anche del diritto soggettivo, che impone conseguentemente al medico un dovere giuridico? Le ragioni ontologiche della medicina e del diritto non possono consentirlo; l’alleanza terapeutica con il paziente e il principio di beneficità lo impediscono. Come in parte già accennato, ciò non determina affatto che il medico possa prevaricare autoritativamente le libertà di autodeterminazione dell’individuo, possa permettersi, mercé l’autosufficienza della scienza, di non considerarle nella costruzione dialogica del perimetro del miglior bene del paziente, in ogni singolo caso concreto, hic et nunc. Solo che tale libertà di autodeterminazione non può mai assurgere a diritto, non può correlativamente fondare alcun obbligo del medico. Quelle aspirazioni e quei desideri sono e restano delle mere facoltà di fatto, che il medico prima e l’ordinamento poi, potranno, di fatto, riconoscere come invincibili nel loro essere necessarie nella direzione del bene del paziente in relazione alla singola vicenda concreta, ma mai in termini generali ed astratti di diritto, e quindi mai in termini giuridicamente azionabili come pretesa nei confronti di terzi. L’incapacità di fatto di sostenere la fatica della vita, vieppiù allorquando piagata dalla sofferenza, esiste certamente nell’orizzonte della natura e nelle ragioni della libertà; e di fronte ad esso l’ordinamento può, fors’anche deve arretrare ed astenersi dal giudicare e dal qualificare; sia in negativo, che in positivo, tuttavia. Il percorso ricostruttivo così suggerito apre certamente alla fisiologia della discriminazione tra singole vicende concrete e dell’incertezza dell’apprezzamento dello specifico significato giuridico di ciascuna vicenda concreta. Il rischio della discriminazione è certamente alle porte; discriminazione tra chi, come Piergiorgio Welby si è trovato nella condizione soggettiva di poter gridare al mondo intero tutta la propria indignazione razionale al cospetto della propria vita piagata; e di poter far apprezzare conseguentemente il significato giuridico dell’omissione medica dalla prose78 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) cuzione delle cure; e chi, come Eluana Englaro questa condizione non l’ha mai sperimentata. Le discriminazioni tuttavia sono della natura e l’uomo ha il dovere generale di riconoscerle, ed accettarle; si badi, ciò non significa che non sia apprezzabile l’impegno etico alla loro riduzione, ma tale impegno presuppone il loro riconoscimento. Ed allora, dev’essere tacciata di razionalismo prescrittivo la pretesa dell’uomo, che non reca con sé alcunché di razionale, di poterle cancellare, assurgendo a dominatore della natura. Il rischio dell’incertezza nella comprensione dell’insostenibilità di fatto o meno di una condizione di vita piagata dalla malattia, è evidentemente conseguente, e va rispettato. E la pretesa del positivismo razionalista di cancellare le incertezze della mondanità terrena, a ben vedere, non ha più alcuna dignità scientifica; ce lo ha insegnato tragicamente la storia. Io sono dell’idea, rectius faccio dolosamente e retoricamente mia l’idea – per certi versi pericolosa, perché abdicativa delle battaglie sui principi – della politica relativa di riduzione del danno: essa, non il dogma, mi impone, al cospetto dell’incertezza, di astenermi dal qualificare – dall’autorizzare nella vicenda Englaro –, in nome di un elementare criterio di prudenza. Ed invece, in senso contrario, la vicenda Englaro mi sembra emblematica proprio della pretesa razionalista di voler superare l’ostacolo dell’incertezza invalicabile, nell’aver voluto costruire la determinazione volontaria individuale di costei, in costanza di una patologia come lo stato vegetativo persistente, che la rendeva per converso non conoscibile. Ed è proprio questa pretesa, che – a mio sommesso e nondimeno determinato giudizio – ha portato alla costruzione di quel monstrum giuridico che è la citata sentenza n. 21748 della I Sez. Civ. della Corte di Cassazione, che nell’annullare la penultima decisione della Corte d’Appello di Milano, ha aperto la strada all’epilogo della vicenda di questa primavera, a tutti noto. Un monstrum giuridico, ma prim’ancora epistemologico. Solo in tal guisa riesco a definire l’asserto del Supremo Collegio in forza del quale può essere «ricostruita la presunta Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro issn 2035-584x volontà della persona in stato d’incoscienza alla stregua di chiari univoci e convincenti elementi di prova, dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza» e che «il tutore ha il compito di completare questa identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace». Mi sembra sufficiente ricordare la chiarezza dell’argomentazione di David Hume, vergata sin dalla prima metà del XVIII sec. nel suo Trattato sulla Natura Umana a proposito dell’insostenibilità razionale di qualsiasi pretesa di giustificazione logica dell’argomentazione induttiva, per allargare le braccia allo sconforto a fronte di un’argomentazione siffatta. Come ricorda Karl Popper rammentando le osservazioni del filosofo scozzese, «non può esservi alcun argomento logico valido che ci consenta di stabilire che quei casi dei quali non abbiamo avuto nessuna esperienza somigliano a quelli dei quali l’abbiamo avuta»; di conseguenza, «anche dopo aver osservato il frequente e costante congiungimento degli oggetti, noi non abbiamo nessuna ragione di trarne un’inferenza riguardante un oggetto che è al di là di quelli di cui abbiamo esperienza»5. Alla luce di questo insegnamento magistrale, che ha segnato i percorsi della miglior filosofa della scienza contemporanea6, non esiste alcuna ragione logica che possa consentire di costruire un’inferenza determinatrice della volontà attuale del malato in stato vegetativo persistente, a partire dai precedenti desideri manifestati nel passato; l’argomentazione, in termini logici, non ha pregio. E ancora, quando la Corte Suprema ci riferisce di una decisione ipotetica di volontà a ricostruirsi, manifesta bensì la consapevolez5 D. Hume, A Treatise of Human Nature, trad. it., Bari, 1967, pp. 139, 195; Id., An Enquiry Concerning Human Understanding, trad. it., Bari, 1996, pp. 89 ss.; K. R. Popper, Conjectures and Refutations, trad. it., Bologna, 1972, p. 76. 6 «Le teorie non possono mai essere inferite da asserzioni osservative, o venire giustificate razionalmente mediante esse»; K. R. Popper, Conjectures and Refutations, cit., p. 77; sul tema, in particolare, Id., The Logic of Scientific Discovery, trad. it., Torino, 1970, pp. 5 ss. 79 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) za di tale natura del prodotto conoscitivo, ma ha piena consapevolezza che la struttura della conoscenza scientifica attribuisce ad ogni asserto ipotetico natura puramente congetturale7, anche allorquando, come nel caso di specie, questo è costruito a partire dall’osservazione selettiva della realtà pregressa? E che pertanto esso necessita, per poter essere predicato, di rigoroso controllo corroborante sul piano dell’esperienza?8 E che il terreno di tale controllo non può mai essere, pena lo scadere in un’argomentazione paralogica, lo stesso contesto di esperienza che ha determinato induttivamente la formulazione dell’asserto ipotetico? E quale altro terreno di corroborazione sperimentale è stato percorso? E potremmo continuare... Ma ritorniamo e concludiamo nei porti della riflessione giuridica, lanciando due ultime, e assolutamente rapsodiche, provocazioni intellettuali, o meglio sarebbe ammettere, provocazioni retoriche. La prima riguarda il tema della volontà, che, ci viene indicato, dev’essere ricostruita in capo alla persona in stato d’incoscienza; rammento che questa specifica persona, a far data dal 1996, risultava interdetta. Riconoscendo tutta la mia ignoranza in subiecta materia mi chiedo, l’interdetto può farsi portavoce di una volontà giuridicamente rilevante? A rileggere le norme di riferimento del codice civile mi determino alla risposta negativa. La seconda riguarda il tema delle forme di manifestazione di una volontà negoziale giuridicamente rilevante e produttrice di effetti giuridici e mi sovviene – qui l’argomento, con franchezza, mi avvedo essere puramente retorico – la prescrizione dell’art. 1341 c.c. sull’approvazione separata per iscritto delle clausole vessatorie di un contratto, ispirata, a leggere il commentario di Alberto Trabucchi, all’intenzione di «proteggere dal rischio di subire condizioni particolarmente gravose, consentendo una ponderata riflessione sui punti del regolamento negoziale più svantaggiosi»9. Ad una così puntuale attenzione dell’ordinamen7 K. R. Popper, Conjectures and Refutations, cit., pp. 83 ss. 8 K. R. Popper, The Logic of Scientific Discovery, cit., pp. 275 ss. 9 A. Trabucchi, G. Cian (a cura di), Commentario breve al Codice Civile, Padova, 20078, p. 1341. Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro issn 2035-584x to per i possibili svantaggi patrimoniali di un impegno contrattuale di un soggetto debole, che esige, per produrre effetti, di approvazione per iscritto specifica e separata, la volontà individuale di un soggetto debole di porre fine alla propria vita viene dall’ordinamento ricostruita induttivamente – e quindi in modo logicamente insostenibile –, a partire da vaghi presupposti indiziari, in capo ad un soggetto che non è nemmeno nelle condizioni giuridiche d’esprimere una volontà... Non c’è dubbio, che a fronte di tale panorama desolante, il riconoscimento dell’irresistibilità della tentazione umana, di voler compensare con le certezze generali ed astratte del diritto, le incertezze peculiari e concrete della natura, determina, in nome della già citata politica di riduzione del danno, la necessità ed il bisogno di una legislazione sul testamento biologico. Ma non dimentichi l’uomo che la varietà della natura è sempre più testarda dei suoi sogni razionalisti di semplificazione; e i problemi non si risolveranno, e le questioni d’interpretazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento apriranno fisiologicamente al contenzioso ed alla necessità della soluzione giudiziaria del medesimo. E saremo daccapo. E dunque all’autorità giudiziaria sarà attribuita la funzione – che non ho mai invidiato – non solo e non più di decidere della libertà e del patrimonio, che è emanazione della libertà, delle persone, ma anche della loro vita e della loro morte. E tutto ciò mi genera nel profondo angoscia e terrore. * Testo della relazione pronunziata al Convegno Bioetica Oggi dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Sezione di Padova, Centro Universitario, il 18 giugno 2009. Alberto Berardi, ricercatore universitario confermato presso la Facoltà di Giurisprudenza, sede di Padova, dell’Università degli Studi di Padova, avvocato, iscritto alla Camera Penale “Francesco de Castello” di Padova, già membro del Consiglio Direttivo dell’A.N.F. (associazione nazionale forense) di Padova, dottore di ricerca in Filosofia nel 80 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Diritto. Docente delle Scuole Forensi di primo livello dei Consigli degli Ordini degli Avvocati di Padova e Vicenza e della “Scuola di formazione dell’Avvocato penalista. Corso di deontologia e tecnica della difesa penale”, dell’Unione delle Camere penali del Veneto. Responsabile didattico dell’area di diritto penale del Corso di preparazione alle prove scritte degli esami di stato per l’abilitazione alla professione di avvocato della Fondazione Gentile Onlus di Venezia. Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro 81 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Il pluralismo linguistico tra identità e differenza Serena Tomasi Abstract Lo Statuto della Corte Penale Internazionale fissa normativamente (artt. 50 e 128) la scelta della Comunità Internazionale di utilizzare un regime plurilinguistico. La dichiarazione di equipollenza dei testi redatti nelle lingue riconosciute ufficiali non elimina, tuttavia, il problema della potenziale divergenza di senso tra gli stessi. La scelta per il plurilinguismo giuridico costituisce, dal punto di vista teoretico, espressione di un pensiero di tipo identitario, proprio della modernità, poiché assume le entità linguistiche in relazione di uguaglianza, astraendo dalle differenze e rescindendo, per ciascuna, i rapporti tra lingua e ordinamento giuridico di provenienza. La traduzione del linguaggio giuridico è operazione complessa per ragioni di natura semantica, sintattica e per la specificità sistemica della lingua. La metodologia che con- sentirebbe di comporre eventuali contrasti determinati da divergenze di significato tra testi aventi, per convenzione, pari valore ma in opposizione tra loro, è la retorica forense: l’argomentazione del Tribunale nella decisione del caso Akayesu, giudicato per il crimine di genocidio, costituisce un esempio noto in giurisprudenza di applicazione (ancorché non tematizzata né perfettamente consaputa) di questa forma della logica giuridica. Parole chiave multilinguismo; traduzione; processo; logica giuridica; argomentazione dialettica; retorica; topica. Premessa L a presente trattazione prende spunto dal testo dell’accordo istitutivo della Corte Penale Internazionale, quale strumento per la prevenzione e la repressione dei crimini di rilevanza internazionale. In particolare, oggetto di interesse sono gli articoli 50 e 128 dello Statuto i quali esprimono la scelta degli Stati che parteciparono alla Conferenza Diplomatica di Roma nel luglio del 1998 di redigere il testo dello Statuto in sei lingue aventi tutte autentico valore1. La decisione della Comunità Internazionale di instaurare un regime multilingue stimola riflessioni di natura giusfilosofica oltre che teorico-normativa. Giova sin da subito chiarire i limiti di questo saggio, che tralascerà ogni indagine sul carattere proprio del diritto internazionale, sulle problematiche di giustizia penale internazionale e sulle questioni di protezione dei diritti umani, soffermandosi sulla concezione del rapporto lingua-diritto implicata nel testo dello Statuto. In particolare, l’analisi del caso Akayesu (un noto precedente di divergenza delle versioni statutarie nelle lingue ufficiali, tale da generare incertezza sul contenuto della previsione normativa punitiva) costituirà l’occasione per mostrare la validità della procedura topico-retorico-dialettica per la composizione del contrasto. 1 Cfr. E.P. Reale (a cura di), Lo Statuto della Corte Penale Internazionale, Padova, 1999. Il pluralismo linguistico tra identità e differenza 82 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) La Corte Penale Internazionale: cenni storici Per un migliore inquadramento del problema, appare opportuno premettere alcune informazioni di carattere generale sulla Corte Penale Internazionale (d’ora in poi, CPI)2. Nel 1989 (risoluzione 44/39 del 4 dicembre 1989) l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite diede mandato alla Commissione per il Diritto Internazionale di esaminare le questioni relative alla creazione di una Corte con competenza sui crimini internazionali. Gli avvenimenti, europei e mondiali, successivi al secondo conflitto bellico ed, in particolare, la fine della guerra fredda, segnarono una definitiva accelerazione verso la creazione di un nuovo organo, indipendente ed imparziale, chiamato a giudicare i crimini più efferati commessi dagli individui ed a garantire il rispetto delle nome fondamentali di convivenza internazionale. Nove anni dopo quella risoluzione, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite convocava a Roma dal 15 giugno al 17 luglio una Conferenza Diplomatica dei Plenipotenziari per l’istituzione della Corte Penale Internazionale, chiamata alla negoziazione del progetto di Statuto così come elaborato dal Comitato Preparatorio, già incaricato di redigere un testo che potesse essere largamente condivisibile. Il progetto di Statuto predisposto dal Comitato preparatorio costituì la base dei lavori della Conferenza Diplomatica: lo svolgimento dei lavori prevedeva l’esame da parte del Comitato Plenario del Progetto di Statuto e quindi il deferimento al Comitato di Redazione del testo delle disposizioni sulle quali fosse stato raggiunto il necessario consenso. Compito del Comitato di Redazione sarebbe stato quello di tradurre il testo negoziato in forma giuridica e nelle sei lingue ufficiali della Conferenza. 2 Cfr. B. Pastore, Il diritto internazionale in un mondo in trasformazione: verso un diritto giurisprudenziale?, in AA. VV., Vol 6: Giustizia internazionale e interpretazione, Padova, 2001, pp. 157-193. L’Autore riconosce un ruolo centrale all’istituzione giudiziaria rispetto alle attuali dinamiche della società internazionale ed assume il processo istitutivo della CPI quale testimonianza della fiducia nel contesto internazionale verso meccanismi di tipo giudiziario. Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x Nella notte tra il 17 ed il 18 luglio 1998 fu adottato lo Statuto della CPI, istituzione permanente dotata del potere di giudicare le persone fisiche per i più gravi crimini di portata internazionale, complementare alle giurisdizioni nazionali. Si osservi che il problema della lingua di redazione dell’atto diplomatico viene trattato in due articoli dello Statuto: l’articolo 50, rubricato «Lingue ufficiali e di lavoro» riconosce che «Le lingue ufficiali della Corte sono Arabo, Cinese, Inglese, Francese, Russo e Spagnolo. Le sentenze della Corte, nonché le altre decisioni che regolano questioni fondamentali sottoposte alla Corte sono pubblicate nelle lingue ufficiali. La Presidenza, avuto riguardo dei criteri fissati nel Regolamento di Procedura e Prova, determina quali decisioni possono essere considerate regolanti questioni fondamentali agli effetti del presente comma. Le lingue di lavoro della Corte sono Inglese e Francese. Il Regolamento di Procedura e Prova determina i casi nei quali possono essere usate lingue diverse da quelle ufficiali come lingue di lavoro. Su richiesta di una parte processuale o di uno Stato autorizzato ad intervenire nel processo, la Corte autorizza gli stessi all’uso di una lingua diversa dall’Inglese e dal Francese, se riconosce adeguatamente giustificata la richiesta». Nel novero delle norme finali, l’articolo 128, precisa che «L’originale del presente Statuto del quale i testi arabo, cinese, inglese, francese, russo e spagnolo fanno fede in pari misura è depositato presso l’Ufficio del segretario Generale delle Nazioni Unite che ne trasmette copia autentica a ciascuno Stato»3. Queste due previsioni normative esauriscono la disciplina giuridica volta a determinare le lingue che possono essere utilizzate nello svolgimento delle attività giuridiche e diplomatiche. È intuitivo che in tutte le occasioni in cui si stabiliscono rapporti tra appartenenti a gruppi linguistici diversi e, massimamente, in ambito internazionale, si avverte la necessità della re3 La carta è consultabile on line al sito <http://www. difesa.it/giustiziamilitare/rassegnagm/corte-penaleinternazionale/statuto-cpi.htm> (sito consultato il 4/9/2009). 83 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) golamentazione del mezzo linguistico4. L’ordinamento internazionale non prevede norme di carattere generale sull’uso della lingua nei rapporti diplomatici, né si è formata una costante prassi in materia: l’analisi della storia dei rapporti diplomatici tra Stati in ambito internazionale consente di individuare l’impiego nella maggioranza dei documenti fino alla prima metà del XVIII secolo del Latino, poi del Francese, ed oggi della lingua inglese. Dopo la seconda guerra mondiale, si registra un incremento di trattati multilingui, espressione di un crescente multilateralismo nelle relazioni internazionali. In tal senso, si consideri paradigmatico il sistema delle Nazioni Unite: la Conferenza di San Francisco del 1945 scelse come lingue ufficiali l’Inglese, il Cinese, lo Spagnolo, il Francese ed il Russo. La Comunità Europea è l’unica organizzazione internazionale (art. 290 CE) che instaura un regime multilingue integrale per cui ogni Stato aderente ha diritto a che sia rispettato il proprio regime linguistico. Premesse queste considerazioni introduttive, occorre tornare alla questione del plurilinguismo nello Statuto della CPI, riflettendo sulla possibilità di un conflitto che può discendere dalla redazione del testo in più versioni linguistiche e sulle modalità di soluzione dello stesso. La redazione del testo in tutte le lingue ufficiali implica la produzione di tante versioni quante sono le lingue prescelte. Tutte le versioni linguistiche fanno ugualmente fede o, detto altrimenti, un unico precetto normativo è formulato in diverse lingue. L’assenza di un testo unico di riferimento viene infatti sopperita dalla dichiarazione di equipollenza tra i vari testi redatti in più lingue. Ma la relazione di identità tra le traduzioni giuridiche è una finzione5: a fronte dell’equipollenza, il proble4 Cfr. G. Cansacchi, vc. Lingua (Diritto Internazionale), in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino, 1965, p. 934; nonché A. Pizzorusso, vc. Lingua (uso della), in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino, 1965, p. 935ss. 5 Cfr. F. Megale, Teorie della traduzione giuridica fra diritto comparato e “translation studies”, Napoli, 2008, p. 52. Segnala la necessità di un cauto utilizzo del termine «traduzione» in presenza di dichiarazioni di equipollenza tra testi redatti in più lingue, esponendo che «Nella realtà del plurilinguismo legislativo le diverse versioni linguistiche sono considerate per legge dei Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x ma è quello della divergenza di senso tra testi di pari valore e della necessità di determinare il risultato linguistico prevalente. Il problema, posto in questi termini, induce ad un approfondimento teoretico circa la natura della pluralità linguistica in rapporto al dichiarato principio di uguaglianza tra le versioni linguistiche, nonché, sul piano metodologico, circa la modalità di soluzione del contrasto linguistico. Lingua e linguaggio giuridico: significato dei termini, sintassi, usi linguistici Prima di discutere le problematiche inerenti ad un regime linguistico multilingue esaminando il presupposto teoretico di siffatta concezione e le questioni giuridiche correlate, si rende necessario rivolgere preliminarmente l’attenzione alla specificità del linguaggio giuridico e, segnatamente, della lingua giuridica. Il linguaggio giuridico ha una natura ibrida in quanto si fonda sul linguaggio ordinario integrato da elementi di carattere tecnico propri dell’oggetto trattato6. Nel suo studio in merito ai problemi posti dal linguaggio giuridico, Marco Cossutta evidenzia che le potenzialità comunicative del linguaggio giuridico, come accade per il linguaggio ordinario da cui deriva, sono minate da due ordini di problemi che possono rendere il messaggio non immediatamente ed inequivocabilmente comprensibile7. “testi autentici”, anche quando nella pratica una di esse ha costituito l’originale di tutte le altre e queste ultime sono pertanto delle semplici traduzioni. Tuttavia in questo caso i giuristi preferiscono non usare la parola traduzione poiché considerano tali versioni dei testi autentici al pari dell’originale». 6 Cfr. M. Jori, A. Pintore, Manuale di teoria generale del diritto, Torino, 1995, p. 339. «Il diritto moderno è caso paradigmatico della categoria pragmatica generale dei linguaggi amministrati, distinta sia dai linguaggi strumentali-artificiali sia dalle lingue naturali e ad essi intermedia, una categoria di cui il discorso del diritto è senz’altro il più importante». 7 Cfr. M. Cossutta, Questioni sull’informatica giuridica, Torino, 2003, pp. 87-96; per il discorso sul carattere del linguaggio giuridico mi sono avvalsa di questo contributo di Marco Cossutta; per ulteriori approfondimenti, veggasi su tutti: R. Guastini, Dalle fonti alle norme, Torino, 1990; Id., Le fonti del diritto e l’interpretazione, 84 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Più precisamente, si ravvisano problemi di natura semantica8, che ineriscono il rapporto tra il termine (significante) e ciò che questo designa (significato). L’analisi semantica del termine è necessaria a fronte delle difficoltà interpretative generate dalla presenza di termini indeterminati, che mancano cioè di precisione nel significato, «vaghi»9, la cui portata informativa non è cioè determinata. Le principali questioni semantiche legate all’ambiguità riguardano l’omonimia, ovvero la presenza nel linguaggio di termini con la medesima forma (significante) ma dotati di diverso significato, e la sinonimia, ovvero il manifestarsi all’interno del linguaggio di termini diversi nella forma (significante) ma con identico significato. Ricorrono inoltre questioni di natura sintattica, circa le regole proprie al combinarsi delle parole nella composizione della frase ed il modo in cui si organizzano le singole parole per produrre una frase significativa. Genera, infatti, discussioni sintattiche l’impiego di determinate regole per la costruzione di proposizioni grammaticalmente corrette ma con significato ambiguo. Vi è poi un terzo livello di analisi linguistica che interessa il processo di comprensione ed uso del linguaggio, cioè quello della pragmatica, che si occupa delle relazioni tipiche dei segni con i loro utenti e delle regole che li riguardano10. Molte questioni terminologiche sorgono dal fatto che ogni Stato ha la propria terminologia giuridica, pur usando come linMilano, 1993; P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto, Torino, 1998. 8 Per un’analisi del problema linguistico dal punto di vista semantico e sintattico, cfr. J.R. Searle, L’unità della proposizione, (trad. it. di M. V. Bramè), in AA. VV., Traduzione e diritto, Padova, 2000, pp. 37-55. Sul problema dell’ambiguità sintattica, v. T. De Mauro, Linguistica elementare, Bari, 1998; sul problema della vaghezza degli enunciati normativi, veggasi C. Luzzati, La vaghezza delle norme: un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, 1990. 9 Cfr. R. Guastini, Le fonti del diritto, cit., p. 357. Per Guastini, nel linguaggio giuridico non vanno confuse polisemia e vaghezza: mentre la prima richiede una scelta interpretativa tra diversi significati possibili, la seconda richiede una decisione interpretativa circa i confini del significato. 10 M. Jori, A. Pintore, Manuale di teoria generale, cit., p. 313. Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x gua giuridica quella di un altro Stato. Gli studi di semiotica spiegano questa diversità, riscontrabile nella prassi linguistica degli Stati, a mezzo del cd. triangolo segnico11. L’immagine del triangolo segnico, ai cui vertici stanno segno, significato e referente, è utile a comprendere la dinamica contestuale propria del linguaggio: più precisamente, assume rilievo non l’aspetto esteriore del segno ma il suo posto nel sistema segnico nel quale si inserisce. Ciascun segno ha infatti un significato come parte di un sistema di segni che si distinguono tra loro12. Questa peculiarità è ben conosciuta da tutti i giuristi, in particolare dagli studiosi di diritto comparato i quali, occupandosi di traduzione giuridica, sanno che il linguaggio si differenzia in base ai sistemi giuridici esistenti e territorialmente delimitati. Su tutti, Rodolfo Sacco osserva che «La parola esprime una nozione. Se un biologo, per parlare di gangli linfatici, utilizza quattro lingue differenti, trova in ciascuna di esse una parola che corrisponde esattamente al concetto che egli deve esprimere. La stessa cosa non si produce sempre per il diritto. I concetti creati, elaborati, definiti dal legislatore o dal giurista di un certo sistema non corrispondono necessariamente ai concetti elaborati per un altro sistema»13. Il fatto che la terminologia giuridica esprima i concetti di un certo sistema nazionale implica che14, ai fini 11 Ibid., p. 306ss. ������������� Cfr. anche D. Patterson, Law & Truth, New York, 1996. Si segnala che è in fase avanzata di pubblicazione la traduzione italiana di Law and Truth [Diritto e verità], a cura di M. Manzin, che sarà edita da Giuffrè, Milano, 2009. Patterson, basandosi sugli scritti del secondo Wittgenstein, indaga la struttura del discorso giuridico e spiega perché essa sia fondamentale per comprendere la dimensione normativa della pratica giuridica. 13 R. Sacco, Traduzione giuridica, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile. Aggiornamento I, Torino, 2004, p. 725. 14 Cfr. F. Megale, Teorie della traduzione giuridica, cit., p. 79. L’Autore puntualizza la sussistenza di un rapporto di dipendenza del linguaggio dal sistema giuridico rispetto al quale la delimitazione nazionale, statale e territoriale svolge un ruolo rilevante di individuazione, qualificazione e diversificazione dei concetti. Nell’illustrare la centralità di questa osservazione, egli si richiama ad un’espressione in uso tra i common lawyers: «Law is 85 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) della traduzione del linguaggio giuridico in un altro linguaggio giuridico, si debba studiare il significato che i termini da tradurre hanno nel sistema giuridico della lingua di partenza e, successivamente, ricercare un termine che possieda il medesimo contenuto nel sistema giuridico della lingua d’arrivo15. Ecco che il traduttore deve trovare un termine equivalente: in ragione della specificità sistemica dei termini giuridici, in via di principio, vi sarà piena equivalenza solo quando le due lingue si rapportano al medesimo sistema giuridico. Laddove invece la lingua di partenza e quella di arrivo si rapportano a differenti sistemi giuridici, l’equivalenza tra termini è rara. De Groot, in relazione al procedimento traduttivo consistente nella ricerca di termini equivalenti, osserva che può darsi equivalenza completa o quasi completa quando vi è «Una parziale unificazione delle aree giuridiche rilevanti per la traduzione, dei sistemi giuridici relativi alla lingua di partenza ed a quella di arrivo» nonché nel caso in cui «Un concetto proprio di un sistema giuridico è stato mutuato da un altro sistema e continua a funzionare in quel sistema nel medesimo modo, senza venire influenzato dal resto del sistema giuridico» 16. In particolare, secondo de Groot, «Di fondamentale importanza sono il contesto e la finalità della traduzione: questi sono i fattori che determinano se le differenze tra il termine della lingua di partenza ed il termine della lingua d’arrivo sono così rilevanti che il possibile termine della lingua d’arrivo non può essere usato come traduzione del termine della lingua di partenza. […] L’accettabilità dell’equivalenza dipende dai fattori sopra menzionati. È perciò una decisione che il traduttore deve prendere di volta in volta»17. Se non si riesce ad individuare nessun termine equivalente nel sistema giuridico della lingua d’arrivo, si devono cercare soluzioni supplementari: una di queste può essere il mantenimento del termine nella lingua di system-bound». 15 Cfr. G.-R. De Groot, La traduzione di informazioni giuridiche, (trad. it. di E. Pariotti), in AA. VV., Traduzione e diritto, Padova, 2000, pp. 135-154. 16 Ibid., pp. 137-138. 17 Ibid., pp. 139-140. Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x partenza, spiegandolo mediante apposita nota o informazione riportata in parentesi. Oppure, un altro modo per rendere accessibile al giurista un concetto giuridico estraneo è quello di utilizzare una parafrasi per descrivere il termine della lingua di partenza. La terza soluzione consiste nella creazione di un neologismo: quando il traduttore osservi che ciò giova alla comprensione, opererà in modo creativo, introducendo un neologismo, necessario a rendere il termine presente nella lingua d’origine, o utilizzando una parola o espressione già esistente per tradurre termini privi di corrispondente. La ricognizione svolta, sia pur in rapida sintesi, intende mostrare che il rapporto tra testi autentici non può essere piano e lineare: le osservazioni precedenti indicano la complessità dei problemi legati alla traduzione giuridica che combina i temi della linguistica in generale con le questioni specifiche del linguaggio giuridico18. In particolare, la specificità di ciascuna versione linguistica è legata ai tratti del diritto e della terminologia giuridica impiegata, la quale è propria di un sistema: questo rende rara un’equivalenza accettabile tra termini ed impone forme di adattamento linguistico19. Ora, la difficoltà soggiacente ad ogni traduzione del linguaggio giuridico comporta inevitabilmente alcune implicazioni: con riguardo al multilinguismo, alla stregua del quale un’unica regola giuridica è formulata in lingue diverse, occorre assumere coscienza che, in via di principio, le versioni linguistiche sono equi18 Cfr. D. Terpin, La comunità linguistica slovena in Italia e la sua percezione dell’ordinamento giuridico italiano, in Tigor, 1, 2009, p. 47ss., <http://www.rivistatigor.scfor.units. it/> (sito consultato il 4/9/2009). Egli affronta la questione del rapporto, in campo giuridico, tra lingua maggioritaria italiana e lingua minoritaria slovena individuando un alto livello di assimilazione, da parte della minoranza slovena, del complesso normativo espresso in lingua italiana. Egli adduce alcuni casi pratici, tratti dalla sua esperienza professionale di avvocato appartenente alla minoranza slovena, mostrando il limite cui si è pervenuti in ragione di questa assimilazione, cioè l’incapacità di svolgere una comunicazione giuridica nella lingua madre. 19 Sull’analogia traduzione-interpretazione, richiamo il saggio di T. Mazzarese, Interpretazione giuridica come traduzione, in AA. VV., Traduzione e diritto, Padova, 2000, pp. 165-194. 86 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) valenti, ma nella prassi non vi è un’unica regola giuridica vigente bensì tante regole quante sono le lingue in cui essa è tradotta. Giova quindi ritornare agli enunciati normativi espressi negli artt. 50 e 128 dello Statuto della CPI, i quali individuano sei lingue ufficiali, facenti fede in pari misura20. Orbene, l’adozione di un regime plurilingue non è prassi inconsueta: i trattati internazionali con più versioni autentiche costituiscono ormai la maggioranza21; parimenti, le parti di un contratto internazionale possono liberamente concordare il regime linguistico, prevedendo l’uso di una sola lingua o l’uso di una lingua autentica e di un’altra non autentica, ovvero, allo scopo di eliminare le diffidenze reciproche, ricorrendo ad un clausola in base alla quale tutte le versioni linguistiche siano dichiarate autentiche22. Numerosi sono anche gli esempi di legislazione plurilingue, cioè di redazione degli atti legislativi in tutte le lingue ufficiali poste su un piano di parità giuridica23: il caso più interes20 La locuzione utilizzata nel dettato dell’art. 128 dello Statuto in Spagnolo, Francese ed Inglese è la seguente: «Son igualmente àuténticos», «Font également foi», «Are equally authentic». 21 Per esempio, in seno alle Nazioni Unite, i trattati sono adottati dall’Assemblea Generale o da apposite Conferenze: il numero di versioni autentiche di ogni trattato varia da caso a caso (una, alcune o tutte le lingue ufficiali). Cfr. F. Megale, Teorie della traduzione giuridica, cit., p. 69. 22 C. Cicala, Lingua straniera e testo contrattuale, Milano, 2003, pp. 173-175. A titolo esemplificativo di clausola del secondo tipo, nota anche come controlling language clause, l’Autore propone una formula, tratta da un contratto di joint venture, che stabilisce: «This contract shall be written both in Chinese and English. Authentic text, in case of controversies, shall be the English text». ������������������������������������������������������� Si pensi ad esempio al bilinguismo in Canada, ove le leggi ed i regolamenti federali sono adottati e pubblicati in Inglese e Francese: l’uguale autenticità delle leggi federali è riconosciuta a livello costituzionale nell’art. 18 del Constitution Act, che statuisce «The statutes, records and journals of Parliament shall be printed and published in English and French and both language versions are equally authoritative», nonché a livello legislativo nell’Official Language Act del 1985 che, ex art. 2, ha lo scopo di assicurare «respect for English and French as the official languages of Canada and ensure equality of status and equal rights and privileges as to their use in all federal institutions». Oppure, si consideri il Belgio, ove le versioni Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x sante è senza dubbio quello offerto dall’Unione Europea, ove i regolamenti e gli altri testi di portata generale sono redatti e pubblicati nelle ventitré lingue ufficiali24. Le differenti versioni linguistiche, tutte ugualmente autentiche, rappresentano l’espressione linguistica plurima di una medesima norma destinata ad operare in tutti gli Stati membri. Il regime linguistico dell’organizzazione comunitaria è fondato sul principio di uguaglianza tra le versioni linguistiche, a garanzia del quale nel regolamento n. 1 del 1958, deliberatamente, non si parla mai di traduzione bensì di redazione, con rifermento precipuo alla prassi di predisposizione degli atti giuridici comunitari mediante la tecnica di co-redazione25. Il principio di equipollenza tra versioni linguistiche diverse come conseguenza del “pensiero identitario” legislative ufficiali in Francese ed in Neerlandese sono autentiche: l’art. 1 della Legge sull’impiego delle lingue un materia legislativa del 31 maggio 1961 statuisce che «Les lois sont votées, sanctionnées, promulguées et publiées en langue française et en langue néelandaise». Parimenti, in Svizzera la pubblicazione di leggi è fatta contemporaneamente nelle tre lingue ufficiali, cioè Tedesco, Francese ed Italiano. In Finlandia, le lingue ufficiali sono il Finnico e lo Svedese: in entrambe devono essere pubblicate tutte le leggi del Paese. 24 Bulgaro, Ceco, Danese, Estone, Finlandese, Greco, Inglese, Irlandese, Italiano, Lettone, Lituano, Maltese, Olandese, Polacco, Portoghese, Rumeno, Slovacco, Sloveno, Spagnolo, Svedese, Tedesco e Ungherese. 25 Cfr. T. Gallas, Coredazione e traduzione giuridica nella legislazione multilingue, in particolare quella comunitaria” in La traduzione. Saggi e documenti IV. Quaderni di Libri e Riviste d’Italia, 43, Roma, 1999, p. 137. L’Autore, che fu giurista-linguista nel Consiglio dell’Unione Europea, definisce la co-redazione per differenza dalla traduzione, precisando quanto segue: «Per traduzione consideriamo la produzione di un testo in una data lingua L2 a partire da un testo originale in un’altra lingua L1; la conversione potrà essere più o meno libera, caratterizzante è che il testo L1 non viene influenzato da L2. Sarà definito co-redazione il caso in cui nella stesura del testo L2 è possibile una retroazione su L1 in maniera che questo possa essere modificato, corretto, o perfezionato nel corso della trasposizione in L2». Sul tema del multilinguismo in ambito comunitario, vedi anche E. Ioriatti, Lingua e diritto in Europa: multilinguismo, pluralismo linguistico e terminologia giuridica uniforme nel diritto europeo dei contratti, in Diritto pubblico comparato ed Europeo, IV, Torino, 2005, pp. 1549-1567. 87 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Nella realtà del plurilinguismo, come si è detto, le diverse versioni linguistiche sono considerate per legge tutti testi autentici. Ebbene, occorre non confondere la scelta per il plurilinguismo giuridico in una scelta di tutela della differenza, espressa in particolare come differenza etnico-linguistica dei soggetti coinvolti, essendo piuttosto ravvisabile nella dichiarazione di equipollenza delle versioni linguistiche un esplicito portato del pensiero identitario, proprio della modernità. «Il pensiero della modernità è stato segnato sin dal suo inizio da una tensione verso la semplificazione egualitaria»26. E ancora: «Nella storia del pensiero, testimonianze molteplici possono essere ricondotte entro gli ambiti di due filoni principali: quello indicato come “classico”, per il quale la differenza è costitutiva dell’essere-pensiero, e quello detto “moderno”, teso all’affermazione esclusiva di un ordine, identico per tutti i campi dell’esperienza. I due termini, “classico” e “moderno”, sono dunque da intendersi piuttosto in senso categoriale che cronologico»27. Il pensiero moderno è identitario o egualitario in quanto cerca l’essere come ciò che è uniformemente identico in tutto, indifferenziato: «Per questo motivo il pensiero identitario finisce per ammettere come unico criterio logico atto a controllare la validità delle inferenze, e a fondare conoscenze rigorose, il principio di identità»28. Al pensiero dell’identità si oppone il pensiero della differenza, teso a valorizzare ciò che distingue, 26 M. Manzin, Ordo iuris, Milano, 2008, p. 22. L’Autore puntualizza, sul processo di semplificazione, quanto segue: «La semplificazione, in tutte le sue molte e diverse declinazioni, si sostiene su due concetti apparentemente distinti tra loro, quello di unità e quello di molteplicità. La molteplicità si mostra fenomenologicamente come il prius dell’operazione razionale, l’unità ne costituisce il modello e il costante riferimento. […] Vi è dunque un prima rappresentato dall’oggetto ancora indeterminato, dai molti possibili significati e un dopo che è l’unico significato al quale esso sarà collegato e che ne segnerà i confini semantici» (p. 18). ��Ibid., nt. 9, p. 90. �� Ibid., p. 19. ������������������������������������������ Il principio di identità si esprime secondo il principio A=A, in forza del quale un ente è uno in quanto uguale a se stesso. All’identità si associano i concetti di unità, uniformità, eguaglianza. Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x ponendo l’enfasi sulla differenza, intesa come qualità di ciascun ente per la quale esso è se stesso e non è altro da sé29. Ebbene, il pensiero moderno ha gradualmente preso le distanze dalla concezione classica, privilegiando la potenza calcolante e quantificatrice della tecnica ed eliminando le relazioni: «La rescissione progressiva di tutti i vincoli con ciò che è altro rispetto ad un ente […] corrisponde alla sua restituzione al puro principio di identità (A=A), ad una solitaria condizione di unici-identici non comunicanti tra loro, che meglio si prestano ad essere maneggiati da una ragione calcolatrice e quantificante. Astratto dalla pluralità delle relazioni, l’identico subirà la rottura per essere conosciuto nelle sue parti costitutive, che […] si riveleranno a loro volta degli identici»30. Quanto sopra evidenziato, conduce a precisare cosa si intende per pluralità e come questa si esplichi all’interno del pensiero egualitario. L’adozione di un regime plurilingue e l’attribuzione di pari valore a tutte le versioni linguistiche conseguenti risponde espressamente all’esigenza di evitare l’egemonia linguistica (e quindi politica e giuridica) di una versione sulle altre e di garantire il principio di uguaglianza tra le versioni linguistiche. Segnatamente, per quanto attiene allo Statuto della CPI, trattandosi di una giurisdizione a vocazione universale a tutela dei diritti universali per eccellenza, cioè i diritti umani, l’esigenza egualitaria sopraddetta emerge in forma marcata: la funzione della comunità internazionale consiste proprio nel garantire l’esercizio delle libere volizioni31. L’egualitari29 Ibid., p. 18. La differenza è la qualità che implica (almeno) una presenza altra dall’uno. E dunque una molteplicità di enti diversi fra loro. Alla differenza si associano concetti come pluralità, diversità, molteplicità. 30 Ibid., p. 22. 31 Sulla concezione dei diritti umani, che dopo la seconda guerra mondiale si presentano nella forma di diritti internazionalizzati e costituzionalizzati, segnalo l’articolo di M. Manzin, La barba di Solzenicyn e la frammentazione dei diritti umani, in Persona e Derecho, 58, 2008, pp. 456-572. Intendo appuntare, ai fini della lettura della presente trattazione, una riflessione dell’Autore di centrale rilevanza, nella misura in cui svela il presupposto teoretico che si cela dietro la parabola dei diritti umani: «La concezione dei diritti umani che si fa strada dopo 88 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) smo come ideale, giuridico e politico, da cui discende la necessità di rimuovere le differenze, si esprime anche nella scelta, normativamente espressa negli artt. 50 e 128 dello Statuto della CPI, per il pluralismo linguistico nella misura in cui l’art. 50 contempla l’esistenza di molteplici entità linguistiche le quali, ex art. 128, sono da intendersi perfettamente uguali tra loro. Questo modo di concepire il concetto di pluralità è proprio della modernità che eredita dal neoplatonismo la nozione di Principio come assoluta identità32. Ipotizzare che tutte le versioni linguistiche siano equally authentic, eliminando le differenze tra le stesse e, per ciascuna, rescindendo i rapporti tra lingua e sistema giuridico, equivale ad una finzione. Si badi, «Lo stesso concetto di unico è una finzione, poiché la differenza è sempre implicata, ed in primo luogo è implicata nella distinzione tra soggetto (che finge l’unità) ed oggetto (l’unità pensata), cioè dall’attività stessa del pensare e del rappresentare. In secondo luogo, essa è implicata dalle pluralità pensate, poiché 2 = (1+1) è diverso da 3 = (1+1+1), benché, secondo il pensiero dell’identità, solo quantitativamente»33. Le lingue non sono entità identiche, ma diverse: come suggestivamente fissato nel mito biblico di Babele34, le lingue sono plurime, il Sessantotto segna il passaggio dalla modernità alla post-modernità (o tardo-modernità), alla possibilità di accettare – anzi, invocare – la debolezza che affligge il pensiero quando deve trovare un fondamento durevole per i sistemi e le ideologie (per le visioni del mondo), nel nome di un’uguaglianza che non ha più bisogno di modelli o di teorie, poiché – neoplatonicamente – si consuma tutta nell’enade individuale» (p. 459). «La parabola dei diritti umani è efficacemente rappresentata sul piano linguistico dalla trasformazione dell’aggettivo qualificativo: da diritti dell’uomo e del cittadino essi diventano diritti civili; poi, nel corso del XIX secolo, diritti sociali e politici; si opacizzano nel corso del Novecento, afflitto dai totalitarismi, per ricomparire dopo il Sessantotto come una sorta di energia che trasforma qualsiasi desiderio dell’uomo in diritto (Kundera)» (p. 463). 32 Manzin in Ordo Iuris, cit., argomenta la tesi secondo la quale fu il pensiero neoplatonico a fornire i presupposti per una progressiva riduzione dell’ordine dinamico del logos, come inteso in senso classico, ad ordine sistematico, di tipo razionalistico, proprio della modernità. 33 M. Manzin, loc. ul. cit., p. 20. 34 Gen., 11, 1-9, ed. CEI, consultabile alla pagina web <http://www.vatican.va/archive> (sito consultato il Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x differenti e costituiscono un insieme solo apparentemente caotico. Durante la costruzione della Torre, infatti, tutta la terra aveva una sola lingua: la differenziazione linguistica, dunque, sorge da, e si collega ad, un unico linguaggio originario. Nella lingua greca,come è noto, l’attività del linguaggio quale è esercitata dagli uomini si esprime con il termine logos, che ha «Un significato anteriore, più originario, di quello che si congiunge immediatamente al dire. Esso designerebbe la capacità di tutti gli elementi di un mondo di connettersi tra loro senza perdere - anzi, così mostrando - la loro rispettiva individualità. Logos esprimerebbe allora l’unione in atto, e quindi la connettibilità, tra cose diverse: da ciò Logos varrebbe anche ad indicare tanto la potenza per la quale la connessione si manifesta quanto la presenza in atto di quest’ultima»35. Il fatto è che, secondo Francesco Cavalla, cui si deve uno studio approfondito sull’argomento, il Logos, nel suo significato originario, non designa solo attività linguistiche, ma «Ci parla di una realtà che trascende il discorrere (rivelando peraltro, con lo stesso, una indissolubile intimità)»36. «Sicché, si potrebbe dire, il Logos anticipa il mondo destinandolo a comparire in un linguaggio articolato. Perciò il Logos non assomiglia semplicemente al linguaggio, né lo forma come una realtà particolare tra altre; costituisce, piuttosto, quel Principio che si manifesta 4/9/2009): [1] «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. [2] Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. [3] Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento.[4] Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. [5] Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. [6] Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. [7] Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. [8] Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. [9] Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra». 35 F. Cavalla, La verità dimenticata, Padova, 1996, p. 132. 36 Ibid., p. 133. 89 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) – per quanto si manifesta – là dove accade il linguaggio»37. In questa prospettiva, che è anche quella del celebre prologo giovanneo38, ciò che è anteriore in assoluto è la differenza, che anticipa ogni cosa: unità e pluralità si implicano indissolubilmente a vicenda. Questa prospettiva viene «dimenticata» nella modernità, che assume il Principio come assoluta identità ed interpreta la differenza in modo meramente quantitativo: questo è il presupposto teoretico che si cela dietro il regime linguistico plurilingue adottato nello Statuto dell’Organizzazione Internazionale. È significativo che la Carta Statutaria si limiti ad elencare le lingue ufficiali della Corte, individuandole quantitativamente nel numero di sei e giustapponendole come entità linguistiche equipollenti. Ciò che occorre recuperare è la consapevolezza che le versioni linguistiche sono diverse, e quindi suscettibili di entrare in contrasto tra loro, ma che c’è un principio che consente di dirle e pensarle unitariamente. Il metodo topico-retorico per la soluzione del contrasto tra versioni linguistiche Resta da approfondire quanto dichiarato in chiusa al precedente paragrafo: si tratta ora di sviluppare le precedenti considerazioni dirigendole ad un fine specifico, quello di comprendere cosa accade quando manchi l’unità di senso tra le differenti versioni linguistiche (im)posta dall’art. 128 dello Statuto CPI39. Lo Statuto suppone la perfetta concordanza tra le varie versioni linguistiche ed assume che i testi abbiano lo stesso significato e la stessa valenza in tutte le lingue40. È pacifico però che 37 Ibid., p. 132. 38 Gv. 1,1: a Francesco Cavalla si deve uno studio approfondito sul proemio evangelico (vedi F. Cavalla, loc. ul. cit., pp. 167-182). 39 Il tema dell’interpretazione dei testi giuridici plurilingui, con precipuo riferimento allo Statuto della CPI, è trattato da E. Fronza, Les sources du droit international penal. L’expérience des tribunaux pénaux internationaux et le statut de la cour pénale internationale, Paris, 2004, pp.157210. 40 A titolo esemplificativo, intendo riportare la citazio- Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x nella prassi possono verificarsi ipotesi di divergenza di senso tra i testi di pari valore. Nello specifico, lo Statuto della CPI non offre, normativamente, alcun criterio ermeneutico di cui avvalersi per determinare la versione prevalente41. L’assenza di una regola risolutiva generale e astratta non sarebbe, per sé, il punto più rilevante, perché ciò di cui abbisogna il giurista non è semplicemente un quadro sistematico-normativo per risolvere le questioni che si presentano42, ma una logica ne di Rodolfo Sacco, il quale evidenzia che «Il vocabolo giuridico non ha necessariamente un solo significato. La parola contract in quanto vocabolo di diritto positivo inglese o americano, si rapporta all’accordo (agreement) fondato su una consideration. A fianco del contract, il contratto francese ed il Vertrag tedesco che non comportano necessariamente un vantaggio per il promittente o uno svantaggio per colui che stipula. La nozione giuridica ha una sua bivalenza, per cui da un canto è una nozione di diritto positivo, e da un altro canto è una nozione (normalmente dotata di contenuto più generale) appartenente alla teoria generale del diritto» (R. Sacco, Lingua e diritto, in AA. VV., Traduzione e diritto, Padova, 2000, p. 128). 41 Per quanto attiene alle questioni del plurilinguismo nei trattati, frequente è il riferimento all’art. 33 della Convenzione di Vienna del 1969 che recita: «1. Quando un trattato è stato autenticato in due o più lingue, il suo testo fa fede in ciascuna di queste lingue, a meno che il trattato non disponga o che le parti non convengano che in caso di divergenza prevalga un testo determinato. 2. Una versione del trattato in una lingua diversa da una di quelle in cui il testo è stato autenticato sarà considerato come testo autentico solo se il trattato lo prevede o se le parti si sono accordate in tal senso. 3. Si presume che i termini di un trattato abbiano lo stesso significato nei diversi testi autentici. 4. Salvo il caso in cui un testo determinato sia destinato a prevalere ai sensi del paragrafo 1, quando il raffronto dei testi autentici fa apparire una differenza di senso che l’applicazione degli articoli 31 e 32 non permette di eliminare, si adotterà il senso che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, permette di meglio conciliare i testi in questione». 42 Per un’alternativa critica alla prospettiva normativista, si vedano, tra i molti possibili, S. Cotta, Giustificazione e obbligatorietà delle norme, Milano, 1998. Cotta ha rappresentato nella sua forma più autorevole una posizione alternativa al normativismo nell’ambito della filosofia del diritto italiana nel secondo dopoguerra. La posizione antinormativista conosce anche una corrente di studi ispirata al pensiero della classicità, di cui è esponente di rilievo Francesco Cavalla [in prop. vedi F. Cavalla, La prospettiva processuale del diritto. Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991, e più recentemente Id. (a cura di), Retorica, processo, verità, Milano, 2007; nonché M. Manzin (a cura di), Interpretazione giuridica e retorica 90 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) «Che gli consenta di tener conto delle possibili alternative d’impostazione del discorso che gli si prospettano dinanzi al caso di specie, e di prescegliere, ai fini dello sviluppo del medesimo, quella concretamente più promettente»43. Più correttamente, il problema non è rappresentato dal fatto che lo Statuto non dia atto della diversità delle versioni linguistiche (con irrisolta conflittualità), con ciò alimentando il mito dell’equivalenza egualitaria dei testi autentici. Ma, giova ripeterlo, la soluzione del contrasto paventato e delle difficoltà applicative del diritto non può ricercarsi in una griglia generale e astratta44. La prassi giuridica e politica della modernità ha assegnato alla regola il carattere di principio costitutivo del diritto: secondo questa visione teoretica, la norma si rivolge ad una classe indeterminata di soggetti, garantisce l’uguaglianza di trattamento dei destinatari della sua applicazione e viene emanata al fine di prevenire la controversia. Ma non si può pretendere di eliminare la controversia, in tanto in quanto è ineliminabile la differenza che è a fondamento della realtà45. Alla luce di ciò, si rende necessario acquisire coscienza della centralità di una logica che organizzi l’esperienza giuridica non in un sistema statico, di marca razionalistica e cartesiana, ma in un ordine dinamico, in linea con la concezione classica. Infatti, «La conoscenza di una forense: il problema della vaghezza del linguaggio nella ricerca della verità processuale, Milano, 2006; P. Moro, La via della giustizia, Pordenone, 2001]. 43 D. Velo Dalbrenta, Brocardica, Milano, 2007, p. 102. L’Autore, ponendosi alla ricerca del principio costitutivo dei brocardi, riscopre la centralità della topica, della dialettica e della retorica nell’esperienza processuale. La funzione del brocardo, in particolare, non è quella di orpello esornativo del discorso, bensì quella di rappresentare con chiarezza il punto di vista di chi parla, affinché si possa identificare con la stessa chiarezza il punto di vista opposto e procedere al confronto dialettico. 44 Per una prospettiva antinormativista interna al positivismo giuridico, vedi utilmente D. Patterson, Law and Truth, cit., e talune recenti aperture nell’ambito del cd. costruttivismo, il cui rappresentante più autorevole in Italia è Vittorio Villa (V. Villa, Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore. Lezioni di filosofia del diritto, Torino, 2004). 45 Su questo tema si veda M. Manzin, Ordo Iuris, cit. Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x forma astratta non toglie il problema di vedere quali siano le caratteristiche proprie del caso in discussione e quali lo rendano comprensibile: quali siano cioè quelle che si associano in modo ricorrente in una serie di fenomeni già nota in un dato contesto»46. In questa prospettiva, l’unica logica e metodologia di cui il giurista non può fare a meno è la topica giuridica47. L’attività topica si sviluppa quando si scontrano opposte tesi che non possono venire organizzate da un principio unico accolto da tutti gli interlocutori. Segnatamente, Aristotele individuava il genere dei discorsi propri della topica in quello delle discussioni amicali, dei dibattiti politici e dei discorsi giudiziari48. Ecco che la topica è intrinsecamente destinata ad esercitare la sua funzione insostituibile anche per la composizione della controversia che sorga dal contrasto tra versioni linguistiche, facenti fede in pari misura. A riprova di quanto affermato, si consideri l’argomentazione della Trial Chamber nella decisione del caso Akayesu49: essa corrisponde a quella peculiare logica per la quale i mezzi retorici possono produrre una premessa da cui derivare una conclusione stringente in quel determinato contesto. Si riconoscerà in essa un esempio di generalizzazione in senso retorico-giuridico, che consente ad una regola di farsi premessa di ragionamento, entro quel determinato contesto argomentativo50. Jean Paul Akayesu, sindaco della città ruandese di Taba, fu processato dal Tribunale Internazionale per il Ruanda (d’ora in poi TPIR) e condannato nel 1998 all’ergastolo per il massacro di duemila Tutsi rifugiati nel municipio di Taba, lo stupro collettivo delle donne Tutsi 46 Cfr. F. Cavalla (a cura di), Retorica, processo, verità, cit., p. 65. 47 Cfr. F. Cavalla, vc. Topica giuridica, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1992; Id., vc. Logica giuridica, in Enciclopedia Filosofica, Milano, 2006; Id., Retorica, processo, verità, cit. 48 Aristotile, Retorica e Poetica, M. Zanatta (a cura di), Torino, 2004, III, 17. �������� TPIR, Prosecutor c. Akayesu, Trial Chamber, 02 October 1998. 50 Sul concetto di generalizzazione, veggasi F. Cavalla, Retorica, processo, verità, cit., p. 59ss. 91 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) e la partecipazione diretta a diversi omicidi51. La decisione del TPIR sul caso Akayesu ha una funzione paradigmatica nella misura in cui fornisce una serie di elementi interpretativi in relazione al crimine di genocidio, elencando e descrivendo la condotta penalmente rilevante ai fini del reato. Rispetto al tema conduttore di questo lavoro, di interesse è il ragionamento della Corte nella parte in cui risolve una questione definitoria generata dal contrasto tra due versioni linguistiche, quella inglese e quella francese, del testo dello Statuto del Tribunale Speciale. L’art. 2 dello Statuto enuncia, infatti, che per genocidio si intende «Uno qualsiasi dei seguenti atti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale, religioso in quanto tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) attentato grave all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; 51 TPIR Sentenza 02 ottobre 1998. Il capo di imputazione nei confronti di Akayesu era per il seguenti fatti: «1. Akayesu is individually, criminally responsible for the killing of and causing serious bodily or mental harm to members of the Tutsi group. 2. Akayesu aided and abetted acts of sexual violence by allowing them to take place on or near the premises of the bureau communal while he was present on the premises and by facilitating the commission of these acts through his words of encouragement. In other acts of sexual violence which by virtue of his authority sent a clear signal of official tolerance for sexual violence without which these acts of sexual violence would not have taken place. 3. On 19 April 1994, Akayesu addressed a meeting at Gisheshe and called on the population fight against accomplices of the Inkotanye knowing that his utterances would be understood by the people present to mean, kill the Tutsi, and as a result thereof widespread killing of Tutsi had commenced in Taba. 4. At this meeting in Gisheshe, Akayesu mentioned the name of Euphraim Karangwa. Later on, that same day, groups of people acting on the orders of Akayesu and in his presence, destroyed Karangwa’s house and Karangwa’s mother’s house and killed Karangwa’s three brothers. 5. Akayesu is individually, criminally responsible for the death of the eight refugees from Ruanda who were killed in his presence by the Interahamwe acting on his orders. 6. Akayesu is individually, criminally responsible for the killing of the five teachers who were killed by the Interahamwe and local population acting on his orders. Lastly, point, 7, Akayesu is individually, criminally responsible for the torture of Victims». Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x c) inflizione intenzionale al gruppo di condizioni di vita preordinate a condurre alla sua distruzione fisica, totale o parziale; d) imposizione di misure tese ad impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciullo del gruppo in un altro gruppo». Dalla lettura della norma si comprende che il crimine di genocidio non implica la sterminazione del gruppo nella sua interezza ma, ai fini dell’integrazione, è sufficiente che sia commessa una delle azioni menzionate nel succitato articolo con la specifica intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale. Il genocidio richiede cioè il dolus specialis, cioè la sussistenza di uno special intent che consiste appunto in «specific intention to destroy, in whole or in part, a national, etnical, racial or religious group». Con riferimento alla condotta incriminata ex art. 2 co. 2 lett. a) dello Statuto, in ossequio alla quale è genocidio «killing members of the group», la Corte nota che la versione francese utilizza il termine «meurtre», quella inglese «killing». Le espressioni linguistiche in discussione non sono equivalenti: il termine «killing» utilizzato nella versione inglese appare alla Corte troppo generico in quanto comprende sia l’omicidio doloso (intentional homicide) sia l’omicidio colposo (unintentional homicide). Il termine utilizzato nella versione francese, «meurtre», è più preciso e pregnante. La Trial Chamber giustifica pertanto la preferenza per questa concezione rispetto all’altra, offrendo argomenti volti a mostrare la sua idoneità a normare il caso di specie in ragione della sua conformità a ciò che è ritenuto il sapere giuridico in quel contesto territoriale. Più precisamente, la versione francese risulterebbe maggiormente compatibile con la concezione di uccisione espressa all’art. 311 del Codice Penale Ruandese il quale sancisce che «Homicide committed with intent to cause death shall be treated as murder». Inoltre, in ossequio alla presunzione di innocenza dell’imputato e ai principi generali della legge penale, la Corte ritiene che nella versione francese possa essere individuata la versione più favorevole al reo 92 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) e concordante con la definizione di «murder» fornita dall’art. 311 del Codice Penale del Ruanda in quanto contempla solo l’ipotesi di omicidio commesso con l’intento di causare la morte ed esclude l’ipotesi di omicidio colposo52. In tutta evidenza, l’attività dell’argomentare della Corte, chiamata, nel giudizio penale, ad individuare i confini del concetto di genocidio inteso come uccisione di membri di un gruppo, a fronte di due versioni opposte, si svolge a partire da una premessa che viene precisandosi per accumulo. «Definire implica sempre, anche, riportare in un campo più ampio: nel campo, quindi, dove le proprietà del fenomeno si ripetono associate formando una serie»53. Quindi, il retore non dice ciò che è implicito nella premessa, ma aggiunge alla stessa una serie di note caratteristiche idonee a fornire, in quel determinato contesto e tempo, indicazioni univoche sui fatti dedotti in giudizio. Questo procedimento produce una pro52 Per completezza riporto l’argomentazione della Trial Chamber sul punto, parr. ����������������������������� 500-501, TPIR ��������������� sentenza 02 ottobre 1998: «500. With regard to Article 2(2)(a) of the Statute, like in the Genocide Convention, the Chamber notes that the said paragraph states “meurtre” in the French version while the English version states “killing”. The Trial Chamber is of the opinion that the term “killing” used in the English version is too general, since it could very well include both intentional and unintentional homicides, whereas the term “meurtre”, used in the French version, is more precise. It is accepted that there is murder when death has been caused with the intention to do so, as provided for, incidentally, in the Penal Code of Rwanda which stipulates in its Article 311 that “Homicide committed with intent to cause death shall be treated as murder”. 501. Given the presumption of innocence of the accused, and pursuant to the general principles of criminal law, the Chamber holds that the version more favourable to the accused should be upheld and finds that Article 2(2)(a) of the Statute must be interpreted in accordance with the definition of murder given in the Penal Code of Rwanda, according to which “meurtre” (killing) is homicide committed with the intent to cause death. The Chamber notes in this regard that the travaux préparatoires of the Genocide Convention, show that the proposal by certain delegations that premeditation be made a necessary condition for there to be genocide, was rejected, because some delegates deemed it unnecessary for premeditation to be made a requirement; in their opinion, by its constitutive physical elements, the very crime of genocide, necessarily entails premeditation». 53 F. Cavalla, Retorica, processo, verità, cit., p. 61. Il pluralismo linguistico tra identità e differenza issn 2035-584x posizione fondamentale (la premessa) ed una serie di proposizioni da essa dipendenti che hanno la funzione di precisarne il significato. In ciò consiste l’operazione di precisazione del significato del dato normativo controverso avvicinandolo al caso particolare. «Tale procedura raggiunge il suo scopo quando sono state nominate tante proprietà che si associano in modo ricorrente nell’esperienza, tanto che la loro frequenza sia riconoscibile e riconosciuta da chi ascolta»54. In altre parole, la Corte, nel continuo trascorrere dal particolare e concreto del caso al generale e astratto della regola, ricava la premessa veramente adeguata al caso, perché dipendente da un sapere irrinunciabile in quel contesto, da cui poter poi derivare una conclusione necessaria. Conclusioni In chiusura di questo lavoro, sembra opportuno ripresentare, in sintesi, la complessità del problema implicato dalla scelta di un regime plurilingue, riproponendo le acquisizioni fatte proprie nelle linee di approfondimento tematico percorse. L’indagine ha preso le mosse dalla lettura dello Statuto di un’istituzione giudiziaria internazionale, la Corte Penale Internazionale, quale organo deputato ad introdurre garanzie giurisdizionali contro le violazioni della pace e dei diritti dell’uomo. In particolare, l’attenzione è stata riposta su un dato, espresso normativamente negli enunciati degli artt. 50 e 128, vale a dire la scelta di Arabo, Cinese, Inglese, Francese e Russo quali lingue ufficiali, facenti fede in pari misura. Per il vero, come si è detto, le questioni del plurilinguismo possono essere studiate con riferimento alla legislazione, ai trattati o ai contratti nella misura in cui è prassi diffusa, espressione di un crescente multilateralismo nelle relazioni internazionali, la redazione dell’atto in più versioni autentiche: le differenti versioni linguistiche, equally authentic, rappresentano l’enunciazione linguistica plurima di una medesima norma destinata ad operare in tutti gli Stati membri. L’intento del saggio era quello di mostrare 54 Ibid. 93 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x come la suddetta dichiarazione di equipollenza possa considerarsi un portato del pensiero identitario, proprio della modernità, contrassegnato da una tensione egualitaria che si traduce in un ideale giuridico e politico volto ad eliminare le differenze ed a valorizzare l’identità. Così le lingue ufficiali dell’Organizzazione Internazionale sono individuate numericamente e giustapposte quali entità linguistiche equivalenti, con la conseguente rescissione di ogni rapporto tra lingua e sistema. Si è notato infatti che la traduzione del linguaggio giuridico si scontra con problemi di natura semantica e sintattica nonché con la specificità sistemica della lingua. Quindi, a fronte della finzione di equivalenza tra le versioni linguistiche, si pone il problema della divergenza di senso tra testi di pari valore e della necessità di determinare il risultato linguistico prevalente. La soluzione del contrasto non risiede in una griglia generale e astratta, in quanto è necessario tener conto delle possibili alternative d’impostazione del discorso che si prospettano dinanzi al caso di specie e prescegliere, ai fini dello sviluppo del medesimo, quella concretamente più promettente. In questa prospettiva, la logica di cui il giurista non può fare a meno è quella della topica giuridica. A riprova della necessità e della bontà di questa indicazione metodologica, è stata proposta l’argomentazione del TPIR nella decisione del caso di Akayesu, giudicato per il crimine di genocidio, riconoscendo in essa un esempio di generalizzazione in senso retoricogiuridico: la versione francese dell’art. 2 co. 2 lett.a) dello Statuto diventa la premessa del ragionamento giudiziale entro quel determinato contesto argomentativo. Topica, dialettica, retorica ci riportano al quadro di quella logica giuridica di origine classica che è stata offuscata nella modernità, e che occorrerebbe invece assumere consapevolmente nel ragionamento giudiziale per renderlo aderente al contesto linguistico controversiale e semanticamente vago in cui esso si svolge55. Serena Tomasi si è laureata nel 2008 presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento. Attualmente è iscritta al secondo anno della Scuola di Dottorato in Studi Giuridici Comparati ed Europei dell’Università di Trento e collabora alle attività della cattedra di Filosofia del diritto (prof. M. Manzin) e del CERMEG. 55 Per un approccio ai profili di applicazione forense di topica, dialettica e retorica, cfr. F. Cavalla (a cura di), Retorica, processo, verità, cit., nonché M. Manzin, Ricordando Perelman, in G.A. Ferrari, M. Manzin (a cura di), La retorica tra scienza e professione legale, Milano, 2004, p. 17ss., P. Moro (a cura di) Metodologia della scrittura forense. Manuale di redazione del parere motivato e dell’atto giudiziale, Trento, 2006. Il pluralismo linguistico tra identità e differenza 94 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Il diritto alla privacy tra passato, presente e futuro Francesca Fabris Abstract Nonostante si tratti di un concetto diffuso, non esiste una uniforme definizione di diritto della privacy. La natura poliedrica del concetto di privacy risulta ancor più evidente ripercorrendone l’evoluzione storica dalle origini sino agli ultimi interventi legislativi. Da tale analisi emerge come, alla luce del passato e del presente, molti non potranno che essere in futuro gli ulteriori interventi necessari in materia, quantomeno fintanto che non si diffonderà una vera a e propria cultura della privacy. Sommario Parole chiave 1. L’evoluzione del concetto di privacy; 2. Il diritto alla privacy nell’ordinamento italiano; 3. La tutela della privacy privacy; riservatezza; dati personali; amministratore di sistema 1 - L’evoluzione del concetto di privacy È comune ritenere che il concetto di privacy sia il recente parto della mente di qualche giurista, causa forse il termine anglosassone utilizzato. In realtà la nozione di privacy ha antiche e nobili origini, come magnificamente esposto da Sergio Niger nella sua opera Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali1. Questo autore ripercorre l’evoluzione storica vissuta dal diritto alla privacy, dai tempi dell’Antica Grecia sino ad oggi evidenziando come «la nozione di privacy non è una nozione unificante. Non è cioè un concetto che esprime esigenze uniformemente e coerentemente diffuse nella storia e nella collettività»2. Gli antichi greci ritenevano fondamentale, quasi un dovere, per i propri cittadini maschi, 1 S. Niger, Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, Padova 2006. 2 S. Niger, Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, cit., p.XI Il diritto alla privacy tra passato presente e futuro la partecipazione alla vita pubblica3; essi riconoscevano anche la necessità per ognuno di avere una sfera privata, ma si trattava dell’ambito strettamente limitato all’espletamento dei propri bisogni e delle proprie necessità, vicino alla fondamentale bios politikos4. La polis riteneva e tutelava come sacri i confini della proprietà ma a fondamento di ciò non vi era il rispetto della proprietà privata, come saremmo portati a credere, bensì il fatto che «senza una casa un uomo non poteva partecipare agli affari della città, perchè in essa non 3 «un uomo che vivesse solo una vita privata e che, come lo schiavo, non potesse accedere alla sfera pubblica o che, come il barbaro, avesse scelto di non istituire un tale dominio, non era pienamente umano», H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di A. Dal Lago, Milano, 2001, p.19. 4 «Di tutte le attività necessarie e presenti nelle comunità umane, solo due erano stimate politiche e costitutive di quello che Aristotele chiamò il bios politikos, cioè l’azione (praxis) e il discorso (lexis), da cui trae origine il dominio degli affari umani […], dal quale ogni cosa meramente necessaria o utile è rigorosamente esclusa», ibidem 95 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.1 (luglio-dicembre) aveva un luogo che fosse propriamente suo»5. La privacy fine a se stessa, come vita spesa fuori dal mondo comune, acquisiva una connotazione quasi antisociale, tanto che «lo stesso Platone riteneva che in una società ideale non vi fosse alcun bisogno di una sfera privata in cui l’individuo potesse rifugiarsi. Questo bisogno veniva visto come un pretesto per sottrarsi agli obblighi etici e sociali»6. Proseguendo nella propria evoluzione, il termine privato divenne, in età medievale, sinonimo di familiare. In quell’epoca, infatti, la vita privata era basata sulla fiducia reciproca che univa i membri del gruppo7 , dando luogo, quindi, ad una vita familiare intesa in senso conviviale, ove non vi era spazio per l’individualità. Con la feudalizzazione il potere pubblico si frammentava in uno «sbriciolamento che finisce col disseminare i diritti del potere pubblico, di casa in casa, col trasformarsi di ogni grande casa in un piccolo stato sovrano dove si esercita un potere che pur essendo contenuto in una cornice ristretta, pur essendosi infiltrato in seno alla dimora, conserva nondimeno il suo carattere originale che è pubblico»8. La società feudale era, pertanto, caratterizzata dalla fitta serie di relazioni che collegavano gli individui che ne facevano parte, finché si svi5 S. Niger, Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, cit., p.2. 6 Ibidem. 7 «Attorno ai termini che esprimono a quest’epoca la nozione di privacy c’è in effetti una costellazione di altri termini che arricchiscono questa nozione. Soffermiamoci su uno di questi, commendatio, parola chiave, in verità poiché definisce l’entrare in quella relazione su cui si costruiva la concordia nell’interno dei gruppi privati. Come tradurre? Con quest’atto un individuo si affida , affida la sua persona, si lega al capo di un gruppo e attraverso di lui, a tutti coloro che formano il gruppo, con un legame affettivo molto potente che la lingua volgare e la lingua dotta chiamano amicizia e che costituisce il cemento di tutti gli ordinamenti interni: da tali rapporti è strutturata un’entità sociale riparata da una chiusura protettiva contro la legge, la cui tendenza è ad espandersi, a insinuarsi; quando il potere esteriore riesce a farlo, manifesta la sua potenza mediante un simbolismo di penetrazione», G. Duby, Potere privato, potere pubblico, in Aries P., Duby G (a cura di), La vita privata, vol. II, RomaBari, 2001, p.10. 8 Ibidem. Il diritto alla privacy tra passato presente e futuro issn 2035-584x luppò, come chiaramente esposto da Mumford nel suo libro La cultura delle città, il senso di intimità9. «Questo infatti significava la possibilità di appartarsi a volontà dalla vita e dalle occupazioni in comune con i propri associati. Intimità durante il sonno; intimità durante i pasti; intimità nel rituale religioso e sociale; finalmente, intimità nel pensiero.. questo fatto segna la fine delle reciproche relazioni sociali fra i ranghi superiori e quelli inferiori del regime feudale: relazioni che avevano mitigato la sua oppressione. Il desiderio di intimità segnò l’inizio di quel nuovo schieramento di classi che era destinato a finire nella lotta di classe senza quartiere e nelle rivendicazioni individualistiche di un periodo posteriore»10. Fu così che, con il disgregarsi della società feudale, si affermò la privacy nella connotazione a noi più vicina. Secondo Ariès tra gli elementi che contribuirono all’evoluzione di tale concetto vi furono indubbiamente la progressiva costruzione dello stato moderno e lo sviluppo dell’alfabetizzazione11. «I secoli XVIII e XIX rappresenterebbero secondo autorevoli storici, l’età aurea del privato, in cui si precisano parole e cose e le nozioni si affinano»12. Appare doveroso rammentare che a tale periodo risale proprio il right to privacy, ovvero la privacy in ambito giuridico, di Warren e Brandeis, i quali evidenziarono l’esigenza di protezione giuridica della personalità di ogni individuo. Essi indicarono thoughts, sentiments and emotions, come i beni da tutelare giuridicamente in capo ad ogni individuo. Così la giurisprudenza anglosassone, equiparando la violazione della privacy a quella del domicilio o dei luoghi privati, estese a tutela della sfera privata le stesse regole che erano 9 «il primo mutamento radicale […] destinato ad infrangere la forma della casa abitazione medievale fu lo sviluppo del senso di intimità», L. Mumford, La cultura delle città, trad. it. Di E. e M. Labò, Milano 1967, p.53. 10 Ibidem. 11 P. Ariès, Per una storia della vita privata, in Ariès p., Duby G. (a cura di), La vita privata, vol. III, cit., p.VI. 12 S. Niger, Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, cit., p.25. 96 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.1 (luglio-dicembre) state poste a garanzia del pacifico godimento delle proprietà13. L’evoluzione del concetto di privacy non si arresta grazie soprattutto all’interpretazione giurisprudenziale, «trovando esplicazione in situazioni profondamente differenti che vanno dal diritto del singolo ad impedire comportamenti intrusivi nella propria vita privata ad opera dei media, al diritto di aborto, alla libertà sessuale»14 e così manifestando tutta la propria natura poliedrica. Si giunge, pertanto, a parlare di informational privacy e di decisional pivacy. Entrambe hanno «come fulcro il riconoscimento e la garanzia del potere di autocontrollo in capo al singolo, che nel primo caso si manifesta in una sorta di signoria sulle informazioni inerenti la propria persona, traducendosi in un limite non solo alla diffusione di indiscrezioni sulla vita privata, ma anche, più in generale, alla raccolta ed all’impiego arbitrario dei dati personali; mentre nella seconda declinazione la privacy diviene la libertà di autodeterminarsi rispetto alle scelte personali, siano esse pertinenti al procreazione, la libertà sessuale o la libertà di organizzazione»15. Il concetto di right to privacy finisce per diventare un “contenitore concettuale”, come lo chiama Mantelero16, all’interno del quale confluiscono tutte le modalità di tutela della libertà personale garantite al singolo dallo Stato. 2. Il diritto alla privacy nell’ordinamento italiano Da quanto sin qui richiamato emerge chiaramente la difficoltà di fornire una definizione di privacy. Si tratta di un diritto che proprio per la sua intrinseca complessità non ha trovato immediatamente riconoscimento in Italia. Vista l’assenza, nel nostro ordinamento, di una norma generale e astratta a definizione e tutela di tale diritto, il problema principale è stato quello di trovare un “appiglio” normativo 13 La tutela di tale diritto veniva azionata mediante il trespass. 14 A. Mantelero, Il costo della privacy tra valore della persona e ragione d’impresa, Milano, 2007, p.1. 15 Ibidem. 16 Ibidem. Il diritto alla privacy tra passato presente e futuro issn 2035-584x dal quale far derivare la tutela generale dell’interesse alla riservatezza. Ecco che il fondamento della tutela alla privacy è stato rinvenuto negli articoli 13 e 3 della Costituzione, il primo parla di inviolabilità della persona, il secondo di diritto alla dignità. La riservatezza viene quindi individuata come quello «interesse che in base ad una certa valutazione legislativa e sociale risulta fondamentale per l’individuo. Questi ha bisogno per poter condurre la propria vita di vedersi riconosciuto un certo ambito privato dal quale poter escludere l’altrui ingerenza; è la stessa natura umana che rifiuta l’indiscriminata pubblicizzazione di ciò che riguarda nell’intimo. Il rifiuto di tale riconoscimento finirebbe col menomare gravemente l’individuo e col pregiudicare lo stesso valore della persona, quindi la sua dignità; di qui la tutela implicita, anche sotto questo aspetto, del diritto alla riservatezza»17. Definendo la riservatezza un valore essenziale della persona, il diritto alla privacy viene fatto rientrare tra i diritti inviolabili della persona e, quindi, tutelato dall’art. 2 della Costituzione. «In questa prospettiva l’art. 2 Cost. non è più una formula riassuntiva dei diversi diritti della persona costituzionalmente riconosciuti, ma una clausola generale attraverso la quale operare il continuo adeguamento delle garanzie giuridiche alle sempre nuove esigenze di tutela della persona»18. È superfluo evidenziare come dette esigenze siano mutevoli nel tempo e come, soprattutto, il loro incremento sia direttamente proporzionale alla diffusione dei computer. Con la “distribuzione” dell’informatica, il computer non rappresenta più solamente uno strumento finalizzato allo svolgimento di un’attività lavorativa ma diviene un home computer; tutti possono così servirsene per giocare, studiare, disegnare, scrivere e addirittura creare banche di dati personali. Se da un lato la diffusione dei computer rappresenta una indubbia conquista del progresso, non si può sottacere il rischio che tale 17 T.A. Auletta, Riservatezza e tutela della personalità, Milano, 1978, p. 36. 18 S. Niger, Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, cit., p. 43. 97 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.1 (luglio-dicembre) diffusione accompagna: il consolidamento di quello che taluno definisce un “potere occulto”. «Man mano che si amplia il numero dei possessori di computer si allarga conseguentemente quello dei detentori del nuovo potere informatico, consistente nel controllo sui singoli, reso possibile dall’acquisizione e dall’elaborazione di informazioni, spesso anche apparentemente neutre. Un potere spesso occulto, sia per le modalità di esercizio, essendo possibile un archivio di dati a completa insaputa dei soggetti interessati in assenza di alcuna regolamentazione, sia in ragione dell’ignoranza da parte delle persone a cui le informazioni si riferiscono di quelli che sono le modalità tecniche ed i meccanismi di gestione delle stesse»19. Tale potere occulto, all’inizio solo appannaggio della pubblica amministrazione, si è poi diffuso a macchia d’olio anche alle imprese private, basti pensare al fatto che nel 1981 in Italia le banche dati erano già 61.71720 e da allora si sono moltiplicate esponenzialmente. Accedendo ad una o più banche di dati o, addirittura, collegando i dati nelle stesse contenuti, diviene possibile conoscere aspetti della vita di ciascuno, dalle abitudini di consumo ai propri rapporti sociali, dal proprio stato di buono o cattivo pagatore (si pensi alla Centrale rischi della banche) ai siti internet visionati più di frequente e perfino ai propri dati sanitari. Lungo è l’elenco di informazioni che vengono fornite, più o meno inconsapevolmente, e quotidianamente trattate. Si è resa, quindi, subito manifesta la necessità di regolamentare tale attività. Quasi tutti gli stati europei hanno così adottato apposite legislazioni per la tenuta e l’utilizzo delle banche dati. Per quanto concerne l’Italia bisogna però aspettare sino al 199621 perchè il nostro 19 A. Mantelero, Il costo della privacy tra valore della persona e ragione d’impresa, cit., p. 14. 20 Tale dato risulta dalla Relazione al Parlamento sulla rilevazione delle banche dati privati ai sensi dell’art. 8, legge 1 aprile 1981, n. 121, elaborata dal Ministero dell’interno e relativa ai dati aggiornati al 31 dicembre 1981, riportata in V. Zeno-Zencovich (a cura di), Le banche dati in Italia, Realtà normativa e progetti di regolamentazione, Napoli, 1985, p. 217 e ss. 21 Il 31 dicembre 1996 entra in vigore la legge n. 675. Per uno studio comparatistico sul rapporto tra la l. 675/96 Il diritto alla privacy tra passato presente e futuro issn 2035-584x stato, in notevole ritardo rispetto agli altri stati europei, si doti di una normativa per il trattamento dei dati personali22. Successivamente vari altri testi normativi sono stati emanati in tale materia, testi che hanno trovato ordine nel noto Codice in materia di protezione dei dati personali adottato con il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. Il legislatore, che ha riconosciuto sin dai primi articoli del Codice il “diritto alla tutela dei dati personali”, non si è limitato ad ordinare la materia ma ha dettagliatamente regolamentato il trattamento dei dati. È, infatti, «nella fase dinamica che affiora l’esigenza di affiancare una serie di tutele all’affermato diritto sui dati, in maniera da rendere effettivamente garantita e non meramente enunciata tale signoria riconosciuta a ciascuno dall’ordinamento. In tal senso il “diritto alla protezione dei dati personali” viene assicurato attraverso l’introduzione di precise regole di condotta a cui l’autore del trattamento deve attenersi, nonché mediante una procedimentalizzazione del trattamento medesimo al fine di assicurare in via preventiva, con evidenti finalità deterrenti, la conformità della gestione dei dati al dettato normativo»23. Dall’esame del Codice sopracitato emerge con chiarezza il ruolo centrale assunto dal consenso del titolare del dati24, ma non è l’unico elemento. Il legislatore infatti non vuole abbandonare la materia alle regole del mercato e, pertanto, riconosce comunque un nucleo minimo di protezione al singolo proprio con la regolamentazione di carattere procedimentale del trattamento. Egli mira a fissare delle regole comportamentali nonché tecniche al fine di prevenire un uso scorretto delle informazioni e la direttiva comunitaria 95/46/CE si veda quello di Zeno- Zencovich, Una lettura comparatistica della l. n. 675/96 sul trattamento dei dati personali, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1998, p.734 e ss. 22 Oltre all’Italia l’unico altro stato appartenente all’Unione Europea e sprovvisto di una propria disciplina del trattamento dei dati personali era la Grecia. 23 A. Mantelero, Il costo della privacy tra valore della persona e ragione d’impresa, cit., p. 73-74. 24 e ciò a prescindere dalla sua qualificazione giuridica. Secondo alcuni infatti l consenso è un atto unilaterale secondo altri appartiene alla categoria dei negozi giuridici. 98 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.1 (luglio-dicembre) assunte pur in presenza del consenso. 3 - La tutela della privacy Purtroppo vi è un dato di fatto che lo stesso legislatore non ha potuto fare a meno di constare: l’elevato numero delle violazioni nel trattamento dei dati personali. Nella speranza di scoraggiare e limitare tali violazioni il legislatore ha nel corso degli anni previsto un inasprimento delle sanzioni, da ultimo con la conversione in legge del decreto legislativo n. 207 del 30/12/200825. Per comprendere la portata economica di tali mutamenti appare opportuno fare alcuni esempi. Oggi, chi omette di svolgere l’informativa prevista dall’art. 13 del Codice della Privacy, o pone in essere un’ informativa inidonea, è soggetto ad una sanzione che va dai 6.000,00 euro ai 36.000,00 euro; chi poi cede dati violando la normativa stessa è soggetto ad una sanzione che va dai 10.000,00 euro ai 60.000,00 euro26. L’intervento del legislatore non si è fermato qui; con la l.n. 14/2009 sono state, inoltre, introdotte nuove fattispecie di illeciti amministrativi. L’art. 162 del Codice della Privacy è stato appunto modificato ed allo stesso sono stati aggiunti due rilevanti commi: il comma 2 bis ed il comma 2 ter. Il comma 2 bis dell’art. 162 prende in considerazione l’ipotesi in cui il titolare del trattamento non adotti le misure minime di sicurezza, previste dall’art 33 del Codice, volte ad assicurare almeno un livello minimo di protezione dei dati personali, o violi la normativa vigente in tema di corretto trattamento dei dati27. Tale ipotesi oggi costituisce un illecito amministrativo sanzionato con il pagamento di una somma che varia da 20.000,00 a 120.000,00 euro. Il comma 2 ter introduce, invece, un’altra tipologia di illecito amministrativo che si configura quando il titolare del trattamento non osserva le misure necessarie per rendere il trattamento conforme alle disposizioni vigenti e prescritte dallo stesso Garante, ovvero pone in essere un trattamento dei dati vietato dal Garante. In que25 Il 27 febbraio 2009 il decreto legislativo n. 207 del 30/12/2008 è stato convertito nella legge 14/2009. 26 Con la legge 14/2009 le sanzioni amministrative sono state praticamente raddoppiate (prima le sanzioni erano infatti di 3.000,00 e 18.000,00 euro nel primo caso e di 5.000,00 a 30.000,00 euro nel secondo). 27 Si veda l’art. 167 del Codice. Il diritto alla privacy tra passato presente e futuro issn 2035-584x sto caso la sanzione oscilla tra i 30.000,00 ed i 180.000,00 euro. Recentemente è stato inoltre imposto ai titolari del trattamento dei dati l’onere di nominare l’amministratore di sistema, colui che si dovrà occupare della gestione e manutenzione degli impianti di elaborazione con cui vengono effettuati i trattamenti dei dati. È indubbio il tentativo di tutelare, almeno formalmente, il corretto trattamento e la custodia dei dati personali, tuttavia tutte queste innovazioni, una particolareggiata disciplina normativa, persino la previsione di sanzioni sempre più gravose non sono e non saranno sufficienti per recepire nuovi valori nel contesto economico e sociale. Non si può quindi che concordare con Mantelero, «occorre che si radichi una cultura della “privacy”, fondata sulla consapevolezza dell’importanza dei dati personali e, più in generale, su un maggior rispetto per l’individuo. È questo un processo lungo, in quanto incidente su aspetti valoriali, che può tuttavia essere agevolato da una chiara e coerente applicazione della legge da parte degli organi deputati a vigilare sull’attuazione della stessa e, soprattutto, da una divulgazione più lata possibile dei principi che ne sono a fondamento»28. Francesca Fabris è dottoranda di ricerca presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova, inoltre esercita come avvocato occupandosi prevalentemente di questioni in materia civilistica. 28 A. Mantelero, Il costo della privacy tra valore della persona e ragione d’impresa, cit., pp. 84-85. 99 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 Eugenio Ambrosi Abstract Per essere in grado di gestire la comunicazione durante una situazione di rischio ci si deve essere lungamente preparati a farlo: il modo in cui la Regione Friuli Venezia Giulia ha affrontato la pandemia A/H1N1 nel corso del 2009 ne è puntale conferma. I diversi soggetti a vario titolo coinvolti (dalle istituzioni alle organizzazioni ai media) devono aver preparato per tempo, in periodi “normali” le politiche di comunicazione da adottare in situazione di crisi: le esperienze maturate negli anni dalla Regione attraverso specifici progetti comunitari ne sono state utili punti di riferimento. Occorrono interventi formativi/informativi integrati e costanti nel tempo per creare tra la popolazione una vera e propria cultura della crisi, un mix di codici, linguaggi e informazioni in grado non solo di favorire l’adattarsi dei comportamenti dei singoli alla situazione di emergenza in corso ma, ancor prima, di fare raggiungere la quantità di fiducia e credibilità indispensabili per permettere al messaggio di penetrare nella quotidianità del rapporto istituzioni / cittadini e, quindi, di essere efficace. Parole chiave comunicazione istituzionale; comunicazione del rischio; comunicazione di emergenza; pandemia; influenza. 1. Premessa A metà giugno la situazione pandemica della nuova influenza A/H1N1, vulgo influenza suina, è stata certificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: l’espansione del virus, favorita dall’impossibilità di bloccare le frontiere tanto più in epoca di vacanze e voli low cost, è globale, fortunatamente sin qui sterilizzata dal fatto che il vaccino funziona. Quando l’articolo verrà pubblicato, anche nella nostra regione sarà stata avviata la vaccinazione, in primis quella delle persone a rischio; ed in molti, anche autorevoli professionisti, si interrogano ora apertamente sulla sua necessità. Quando invece l’articolo era stato concepito, la pandemia era sulla bocca di tutti: il 25 luglio, per fare un esempio, il Corriere della Sera vi dedicava due pagine, la Frankfurter Allgemeine Zeitung una e così il Times; e, ovviamente, l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Nel dibattito dunque, ora ed allora, in corso sulla pandemia il concetto di “rischio” è ricorrente: nei media, anche chi non l’ha inserito nei titoli, ne cita poi ripetutamente il concetto. Possiamo allora pensare che tale concetto (il rischio, non la pandemia) sia chiaro a tutti? Forse si, forse no. Ad esempio, un professore di antropologia dell’ateneo triestino mi ha fatto notare tempo addietro che il termine ha una derivazione araba, significa “ipoteca”. Per evitare allora il rischio che non lo sia, brevi considerazioni sulla materia si impongono. Diciamo una manciata di pillole. Emanuele Kant1 era stato chiamato alla corte del 1 Le citazioni in Premessa sono tratte da: V. Ambrosi, Divulgazione scientifica: istruzioni per il futuro. Il Parque de las ciencias di Granada come modello per il Parco del mare di Trieste, Università degli studi di Trieste, Facoltà di Scienze della formazione, tesi di laurea in Scienze della comunicazione, a.a. 2006/07. A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 100 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x re di Prussia anche per studiare come prevenire le conseguenze dei terremoti nella società civile. Per Max Weber il rischio può essere considerato un genere di realtà virtuale. Per Jost van Loon solo se si pensa al rischio in termini di realtà in fieri se ne può comprendere la materializzazione sociale. Il concetto di rischio, però, se considerato da un punto di vista scientifico (rischio = incidente x probabilità)2 assume la forma di un calcolo di probabilità che non potrà mai escludere il peggiore dei casi. Le assicurazioni funzionano così, in fin dei conti, secondo V. Prior3. Niklas Luhmann distingue tra rischio e pericolo, facendo riferimento all’accettazione delle decisioni del rischio, evidenziando la differenza esistente tra chi decide il rischio (decisore) e chi è costretto ad affrontarne le conseguenze. Per Francois Ewald4 il calcolo del rischio sviluppa forme e metodi che rendono prevedibile l’imprevedibile. Mentre dischiudendo sfere d’azione sempre più numerose, la scienza crea anche nuovi tipi di rischio5. Quanto minore è il numero di rischi pubblicamente riconosciuti, tanto maggiore è quello di rischi prodotti. Rischi che, nella società del rischio, vedono l’autotrasformazione del rischio tecnico in rischio economico, politico, di mercato, per la salute e via così. Rischi che, secondo Robertson6, sono contemporaneamente locali e globali: sono glocali. E la società moderna è la società globale del rischio7, con alcune contraddizioni palesi: i tecnici delle industrie chimiche sostengono che non vi è alcun rischio nella loro attività, gli assicuratori rifiutano l’assicurazione perché i rischi sono eccessivi. Società globale del rischio perché i pericoli globali configurano azioni transnazionali e favoriscono la nascita di strategie, organismi ed istituzioni e accordi internazionali. Si possono individuare due strategie per affrontare le incertezze prodotte: solo determinate conoscenze possono indurci ad agire, per cui la negazione dei rischi determina una crescita incontrollabile delle incertezze; oppure si opta per la strategia contraria e si fonda l’azione contro i rischi sulla presunta mancanza di conoscenza, per cui tutto diventa rischioso. Il rischio dà indizi su cosa va evitato, non su cosa è più o meno opportuno. Il rischio oggettivo è che, nella miriade caleidoscopica di interventi previsti nei vari contesti, non si capisca il senso del loro fluire, che si perda inutilmente il bandolo della matassa. Ambiente, natura, tecnologia, uomo, scienza, rischio, comunicazione e quant’altro: fermiamoci un attimo, giusto per ricapitolare le idee. Me ne assumo il compito volentieri, portatore di un insolito mix professionale: dirigente pubblico, tecnico, docente universitario, ricercatore, comunicatore, cittadino; e del conseguente carico e portato di esperienze dirette di interazione con esperti e profani in materia di scienza e società, di percezione e comunicazione del rischio, di policy e di governance. 2 L’approccio probabilistico definisce il rischio (R) come il prodotto del danno (D) associato ad un evento che ha una certa probabilità di verificarsi in un intervallo di tempo (Pi/T): da cui la formula R=D*Pi/T. Al riguardo Cfr. M. Lombardi (a cura di), La comunicazione dei rischi naturali, Milano, 2005, pag. 159. 3 Cfr. U. Beck, La società globale del rischio, Trieste, 2001, pag. 155, il quale ritiene che si debba anche tener conto della distinzione, socialmente rilevante, tra decisori del rischio e soggetti costretti ad affrontare le conseguenze delle decisioni di altri. 4 Ibidem, pag. 159. 5 Ibidem, pag.188. 6 Ibidem, pag. 160. 7 Ibidem, pag. 29. Nel tempo ho avuto modo tra docenze, ricerche, tesi e tesine di sviluppare un’articolata esperienza didattica e di ricerca che nel corso dell’ultimo decennio nel mio ruolo di direttore del Servizio Rapporti Comunitari ed Integrazione Europea della Regione FVG ho avuto modo di riportare a concretezza ideando e sviluppando alcuni progetti che si rifacevano in maniera sempre più puntuale alla risk theory, nella sua articolazione strutturale classica di risk analysis, risk management, risk comunication. È in questa chiave che abbiamo vissuto l’avvento dell’euro nel 2001, con un progetto 2. Dal Progetto EURO a ClimChange A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 101 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) articolato di informazione istituzionale e comunicazione pubblica che non solo ha destato l’apprezzamento dell’opinione pubblica locale ma è stato portato ad esempio dagli organismi comunitari e inserito, quale best practice italiana, in una specifica pubblicazione del Comitato delle Regioni8. Un paio d’anni dopo abbiamo vissuto l’ingresso nella UE di Slovenia, Ungheria ed altri Paesi con il progetto “Extra-Large / XL”, che ci ha permesso, partendo dall’esperienza EURO, di portare all’approvazione della Commissione europea un progetto di analisi, gestione e comunicazione del rischio – allargamento 2004 come vissuto sul confine italo/sloveno nella prospettiva di fungere da laboratorio per l’allargamento 2007 sul confine greco-bulgaro e per quello in fieri sul confine italo/sloveno/ croato9. Oggi, più banalmente ma comunque seguendo quelle tracce scientifiche, ci si ripropone di affrontare per tempo il rischio della mancata comprensione del cittadino dell’avvento alla televisione digitale nell’autunno 2010, per affrontare il quale come Corecom FVG stiamo lavorando per tempo e da tempo10. L’ampliamento dell’esperienza ha permesso di dare forma e sostanza all’idea originaria: si è così sviluppata l’analisi del rischio socio8 In occasione dell’arrivo della moneta unica europea il Comitato delle Regioni ha lanciato un bando per costruire un Manuale di buone strategie e misure preparatorie all’introduzione dell’euro, individuando così vere e proprie best practices realizzate da enti regionali e locali, raccolte nella pubblicazione “The Introduction og the Euro and its Impact on Local and Regional Authorities” (Bruxelles, 2001). Tra gli otto progetti regionali è stato selezionato anche “L’Euro tra noi”, realizzato dal Servizio per la Promozione dell’integrazione europea della RAFVG. 9 Il Progetto “ExtraLarge-XL”, finanziato dal PHARE CBC della DG Allargamento, è stato coordinato dal Servizio per la Promozione dell’integrazione europea della RAFVG nel biennio 2002/03 ed è servito per studiare l’impatto dell’ingresso della Slovenia nell’UE sul confine italiano, nella prospettiva di individuare problematiche e metodologie di intervento da sperimentare in loco in occasione dei successivi allargamenti sul confine grecobulgaro e su quello italo/sloveno/croato. 10 Il “Progetto Digito” è attualmente all’attenzione del Corecom FVG in vista della discussione in Consiglio Regionale del bilancio 2010. issn 2035-584x economico per il FVG come pure delle aspettative dell’opinione pubblica regionale alle porte dell’ingresso di economie e popoli sino a non molto tempo prima separate da confini geografici, politici, economici ma anche culturali ed umani, contribuendo alla definizione del quadro di riferimento per una legge regionale di gestione del rischio con l’assistenza ad alcune categorie professionali maggiormente a rischio ed intervenendo poi con una manovra a cascata di comunicazione del rischio verso stakeholder privilegiati: giornalisti, operatori delle telecomunicazioni (tlc), docenti, amministratori locali, ministri di culto; e, attraverso questi, verso categorie target: opinione pubblica, studenti, cittadini, fedeli, etc. Negli ultimi anni della programmazione UE 2000-2006, il progetto “Interreg IIIC Risk & Innovation”, concluso nell’anno successivo con la pubblicazione di un Vademecum sul rischio legato all’innovazione nelle zone di confine europee, ci ha permesso di allargare il nostro cammino dalla dimensione socio-economica a quella tecnologico-ambientale11. E siamo stati ancora impegnati sino alla primavera 2008 nella dimensione del progetto Interreg 3B Spazio Alpino “Climate Change” a ragionare sul cambiamento climatico e le sue ripercussioni sul nostro territorio montano12 e su come comunicarlo ai cittadini. Nella scorsa estate con una tesi di laurea specialistica ci siamo spinti ad analizzare i problemi del rischio pandemico legato alle epidemie di influenza aviaria, prima, e suina, poi13. 11 Il Progetto è stato approvato dallo Steering Committee interregionale il 16 giugno 2006 e si è concluso nel giugno 2007, capofila la Camera di Commercio di Siviglia (Spagna) e ulteriori partecipanti due partner greci (Chamber of Commerce of Drama e Prefectural Local Authority Rodopi/Evros) ed il il Servizio Rapporti Comunitari e Integrazione europea della la Regione FVG per il tramite della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Trieste. 12 Si tratta di una ricerca sul campo nell’area FVG del “Progetto ClimChAlp”, collocato nell’Interreg III B transnazionale dedicato allo Spazio Alpino. Il Progetto, sviluppatosi nel 2006/2008 ha visto partner il Servizio Rapporti comunitari e integrazione europea, della Regione FVG e il Master in Analisi e gestione della comunicazione dell’Università degli Studi di Trieste. 13 T. Bojanovic, Dalla prevenzione del rischio all’esplosione A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 102 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Con i fondi a disposizione: comunitari, nazionali e regionali abbiamo così cercato di sviluppare e promuovere all’interno dell’Amministrazione Regionale e dell’Università di Trieste una nuova sensibilità sulla dimensione specifica del rischio, della sua percezione e della sua comunicazione, lasciando agli altri esperti dei vari settori le competenze di indagine ed intervento in materia di analisi del rischio ambientale, tecnologico, umano e di gestione degli interventi volti a ridurre, minimizzare, eliminare il rischio e le sue potenziali minacce come pure le sue concrete e violente manifestazioni. C’è stata la capacità e la lungimiranza, in particolare, di proporre la dimensione della comunicazione del rischio per primi nella dimensione della cooperazione territoriale nei nostri bacini di eleggibilità, dai Balcani alla Scandinavia, quindi, ed abbiamo inserito, sin dall’avvio della nuova programmazione, come ambito strategico di intervento, la dimensione del rischio tout court e della sua comunicazione in particolare. Oggi siamo quindi pronti a confrontarci, con questo bagaglio di esperienza, con quanti sono interessati ad affrontare il problema in maniera concreta ed organica, ad esempio (ma non solo) nell’ambito della programmazione 2007/2013. 3. Perché ragionare di comunicazione del rischio? Il progetto “Big Manhattan” e lo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, nel 1945 hanno messo in discussione all’interno della nazione americana, e da lì nel mondo intero, la “pacificità” del dialogo sul rapporto tra politica e ricerca, tra scienza e società14. Il Rapporto che l’ing. Vannevar Bush, consigliere del presidente Roosvelt prima e Truman poi, presentò al termine dell’incarico affidatogli per ricucire quel dialogo fu ampiamente ridella crisi: la comunicazione di emergenza, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della formazione, Corso di laurea specialistica in pubblicità e comunicazione d’impresa, a.a. 2008/09. 14 Al riguardo, cfr. G. Brunelli, Le politiche di diffusione della scienza. Consenso, conflitto e partecipazione, in Rivista italiana di comunicazione pubblica, n.25, Milano, 2005, pag. 119. issn 2035-584x preso nei successivi programmi USA di scientific literacy, individuando nella conoscenza scientifica la leva dello sviluppo della nazione. La politica americana si trovava a dover gestire contemporaneamente l’incremento della democrazia e quello della tecnologia all’interno della società, evitando che esse entrassero in conflitto. Cosa non facile, se si pensa agli anni della guerra fredda, della corsa agli armamenti, della corsa allo spazio, ed il termine di scientific literacy, che compare nei rapporti ministeriali sull’alfabetizzazione scientifica per le scuole americane, testimonia lo sforzo in tale direzione; il cosiddetto deficit model è così la base ideologica del flusso monodirezionale d’informazioni tra scienza e pubblico nei programmi di diffusione ed alfabetizzazione scientifica di una società che, dal punto di vista della presa d’atto dell’emergere del rischio scientifico e tecnologico, si rivelava sempre più complessa. Le delusioni della guerra nel Vietnam, la crisi petrolifera, gli scandali politici, la sfida economica del Giappone prima e della Cina poi, il declino della leadership economica nel mondo globalizzato, le paure della sfida portata in casa e nel mondo dal terrorismo: nell’altalena degli alti e bassi che investono la società si è consolidata nel tempo la convinzione dell’utilità di un programma di consenso ed alfabetizzazione scientifica, premessa indispensabile per l’affermarsi di una vera e propria scuola della comunicazione scientifica e della comunicazione del rischio. Anche in Gran Bretagna, sebbene alcuni decenni più tardi, si è sviluppata analoga riflessione sul rapporto tra scienza, tecnologia e società quale premessa per la messa in discussione del rischio e l’adozione di una vera e propria risk theory. Il programma “Public Understanding of Science – PUS” nato all’inizio degli anni Ottanta su iniziativa della Royal Society aveva proprio l’obiettivo di comprendere il livello di alfabetizzazione scientifica del cittadino inglese e di partire da lì per impiantare un nuovo discorso metodologico, similmente a quanto sviluppatosi negli USA: misurazione delle competenze scientifiche dei cittadini, studio dei meccanismi per colmare in via generalizzata le lacune emerse; e A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 103 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) quindi proposta di una serie di attività comunicative su ampia scala, volte ad avvicinare alla società i modi ed i contenuti della scienza e a creare i presupposti per il superamento dei fattori di insicurezza e paura. E’ del 1985 il primo documento elaborato dal PUS: il “Rapporto Bodmer”, dal nome del responsabile di una commissione multidisciplinare (scienziati, politici, sociologi, giornalisti), contiene le ragioni che spingono alla promozione ed alla diffusione della cultura scientifica. E’ la migliore comprensione delle ragioni della scienza e della tecnologia che può portare la collettività a sostenere la crescita della nazione, garantendo il singolo dall’esclusione sociale e rendendolo consapevole nel prendere decisioni che lo riguardano come singolo e come membro della società. I due modelli, quello americano e quello inglese, si ripropongono dunque di operare attraverso l’alfabetizzazione scientifica; sono figure di esperti (scienziati in primis, ma anche giornalisti, amministratori, politici) a sviluppare la riflessione teorica e l’attuazione pratica di proposte operative; il target è individuato sostanzialmente in un pubblico inesperto, omogeneo: studenti ed adulti; le attività di comunicazione non vanno quindi tarate su specifici pubblici, ma devono indirizzarsi verso una gamma generalizzata e generalista di tanti pubblici diversi. Ed in Italia? Nel nostro Paese le vicende legate al terremoto nel Friuli (1976), all’incidente di Seveso (1976, liberazione di diossina nell’ambiente), all’esplosione del reattore 4 della centrale nucleare di Cernobyl (1986), alla diffusione del virus Hiv/Aids, all’epidemia di BSE in Gran Bretagna ed Europa; le discussioni sugli OGM; i vari casi di dismissione di scorie radioattive e la conseguente sindrome “NIMBY – Not in my back yard”; le minacce provenienti dal bioterrorismo (metropolitana di Tokio, 2002); lo tsunami nell’oceano indiano (2004), la ricerca sulle cellule embrionali e la fecondazione assistita (2005); l’influenza aviaria (2006), lo scioglimento dei ghiacci perenni (2007), la corsa al nucleare iraniano (2008), l’influenza suina (2009) hanno indubbiamente influito nel mettere in discussione il rapporto di fiducia tra scienza e società, come di issn 2035-584x volta in volta confermato dalla conta degli italiani su temi sottoposti a referendum, dal nucleare alla ricerca sugli embrioni. Se in passato anche in Italia ci si interrogava, e si dibatteva, sui temi di scienza e sociologia e tecnologia, in chiave di rischio per la crescita economica ed il progresso sociale, oggi l’opinione pubblica si interroga più in generale sul rapporto tra costi e benefici legati all’impatto tecnologico e pone al centro della riflessione un nuovo fattore, quello del rischio: “il rischio e la responsabilità sono intimamente correlati, così come il rischio e la fiducia, il rischio e la sicurezza … A chi può essere assegnata la responsabilità (e dunque i costi)?”15. Fattore, questo, rispetto al quale la comunicazione e la governance della scienza devono necessariamente intervenire. Proprio il contributo di Beck alle scienze sociali del rischio si pone come fondamentale per comprendere il senso del nostro ragionare odierno: sostenendo che lo sviluppo ed il progresso sono stati perseguiti a spese della natura, portando alla rottura del rapporto tra sistema sociale e natura medesima. Per cui nella società del rischio il rischio è sempre ecologico, il processo di sviluppo è sfuggito al controllo ed attraverso l’acquisizione del consenso si sostiene di poter controllare i rischi esistenti ed emergenti16. E’ da qui, da questa pessimistica visione che si è poi sviluppata la discussione sulla vulnerabilità del sistema sociale e la conseguente necessità di elaborare strumenti per conoscere, prevenire, controllare e gestire i rischi. E, ovviamente, comunicarli. Si giunge così a promuovere una sorta di consapevolezza sociale del rischio e non la sua rimozione, consapevolezza che implica nuove strategie di azione per farvi fronte. Anche perché è la stessa opinione pubblica che pone le questioni ambientali a confronto se non in alternativa a quelle dello sviluppo: economia ed occupazione da un lato, tutela delle risorse naturali e quindi dell’uomo dall’altro. Che si tratti di un impianto di produzione industriale, di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti, di un corridoio logistico e tra15 ��������������� Cfr. U. Beck, op. cit., pag. 16. 16 Cfr. M. Lombardi (a cura di), La comunicazione dei rischi naturali, Milano, 2005, pag. 160. A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 104 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) sportistico, di un rigassificatore o quant’altro, la comunicazione intorno a queste scelte è una variante ineludibile e dominante: da una parte la captazione del consenso come strategia fondamentale; dall’altra la partecipazione informata come stile di comportamento. La ricerca sociologica ha nel tempo individuato cinque aspetti ricorrenti nel fenomeno17: innanzitutto tre domande: 1 - la domanda di informazioni sulle ricadute ambientali 2 - la domanda di partecipazione dei cittadini alle scelte 3 - la domanda di una più equa ripartizione di rischi e benefici dopodiché due considerazioni: a - l’accettazione delle scelte di politica ambientale e tecnologica discende dalla credibilità delle istituzioni che garantiscono l’affidabilità delle soluzioni tecnologiche e gestionali; b - i media tendono ad enfatizzare le notizie relative allo stato ambientale, con una comunicazione più sensazionalistica ed allarmistica che informativa. È dall’intersecazione di tali fattori, dalla miscela che ne deriva che alla fine il singolo decide se accettare o meno di convivere con un rischio. 4. Ma allora, che cos’è il rischio? Nella sua dimensione più semplice la materializzazione di un rischio latente viene definita come una rottura dell’equilibrio pre-esistente, che comporta il venir meno del quadro di riferimento esistente sino ad un attimo prima e presuppone la capacità di reazione organizzativa in grado di riportare la situazione ad una nuova condizione di equilibrio accettabile. Di per sè - il rischio può essere naturale o sociale - il rischio naturale può essere passivo o attivo - il rischio sociale può essere volontario o involontario - il rischio può essere reale o percepito. La rischiosità è legata alle proprietà percepite del rischio: - controllato \ non controllato - familiare \ sconosciuto 17 Ibidem, pag. 161. issn 2035-584x - temibile \ poco temibile - immediato \ differito nel tempo - latente \ presente - specifico \ a-specifico - recuperabile \ irreversibile. È sulla base di tali classificazioni che il singolo elabora un proprio grado di esposizione al rischio e le conseguenti strategie di reazioni. È sulla base di tali studi e dello scostamento esistente tra rischio reale e rischio percepito che le assicurazioni lavorano, misurando i rischi e quantificando i costi. Quando abbiamo studiato preventivamente l’impatto dell’euro sulla popolazione del FVG, ad esempio, abbiamo così riscontrato una carenza di informazione di fondo alla quale abbiamo cercato di dare risposta con una campagna informativa -con i limitati mezzi a disposizione- nei confronti dei cittadini più esposti e bisognosi. L’ingresso della Slovenia e di altri paesi ex Patto di Varsavia nell’UE, ancora, ha determinato incertezze per alcune categorie economiche, per cui si è contribuito al quadro conoscitivo per una legge regionale di intervento a loro favore; timori nelle famiglie per l’arrivo di lavoratori dai nuovi paesi a portare via il lavoro ai loro figli; amarezza per l’accoglimento nella casa europea di coloro che avevano cacciato i nostri genitori dalla casa natia istriana: dimensioni, queste, alle quali si è cercato di porre rimedio con campagne di comunicazione ed informazione autogestite come pure attraverso stakeholders previamente individuati e coinvolti: giornalisti e mass media, enti locali ed amministratori, ministri di culto delle varie confessioni, docenti e studenti18. 18 Nella programmazione 1997/2000 il Servizio Promozione dell’Integrazione europea della Regione FVG aveva guidato la partecipazione italiana al Progetto CADSES II Preparity, volto a predeterminare i possibili scenari dell’allargamento comunitario ad est sulle fasce di confine interessate, dalla Grecia alla Germania. Con fondi propri aveva poi sviluppato, in collaborazione con l’ISDEE di Trieste e le quattro CCIAA regionali, un progetto volto a riportare gli scenari comunitari nella dimensione regionale del Friuli Venezia Giulia per fare conoscere i risultati ddi Preparity, per determinare i possibili impatti dell’allargamento ad Est dell’UE sul tessuto economico e sociale del Friuli Venezia Giulia e ipotizzare prime dinamiche d’intervento. Da qui era poi A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 105 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Con “Risk & Innovation” abbiamo studiato nel concreto i rischi che l’antropizzazione del territorio e lo sviluppo industriale e tecnologico possono comportare all’ambiente ed all’individuo, ci siamo confrontati con amministratori, scienziati, esperti per individuare le migliori modalità di comunicazione all’opinione pubblica come al singolo cittadino delle implicazioni che discendono da tali rischi. Così come abbiamo fatto sul versante alpino con lo studio del cambiamento climatico e le conseguenze ambientali, economiche e sociologiche sulle comunità che vi vivono. 5. La comunicazione del rischio, tra teoria e pratica La dimensione soggettiva del rischio e la sua percezione in una situazione preventiva si qualificano come un processo di attribuzione di senso razionale; in situazione di crisi, però, l’individuo è naturalmente portato a “manipolare” le informazioni relativa alla nuova realtà vissuta, cerca di riportare ad un modello interpretativo consolidato il nuovo ed imprevisto, la razionalità non è più sufficiente. L’emergenza fa esplodere il rischio e la sua complessità e la crisis comunication diventa momento originale e strategico gestionale. L’individuo si pone due domande immediate: Che cosà è successo? Che cosa devo fare? Questa domanda di informazione è stata analizzata e portata a descrizione con le curve della domanda e della risposta, la cui distanza individua il cosiddetto vuoto informativo. Quattro sono i fattori da tenere in evidenza quando parliamo di rischi naturali e/o tecnologici: a - l’adeguatezza della vigente normativa di prevenzione, b - l’efficacia dell’organizzazione dell’intervento, c - l’attenzione dedicata dalle istituzioni, d - la capacità dei media di fornire informazioni oggettive. Guardiamo agli attori della comunicazione sotto tre aspetti correlati della loro immagine: 1 - la loro chiarezza, innanzitutto, cioè la capacità di comunicare ma anche la misura in cui l’interlocutore li percepisce vicini ai propri nato il progetto ExtraLarge-XL. issn 2035-584x codici e schemi cognitivi; 2 - la loro credibilità che chiama immediatamente in causa la sfera delle intenzioni attribuite al comunicatore; 3 - la competenza che i nostri interlocutori attribuiscono agli attori della comunicazione, e ci accorgiamo che è proprio la comprensibilità che può costituire la principale pecca. I giornalisti sono più chiari che credibili; sindaco, forze dell’ordine, insegnanti e parroco risultano più chiari che competenti; vigili del fuoco e protezione civile, ovvero gli operatori dell’emergenza, paiono prevalere, anche se più per chiarezza che per credibilità e competenza, mentre gli esperti paiono più competenti e credibili che comprensibili, caratterizzati da un linguaggio difficile. In dieci anni, tanti ne sono passati tra due ricerche in materia svolta in Lombardia (ma da un contesto di rischio tecnologico si è passati ad uno ambientale), ambientalisti ed esperti hanno ceduto posizioni nella graduatoria del gradimento, mentre ne hanno guadagnate forze dell’ordine e vigili del fuoco; i giornalisti ieri come oggi ponevano il problema della loro credibilità, del rapporto fiduciario con il loro pubblico, mentre la frattura esistente tra politici nazionali e locali ed i loro cittadini emergeva chiara dieci anni fa e persiste tuttora. Anche nell’ambito della nuova programmazione comunitaria, all’interno della quale si è riusciti in qualche misura a fare prevalere la necessità di idonei assi operativi in materia di rischio nell’accezione qui utilizzata, si potrebbe quindi proporre, aggiornato e verificato quello precedentemente usato, un modello comunicativo a due livelli (two-step flow communication). Il modello di comunicazione che qui si propone è a valanga: un primo step per amministratori locali, membri di associazioni o gruppi, di volontariato, forze dell’emergenza e del soccorso, operatori della comunicazione, specie locali. A loro volta questi vengono investiti del compito di formare la popolazione attraverso modalità consone al loro ruolo ed alle loro competenze, attraverso: - seminari di formazione per i mediatori - incontri assembleari con la popolazione A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 106 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) - mostra con pannelli, cd-rom - video - gioco di ruolo - spazio interattivo di informazione e formazione. Riprendendo in qualche modo ed ampliando lo schema classico delle “5 W” giornalistiche, si può riportare lo sviluppo dell’attività del modello di comunicazione del rischio così definito ad una serie di domande/risposte/ principi: Why: perchè la comunicazione? Who: chi ne è la fonte? When: quando avviene la comunicazione? Where: in quale contesto? What: che cosa si comunica? Whom: a chi si comunica? Poste le domande ed acquisite per tempo le risposte, è così possibile contribuire fattivamente all’acquisizione delle necessarie competenze e quindi alla costruzione di un messaggio strutturato, puntuale, efficace in materia di rischi naturali, tecnologici, etc per lo specifico territoriale di riferimento. L’esperienza sviluppata dalla Direzione centrale sanità della RAFVG nell’ambito della situazione pandemica A/H1N1 nella primavera/estate 2009, da questo punto di vista, costituisce un interessante esempio di come la P.A. riesce concretamente ad operare in una situazione di rischio prima e di emergenza poi19. Dalla fine del 2003, quando in Estremo Oriente i focolai di influenza aviaria da virus A/ H5N1 sono divenuti endemici nei volatili ed il virus ha causato infezioni gravi anche nell’uomo, il rischio di una pandemia influenzale è considerato concreto. Al punto che l’OMS ha raccomandato a tutti i Paesi di mettere a punto un Piano pandemico e di aggiornarlo costantemente secondo linee guida concordate. La rapida espansione di casi di infezione nell’uomo dovuti al nuovo virus influenzale di tipo A/H1N1 mai rilevato prima, rende questo rischio ancora più concreto e ormai prossimo nel tempo. L’influenza è un’infezione comune in Italia, specialmente durante i mesi invernali. La malattia, causata dal virus dell’influenza, può essere mite o severa e, in alcuni casi, può con- issn 2035-584x durre alla morte. Generalmente alcuni gruppi di persone sono più suscettibili all’influenza di altri, specialmente gli anziani, i bambini piccoli e le persone con particolari condizioni di salute. Questo è il motivo per cui la vaccinazione antinfluenzale è raccomandata a questi gruppi di persone ogni anno. L’influenza pandemica è diversa dall’influenza stagionale perché si sviluppa quando un nuovo virus influenzale emerge nella popolazione umana e si diffonde da persona a persona in tutto il mondo fino a colpire tutti i paesi. Siccome è un nuovo virus, l’intera popolazione sarà suscettibile perché nessuno avrà un’immunità specifica per esso. Quindi, adulti sani come anziani, bambini piccoli e persone con patologie preesistenti saranno contagiati. La mancanza di immunità nella popolazione italiana farà sì che il virus abbia la potenzialità di diffondersi molto velocemente tra la gente. Ciò porterà a una forma di malattia più grave con un maggior numero di decessi. Oggi esistono le circostanze per lo sviluppo e la diffusione mondiale di un nuovo virus influenzale. La diffusione di una pandemia influenzale potrebbe provocare una crisi del sistema sanitario a tutti i livelli e una situazione di emergenza in tutti i settori sociali. Per fronteggiare questo evento in modo coordinato e efficace la Direzione centrale Sanità ha elaborato le “Strategie e misure di preparazione e risposta a una pandemia influenzale nella regione Friuli VeneziaGiulia”, tenendo conto del Piano di preparazione a una possibile pandemia influenzale pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2005 ed il suo recente aggiornamento (Pandemic influenza preparedness and response: a WHO guidance document, 2009), del “Piano nazionale di preparazione e risposta per una pandemia influenzale”, dei Piani pandemici allestiti da altri Paesi e delle conoscenze disponibili. Il documento fornisce le linee guida regionali in caso di situazione pandemica, rappresenta il documento di riferimento per la preparazione dei piani operativi delle singole aziende sanitarie ed ha come obiettivo l’individuare e strutturare gli interventi di sanità pubblica e di tutela della popolazione da attuarsi nel Friuli Venezia 19 cfr. T. Bojanovic, op. cit. A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 107 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Giulia secondo sette azioni chiave: 1. Sorveglianza 2. Prevenzione e controllo infezione 3. Trattamento e assistenza 4. Servizi essenziali 5. Comunicazione 6. Formazione 7. Valutazione. La comunicazione viene riconosciuta come fondamentale strumento per la riuscita del Piano, così come la formazione, l’una e l’altra con rilevanza interna ed esterna, verso gli operatori e verso i cittadini, mentre l’inserimento di meccanismi di valutazione garantisce la verifica dei risultati e il periodico aggiornamento del documento. 6. Conclusioni Se si porta la questione del rischio oltre la sua definizione culturale e se ne esplorano i dettagli relativi alla gestione del rischio nelle istituzioni, risulta chiaro che la nostra società oggi riflette e si concentra sulle conseguenze indesiderate del proprio essere, sui propri rischi e sulle conseguenti implicazioni per il proprio sviluppo. La comunicazione del rischio deve tener conto della situazione in cui si attua, e quindi del momento preventivo oppure di quello gestionale, e dei relativi obiettivi che si pone, cognitivi oppure operativi: dall’incrocio emergono quattro modalità di intervento che orientano gli obiettivi della comunicazione del rischio e, conseguentemente, le strategie da mettere in atto pur nella persistenza del triangolo classico della struttura della comunicazione pubblica: istituzioni – media – pubblico, le relazioni tra i quali evidenziano alcuni nodi di volta in volta problematici20: - il tempo - la fonte - la responsabilità - la conoscenza - le priorità - la cedibilità - la fiducia - i dati issn 2035-584x - la comprensione - l’attenzione - la verità - le funzioni. I percorsi specifici individuati per la specifica progettualità portano all’acquisizione di un linguaggio comprensibile, all’acquisizione di nuove capacità di relazioni con il pubblico, alla stabilità organizzativa e acquisizione delle professionalità, alla routinizzazione del processo comunicativo. Per essere in grado di gestire la comunicazione durante una situazione di rischio ci si deve essere lungamente preparati a farlo: i diversi soggetti a vario titolo coinvolti (dalle istituzioni alle organizzazioni ai media) devono aver preparato per tempo, in periodi “normali” le politiche di comunicazione da adottare in situazione di crisi. Occorrono interventi formativi/informativi integrati e costanti nel tempo per creare tra la popolazione una vera e propria cultura della crisi, un mix di codici, linguaggi e informazioni in grado non solo di favorire l’adattarsi dei comportamenti dei singoli alla situazione di emergenza in corso ma, ancor prima, di fare raggiungere la quantità di fiducia indispensabile per garantire quel grado di credibilità sufficiente a permettere al messaggio di penetrare nella quotidianità del rapporto istituzioni / cittadini e, quindi, di essere efficace. Bibliografia: E. Ambrosi (2001), Examples of best practices: the case of Timavo/Reka river, The role of Euroregions in promoting good-neighbourly “relations, Sofia, 29-30.6.2000, Council of Europe, Strasbourg”. E. Ambrosi (2001), The introduction of the Euro and its Impact on local and regional Authorities: The study-case of Friuli-Venezia Giulia Region, “Committee of the Regions Studies-E-3/2001, Brussels”. 20 Cfr. al riguardo M. Lombardi (a cura di), op. cit., pag. 170. A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 108 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x E. Ambrosi (2002), “EXplaining TRAnsition to enLARGEment”: la Slovenia nell’’UE: un progetto regionale di comunicazione del “rischio-allargamento” per il Friuli-Venezia Giulia”, COM.PA., Bologna, 19.9.2002, RAFVG, s.i.p. E. Ambrosi (2003), Dalla risk analisys alla comunicazione del rischio istituzionale, RAFVG, s.i.p., Trieste, 14.11.2003. V. Ambrosi, Divulgazione scientifica: istruzioni per il futuro. Il Parque de las ciencias di Granada come modello per il Parco del mare di Trieste, Università degli studi di Trieste, Facoltà di Scienze della formazione, tesi di laurea in Scienze della comunicazione, a.a. 2006/07. U. Beck, La società globale del rischio, Trieste, 2001. P. Bevitori (a cura di), La comunicazione dei rischi ambientali e per la salute, Milano, 2004. T. Bojanovi, Dalla prevenzione del rischio all’esplosione della crisi:la comunicazione di emergenza, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della formazione, Corso di laurea specialistica in pubblicità e comunicazione d’impresa, a.a. 2008/09. G. Brunelli, Le politiche di diffusione della scienza. Consenso, conflitto e partecipazione, in Rivista italiana di comunicazione pubblica, n.25, Milano, 2005. M. Lombardi, Rischio ambientale e comunicazione, Milano, 1997. M. Lombardi (a cura di), La comunicazione dei rischi naturali, Milano, 2005. F. Martinelli (a cura di), I sociologi e l’ambiente, Roma, 1989. M. Padula, Crisis communication. Come comunicare le emergenze, Cantalupa (TO), 2005. D. Piegai, Comunicare il rischio. Strategie e strumenti, Roma, 2008. E. Serrano (a cura di), Handbook on crossborder globalisation and innovation risks: EU views and experiences, CCamara Sevilla, 2007. Eugenio Ambrosi, docente di Comunicazione pubblica al Corso di perfezionamento in analisi e gestione della comunicazione pubblica e d’impresa e docente a contratto di Comunicazione pubblica degli enti territoriali presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Trieste. A proposito di comunicazione del rischio in tempi di pandemia A/H1N1 109 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Amministrazione e cittadino: quale comunicazione. Il ruolo del difensore civico Caterina Dolcher Abstract Parole chiave Lo scritto intende presentare la figura del difensore civico come uno strumento di “relazioni pacifiche” e di comunicazione comprensibile, corretta, di ascolto ed empatia tra il cittadino e la P.A., affinché una corretta percezione del “giuridico” ristabilisca in lui un'affezione al sistema democratico onde possa condividere l'interesse per il bene comune, partecipando anche attivamente alla “ricerca delle comuni ragioni dell'agire”. Difensore civico; diritti; individualismo; responsabilità; relazione; pacificazione; trasparenza; partecipazione. 1. Il problema C i sono alcune domande che è opportuno porsi per cercare di individuare quale ruolo, nell’ambito della comunicazione istituzionale tra la Pubblica Amministrazione e i cittadini, spetti al difensore civico. Ne indico le seguenti: se le persone comuni sono in grado da sole di capire il diritto (o meglio il “giuridico”); se sono o non sono messe in grado di farlo dagli attori istituzionali; se è necessario che questo avvenga e perché; e, qualora sia bene che sia, come deve avvenire la comunicazione della Pubblica Amministrazione. Un tempo questo problema non era ritenuto importante: l’illustre Giuseppe Capograssi poteva affermare che «il processo è qualche cosa che tocca tutte le persone e tutti gli interessi: se pure è un problema tecnico, al di sotto c’è un problema di vita, [...] perciò deve essere lecito ad un semplice passante di esprimere non le proprie opinioni che non è in grado di avere, ma qualche cosa che sta al di qua delle opinioni, si potrebbe dire i propri desideri.»1. Possiamo 1 G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, in Rivista perciò convenire che per il quidam di un tempo era sufficiente l’obbedienza al diritto e l’ossequio alle istituzioni che dovevano occuparsi di proteggere la sua vita e le sue cose. Questo poteva avvenire anche grazie alla deontologia di una classe forense ristretta, riservata nell’accesso ai rampolli delle classi colte, conscia della propria superiorità sociale, ma conscia anche della qualità di “servizio” della propria professione. Una tipica dimensione verticale. 2. La situazione attuale: come i cittadini conoscono e vivono il “giuridico” Oggi non è più così: da una parte vi è una pletorica massa di professionisti2, tra i quali purtroppo ve n’è chi, per mantenere un reddidi Diritto processuale, 1950, I, pp. 1-22. 2 Per i dati relativi al numero dei professionisti iscritti agli Ordini forensi in Italia si veda l’ultima Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008 svolta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione in apertura dell’anno giudiziario 2009, pp. 39-41 http:// www.cortedicassazione.it/DocumentiPrimaPag/ InaugurazioneAG/InaugurazioneAG.asp; sito consultato il 15.9.2009. Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 110 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) to dignitoso, non sa più quali cause inventarsi; dall’altra, quel “passante” non è più uno che non sia in grado di avere opinioni. Il cittadino comune, anzitutto, è ben convinto di avere dei diritti da far valere, (il ché è un bene; non sempre però egli è anche disposto a riconoscere che vi sono i diritti altrui). Le sue opinioni, però egli se le forma, purtroppo, solo dai media, attraverso notizie o informazioni formulate spesso in modo suggestivo: infuse in menti digiune di diritto (e spesso anche di cultura generale), producono forti storture. Con questo bagaglio confuso di informazioni “giuridiche” e con le proprie convinte opinioni circa i propri diritti, queste stesse persone si trovano poi a dover ammettere, davanti ad una sentenza o anche soltanto davanti ad una citazione in giudizio, di non essere in grado di capire nulla e non solo per un fatto linguistico. Mancano ai più persino le nozioni di base relativamente alla principali ripartizioni e funzioni del diritto (penale-civile-amministrativo-tributario ecc.) e relativi organi ed essi vanno nel panico se “quel” mondo li tocca personalmente negli interessi più importanti. Le informazioni che ricevono, però, sono spesso sommarie, sbrigative, e anche quelle formulate in linguaggio “iniziatico”3. È interessante considerare questo modo di “percepire” la realtà del giuridico da parte del comune cittadino raffrontandolo al degrado civile cui assistiamo in questa società di massa, complessivamente benestante, ma irriguardosa del diritto inteso come «regola socialmente garantita»4; una società cioè per larga parte incapace di uniformare le proprie azioni secondo le regole date nel contesto sociale italiano. Il fenomeno ciclico dei condoni, 3 S. Ondelli, La lingua del diritto, Roma, 2007, p. 5 denuncia che: «i giuristi non possono esimersi dal compiere operazioni semantiche (determinare significati), poiché la loro attività si fonda sul linguaggio e in esso trova il suo strumento. Non potendo conoscere il diritto senza sapere che cosa sia il discorso, tale attività richiederebbe una consapevolezza linguistica che spesso non viene perseguita dagli addetti ai lavori, i quali non ampliano le proprie attività oltre a prospettive piuttosto ristrette, limitate alla cultura giuridica, e il linguaggio si delinea come un mero strumento [...]» 4 Questa definizione di “diritto” trovasi in C.M. Bianca, Diritto civile. Norma giuridica, i soggetti, Milano, 1984, p. 5. issn 2035-584x per esempio, che così spesso e a lungo sono stati e sono posti in essere in vari campi del diritto amministrativo, tributario e penale, consolida l’opinione che il rispetto delle leggi non è necessario e, anzi, non “conviene”. Prevale in vaste zone d’Italia un’illegalità diffusa in ogni strato della popolazione e l’arte di arrangiarsi. In alcune attività umane particolarmente pericolose, come la guida dei mezzi di trasporto, il rispetto delle norme è trascurato addirittura dalla maggioranza dei cittadini. D’altra parte assistiamo, più che nel resto del mondo, ad una enorme difficoltà degli organi giurisdizionali nel “rendere giustizia”. Affaticamento che dipende da molti fattori, in particolare, dall’altissimo numero delle questioni sottoposte ai giudici. L’Italia ha un non invidiabile primato in Europa quanto a litigiosità e durata dei processi5. Vi è un nesso tra la mancata o distorta comprensione del giuridico da parte del comune cittadino, il fenomeno di “denegata giustizia” da parte del sistema giurisdizionale italiano e il degrado nel rispetto delle “regole”? Secondo quella che viene definita prospettiva processuale del diritto, è il processo, da un punto di vista logico ed ontologico, l’evento primo, originario dell’esperienza giuridica. Il diritto esercita la sua funzione attraverso la sentenza che è l’atto che risolve la crisi, cioè dirime i conflitti intersoggettivi. Solo con la sentenza il diritto risponde a quel desiderio – o bisogno - del nostro famoso passante il quale lo accetta se e in quanto è in grado di risolvere le sue particolari crisi, di tutelare i suoi diritti alle cose che gli servono, che servono alla sua vita di ogni giorno. E’ una prospettiva che «relativamente ai rapporti tra diritto e processo, non considera il processo in funzione del diritto, come se avesse il compito di ristabilire un ipotetico ordine giuridico compromesso dall’insorgere della controversia, ma il diritto in funzione del processo, nel senso che tutta l’esperienza giuridica è condizionata 5 Per queste affermazioni si rinvia ancora alla Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008 svolta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione in apertura dell’anno giudiziario 2009 http://www.cortedicassazione.it/DocumentiPrimaPag/InaugurazioneAG/ InaugurazioneAG.asp cit., p. 30. Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 111 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) dall’esigenza di risolvere le controversie».6 Questa prospettiva mi pare che faciliti la lettura del fenomeno di degrado civile sopra denunciato: in un sistema statuale dove il processo non funziona, il “diritto” inteso, come si è detto, come «regola socialmente garantita» tende a scomparire. Restano: un’enorme congerie di norme, talvolta severissime, talvolta incongruenti tra loro7; un apparato repressivo che fa del proprio meglio per funzionare – e che solo grazie alla professionalità, abnegazione e buon senso delle persone che vi lavorano ottiene grandi successi in lotte difficili e sanguinose, come contro terrorismo e mafie -; carceri strapiene di persone delle quali però la metà sono in attesa di giudizio; “resiste” un apparato giudiziario scalcinato dove persone volonterose cercano di fare del proprio meglio in condizioni spesso impossibili, talora con grande frustrazione per la consapevolezza di manovrare un sistema lentissimo ed inefficace. Viene a mancare il diritto8. La gente non 6 F. Cavalla, La prospettiva processuale del diritto - Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991, p. 9. 7 Se l’attuale legislazione italiana la si giudichi nella prospettiva non formalista, nel senso indicato da M. Cossutta, Questioni sulle fonti del diritto, Torino, 2005 p. 4: «la fonte formale di produzione del diritto oggettivo renderebbe palese, istituzionalizzandolo, un fenomeno giuridico di per sé pre-esistente [...] tanto che il diritto oggettivo, all’interno della prospettiva non formalista, non potrebbe sussistere se separato dalla sotterranea presenza della regolarità, di cui è espressione. La fonte formale non sarebbe il luogo di creazione del diritto oggettivo, piuttosto [...] un mezzo di ricognizione» - le attuale “fonti del diritto” mi pare denuncino efficacemente l’attuale schizofrenia della società contemporanea. Circa i danni che una legislazione contraddittoria, incongruente o troppo mutevole produce nell’ordinamento si veda anche L. L. Fuller, La moralità del diritto, Milano, 1986, p. 56 ss. 8 Sono ipotizzabili certamente molte spiegazioni a questo fenomeno contemporaneo. In particolare mi sembra molto interessante quella che traggo dall’ipotesi formulata da G. Cosi in L. Lombardi Vallauri (a cura di), Logos dell’essere logos della norma. Studi per una ricerca, Milano, 1969, p. 843, il quale riconduce l’esperienza originaria e primordiale del diritto alle due condizioni «onto-esistenziali di base, comuni ad ogni essere umano in quanto tale: 1) limitatezza temporale: la sua “finitezza”; 2) carenza materiale: la sua “indigenza”. Condizioni delle quali l’uomo, unico tra i viventi, possiede la piena consapevolezza.» Situazione che invece l’uomo contemporaneo forse non percepisce oggi per il fatto «di vivere issn 2035-584x recepisce più che una qualche “giustizia” è amministrata nel nome del popolo italiano e non pensa più che le norme vadano rispettate. Si aspetta ancora risposte dalla giustizia, ma il più delle volte è costretta a constatare che non ne riceve o che quelle che riceve non le capisce. La gente ne deduce che il sistema è “ingiusto” e lo ripaga di conseguenza. Alla domanda, perciò, se è necessario che il cittadino capisca, mi pare che si debba rispondere di sì: se il cittadino non è messo in grado di capire il sistema, quali diritti spettano a lui e agli altri e quali sono i suoi doveri, o meglio le sue responsabilità9; se le risposte dell’ordinamento gli appaiono incomprensibili ed incongrue, - peggiori addirittura di quanto lo sono in un ambiente relativamente ma diffusamente sicuro» che lo porta a rimuovere il dato ontologico e, quindi, l’idea stessa del diritto. 9 Il termine “dovere”, oltre che desueto nel linguaggio comune, è oggetto di analisi critica in filosofia. Sicuramente può ancora essere pensato hofeldianamente come concetto correlato a “diritto” in una delle relazioni diadiche fondamentali. Attualmente, forse è meglio fare ricorso al termine responsabilità. La proposta di un’etica della responsabilità che presenti argomenti rilevanti anche per il diritto viene ripresa da A. Foddai in L. Lombardi Vallauri (a cura di), Logos dell’essere logos della norma. Studi per una ricerca, cit., p. 1119, la quale, a partire dalla crisi dei principi dell’agire nel panorama culturale postmoderno, illustra l’etica della responsabilità di K.O. Apel e H. Jonas, i principali teorici che sostengono la necessità di fondare razionalmente i principi dell’agire responsabile «considerata la crisi teorica e pratica dei principi dell’agire nel panorama postmoderno» e considerata l’«impossibilità di fondare razionalmente i valori che guidano le scelte individuali e collettive, assumendo nel discorso quell’idea di razionalità avalutativa ricavabile dagli esiti dell’epistemiologia moderna che ha costruito una ragione neutrale rispetto al valore». H. Jonas ritiene che la capacità di essere responsabili faccia parte del corredo ontologico degli uomini e che per costruire il principio responsabilità la sua esplicazione sia affidata ad un dovere di conoscenza che incombe su ciascuno, relativo sia al valore dell’oggetto o soggetto verso cui si dirige la sua azione, sia sugli effetti che è ormai capace di produrre. Come ci illustra la Foddai, secondo Jonas la ragione per cui la responsabilità non è mai stata al centro delle teorie etiche tradizionali risiede nel fatto che in queste l’aspetto cognitivo è stato svalutato a vantaggio di quello prescrittivo. Mi sembra che nel presente discorso sulla comunicazione tra istituzioni e cittadino questo pensiero risulti molto utile nel distinguere il paradigma verticale (prescrizione-obbedienza) da quello orizzontale (cognizione-responsabilità). Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 112 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) realmente a causa delle disfunzioni giudiziarie e della cattiva comunicazione sopra descritte la sua affezione all’ordinamento democratico si allenta10. Il cittadino, che dovrebbe essere al centro dell’ordinamento democratico, se ne distanzia sfiduciato, facilmente delegando il potere ad un “padrone” che sia capace di risolvere i suoi problemi quotidiani. Cosa avviene nei contatti quotidiani del nostro cittadino con la pubblica amministrazione? Mi sembra che le cose non vadano meglio di quanto vanno nel sistema-giustizia: neppure quando non si hanno motivi per lamentare ritardi o disfunzioni, il rapporto con la PA non è facile perché si fa fatica a capire, il linguaggio è spesso tecnico, il dialogo non è cordiale, la relazione si trasforma spesso in uno scontro11. 10 O forse è proprio la tenuta dell’ordinamento democratico che si allenta. I due fenomeni, degrado del sistema e disaffezione, probabilmente, si autoalimentano. «L’identità della democrazia richiede un’elevata misura di responsabilità nei confronti della dimensione collettiva dell’esistenza». Invece «Le forze cooperative sono in difetto nella politica; spadroneggiano i più forti; il denaro, da misura di valori materiali, è diventato valore per se stesso ed oscura ogni altro; la prevaricazione prevale spesso sul rispetto; la legalità è insidiata non solo dall’illegalità, ma addirittura dalla legalizzazione dell’arbitrio; il potere legale è intrecciato a quello illegale e criminale; gli egoismi prevalgono spesso sulla solidarietà; dilagano la solitudine, il senso di vuoto, di inadeguatezza e di colpa rispetto ad una società ultracompetitiva» La diagnosi è di G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità, Bari, 2008, p. 7. Purtroppo all’acuta diagnosi pare alla sottoscritta che non segua, da parte dell’illustre Autore, un’altrettanto valida ipotesi terapeutica nel senso che egli dichiara di abbracciare proprio quelle categorie “formali”(testualmente si veda ibidem p. 3) che, per esempio per F. Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Milano, 1984 (l’idea permea tutta l’opera dell’Autore) fanno parte della visione individualistica del diritto. 11 S. Rolando, La comunicazione di pubblica utilità, Milano, 2004, p. 316: «C’è un vecchio stereotipo della relazione tra burocrazia e cittadini che fatica a morire. E’ fondato su tre fattori radicati: l’alterità, la diffidenza, la depersonalizzazione. Lo stereotipo è quello di darsi del voi. “Voi” dice la gente di quelli che fanno un lavoro “pubblico” [...] “Voi” dice la burocrazia quando si riferisce ai cittadini in coda [...], a soggetti di adempimenti, a destinatari di messaggi dovuti [...] L’alterità è evidente. Entrambi gli schieramenti denunciano una soggettività “diversa” [...] Entrambi gli schieramenti sentono poca simpatia reciproca: la burocrazia [...]sente il cittadino come una perturbazione; il cittadino sente la burocrazia come parassitaria. La depersonalizzazione sta tutta in quel “voi” issn 2035-584x Per non parlare di quando, addirittura, la comunicazione manca del tutto: centralini che non rispondono o costringono a defatiganti attese, uffici muti che non rispondono al telefono e neppure alle mail o ai fax. Personale “intasato” dalle troppe richieste (succede!) o assenteista? Il giudizio del cittadino, rinforzato dai molti luoghi comuni, è generalmente quello più negativo. 3. Quale comunicazione? Nell’era delle comunicazioni la comunicazione è diventata difficile, non solo quella con la pubblica amministrazione. Per comunicare bisogna riconoscere l’altro da sé, volergli parlare perché capisca e, prima ancora, bisogna saperlo ascoltare. Il comunicare è un’azione fondamentale della persona e ne coinvolge intelligenza, volontà e amore per il prossimo12 proprio perché è relazione13: l’uomo è persona nella relazione con l’altro14. Il riconoscimento dove sparisce il familiare “tu”, il più rispettoso “lei”, il riconoscimento dell’identità dell’interlocutore.» 12 Mi rendo conto che usare questo termine oggi è rischioso. Nel mondo moderno dobbiamo ammettere che la secolarizzazione ha portato all’«eclissi-e-secolarizzazione della carità»: così L. Lombardi Vallauri, Amicizia, carità e diritto, Milano, 1969, p. 10. 13 Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in veritate propone, affinché il mondo globalizzato ritrovi il senso più profondo e giusto dell’agire umano, un nuovo “modo di pensare” centrato sulla relazionalità come categoria centrale per leggere la condizione umana e le vie da percorrere per un autentico sviluppo integrale della persona e dell’umanità. Questo aspetto dell’Enciclica viene messo in risalto nel commento redatto da P. Donati, La novità della “Caritas in Veritate”, Zenit, 21.7.2009, <http:// www.zenit.org/article-19045?l=italian>; sito consultato il 22.7.2009. 14 Francesco Carnelutti – intervenendo nel Convegno annuale dell’UGCI Persona, Società intermedie e Stato, Quaderni di Iustitia, 10, Roma 1958, p. 35 - ricordava che non siamo tutti d’accordo intorno al significato del termine “persona”. Ancora oggi, cinquant’anni dopo, i termini persona e individuo continuano ad essere usati promiscuamente, quasi fossero sinonimi. Secondo l’eminente giurista, l’essere persona è la meta del cammino, del quale l’individuo è il principio: se il termine “persona” viene da per-sonare perché si chiamava persona la maschera che si adoperava una volta per dar forza alla voce degli attori nei teatri all’aperto, «la parola allude ad un’espansione dell’individuo». Mi pare, allora, che Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 113 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) vicendevole tra l’uomo e l’altro costruisce rapporti pacifici ed etici perchè «la relazione dialogica tende a distruggere il rancore e il risentimento provocati dalla lite.[...] Nell’ordine del dialogo e dell’incontro, l’orizzonte particolaristico di ognuno si apre [...] e la prospettiva di ciascuno si completa nella diversa prospettiva dell’altro. Attraverso la comprensione reciproca deriva l’arricchimento di ciascuno e sorgono le condizioni per la ricerca e lo svelamento della verità. [...] La vera pace è in qualche modo necessariamente anche una pace cognitiva, una pace nella verità»15 Verità parziale e provvisoria che cerca la verità dell’altro con il presupposto psicologico della «benevolenza degli uni verso gli altri, un atteggiamento spirituale di reciprocità»16. Una verità che si “costruisce” mediante il confrontare e il mettere in comune le verità parziali dei singoli. L’esperienza giuridica è un’esperienza di rapporto. Su questo anche il cd. positivismo formalista è d’accordo17 ed è quindi possibile «approfondire l’esperienza giuridica [...] come uno dei modi dell’incontro con l’altro, dell’esse ad, dell’essere-in-relazione, dell’essere-con (Mitsein).»18 questa “espansione” stia nella capacità di relazione con l’”altro”, capacità che ciascuno acquista per una propria strada, sua particolare, singolare. C. Mazzucato in L. Lombardi Vallauri (a cura di), Logos dell’essere logos della norma. Studi per una ricerca, cit., p.1248 efficacemente scrive: «E’ questo il rapporto pacifico ed etico: la presenza dell’Altro non fa violenza, anzi, l’epifania del volto fa appello alla responsabilità verso il proprio simile e fonda la libertà di ciascuno.» 15 C. Mazzucato, ibidem, p. 1249. 16 G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità, cit, p. 6. L’Autore propone l’etica del dubbio come ri-affermazione della verità perché «il dubbio, al contario del radicale scetticismo, presuppone l’afferrabilità delle cose umane, ma, insieme, l’insicurezza di averle afferrate veramente, cioè la consapevolezza del carattere necessariamente fallace o mai completamente perfetto della conoscenza umana, cioè ancora la coscienza che la profondità delle cose, pur se sondabile, è però inesauribile» ibidem, p. VII. Con questo atteggiamento di ricerca, perché la mia verità è imperfetta e cerco quella dell’altro, avviene l’incontro che rende “vero” il dialogo ed efficace la comunicazione. 17 H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 1966, p. 44 riferendosi all’ordinamento giuridico afferma «E’ il comportamento reciproco degli uomini l’oggetto di questa regolamentazione». 18 L. Lombardi Vallauri, Amicizia, carità e diritto, cit., p. 5. issn 2035-584x Il rapporto tra privati e pubblica amministrazione – e quello tra la giustizia e il cittadino comune – che sono certamente rapporti giuridici, possono costituire una relazione nel senso proprio e pieno del termine? La risposta non è scontata. In primo luogo, l’esperienza giuridica non è ritenuta, tradizionalmente, come un’esperienza di autentica relazione: L. Lombardi Vallauri, nel mentre include il diritto tra le esperienze di rapporti, esclude che quello giuridico sia un rapporto che si instaura al livello “personale” poiché «l’instaurarsi di un rapporto di diritto obbedisce ad un’ispirazione ambivalente: - fiducia e diffidenza, affidamento ed autogaranzia, intesa con l’altro e difesa dall’altro, alleanza e competizione – [...]» Secondo questo Autore, nel diritto mancano sia il momento oblativo che quello unitivo: non vi è dedizione né dono e non vi è «- sia pure nel mantenimento, spesso indispensabile, delle “distanze” - fusione, comunione, ma coordinazione, delimitazione. Ciò significa essere uniti da una linea divisoria, accumunati da un con-fine. [...] Complementari e necessari a vicenda nell’atto stesso di escludersi. Posso perché tu devi; se posso io, non puoi tu; se questo è mio, non è tuo»19 e via dicendo. Questa «imperfezione dei momenti oblativo e (soprattutto) unitivo» sarebbe connessa, secondo l’Autore, al carattere non personale del rapporto giuridico nel senso che «esso si istituisce tra soggetti pensati astraendo dall’io inconfondibile di ciascuno; tra soggetti tipici e dunque settoriali; tra ruoli.»20 In secondo luogo, nei rapporti con le istituzioni ci troviamo di fronte ad un rapporto tradizionalmente asimmetrico: da una parte un’istituzione, come tale “impersonale” che persegue fini pubblici, dall’altra il singolo che si pone in termini “personali” - di diritti, interessi, aspettative, semplici attese o bisogni -. Non è dubitabile che il rapporto di diritto amministrativo sia, per la tradizionale scienza giuridica, un rapporto asimmetrico né è dubitabile che il rapporto che si instaura nel diritto sia inferiore a quello dell’amicizia e d’amore – nel senso di carità -. Eppure non penso che il 19 ibidem, p. 124 20 ibidem Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 114 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) rapporto giuridico escluda di per sé un rapporto interpersonale di comunicazione improntata a simpatia, gentilezza e cordialità. Penso cioè che inserire questi umanissimi valori, che fanno parte del comune comportamento umano, nel rapporto giuridico che, di per sé, non li richiede, renda possibile una più salda “tenuta” dell’ordinamento democratico; ordinamento che, invece, nell’odierno pluralismo dei valori, plurali fino ad un’estrema frammentazione21, sta pericolosamente mostrando di stare per cedere. Ritengo cioè che una comunicazione empatica nell’ambito giuridico-istituzionale possa facilitare i cittadini nell’assumere una consapevolezza dell’effetto sociale dei loro atti giuridici e possa aiutarli sia a far valere i propri diritti/ interessi sia a sentire la loro responsabilità nei confronti dell’Altro, che si tratti del singolo con il quale la relazione si è guastata o che si tratti di quell’altro rappresentato dalla pubblica amministrazione (dalla quale spesso si pretende molto di più di quanto sia possibile ottenere). Quale strumento utilizzare? Quale strumento amministrativo può fare in modo che la comunicazione istituzionale contribuisca a far vivere il diritto «nel senso del suo farsi (comune) esperienza»22 (giuridica), così da superare l’asimmetria del rapporto cittadini-P.A., trasformandolo da “verticale” ad “orizzontale” e da giuridico-formale a rapporto anche umano non necessariamente conflittuale? 4 Il cittadino: i suoi diritti, la sua responsabilità Col termine diritto, com’è noto, indichiamo diverse realtà giuridiche sia dal punto di vista dell’ordinamento, come insieme delle leggi poste (diritto positivo – il latino lex), sia dal punto di vista dei soggetti, come situazioni 21 Il sociologo Giuseppe De Rita in Una società a coriandoli, intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo in “Corriere della Sera”, 26.8.2007, ha così definito la nostra società, “a coriandoli”, «disintegrata, frantumata in una miriade di interessi particolari.» Mi pare che questa diagnosi sia rivelatrice di una società che sembra avere perso del tutto il senso del bene comune. 22 F. Cavalla, La prospettiva processuale del diritto – Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991, p. 45. issn 2035-584x favorevoli semplici o complesse (il latino ius). Dal punto di vista soggettivo, il termine diritto è usato sia nel senso di situazione favorevole tutelata da un’azione corrispondente che consente di esigerlo – diritto soggettivo – sia in un senso generico come situazione valutativa o argomentativa, ossia con riferimento a valori che giustificano situazioni favorevoli più o meno tutelate23. Comunque si intenda, si è visto sopra come sia il diritto-ordinamento che il diritto-situazione favorevole chiedono di essere visti in una prospettiva di rapporto. È nel rapporto – il processo tradizionalmente inteso e il procedimento amministrativo quanto al diritto ordinamento – che l’ordinamento si realizza come sistema di relazioni ordinate al bene24. È nel rapporto, eventuale o necessario – cui si potrebbe annettere la tradizionale distinzione tra diritti assoluti e relativi25 – che il diritto-si23 Per una recente classificazione si veda Mauro Barberis, Etica per giuristi, Bari, 2006 – pp. 3 e ss. N. Bobbio, L’età dei Diritti, Einaudi, Torino, 1997, p. XIX ci avverte che: «Il linguaggio dei diritti resta molto ambiguo, poco rigoroso e spesso usato retoricamente. Nulla vieta che si usi lo stesso termine per indicare i diritti solo proclamati e quelli effettivamente protetti», ma – e non possiamo che convenire con N. Bobbio - «tra gli uni e gli altri c’è una bella differenza!». 24 J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano, 1991, p. 11 afferma che «è il bene comune il fondamento dell’autorità». Più di recente F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2001 p. 87 definisce il bene comune come il «Bene cioè che accomuna una molteplicità di soggetti diversi facendone, appunto, una comunità». 25 La tradizionale distinzione tra diritti assoluti e relativi evidenzia come nella posizione soggettiva garantita dai diritti “assoluti” per eccellenza, i cd. diritti reali, campeggia in primo piano «la relazione dell’uomo e la cosa che si attua senza bisogno della cooperazione altrui» (per tutti cfr. A. Torrente e P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 1978, p. 65). In realtà, è esperienza quotidiana che anche per i diritti assoluti (reali e della personalità) la relazione, anche se eventuale, è un’ipotesi tutt’altro che astratta. Questa constatazione pratica è suffragata dalla seconda tesi di Hohfeld (che ognuno degli otto concetti giuridici fondamentali è sempre associato ad un altro concetto giuridico fondamentale) dalla quale deriva «che un diritto reale non è un diritto nei confronti di una cosa, né nei confronti di una collettività indifferenziata, ma fa parte di un gran numero di diritti fondamentalmente simili, riconducibili ad una persona; ad ognuno di tali diritti è correlativo Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 115 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) tuazione favorevole particolare si sperimenta e trova tutela in quanto parte di quel sistema di relazioni ordinate. Finché i diritti restano concepiti in termini individualistici e solipsistici26 la contrapposizione sia dei cittadini tra loro sia con la pubblica amministrazione resta inevitabile proprio per l’impostazione intrinseca a questa visione: il diritto-ordinamento inteso come tecnica che consiste nell’ottenere dagli uomini la condotta sociale desiderata mediante la minaccia di una misura coercitiva27, dove ciò che lo caratterizza, rispetto ad altri ordinamenti sociali, è l’elemento coattivo, “crea”, per così dire, fa sorgere diritti-situazione favorevoli concepiti e vissuti in termini conflittuali. Non c’è spazio per la comunicazione che è vera, invece, nella misura in cui cerca la “comprensione” «atto con cui si prende coscienza della realtà intesa come l’insieme di componenti fattuali, un dovere (uno e uno solo) riconducibili singolarmente a molte persone diverse.» «Per Hohfeld il supposto unico diritto reale, correlato con un “dovere” di tutte le persone, comporta in realtà tanti separati e distinti rapporti “diritto-dovere” quante sono le persone soggette a un dovere». «Con questa sua seconda tesi Hohfeld conduce alle estreme conseguenze la tesi della necessaria relazionalità di ogni posizione giuridica estendendola anche ai diritti reali, così come dalla seconda tesi deriva che non può esistere un soggetto di diritto isolato, ma che un soggetto di diritto si dà sempre insieme ad un secondo soggetto di diritto (così come in M. Buber o in E. Mounier l’“Io” è costitutivamente definito dal “Tu”)». Così G.M Azzoni in L. Lombardi Vallauri (a cura di), Logos dell’essere logos della norma. Studi per una ricerca, cit., pp. 991-995. 26 G. Zagrebelsky ricorda che se la democrazia basata sulla libertà «alimenta la pura libertà egoistica, realizzando integralmente il resort individualistico, sprigionerà la medesima forza autodistruttiva che è proprio di altri regimi che realizzano integralmente il proprio principio essenziale» in Contro l’etica della verità, cit, p. 14 e, in un’altra meno recente opera, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 129 parla di «potenziale aggressivo, disgregatore e distruttivo dei diritti, in particolare, dei diritti in funzione della volontà». P. B. Sorge, Charitas in veritate: una bussola per il XXI secolo in Aggiornamenti Sociali 9-10/2009 p. 568, a proposito del paragrafo n. 43 dell’Enciclica di Benedetto XVI, avverte come la rivendicazione dei diritti individuali, se svincolati da una visione complessiva di diritti e doveri, diviene l’occasione per mantenere i privilegi di pochi. 27 H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit. p. 45. issn 2035-584x emotive, psicologiche e affettive che costituiscono il “bagaglio” di ciascun contendente. [...] Comprendersi, misurandosi con la realtà crea inoltre una comunanza di prospettiva.[...] Per poter capire occorre, infatti, aprire il proprio angolo visuale, imparare ad ascoltare, fare domande, piuttosto di avere risposte.» Solo un «atteggiamento di apertura e “curiosità” non ostili verso la comprensione della realtà rende possibile la comunicazione: non parlando per imporre e nemmeno per convincere, ma con l’intento di farsi capire [...] si induce una certa disponibilità all’ascolto reciproco, a non rifiutare in modo precostituito ogni suggerimento o proposta di provenienza unilaterale»28. Spetta anche alla Pubblica Amministrazione, nelle articolazioni necessariamente “personali” dei suoi organi, di sperimentare questa dimensione della relazionalità? La risposta non può che essere affermativa: vista in termini di relazione personale, la comunicazione è sempre un evento che arricchisce; vista in termini istituzionali, l’arricchimento porta alla corretta conoscenza delle diverse posizioni coinvolte cosicché il potere di scelta (discrezionale) sarà in condizione di essere esercitato in modo ottimale29. La comunicazione (istituzionale) trasformandosi da giuridico-formale a rapporto sostanziale di comune ricerca delle ragioni per l’agire si rivela idonea a superare la tradizionale asimmetria del rapporto cittadini-P.A inducendo nella democrazia una forza propulsiva che, da sistema formalistico di stampo liberale, la trasformi in quella democrazia di sostanza secondo i connotati impliciti nella nostra Costituzione, di cui sono tipici esempi sia la norma dell’art. 3, II comma sia la nuova formulazione dell’art. 118 u.c. laddove prevede che, sulla base del principio di sussidiarietà, sia favorita la partecipazione dei cittadini, singoli e associati, allo svolgi28 C. Mazzucato in L. Lombardi Vallauri (a cura di), Logos dell’essere logos della norma. Studi per una ricerca, cit., p. 1260. 29 Cfr. G. Gardini, Le regole dell’informazione, Zibido San Giacomo (MI), 2009, p. 267. Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 116 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) mento di attività di interesse generale30. 5. Uno strumento: il difensore civico La figura del difensore civico, detto ombudsman in altri ordinamenti dov’è nato, e introdotto nell’ordinamento italiano da singole regioni, prima, e poi solo a livello di enti locali dal Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, D. Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, è una figura che la teoria del diritto italiana tarda ad assimilare. Si tratta infatti di un ibrido: appartiene all’amministrazione, ma gli è connaturata l’indipendenza; è eletto dal potere politico, - la maggioranza, preferibilmente qualificata, del consiglio, regionale, provinciale o comunale, - ma deve essere estraneo al gioco politico di chi lo ha eletto; è privo di un qualsiasi “potere” circa decisioni vincolanti; cerca la mediazione, ma essendo chiamato “difensore” civico fa pensare più ad un organo a favore del cittadino che un organo “mediano”, imparziale tra il cittadino medesimo e la PA che pure lo ha nominato. Questo ibrido in una prospettiva “geometrica”31 del diritto non può che stentare ad essere capita – e di conseguenza “utilizzata” - proprio perché non si inserisce nell’ottica formale e gius-positivista del diritto come norma/coazione - scontro. Essa può inserirsi solo se ci si apre ad un diversa prospettiva del giuridico: il comportamento giuridico, per la prospettiva opocheriana, «è un comportamento valutato all’interno dell’ordinamento come regolare, non perché prevedibile, bensì in quanto volto al riconoscimento dell’altro. L’ordine giuridico è perciò la risultante di un processo di valutazione delle azioni e si pone come garante dell’affermazione dell’altro.»32 Mentre nella prospettiva kelseniana, dove il diritto è uno strumento di coazione, l’agire 30 Sul punto si veda in particolare M. Cossutta, Questioni sulle fonti del diritto, cit., p. 85. 31 L’espressione, com’è noto, è di Francesco Gentile. Si veda ad esempio Intelligenza politica e ragion di stato, Milano, 1984 pp. 180 e ss. 32 Testualmente M. Cossutta, Questioni sulle fonti del diritto, cit., p. 3 issn 2035-584x umano è sottoposto solo a regolamentazione eteronoma, statuale, nella prospettiva “relazionale” sono invece possibili altri “eventi giuridici” che consentono alla persona umana di cercare, se necessario con la mediazione di un terzo, un’autonoma “fonte” di regolazione giuridica del proprio comportamento nel confronto con l’altro. Non un giudice, che applica la norma statuale, per imporre una propria decisione (eteronoma, quindi), ma un soggetto che non ha nessun’altra forza che quella di “far parlare” tra loro i contentendi nell’ordine mite del dialogo e dell’incontro. Gli strumenti di cui si avvale il difensore civico, infatti, essenzialmente promozione, suggerimento e mediazione – che nella pratica si rivelano efficacissimi – possono essere intesi solo in una prospettiva di ricerca della “pacificazione” intesa come quel procedimento «che porta all’instaurazione di un ordine dialogico e collaborativo tra i litiganti fondato sul reciproco riconoscimento»33. Questa prospettiva è agli antipodi di una logica di scontro – il diritto visto come strumento di coazione -: lo scopo della pacificazione è la ricostruzione, la ritessitura della relazione lacerata dal conflitto. Secondo Mazzuccato «L’ordine imposto attraverso l’applicazione del diritto non è un ordine armonioso, non è kosmos.»34 La norma eteronoma, che nasce per controllare la violenza, per sottrarre i litiganti alla vendetta e alle giustizia private e arbitrarie «instaura una tranquillità basata sulla “separazione” [...] tra un soggetto e l’altro, sulla definizione del diritto e del torto, del giusto e dell’ingiusto, sulla separazione -appunto- anche fisica, dei colpevoli dagli innocenti, dei vincitori dai vinti.»35 «La pace assicurata dal diritto inteso come sistema di norme statuali, eteronome si dimostra oggettivamente insufficiente anche sul piano dell’effettiva risoluzione dei conflitti: essa infatti, lo si è visto, non produce 33 Così testualmente C. Mazzucato in L. Lombardi Vallauri (a cura di), Logos dell’essere logos della norma. Studi per una ricerca, cit., p. 1245. 34 C. Mazzucato, ibidem, p. 1246 35 Ibidem. Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 117 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) una vera riconciliazione fra i litiganti»36 Le difficoltà a comprendere la figura dell’ombudsman che ho sopra evidenziato, hanno fatto sì che da poco sia iniziata una sistematica riflessione sulle sue funzioni e che finora lo si sia studiato più in ambito comparatistico che all’interno del sistema amministrativo italiano. Insomma, ha ancora bisogno di ricevere, dalla cultura anzitutto, una definizione convincente. Solo una riflessione e una “presa di coscienza” scientifica del significato e del ruolo del difensore civico potrà portare ad una legge statuale che, pur in un sistema articolato su base regionale e locale, ne preveda la necessità e ne disegni alcuni principi comuni imprescindibili.37 Tra queste caratteristiche dovrà esserci quella della prossimità al cittadino per “stare dalla sua parte”: questo, specie dal punto di vista della comunicazione, non dovrà significare però parzialità in una logica di scontro, ma dovrà essere 36 Ibidem, p. 1247. In un mio precedente scritto, Il difensore civico – Una diversa cultura del diritto, in “Etica per le professioni”, 2008, 3, pp. 64-71 scrivevo, sulla base dell’esperienza personale di difensore civico regionale del Friuli Venezia Giulia maturata dal 2003 al 2008 che il processo, luogo dove tradizionalmente si esplica la funzione di risolvere la lite - che è lacerazione della relazione - non è, in realtà, il luogo dove la relazione è ricomposta. La sentenza che definisce il processo non ha, per sua natura, questa funzione. Nel concreto spesso lascia i rapporti più esacerbati: per il soccombente, nella misura in cui, sconfitto, sente tutta la frustrazione per la battaglia persa e un senso di ingiustizia quando non gli è dato di comprendere le ragioni della sentenza perché il tecnicismo terminologico la rende non intellegibile; per la parte vittoriosa nella misura in cui si ritrova con quella che gli appare una “vittoria di Pirro” quando il tempo impiegato, le spese sostenute e le difficoltà nel mettere in esecuzione la sentenza lasciano l’amaro in bocca. 37 Potrebbe avvenire altrimenti in altri casi quanto successo al Difensore civico regionale del Friuli Venezia Giulia nell’agosto del 2008: che, dopo essere stato a lungo “tollerato” come fosse solo un dispendioso (sic!) “seccatore” istituzionalizzato, bistrattato nella sua imprescindibile indipendenza facendone oggetto di lobbistico mercimonio, dopo venticinque anni di onorata attività ne è stata abrogata la legge istitutiva con un solo comma di una legge di aggiustamento di bilancio. Il Difensore Civico era stato istituito nella Regione Friuli Venezia Giulia con legge regionale n. 20/1981 ed è stato soppresso dall’art. 12 comma 33 della L.R. 14.8.2008 n. 9. issn 2035-584x una “presa in carico”38 dei suoi problemi affinché siano risolti, se possibile, e, qualora questo non possa avvenire, sia recuperato il rapporto con la P.A. mediante un’attività di mediazione nella quale potrà trovarsi una composizione oppure potranno attivarsi quelle energie positive di “cittadinanza” per cui il cittadino sia disponibile ad accettare l’impossibilità legibus sic stantibus della soluzione sperata.39 Queste energie potranno incalanarsi, eventualmente, nella creazione di comitati e associazioni che puntino ad una modifica delle norme. Per ottenere un risultato positivo in termini di mediazione l’interlocuzione con gli uffici operativi della P.A. non dev’essere partigiana ed aggressiva, perpetuando quello stereotipo ben descritto da S. Rolando40 e sopra riferito, bensì dovrà utilizzare gli strumenti della sollecitazione e della persuasione sulla base delle leggi vigenti alla luce dei principi costituzionali e dei trattati internazionali. La sua interlocuzione con il cittadino non potrà blandirne i desideri, a pena di cocenti delusioni quando si scopra una realtà diversa, ma essere semplice, chiara e onesta, nel senso di dirgli le cose come stanno. Questo però non è un problema di poco conto, oggi: dire le cose come stanno suppone un’idea di “verità”. Se l’idea stessa di verità è andata così in crisi nell’epoca moderna e , lentamente, la 38 S. Rolando, La comunicazione di pubblica utilità, cit., p. 321 mette in evidenza come lo svolgersi di una cultura attiva può far emergere una rispettiva «valorizzazione del rispetto e della fiducia. [...] Il perimetro dei diritti della persona è infatti – oltre al tema delle inviolabilità e delle sensibilità – (tutela della privacy) anche un terreno in cui conta il “farsi carico”. Apparentemente il campo opposto, ovvero quello dell’intrusione. Ma è un’intrusione modellata dalla cultura del servizio e non da quella del controllo». 39 Funzione diversa svolgono gli Uffici di Relazione col Pubblico: il compito prezioso di informazione all’utenza, che si è sempre più diffuso nella P.A. è altra cosa, per lo più è compito di informazione. Il Difensore civico deve invece fare parte dei processi di comunicazione, nel senso completo del termine, come ascolto, presa in carico e risposta personale. Quello è un servizio offerto per la fisiologia del sistema di relazioni tra P.A. ed utenza, il difensore civico invece è un servizio offerto per la patologia della relazione, quando qualcosa non ha funzionato e il compito è quello di aggiustare, ricucire il rapporto. 40 S. Rolando, La comunicazione di pubblica utilità, cit, p. 316. Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 118 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) crisi di questo concetto è giunto nella vita comune e ha contaminato la “spontaneità” della vita diretta delle persone comuni41, il compito è assai arduo. Merita però di essere percorso. E’ una semina silenziosa e non appariscente; ha bisogno di tempo, proprio come la semina, i risultati non si vedono nell’immediato. E’ un’iniezione silenziosa di “semi di pace”, quella «pace cognitiva, e della verità [...] pace severa, senza sentimentalismi»42 che la persona quando viene riconosciuta nei suoi bisogni e nelle sue ragioni il più delle volte è disposta a perseguire43. A che punto è la legislazione italiana circa questo istituto? A parte la lodevole autonoma iniziativa delle regioni, è sicuramente significativo che la prima apparizione del difensore civico nel diritto statuale italiano sia avvenuta nella legge sulla trasparenza amministrativa44 ed è significativo alla luce del discorso sulla comunicazione che, come si è visto, è assolutamente necessaria per un’amministrazione democratica: «la democrazia deve essere il regime della verità, nel senso della piena possibilità della conoscenza dei fatti da parte di tutti. Perché solo così i cittadini sono messi in condizione di controllare e giudicare i loro rappresentanti, e di partecipare al governo della cosa pubblica.»45 41 Come dice G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, in Rivista di Diritto processuale, 1950, I, p. 54 «all’ultimo stadio della crisi, è apertamente negato che la verità obbiettiva delle cose, [...] che quello che è valga, debba essere riconosciuto» ed, invece, il fine che una forza storica vuole imporre, diventa se si vuole la verità: «è “vero” tutto ciò che favorisce questo fine, “falso” tutto quello che l’ostacola. In ultima analisi la forza, solo la forza, diventa la “verità”» 42 C. Mazzucato in L. Lombardi Vallauri (a cura di), Logos dell’essere logos della norma. Studi per una ricerca, cit., p. 1249. 43 ibidem 44 Legge 7 agosto 1990 n. 241 come modificata dalla L. 24/11/2000, n. 340, art. 15. Una comparsa parrebbe timida, in realtà “rivoluzionaria” perché, il ricorso al difensore civico previsto dall’art. 25 della L. 241/90 è e resta l’unico caso in cui l’intervento dei difensori civici da una parte è procedimentalizzato e dall’altra sospende, o meglio non fa decorrere il breve termine per il ricorso davanti al TAR. 45 S. Rodotà, La menzogna. Quando i potenti manipolano la realtà, La Repubblica 27.3.2004, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/03/27/ issn 2035-584x 6 Democrazia e partecipazione: la trasparenza degli atti e del linguaggio Il principio della trasparenza amministrativa è stato atttuato in Italia, com’è noto, con la L. 7 agosto 1990 n. 241 che, sia con le norme inerenti la partecipazione procedimentale – a partire dalla comunicazione di avvio del procedimento (art. 7) -, sia con quelle relative all’accesso agli atti del procedimento, ha indubbiamente fatto fare alla pubblica amministrazione italiana un grande passo avanti, innescando «un rapporto biunivoco tra amministrazione e privati,[...] un rapporto interattivo tra soggetti.[...] Attraverso la partecipazione procedimentale il cittadino è messo in grado non solo di conoscere l’azione che l’amministrazione pone in essere, ma anche di modificarne lo sviluppo e l’esito. La partecipazione, e il giusto procedimento che si realizza mediante essa, risulta quindi funzionale al cittadino, ma anche alla stessa amministrazione per poter assumere la propria decisione con una migliore rappresentazione dei fatti e degli interessi coinvolti»46 Il potere di scelta dell’amministrazione (discrezionalità) sarà, cioè, esercitato in modo ottimale solo quando sia supportato da una corretta conoscenza delle posizioni coinvolte47. Quanto al diritto all’accesso, il suo riconoscimento tende a modificare il tradizionale modo di rapportarsi dell’amministrazione con il cittadino, andando verso la trasformazione dell’amministrazione pubblica in una “casa di vetro” in cui il cittadino abbia la possibilità di osservare e controllare costantemente l’attività dell’amministrazione stessa48. Ma non bastano i documenti. Il problema della comunicazione è connesso al problema del linguaggio: per comunicare è necessario essere comprensibili. In linguistica, nell’affrontare il problema del linguaggio giuridila-menzogna-quando-potenti-manipolano-la-realta. html; sito consultato il 23.9.2009. Il termine democrazia accolto da Rodotà e da G. Zagrebelsky (di cui alle note 17 e 24) si rifà, evidentemente, ad un concetto di democrazia sostanziale. 46 G. Gardini, Le regole dell’informazione, cit, p. 266 47 G. Gardini, Le regole dell’informazione, cit, p. 267 . 48 P. Costanzo, L’informazione, Bari, 2004, p. 74 Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 119 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) co, si riconosce da una parte che «Il principio del controllo democratico del contenuto delle leggi e delle modalità della loro applicazione è sempre presente nelle riflessioni condotte dai giuristi»49 dall’altra che questa esigenza va contemperata con quella di raggiungere la massima precisione per la quale il linguaggio comune si rivela inadatto50. Tuttavia, questo stile «caratterizzato da prolissità e cavillosità che vanno ben oltre le giustificate esigenze di precisione e di chiarezza [...] viene stigmatizzato dai cittadini in qualità di utenti, i quali si ribellano a ciò che percepiscono come un sopruso da parte di una casta professionale che difende il proprio potere dai non adepti anche attraverso una marcata e deliberata complicazione linguistica»51 Mi pare sensata la distinzione tra il “linguaggio della legislazione” ed il “linguaggio dei giuristi” per dare conto «dei due compiti principali assegnati allo strumento linguistico dal diritto: da una parte la formulazione di norme che descrivono e regolano la realtà sociale e che sono dirette a tutti i cittadini [...] e dall’altra la riflessione metagiuridica delle norme stesse, riservata agli esperti.»52 A questi due ne aggiungerei un altro: il linguaggio degli operatori del diritto, siano essi avvocati, magistrati o funzionari della PA quando si rivolgono al cittadino: qui il linguaggio dovrebbe essere quello comune, operando una vera e propria “traduzione” dei termini tecnici. Infatti, il comunicare con il cittadino con un linguaggio tecnico si rivela un modo di tenere nascosto il proprio pensiero, un arroccamento nel potere. Da tempo sono stati lanciati, dai ministri alla funzione pubblica che si sono succeduti, programmi di azioni positive per la comunicazione delle pubbliche amministrazioni, nella consapevolezza «che non è lanciando una parola d’ordine che si raddrizzano le gambe a cani abituati 49 Cfr. S. Ondelli, La lingua del diritto, cit., p. 8. All’autore pare ingenuo però l’auspicio di leggi trasparenti espresse in un linguaggio comune e indispensabile nel diritto un linguaggio tecnico per raggiungere la necessaria precisione. 50 Ibidem. 51 Ibidem, p. 18 52 Ibidem, p. 19 issn 2035-584x da secoli alla deformazione ossea [...]53 Il difensore civico, che incontra quotidianamente molti cittadini che vivono una relazione non buona con la pubblica amministrazione; che vede in corpore vili i danni prodotti dalla comunicazione mancata, deficitaria o sbagliata; che ha come sua mission la ricucitura del rapporto mediante il rimedio al ritardo, alla disfunzione o mediante la mediazione, impossibilitato com’è a prendere provvedimenti vincolanti; con l’esperienza che accumula e la sensibilità che affina, è in grado di fornire validi indicazioni e suggerimenti sul modo migliore per comunicare tra P.A. e cittadino. Rendere comprensibile il proprio linguaggio, pertanto, significa parlare e scrivere in una espressione linguistica corretta e comprensibile al cittadino con un livello medio di scolarità, tenendo conto che la maggioranza dei programmi scolastici non prevedono lo studio del diritto; la comunicazione poi deve essere completa, deve cioè rendere compiutamente il pensiero che origina l’azione amministrativa, gli obiettivi perseguiti, le leggi applicate, gli interessi che sono stati comparati per giungere ad una certa decisione; infine deve essere concisa e non ridondante: dire quanto serve in modo semplice, ordinato, completo, senza informazioni inutili54. 53 S. Rolando, La comunicazione di pubblica utilità, cit., p. 317. L’Autore avverte che «La motivazione a lavorare sulla semplificazione dei linguaggi deve avere un contesto di riferimento in cui l’azione individuale – e dunque l’esperienza – ha la sua centralità. Schemi astratti di semplificazione si declinano in schemi astratti di comportamento. I primi lasciano intatto il “burocratese”, i secondi lasciano intatta la diffidenza sociale e i sentimenti di depersonalizzazione.» 54 I sistemi di videoscrittura al computer rendono oggi possibile personalizzare la comunicazione scritta anche quando si tratti di atti ripetitivi. Non ha senso avere a disposizione questi moderni sistemi di redazione degli atti ed usarli per confezionare e stampare moduli: la comunicazione va personalizzata dando al cittadino le informazioni che servono nel suo caso particolare. Eventualmente si potrà depennare da un modulo quanto non interessa, ma il costume di fornire una massa di informazioni inutili all’interno delle quali il singolo debba cercare quanto concerne il proprio caso è un modo di comunicare sciatto, spesso fonte di errori e che mette le persone in difficoltà. Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 120 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Sembrano offensivi e controproducenti i messaggi incoerenti e lacunosi o anche solo approssimativi, quasi, appunto, vi fosse qualcosa da tenere nascosto. In un’epoca, come dicevamo, in cui i cittadini sanno dei loro diritti, anche se spesso non ne conoscono esattamente la portata e i contorni, quanto resta oscuro è percepito come offesa e diventa occasione di protesta e di lite. Una comunicazione corretta, invece, oltre ad essere più efficace, è anche educativa nel senso che il singolo può essere aiutato a comprendere che le decisioni si basano su una serie di norme da coordinare, su una comparazione di interessi, su una serie di motivi che non sono volti contro di lui, ma debbono tener conto dell’interesse del singolo e di quello degli altri, così come di una serie di circostanze che possono non essere a lui favorevoli. issn 2035-584x sia informato e che sia messo in grado di capire la vita delle amministrazioni pubbliche. Un cittadino, non solo un “consumatore”, consapevole. Perché questo accada è necessario un organo amministrativo indipendente che aiuti i cittadini a risolvere i loro problemi con la pubblica amministrazione – la diffusione dell’ombudsman in tutti i paesi del mondo e specialmente in quelli di più antica tradizione democratica rivela che non vi sono amministrazioni perfette dove non sorgano problemi tra i cittadini e la pubblica amministrazione - non nell’ordine del conflitto, ma nell’ordine mite del confronto e della mediazione affinché la soluzione possa anche essere trovata insieme. Una soluzione rispettosa sia delle sue aspettative o bisogni sia del “bene pubblico” al quale così ogni cittadino deve poter concorrere. Conclusioni Alle domande poste inizialmente circa l’esigenza di una comunicazione chiara e completa nei confronti dei cittadini da parte della Pubblica Amministrazione ho inteso fornire una risposta positiva cercando nelle “radici” del sistema democratico: di fronte ad un’usura evidente di un concetto “comunitario” dello stato di diritto e del valore stesso della democrazia ho cercato di spiegare la necessità che il cittadino sia coinvolto nella vita delle istituzioni con un linguaggio che sia alla sua portata, che gli sia comprensibile, un linguaggio idoneo affinché possa essere partecipe della ricerca di una “comune azione giuridica” (secondo l’etimo del termine comunicazione). Comune proprio perché appartenente sia al popolo che alla burocrazia che è al suo servizio, al servizio del bene che accomuna le persone che appartengono alla comunità territoriale sulla quale incide una determinata attività amministrativa. Questo coinvolgimento può trasformare il rapporto da verticale – autorità/suddito – ad orizzontale, dove la ricerca del bene comune è, appunto, un fatto che appartiene a tutti e tutti vi possono concorrere. Per fare del cittadino, di ogni cittadino, un possibile partecipante a questa ricerca è necessario che, appunto, egli Caterina Dolcher, avvocato, ha svolto attività legale presso enti pubblici ed è stata membro del Consiglio Regionale della Regione Friuli Venezia Giulia. Dal 2003 al 2008 è stata Difensore Civico regionale nel FVG. Si è occupata di rapporti fra il cittadino e la PA, pubblicando alcuni saggi in materia. Ha tenuto, come professore a contratto, presso l’Università degli Studi di Trieste, l’insegnamento di Diritto di famiglia. Amministrazione e cittadino: quale comunicazione 121 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Digressioni sull’esecuzione della pena con particolare riguardo al cittadino straniero. Dalla comunicazione interculturale alla funzione rieducativa della pena ed al pieno sviluppo della persona umana Marco Cossutta Abstract Parole chiave L’autore, nel presentare raccolti alcuni studi elaborati dal 2004 sul problema del deviante e dell’esecuzione penale, pone l’accento sulla funzione rieducativa della pena, così come si è venuta ad affermare nell’ordinamento giuridico attraverso una rilettura del dettato costituzionale. Si rileva però che in talune situazioni, con particolare riguardo al cittadino straniero, la pena assume vistosi connotati prevenzionistici, tanto da lasciare supporre una sorta di dualismo fra il trattamento del cittadino italiano e quello dello straniero. In proposito si esamina la natura ed il diverso utilizzo della misura di sicurezza personale a fronte di cittadini italiani e stranieri. L’autore ravvisa, anche alla luce di recenti interventi legislativi (vedi la legge 94/2009), una sorta di riconsiderazione in chiave critica del profondo processo di riforma dell’ordinamento italiano avviatosi negli anni Settanta dello scorso secolo, che, accanto al nuovo diritto di famiglia, ha proposto la riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 e la legge manicomiale del 1978. Articolo 3 Costituzione; Articolo 27 Costituzione; Clandestino; Comunicazione interculturale; Devianza; Diritti umani; Esecuzione della pena; Espulsione cittadino straniero; Funzione rieducativa della pena; Lavoro carcerario; Legge 180/1978; Mediazione culturale; Misure di sicurezza personali; Ordinamento penitenziario; Pena come prevenzione. Dans les premiers jours du mois d’octobre 1815, une heure environ avant le coucher du soleil, un homme qui voyageait à pied entrait dans la petit ville de Digne. (Victor Hugo) Premessa I testi qui di seguito presentati sono stati elaborati dalla primavera del 2004 alla primavera del 2009, nell’arco di un quinquennio, durante il quale l’autore più volte è stato sollecitato ad intervenire in tema di esecuzione della pena. Gli scritti in questione danno conto delle relazioni presentate ai vari conventi ed incontri di studio ove venne invitato ad esporre la sua opinione in merito ai temi lì trattati. Digressioni sull’esecuzione della pena Si trattava di incursioni in un ambito della riflessione giuridica che non gli era né gli è tutt’ora proprio, né per formazione, né per vocazione di studi; pertanto possono essere considerati episodi isolati, il più delle volte determinati da un improprio coinvolgimento, da parte degli organizzatori, fra ben più qualificati relatori. Ciò non di meno si auspica che il materiale in quelle occasioni raccolto ed elaborato e fin’ora inedito, possa essere di qualche utilità; in primis 122 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) per colui che lo ha scritto, di modo che possa offrirsi costante e concreta testimonianza della sua incosciente sfrontatezza nell’addentrarsi in campi a lui pressoché sconosciuti e, secondariamente, perché si ritiene che, sia pure con esiti che definire dilettantistici appare poco, nei testi qui presentati si possa pur tuttavia cogliere la tensione a porre la persona umana e la sua sfera relazionale al centro della riflessione sull’esecuzione della pena e sulle sue finalità rieducative, centralità della persona umana che pare nel concretarsi di alcune recenti politiche penali alquanto depotenzializzata. Soprattutto la finalità rieducativa, ben istituita fra i valori fondamentali della Repubblica dal legislatore costituzionale sembra, all’interno delle elaborazioni normative proposte dal legislatore ordinario in questi ultimi anni, non ritrovare più, non solo pratica attuazione, ma nemmeno teorico richiamo, tanto da far trasparire, in alcuni specifici settori del diritto penale, ove si richiamano figure riconducibili al cosiddetto extracomunitario, una concezione della pena attratta da fini prevenzionistici più che rieducativi. Si rammenta in pronostico come l’articolo 61 del Codice penale, recentemente novellato, al comma 11 bis introduca fra le circostanze aggravanti comuni la qualifica di clandestino; infatti, ai sensi del predetto comma, “l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale” costituisce una delle circostanti aggravanti parimenti a quanto disposto dal comma primo dell’articolo 61, ovvero “l’aver agito per motivi abietti o futili”. Sicché, stante a questa impostazione, la condizione di clandestinità, la quale, come oramai appare conclamato, si manifesta a seguito di gravi squilibri socio-economici presenti nel paese d’origine (da cui di fatto l’agente fugge), che si fondono con l’impossibilità, nel paese di rifugio, di raggiungere un’integrazione, tanto da collocare nuovamente il soggetto clandestino qui rifugiatosi in una situazione di totale marginalità e minorità socio-economica nonché giuridica, tale condizione, per quanto si suppone non certamente soggettivamente ricercata, rende oggettivamente il reo meritevole di un aggravio di pena. Il comma 11 bis introduce Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x nell’ordinamento una ulteriore circostante aggravante soggettiva, legata cioè alla condizione del reo, la quale ritrova però la propria causa non, ad esempio, nell’intensità del dolo e nemmeno nella personalità del delinquente, che per l’appunto sono manifestazioni ed elementi di soggettività, bensì nella sua intrinseca ed ineliminabile povertà oggettiva, povertà che ne fa un soggetto oggettivamente pericoloso. Rebus sic stantibus, l’inasprimento della sanzione risulta difficilmente comprensibile al reo, se non sotto la vesta di una ennesima vessazione, che il mondo dei ricchi offre a quello dei poveri, tanto da far apparire l’esecuzione della pena non pienamente collocabile in quel processo rieducativo che per venire attuato, stante l’ordinamento vigente, non può che interamente fondarsi sulla colpevolezza: “vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d’attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta del principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su «congrui» elementi subiettivi”, così la Corte costituzionale nella lontana sentenza n. 364 del marzo del 1988. Il richiamo fra le circostanze aggravanti della semplice condizione di trovarsi “illegalmente sul territorio nazionale” fa sì che si imputi al reo una responsabilità il più delle volte non a questi soggettivamente ascrivibile, ma che, ciò non di meno, lo trasforma, prescindendo dal reato commesso e dalle modalità in cui il comportamento delittuoso si è estrinsecato, in elemento socialmente ostile. Questa impostazione pare ribadita e rafforzata da recentissime disposizioni legislative, quale la legge n. 94 del 15 luglio 2009, che, all’articolo primo, comma sedicesimo, introduce nell’ordinamento (segnatamente nel Testo unico delle disposizione concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, all’articolo 10 bis) il reato di Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. Tale nuova fattispecie criminosa, configurabile quale contravvenzione, non sostituendo quanto previsto, all’articolo 10 del Testo unico, 123 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) in materia di respingimento da parte dell’autorità di pubblica sicurezza degli stranieri “che entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera sono fermati all’ingresso o subito dopo”, così al comma secondo dell’articolo 10, pare sovrapporti sostanzialmente a quanto già prescritto dall’articolo 13 del Testo unico in materia di espulsione amministrativa, trasformando quella che sostanzialmente appariva situazione meritevole di misura di sicurezza in un reato. Ma questa trasformazione si palesa soltanto apparente; infatti, pur prevedendo la disposizione dell’articolo 10 bis, il reato e la conseguente sanzione di natura pecuniaria, infatti viene comminata un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, l’unica conseguenza che pare riscontrasi, salvo caso di recidiva, è l’espulsione dello straniero denunciato e non, come potrebbe aspettarsi, dello straniero condannato, di cui fra l’altro si fa menzione nel novellato articolo 16 del Testo unico, ove il giudice ha facoltà di sostituire la pena erogata, anche ex articolo 10 bis, “con la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore ad anni cinque”. Nella nuova disposizione legislativa possiamo, infatti, riscontrare espressioni quali “esecuzione dell’espulsione dello straniero denunciato” per ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato; che di mero denunciato si tratti e non di reo ce lo fa supporre un ulteriore passo del predetto articolo, ai sensi del quale, a fronte della fattispecie di cui sopra, “il giudice, acquisita la notizia dell’esecuzione dell’espulsione […] pronuncia sentenza di non luogo a procedere”; soltanto nel caso in cui lo straniero rientrasse illegalmente nel territorio nazionale, ovvero ricadesse nella stessa fattispecie criminosa, da cui la recidiva, si procederà con l’azione penale, dalla quale potrà scaturire una condanna con conseguente erogazione di pena sostituibile con l’espulsione. Pertanto, di fronte alla prima commissione del reato, la sanzione pecuniaria dell’ammenda comminata dal legislatore nei fatti si trasforma nell’immediata espulsione nel soggetto denunciato, il quale, data la pronuncia di non luogo a procedere, non può essere considerato reo di alcunché; ciò non di meno gli è soggetto ad un Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x provvedimento, non di natura giurisdizionale, di pura di prevenzione sociale. Che il provvedimento non abbia natura giurisdizionale è ben evidenziato dal fatto che, ai fini dell’esecuzione dell’espulsione non è previsto il nulla osta rilasciato dall’autorità giudiziaria, che l’articolo 13, comma terzo del sopra richiamato Testo unico ritiene necessario al fine di procedere all’espulsione dal territorio nazionale di uno straniero sottoposto a procedimento penale. Ben strano reato è stato inserito nell’ordinamento soprattutto se letto alla luce della “garanzia assoluta del principio di legalità”, a cui faceva riferimento la Corte costituzionale nel 1988: il denunciato o indagato, che di si voglia, non viene sottoposto ad alcun procedimento penale, non sarà mai imputato, pertanto non potrà mai venire condannato per il reato in questione, né gli potrà venire erogata una pena (rammentiamo che, ai sensi del comma secondo dell’articolo 27 del dettato costituzionale, “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”), non solo, egli mai comparirà, mancando un formale rinvio a giudizio, di fronte all’autorità giudiziaria, la quale acquisirà notizia dell’esecuzione dell’espulsione dal questore e pronuncerà il non luogo a procedere. Alla pena, mai erogata, è sostituita la misura dell’espulsione eseguita dall’autorità di pubblica sicurezza e lo stato, per tramite di un espediente da leguleio, abdica, fra gli altri, al suo diritto e dovere alla rieducazione di un soggetto che viene, de facto, considerato colpevole di reato senza però che nessun organo lo abbia mai dichiarato tale (vedi la sentenza di non luogo a procedere emessa dall’autorità giudiziaria competente ad accertare il reato, che viene emessa dalla stessa dopo che il questore le ha comunicato l’espulsione del clandestino). Va altresì posto il problema del ricorso avverso all’esecuzione di espulsione ex articolo 10 bis, il quale, a fronte di un provvedimento di espulsione amministrativa è ammesso dal comma ottavo dell’articolo 13 del Testo unico. Dalla lettura della disposizione, salvo il caso di azione penale riproposta, ai termini dell’articolo 345 del Codice di procedura penale, per il soggetto che rientrasse illegalmente nel terri124 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) torio dello stato, non pare trasparire opportunità di ricorso contro l’esecuzione dell’espulsione da parte del questore. Tutto ciò in grave lesione dell’articolo 111, comma settimo del dettato costituzionale. In proposito sovvengono le parole della Corte costituzionale che, più di vent’anni fa, ribadiva la non legittimità di una pena scevra da percorsi rieducativi e protesa verso una funzione deterrente nei confronti del reo: “ciò è sicuramente da escludersi, nel nostro sistema costituzionale, data al grave strumentalizzazione che subirebbe la persona umana”, così leggiamo nella già richiamata sentenza n. 364 del marzo del 1988. Si assiste all’introduzione nell’ordinamento di un reato sì consumabile, ma nei fatti volutamente non giustiziabile; in situazioni di clandestinità viene agitato lo spettro del crimine, operando una sorta di criminalizzazione mediatica di una situazione di estrema marginalità sociale, a fronte della quale l’ordinamento, in deroga ai suoi principi generali, agirà per mezzo dell’autorità di pubblica sicurezza, negando nei fatti all’indagato ogni forma di garanzia, incrinando con ciò il principio di legalità su cui si fonda l’ordinamento stesso. Pare in definitiva che in taluni ambiti, in vero quantitativamente ristretti (vedi il richiamo sopra effettuato al clandestino), ma non per questo qualitativamente irrilevanti per il sistema giuridico e per i valori che lo stesso veicola(va), si assista ad una rotta della pena verso lidi prevenzionistici più che rieducativi, ponendo in essere con ciò una sorte di dualismo finalistico della pena, che rimane pur sempre ancorata a teorie rieducative per la maggior parte dei soggetti al diritto penale, ma che assume sembianze prevenzionistiche per una minoranza degli stessi. Una minoranza, che per le condizione oggettive di minorità in cui versa, ben esemplificate dal termine clandestino, più di altri dovrebbe usufruire, ove ciò fosse praticamente possibile, di quell’opera di rimozione degli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana, a cui il legislatore costituzionale fa cenno al comma secondo dell’articolo tre del dettato costituzione, la cui luce permette alla Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x Corte costituzionale, nella sentenza qui citata, di ritenere indispensabile “garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate”, ovvero di por fine all’errare ramingo del Jean Valjean dei nostri giorni. I quattro contributi qui raccolti son presentati in maniera disgiunta, in modo che ognuno possa mantenere, qualora sia presente, il proprio apparato di note, al quale non è stato apportato alcun aggiornamento bibliografico dal tempo della loro stesura. Il primo inerisce alla collocazione dell’istituzione carceraria all’interno di una dimensione europea, con particolare riguardo alla funzione rieducativa della pena. In proposito si ritiene che, ove la pena potesse risultare, in via teorica, connessa ad un processo di rieducazione del reo, tale itinerario, nel caso dello straniero, pare il più delle volte depotenzializzato dalla mancanza di una mediazione culturale nell’esecuzione della pena, ovvero dall’assenza di un processo di comunicazione fra istituzione e reo tale da favorire l’elaborazione di una cultura giuridica comune. Pare in definitiva, come si cerca di argomentare nello scritto qui presentato1, di riscontrare un forte deficit di educazione ad una comune giuridicità, che coinvolga fattivamente istituzioni rieducative e rei. Parimenti deficitario appare, come accennato nel secondo contributo presentato2, il coinvolgimento del detenuto straniero in processi di reinserimento sociale tramite il lavoro carcerario, con particolare riguardo a quello extramurario. All’interno di questa problematica, viene fatto cenno alla questione della comunicazione dell’etica del lavoro fra la società 1 Si tratta dell’intervento al Seminario internazionale di studi su «Carcere ed Unione europea», organizzato il 16 aprile 2004 a Trieste dal Centro Studi Criminologici e dal Sindacato Direttori Penitenziari. 2 Il testo è stato presentato al convengo «Per una nuova idea di carcere fabbrica del reinserimento sociale» organizzato a Trieste il 25 maggio 2007 dall’Istituto Internazionale di Studi sui Diritti dell’Uomo. 125 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) libera ed il mondo dei ristretti. Il tema della centralità della persona umana e dell’incisivo processo di riforme sociali e giuridiche che hanno caratterizzato gli anni Settanta del cosiddetto secolo breve, fra le quali vanno annoverate le Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, contenute nella legge n. 354 del 26 luglio 1975, e le norme sugli Accertamenti sanitari volontari e obbligatori, proposte dalla legge n. 180 del 13 maggio 1978, è argomento del terzo contributo presentato3, ove si tratteggia il percorso posto in essere dal legislatore ordinario per rendere effettivo il comma secondo del già richiamato articolo tre del dettato costituzionale, percorso che pare possa considerarsi in parte invertito dal legislatore attuale. L’ultimo testo proposto4 riguarda specificatamente la questione delle misure di sicurezza e del loro rapporto con l’ordinamento costituzionale vigente. 3 Il contributo, titolato La legge n. 180 del 13 maggio 1978 ed «il pieno sviluppo della persona umana», è stato presentato come relazione al Convengo su «Prevenzione, giovani e stigma della malattia mentale», organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Trieste il 4 dicembre 2008. 4 Il testo raccoglie le osservazioni conclusive proposte al Convegno su «Le misure di sicurezza personali» promosso dalla Camera Penale «prof. Sergio Kostoris» di Trieste e tenutosi il 21 marzo 2009. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x Su la pena e la sua finalità rieducativa in un contesto pluriculturale 1. Analisi sociale e politica penale; 2. Valori culturali e politica penale; 3. Parità versus omologazione; 4. La centralità della mediazione culturale nel processo rieducativo; 5. Esecuzione della pena ed espulsione; 6. Il diritto-dovere alla rieducazione. 1. Analisi sociale e politica penale I n un recente studio di criminologia possiamo leggere: “se la politica è l’arte del possibile, la politica del diritto penale è l’arte del diritto penale possibile”1. Rifacendoci a tale assunto, riconosciamo come una prospettiva, che non inquadra l’indagine sulla politica penale sul mero dato normativo2, permette di rendere permeabili i confini posti dal tecnicismo giuridico3, non già per discuterne i postulati, riproponen1 Così in S. Vinciguerra, Principi di criminologia, Padova, 2004, p. 129. L’accostamento fra arte e mondo del diritto non è ovviamente esclusiva del curatore della prestigiosa collana “Casi, fonti e studi per il diritto penale” se già Francesco Carnelutti ebbe modo di redigere per il Nuovissimo Digesto la voce Arte del diritto. Come sottolinea l’Autore dei Principi, il termine arte non va intesto quale sinonimo di fantasia; va in ogni caso accennato che, sia pur all’interno di una “attività di ricerca e di proposta condotta secondo canoni di razionalità”, richiamarlo di per sé implica l’evocare una tradizione di esperienza giuridica più legata a forme di dialettica aristotelica che a rigidi schemi deduttivi e, quindi, il palesare la politica del diritto penale non tanto come attività di ricerca pedissequamente legata ad un certo modo di intendere il dato normativo riconducibile alla premessa maggiore di un ragionamento deduttivo, quanto quale momento di indagine, la quale, pur non prescindendo dal dato normativo, si rapporta a questo in modo problematico. 2 Con autorevolezza viene rammentato che “nel campo del diritto penale vero e proprio la politica criminale investe tre settori fondamentali: quello della individuazione dei fatti meritevoli di punizione, quello dei principi generali della responsabilità penale, quello delle funzioni e delle finalità delle pene”, G. Vassalli, Politica criminale e sistema penale, in F. Ferracuti (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, Milano, 1987, p. 1013. 3 Cfr. in proposito ancora S. Vinciguerra, Principi di criminologia, cit., p. 120 e segg. 126 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) do un dibattito relativo al diritto sostanziale, quanto per affrontare in modo non formalistico i problemi giuridici relativi ad una realtà sociale in e di integrazione. Il richiamo all’arte del possibile apre, quindi, proprio nell’ambito specifico dell’esperienza penalistica, opportunità per una ricerca giuridica che rifletta problematicamente sulle conseguenze dell’incontro fra le regole dell’ordinamento giuridico e la regolarità dei comportamenti dei consociati all’interno di un contesto sociale che sempre più si qualifica (in negazione) attraverso la perdita di una precisa identità culturale. La politica penale, intesa come ricerca del diritto penale possibile, non può non tenere conto di questo fatto; il racchiudersi in una sorta di autoreferenzialità normativa, la quale ritenga estranea dal proprio campo di ricerca una riflessione sul dispiegarsi concreto dell’esperienza giuridica e, quindi, neghi quale premessa metodologica un’indagine sull’ambito sociale in cui la norma si colloca4, renderebbe la politica penale ed il diritto penale da questa derivato, del tutto inadeguati a rispondere sia alle finalità che l’ordinamento stesso istituzionalmente pone, che ai bisogni di ordine promananti dalla società. Gli stessi dati che rappresentano la realtà quotidiana dell’esecuzione penale in Italia sono di per sé esemplificativi di tale esigenza. issn 2035-584x Due appaiono le questioni alle quali qui far brevemente cenno al fine di prendere le mosse. La prima, di carattere più generale, è inerente alla valutazione giuridica di un fatto, ovvero alla sua qualificazione come reato. La seconda, conseguente alla prima, è relativa alla pena da erogare e, ancor più specificatamente, all’esecuzione della pena stessa. A ben vedere non si tratta di problemi fra loro separabili se l’esecuzione della pena è il punto finale di un percorso che riconosce il proprio avvio in un fatto posto in essere dall’agente. Non appare perciò né concretamente possibile, né concettualmente corretto non riconoscere una unitarietà nell’esperienza penalistica anche se la riflessione sulla stessa si tripartisce tradizionalmente negli ambiti del diritto penale sostanziale, del diritto penale procedurale, del diritto dell’esecuzione penale. Il momento che unifica tale esperienza è offerto, come emergerà nello sviluppo del contributo, dalla riflessione sull’antigiuridicità; questa costituisce il cardine su cui ruota ogni elemento della tripartizione ed è quindi il fulcro su cui si dispiega l’intera politica penale. Le due questioni, nonché la riflessione a queste connessa, vanno collocate, meglio, vanno indagate avuto riguardo ad un contesto di diversità di cultura giuridica5. Un discorso di politica penale che non tenga conto di una esperienza culturale sempre più policromatica, che si riversa specularmente nel microcosmo della cultura giuridica, corre un duplice rischio. Per un verso, di non cogliere la realtà, per lo meno nel senso di ritenere che la diversità culturale non possa costituire né oggetto proprio al discorso giuridico intorno al reato ed alla pena, né influire indirettamente sullo stesso. Per altro, cosa ancor più problematica, non riconoscere come la stessa esperienza giuridica, che non può che prendere le mosse dal dato normativo, è di per se stessa portatrice di indagine sulle motivazioni culturali che indirizzano il soggetto a compiere una data azione. Ciò a maggior ragione nell’ambito di una riflessione 4 Ciò che qui si critica è il rappresentasi della politica penale sotto forma di una branca della scienza giuridica kelsenianamente intesa; per l’autore qui richiamato, “la dottrina pura del diritto, come specifica scienza giuridica, rivolge la sua attenzione a norme giuridiche […] non a fatti concreti, cioè a quello che le norme vogliono o si rappresentano, bensì a norme giuridiche intese come contenuti ideali voluti o rappresentati”, così ne La dottrina pura del diritto, trad. it. Torino, 1960, p. 124. Per una più generale critica della prospettiva kelseniana cfr. F. Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Milano, 1983. 5 In proposito richiamiamo la oramai classica distinzione proposta da L. M. Friedman nel suo Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, trad. it. Bologna, 1978. Per l’Autore “possiamo distinguere, con riferimento alla cultura, la cultura giuridica esterna dalla cultura giuridica interna. La cultura giuridica esterna è la cultura propria di tutta la popolazione e comune a tutta la popolazione; la cultura giuridica interna è la cultura giuridica propria di quei membri della società che compiono attività giuridiche specializzate”, così a p. 371 della trad. it. citata. Sull’argomento cfr. anche O. Höffe, Globalizzazione e diritto penale, trad. it. Torino, 2001. 2. Valori culturali e politica penale Digressioni sull’esecuzione della pena 127 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) sulla politica penale che, come richiamato dal pensiero di Vassalli, non può prescindere dalla individuazione dei fatti meritevoli di punizione; questo giudizio è strettamente correlato, come tutta una tradizione di studi penalistici ha posto in evidenza6, sia alle motivazioni (culturali) del soggetto, che al più generale contesto sociale e culturale in qui queste di collocano7. All’intero di questo contesto, il rapporto fra la qualificazione del fatto8, l’erogazione della pena e l’esecuzione della stessa non può costituirsi sulla falsariga del ragionamento ipotetico-deduttivo. Una riflessione che investa i tre settori intorno ai quali si dispiega l’esperienza penalistica partendo proprio dagli elementi costituivi del reato, come il magistero di Bettiol ha evidenziato, pone in essere una critica della prospettiva sillogistica e, nel contempo, si affaccia ad una prospettiva interculturale9. Ciò risulta palese proprio avuto riguardo al ripensamento del portato del principio di inescusabilità dei precetti della legge penale, che prende l’avvio con la nota sentenza della Corte Costituzionale sull’articolo 5 del Codice Penale. La sentenza n. 364 del marzo del 1988 permette di aprire all’interno dei confini dell’ordinamento giuridico una controversia sul disvalore 6 Basti in proposito richiamare il pensiero di Giuseppe Bettiol; per un primo approccio al pensiero del penalista patavino cfr. Scritti giuridici, Padova, 1966 e Diritto penale, Padova, 1979. Su Bettiol cfr. per tutti G. Marini, Giuseppe Bettiol. Diritto penale come filosofia, Napoli, 1985. 7 Si veda ad esempio la questione dell’abrogazione per desuetudine di disposizioni penali quali l’omicidio e le lesioni personale a causa d’onore, previste nell’articolo 587 che non vedeva applicazione in molte parti del territorio nazionale ben prima della sua formale abrogazione avvenuta con legge n. 442 del 5 agosto 1981. 8 Più precisamente, tra fatto materiale qualificabile come reato attraverso la sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta ed il giudizio sullo stesso che lo qualifica effettivamente come reato. 9 La prospettiva interculturale, come da più parti rilevato, non appare riconducibile ad una tendenza giustificazionista, al contrario, si costituisce sulla necessità del giudizio sulla relazione intersoggettiva. In tale prospettiva è intrinseca la valutazione del comportamento rispetto a parametri di bilateralità dello stesso. Questa si innesta a pieno titolo all’interno di una riflessione sull’esperienza giuridica impregnata sul valore, come evidenzia il magistero di Enrico Opocher; si vedano in proposito le Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1983. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x che l’azione può assumere rispetto alla cultura giuridica dell’agente. Va solo rammentato come sia la valutazione del disvalore di una azione che informa, per un verso, la condotta dell’agente e, per altro, il giudizio dell’autorità competente nel qualificare il fatto e nell’erogare la pena, ma anche, e soprattutto in questo contesto, il percorso di rieducazione che l’esecuzione della pena necessariamente implica. La sentenza della Corte Costituzionale riconosce la necessità di ponderare elementi non formalmente definiti all’intero dell’opera di valutazione di un fatto; la natura di questi elementi è tale da non consentire la rappresentazione del processo di valutazione per mezzo della sussunzione. Quindi, a fronte del fatto materiale e della qualificazione dello stesso come reato, primeggia la valutazione della buona fede dell’agente, dell’antigiuridicità di cui esso si fa portatore; la valutazione dell’antigiuridicità si ripresenta nel momento dell’erogazione della pena, nonché durante l’esecuzione della pena, che si caratterizza con un percorso rieducativo, il quale per essere efficace non può prescindere dalla base culturale di ognuno, ovvero dal suo essere persona umana; ciò al fine di rendere effettiva l’equità e l’eguaglianza di trattamento fra detenuti. In definitiva si tratta pur sempre di riportare nell’ambito di un discorso di politica penale non più racchiuso entro gli impermeabili confini di una statualità, che sottenda all’omogeneità ma che è invece sempre più intrisa di valori culturali diversi, il problema della vigenza di beni costituzionalmente protetti, beni che ritrovano altresì tutela all’interno dell’ordinamento internazionale, a cui la stessa carta costituzionale non soltanto non può sottrarsi, ma al quale appare sempre più soggetta10. 3. Parità versus omologazione Fra i molti, sono due i problemi che merita qui brevemente accennare; sono problemi relativi, per riprendere una espressione forse 10 Si veda, in merito alla gerarchia delle fonti, il problema del rapporto fra ordinamento interno e quello Unione europea. 128 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) abusata, ma che ben evidenzia la natura debole dei soggetti a cui si rivolge, alle pari opportunità nelle modalità di esecuzione della pena fra detenuti italiani e stranieri11. Il primo è inerente alla figura ed al ruolo del mediatore culturale, ex articolo 35 del DPR n. 230 del 30 giugno 2000 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà); il secondo si riconnette alla vexata questio relativa all’articolo 15 della legge n. 189 del 30 luglio 2002 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo). I due problemi vanno indagati in un’ottica che ritrovi il proprio fuoco in una parità di trattamento fra i soggetti sottoposti all’esecuzione della pena, un’eguaglianza che abbia come punto di riferimento la funzione rieducativa della pena così come tratteggiata nell’articolo 27, comma terzo, del Dettato costituzionale12; ovvero una parità di trattamento che non deve tradursi, proprio per far emergere la finalità sancita dal legislatore costituzionale, in omologazione del trattamento soprattutto a fronte di detenuti portatori di cultura diversa da quella in 11 Risulterebbe forse più appropriato il richiamo alla cultura di origine più che alla cittadinanza del detenuto, sia questo italiano o straniero. In proposito va rilevato che l’ordinamento riconosce come straniero, in linea generale, il cittadino di uno stato diverso da quello italiano e l’apolide (vedi ad esempio l’art. 10 della Costituzione e l’art. 143 CPP), in senso più ristretto (ex art. 1 del Testo Unico n. 286/1998 - norme sull’immigrazione) i cittadini di stati non membri dell’Unione europea e gli apolidi. 12 Tale funzione viene più volte rimarcata alla Corte Costituzionale e rappresenta il fulcro introno a cui si dispiega la sentenza n. 364 del marzo 1988, ma è implicita allo stesso articolo 3, comma secondo del Dettato, nel momento i cui pone come compito qualificante della Repubblica la rimozione degli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana. Fra questi indubbiamente trovano collocazione quelle deficienze, la cui origine può individuarsi anche in fattori economico-sociali oppure psicologico-culturale, che inducono al crimine. In proposito giova rimarcare come, ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale n. 163, del giugno del 1983, per un verso “l’articolo 3 della Costituzione attribuisce a ogni cittadino il diritto fondamentale di realizzare lo sviluppo della propria personalità” ma, per altro, “contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso”, così la sentenza della stessa Consulta n. 217 del febbraio 1988. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x cui si radica l’ordinamento giuridico italiano. Che l’esecuzione della pena sia improntata su una parità di trattamento e su una individuazione di un percorso personale di rieducazione del reo appare in maniera inequivocabile già all’articolo 1, comma sesto, della legge n. 354 del 26 luglio 1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Detto comma recita: “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individuazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. A ciò fanno eco il comma primo e secondo dell’articolo 1 del DPR n. 230 del 2000: “il trattamento degli imputati sottoposti a misura privative della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali. Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”. Ai sensi dell’articolo 3, comma secondo del predetto DPR: “il direttore dell’istituto e quello del centro di servizio sociale esercitano i poteri attinenti alla organizzazione, al coordinamento ed al controllo dello svolgimento delle attività dell’istituto e del servizio; decidono le iniziative idonee ad assicurare lo svolgimento dei programmi negli istituti, nonché gli interventi all’esterno; impartiscono direttive agli operatori penitenziari anche non appartenenti all’amministrazione, i quali svolgono i compiti loro affidati con l’autonomia professionale di competenza”. La sinergia fra direzione degli istituti e centri di servizio sociale per adulti ritrova la propria ratio nel disposto dell’articolo 72 della legge n. 354 del 1975; ai sensi del comma quinto, “i centri prestano […] opera di consulenza per favorire il buon esito del trattamento penitenziario”. Il trattamento, è bene ribadirlo, “deve rispondere ai particolari bisogni della persona129 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) lità di ciascun soggetto”, così al comma primo dell’articolo 13 della L. 357/1975; il comma secondo tratteggia le funzioni della “osservazione scientifica della personalità”, le cui finalità sono rimarcate al comma terzo: “per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni di merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione”. Ciò ritrova puntuale riconferma nel DPR 230 del 2000 agli articoli 27 (Osservazione della personalità), 28 (Espletamento dell’osservazione della personalità) e 29 (Programma individualizzato di trattamento), su questi ritorneremo in seguito. Giova per il momento soltanto rammentare che, ai sensi dell’articolo 1, comma primo, della legge n. 357 del 1975, “il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”. La politica penale, come prassi dispiegata dalle pubbliche autorità, deve assolvere ai compiti assegnati dall’ordinamento giuridico, in primis dai valori recepiti nel (ed istituiti dal) dettato costituzionale. Alla politica penale spetta altresì il compito, spesso arduo, di ricercare un equilibrio oggettivo, ma sempre instabile, fra esigenze soggettivamente opposte: dignità della persona umana e rigore nella esecuzione della pena; esigenze di ordine sociale e ripristino dello stesso per mezzo della punizione, che potrebbero far emergere delle tendenze prevenzionistiche, e tutela del diritti umani e rieducazione del reo13. Il tutto il più delle volte dovendo confliggere con il demos di aristotelica memoria. In questa suo operare, la pubblica autorità, referente unico per l’esecuzione delle misure di diritto penale previste dalla legge, può avvalersi di figure esterne alla pubblica amministrazione in senso stretto, ad esempio consulenti, ex articolo 80 della legge 354 del 1975, e volontari, ex articolo 78 della predetta legge. 13 Cfr. per tutti il già richiamato testo di Sergio Vinciguerra. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x Attraverso un itinerario di ricerca, di esperienza, finalizzato ad individuare dialetticamente il giusto mezzo fra l’eccesso ed il difetto, la politica penale incontra difficoltà culturali e sostanziali, che, con arte, tende ad attraversare. All’intero di questo contesto, brevemente sunteggiato, volto a rendere effettivo ed efficace il valore costituzionale tratteggiato nel Dettato all’articolo 27, si colloca la figura dell’operatore di mediatore culturale, introdotto nell’ordinamento giuridico con l’articolo 35 del DPR 230 del 200014. 4. La centralità della mediazione culturale nel processo rieducativo All’interno di una riflessione che tende ad inquadrare la politica penale in una cornice interculturale, va rilevata la centralità della figura dell’operatore di mediazione culturale, prevista, come noto, all’articolo 35 del DPR 230 del 2000. Il Regolamento, nel ribadire, più che l’eguaglianza di trattamento, il principio di pari opportunità di rieducazione offerto dalle istituzioni a tutti i detenuti, stabilisce, al comma primo del citato articolo: “nell’esecuzione delle misure privative della libertà nei confronti di cittadini stranieri, si deve tenere conto delle loro difficoltà linguistiche e delle differenze culturali”. Non solo, quindi, traduzione in una lingua comprensibile al detenuto, auspicabilmente la sua lingua madre, da cui la figura dell’interprete, ma soprattutto un intervento che, al di là delle difficoltà linguistiche, avvenga, avuto riguardo alle differenze 14 Va solo accennato che il mediatore culturale qui richiamato non può appiattirsi sulla figura dell’interprete, così come questa viene prevista nel codice di procedura penale, ex art. 143 e, in primis, dall’art. 111, comma terzo, della Costituzione. Infatti, la prima è propria alla fase di esecuzione della pena, la seconda, invece, alla fase di accertamento. Un accostamento ma non certamente una confusione fra le due figure potrebbe tutt’al più rilevarsi avuto riguardo “all’obbligo del direttore dell’istituto penitenziario di accertare, se del caso con l’ausilio di un interprete, che l’interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento che ne dispone la custodia e di illustrargliene, ove occorra, i contenuti”, Cass. I, n. 3759, 23 maggio 2000. Sull’argomento cfr. A. Caputo, Il diritto all’assistenza linguistica dell’imputato straniero, in “Diritto, immigrazione e cittadinanza”, 2002, n. 2, pp. 47 e segg. 130 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) culturali. Ai sensi del comma secondo del predetto articolo il Regolamento ritiene che “deve essere, inoltre, favorito l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato”. Come già sottolineato, l’esecuzione, al fine di non caratterizzarsi quale momento meramente afflittivo, si riconnette ad un programma di trattamento rieducativo, di cui agli articoli 1 e 13 della legge 354 del 1975, un programma rieducativo che, per “rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto” (così al già richiamato comma primo dell’articolo 13 della L. 354/1975), viene redatto da un gruppo di osservazione e trattamento, il quale dà vita, per l’appunto, ad un programma individualizzato. Giova richiamare la specifica norma dal DPR 230 del 2000; all’articolo 29, comma secondo, si stabilisce: “la compilazione del programma è effettuata da un gruppo di osservazione e trattamento presieduto dal direttore dell’istituto e composto dal personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di osservazione indicate nell’articolo 28”. La questione, rispetto a condannati o internati stranieri, è relativa alla partecipazione al gruppo di lavoro dell’operatore di mediazione culturale; ovvero, nel caso di detenuti stranieri, l’operatore, di cui all’articolo 35 del DPR, partecipa costitutivamente al gruppo di osservazione e trattamento presieduto dal direttore dell’istituto, oppure la sua presenza è opzionale? Va rilevato in proposito che l’osservazione, ai sensi del comma primo dell’articolo 27 del DPR 230 del 2000 ha come oggetto anche “una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa”. Si potrebbe, quindi, presumere che “l’osservazione scientifica della personalità [,la quale] è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione”, ancora il Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x comma primo del richiamato articolo 27, non possa prescindere da una indagine che ponga nella giusta evidenza la cultura giuridica del soggetto, più precisamente la cultura giuridica esterna che permea il soggetto e che determina, all’interno di un dato contesto culturale, una idea di antigiuridicità sì imprecisa o vaga e non sempre corrispondente all’ordinamento giuridico, ma certamente radicata in un sistema di valori propri al contesto sociale, quindi culturale, dal quale il soggetto proviene. Al fine di esperire i bisogni di ciascun soggetto e, quindi, di dare vigenza alle finalità rieducative della pena in un contesto così tratteggiato, appare, dunque, centrale la figura del mediatore culturale, figura sì nominata dalla normativa vigente ma non per questo esplicitamente collocata all’intero del programma di trattamento, né, più in generale, nel processo rieducativo. Infatti, l’articolo 35 del DPR indica soltanto che, nel caso di cittadini stranieri, deve essere favorito l’intervento del mediatore culturale, non che tale intervento debba costituire parte integrante del processo di individuazione del percorso rieducativo del cittadino straniero. Qui pare che la possibilità di operare di tale figura sia lasciata alla discrezionalità delle autorità penitenziarie, prime fra tutte il direttore dell’istituto. Fermo restando, per un verso, che l’operatore di mediazione culturale, in quanto tale, difficilmente può appartenere all’Amministrazione penitenziaria, mancando chiarezza normativa su tale figura (in merito richiamiamo il comma 3 dell’articolo 28 del DPR 354/2000, per il quale “l’osservazione [di cui al precedente articolo 27] è condotta da personale dipendente dall’Amministrazione”), per altro, non è nemmeno espressamente richiamato, né poteva essere altrimenti, fra i “professionisti indicati nel secondo e quarto comma dell’articolo 80 della legge” 354/1975, dei quali, “secondo le occorrenze”, l’Amministrazione, sempre ai sensi dell’articolo 28 del DPR, può avvalersi al fine di espletare l’osservazione scientifica. Infatti, ai sensi della legge istitutiva l’Ordinamento penitenziario, articolo 80, comma quarto, “per lo svolgimento delle attività di 131 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) osservazione e di trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia e criminologia clinica”; il mediatore culturale, in senso lato, potrebbe essere un professionista esperto in una delle quattro materie indicate dal legislatore. Pare, altresì, forzato equiparare il mediatore culturale all’educatore, di cui all’articolo 82 della L. 354/1975. Riprendendo la lettera della legge, il mediatore culturale potrebbe rientrare genericamente fra il “personale incaricato giornaliero”, cui fa menzione il comma secondo dell’articolo 80 della richiamata legge, dimenticando, però, che questo va letto in combinato disposto con il comma quarto, di cui sopra; in ogni caso l’utilizzo di personale esterno è limitato dalla disponibilità di risorse finanziarie. Il mediatore culturale può rientrare a pieno titolo fra gli assistenti volontari, di cui all’articolo 78 della legge del 1957 ripreso dall’articolo 120 del DPR del 2000. La qual cosa è lasciata più che supporre dallo stesso comma secondo dell’articolo 35 del DPR; l’intervento è, infatti, favorito “anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato”, quelle stesse organizzazioni di volontariato che, ai sensi del comma primo dell’articolo 120 del DPR, “assicurano, con apposite convenzioni con le direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale, continuità di presenza in determinati settori di attività”. Qualora l’operatore di mediazione culturale rientri nella fattispecie prevista dall’articolo 78 della legge 354 del 1975 e richiamata nell’articolo 120 del DPR 230 del 2000 non potrebbe partecipare direttamente alla compilazione del programma individualizzato di trattamento ex articolo 29 del DPR, in quanto non assimilabile al personale incaricato ex articolo 80 della legge del 1975. Rammentiamo, infatti, che, ai sensi del comma secondo dell’articolo 29, la compilazione del programma è effettuata dal gruppo di osservazione presieduto dal direttore dell’istituto e composto dal personale dell’amministrazione nonché dagli esperti che hanno svolto l’osservazione; gli esperti sono inequivocabilmente, ai sensi del comma terzo dell’articolo 28 del DPR, i professionisti Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x richiamati all’articolo 80 della legge del 1975. In definitiva, l’assenza di questa figura nei lavori del gruppo di osservazione, o, meglio, il suo non esserne parte costitutiva (la sua presenza e, infatti, frutto di un’opzione effettuata dai vertici dell’amministrazione) depotenzia non poco la funzione rieducativa della pena erogata ad uno straniero. Manca, infatti, la mediazione fra la cultura giuridica del reo e la cultura giuridica del paese ove la pena ha trovato erogazione ed esecuzione. 5. Esecuzione della pena ed espulsione In materia di esecuzione penale, che veda soggetti cittadini di paesi non aderenti all’Unione Europea, attenzione merita la disposizione dell’articolo 15 della L. 189 del 30 luglio 2002 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo). Detto articolo, rubricato con Espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, regolamenta, come noto, l’espulsione del cittadino straniero, ovvero extracomunitario, che, versando nelle condizioni previste dall’articolo 13, comma secondo del Testo Unico del 1998, sia un cosiddetto clandestino. Ai sensi del comma primo “il giudice nel pronunciare sentenza di condanna […] può sostituire la medesima pena con la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni”, sempre che la pena detentiva non sia superiore a due anni. L’espulsione è “eseguita dal questore anche se la sentenza non è irrevocabile”. Parimenti, ai sensi del comma quinto, sesto e settimo, del sopra richiamato articolo, il magistrato di sorveglianza, con decreto motivato, può disporre l’espulsione dello straniero, identificato, detenuto e clandestino “che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni”. Il detenuto “può proporre entro dieci giorni opposizione dinanzi al tribunale di sorveglianza”. Dal che si evince: il giudice di merito, ricorrendo le condizioni previste dalla normativa vigente ha facoltà di sostituire la pena (“quando ritiene di dovere irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni”) con la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni; il magistrato di sorveglianza 132 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) può disporre l’espulsione, ovvero commutare la pena detentiva con la misura dell’espulsione. In quest’ultimo caso, ai sensi del comma ottavo, “la pena è estinta alla scadenza del termine di dieci anni dall’esecuzione dell’espulsione […] sempre che lo straniero non sia rientrato illegittimamente nel territorio dello Stato. In tale caso lo stato di detenzione è ripristinato e riprende l’esecuzione della pena”. Va, per inciso, constatato come il legislatore nell’utilizzare, al comma quinto della predetta legge, il sostantivo detenuto senza altra specificazione lasci intendere che il decreto di espulsione del magistrato di sorveglianza possa riguardare sia uno straniero sottoposto ad esecuzione intramuraria, ossia detenuto in carcere, che uno straniero detenuto il luogo diverso dal carcere, un esempio, per quanto remoto, potrebbe riguardare la detenzione domiciliare; il decreto potrebbe trovare soggetto anche in uno straniero in esecuzione di pena detentiva in forma alternativa o sostitutiva al carcere, fra le misure alternative vanno richiamate l’affidamento in prova e la semi-libertà. Tutto ciò a significare che se la ratio di tale disposizione fosse meramente operativa, ovvero fosse da riconnettersi ad una necessità di sfollamento delle carceri, la stessa si applicherebbe soltanto ai cittadini stranieri extracomunitari clandestini ristretti nelle carceri stesse. È ben vero che proprio nei confronti dei detenuti stranieri, che versano nelle condizioni previste dalla normativa qui richiamata, si riscontrano le maggiori difficoltà oggettive per la concessione delle misure alternative (mancanza di tessuto socio-famigliare, mancanza di lavoro, assenza di domicilio e via discorrendo), per cui il loro numero appare talmente esiguo da non necessitare uno specifico richiamo nella disposizione. In tal modo però anche questi ricadono, cosa del resto puntualmente verificatasi15, sotto la previsione del comma quinto 15 Esemplificativa della questione risulta il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, il 18 dicembre 2003, in merito al richiamato articolo. Il Tribunale osserva in fatto che il soggetto del provvedimento di espulsione “si trovava in detenzione domiciliare presso la madre”; non solo, il detenuto in questione ha abbandonato con tutta la famiglia il paese d’origine all’età di cinque anni, non ne parla Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x che non lascia al magistrato di sorveglianza poteri discrezionali (“nei confronti dello straniero […] è disposta l’espulsione”). La disposizione ritrova dunque vigenza nei confronti dell’intera classe dei detenuti stranieri richiamati all’articolo 1516. la lingua, non possiede in questo alcun legame parentale né, tanto meno, sociale. Per il Tribunale di sorveglianza sassarese “il forzato rientro del detenuto nel paese di origine lo costringerebbe ad una vita di emarginazione, povertà, incomprensione dei valori e della cultura locale e difficoltà nei rapporti sociali”, ponendo il soggetto in una situazione analoga a quella prevista dall’articolo 19 del Testo Unico, che “ha voluto evitare una siffatta situazione ed altre anche più gravi se causata da persecuzione. Sarebbe del tutto irragionevole un sistema giuridico che, invece, consentisse la medesima situazione non determinata da persecuzione ma da altra causa. Il collegio reputa che nel caso in esame si realizza tale irragionevolezza della norma richiamata e, nel contempo, una violazione del principio di eguaglianza, perché il Legislatore non contempla tra i divieti di espulsione e di respingimento il caso di stranieri che, pur non in regola con le norme di soggiorno, abbiano tutti i famigliari regolarmente soggiornati in Italia e non abbiano più alcun legame famigliare, sociale, linguistico e culturale con il loro paese d’origine”. Va in proposito rilevato che il Collegio pur non ritenendo manifestatamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale della norma in oggetto non richiama le finalità rieducative della pena irrogata al detenuto al fine di argomentarne l’incostituzionalità. L’esecuzione della stessa avviene nella forma della detenzione domiciliare, ex articolo 47 ter della legge 354 del 1975, presso un famigliare. Giova rilevare che la Corte Costituzionale ha stabilito che la detenzione domiciliare “è volta ad assecondare il passaggio graduale allo stato di libertà pieno mediante un istituto che sviluppa la ripresa dei rapporti famigliari ed intersoggettivi, senza incidere negativamente sulle eventuali opportunità di lavoro”, così nella sentenza n. 422 del 27 ottobre 1999. Tale forma di misura alternative si inserisce perfettamente all’interno di una più complessa opera di rieducazione del reo. Venendo meno la stessa a fronte dell’espulsione del detenuto tale opera si interrompe con come conseguenza la lesione di un diritto fondamentale del detenuto. Nel caso in specie, il tribunale di sorveglianza di Sassari ritiene più appropriato richiamare gli articoli 29 e 30 della Costituzione (unità famigliare). Post scriptum: la Corte costituzionale, con ordinanza n. 260 del 20 giugno 2005, ritenendo, fra l’altro, che “la questione postula una pronuncia additiva concernente situazioni indeterminate e comportante quindi l’esercizio di valutazioni discrezionali estranee alle funzioni di questa Corte”, dichiara la manifesta inammissibilità della questione stessa. 16 Diversa è l’interpretazione del tribunale di sorve- 133 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Al di là delle considerazioni di cui sopra, non pare potersi prendere in considerazione l’ipotesi che il legislatore attraverso questa disposizione voglia abdicare tout cour alla pubblica autorità all’esecuzione penale17; che l’espulsione sia una della modalità di esecuzione della pena lo si evince chiaramente dalle disposizioni contente al comma quarto: infatti, nel caso di espulsione erogata dal giudice “se lo straniero espulso […] rientra illegalmente nel territorio dello Stato prima del termine previsto […] la sanzione sostitutiva è revocata dal giudice competente”; al comma ottavo: nel caso di espulsione disposta dal magistrato di sorveglianza “la pena è estinta alla scadenza del termine di dieci anni dall’esecuzione dell’espulsione”, se lo straniero espulso dal decreto del magistrato di sorveglianza rientra illegalmente nel territorio dello Stato “lo stato di detenzione è ripristinato”. Va notato che il periodo contenuto nel comma ottavo viene concluso dal legislatore con l’espressione “riprende l’esecuzione della pena” (“lo stato di detenzione è ripristinato e riprende l’esecuzione della pena”); dal che si può intendere che l’espulsione possa trattarsi di una forma di sospensione della esecuzione della pena che rimane pur sempre detentiva. Ciò però appare in contrasto con quanto lo stesso legislatore dispone in altra parte del comma ottavo in merito dell’estinzione della pena alla scadenza del termine, estinzione che glianza di Sassari, che con ordinanza del 27 marzo 2003 rileva come “l’ammissione del condannato alla detenzione domiciliare faccia venire meno uno dei presupposti richiesti dalla legge per l’applicazione dell’espulsione” in quanto “la sanzione alternativa di cui all’art. 16 è prevista solo per i detenuti e in mancanza di espressa previsione legislativa non appare corretto estendere la norma anche ai detenuti domiciliari”. Se ciò avvenisse “la sanzione finirebbe, infatti, per colpire soggetti la cui assenza di pericolosità così come la possibilità di un loro effettivo e idoneo inserimento nel territorio nazionale dello Stato, sono state già positivamente valutate in sede di concessione della detenzione domiciliare e avrebbe l’effetto di porre nel nulla la funzione rieducatrice svolta dalla pena durante la carcerazione, fino ad ora sofferta”. 17 Se ciò fosse, bisognerebbe in qualche modo riconnettere tale istituto a una interpretazione fin troppo estensiva ed elastica della liberazione anticipata, ex articolo 54 della legge n. 354 del 1975, quale strumento principe di svuotamento di istituti fin troppo sovraffollati. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x avviene automaticamente senza necessitare di altra formalità che il trascorrere del tempo. Nel quadro tratteggiato dall’articolo 16 del D. leg n. 286 del 25 luglio 1998 così come modificato dall’articolo 15 della legge n. 189 del 2002, l’ipotesi relativa ad una espulsione come sospensione della pena è quindi da scartarsi; l’espulsione sostituisce non sospende la pena. Qualora, infatti, non ci sia rientro clandestino dello straniero soggetto del provvedimento, l’espulsione produce di per sé l’effetto di estinguere la pena; questa, nella forma di detenzione, viene ripristinata come momento afflittivo (la privazione di un bene quale la libertà). Ma la stessa sostituzione della pena detentiva con l’espulsione viene meno con il rientro del reo nel territorio nazionale e appare del tutto naturale che, per così dire, rifiutando egli nei fatti l’esecuzione della pena attraverso l’espulsione venga sottoposto alla detenzione. Dal che si evince come sia la sentenza che sostituisce la pena detentiva con la misura dell’espulsione, che il decreto che tramuta la detenzione residuale in espulsione, si mantengano all’intero dei confini dell’esecuzione della pena. L’espulsione è un provvedimento di esecuzione della pena; è, a tutti gli effetti, una misura alternativa alla detenzione. Ciò premesso vanno effettuate alcune considerazioni d’ordine generale. 6. Il diritto-dovere alla rieducazione All’interno di un discorso che mira ad indagare la salvaguardia della dignità umana anche, e soprattutto, nel momento dell’esecuzione penale va posta una distinzione preliminare che possa apportare chiarezza nell’affrontare l’argomento. Infatti, ad un ambito può essere ascritta la questione relativa alla salvaguardia dei diritti individuali del condannato. Questi ritrovano indubbiamente il loro fondamento nella Carta costituzionale e la loro attuazione nell’Ordinamento e nel Regolamento penitenziario e rappresentano, per un verso, le normali regole di trattamento (rapporti con l’esterno, attività ricreativo-culturali, sanità, pratiche religiose e così via per finire ai regimi di sorveglianza) e, per altro, ineriscono alla possibilità di usufrui134 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) re di regimi alternativi alla detenzione. Queste statuizioni si riconducono al principio secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, così come stabilito dalla prima parte del comma terzo dell’articolo 27 del dettato. Quindi, l’esecuzione della pena, al fine di potersi collocare nei confini tracciati dall’ordinamento giuridico, non può discostarsi dal senso di umanità. Vengono posti dei limiti superati i quali la pena perde la propria giuridicità. Altro, invece, è l’ambito dove va ricondotto il diritto-dovere del condannato alla rieducazione, che avviene per mezzo dell’esecuzione della pena, come evidenziato dalla seconda parte del comma terzo del richiamato articolo. La violazione dei diritti riconducibili al primo ambito comporta l’infrangersi di un insieme di tutele pur sempre ricollegabili ai diritti individuali e sociali, che, pur compatibilmente con regime di restrizione della libertà, non si annullano, ma vedono sempre il condannato ed il detenuto come soggetto. Le violazioni dei diritti appartenenti a questo gruppo ritrovano strumenti di riequilibrio sia nel diritto interno, che nel diritto internazionale e, più specificatamente in quello comunitario. In questo contesto si colloca la tutela della diversità culturale, tutela che, come chiaramente si evince dalla lettera del Regolamento del 2000, oltrepassa i muri del carcere. In altro contesto si colloca però il dirittodovere alla rieducazione. Infatti, il non porre in essere, da parte della pubblica autorità, un processo rieducativo non cozza direttamente contro quei diritti individuali e sociale del detenuto sopra richiamati. Le finalità rieducative della pena, al di là della loro statuizione all’articolo 27, ritrovano sia la fonte, che il raccordo con l’intero ordinamento, nell’articolo 3 della Costituzione. Attraverso questo ancoraggio è possibile individuare sia un diritto del condannato alla rieducazione, che un obbligo alla rieducazione che vede il destinatario nella pubblica autorità Nel momento in cui viene erogata una pena a fronte della commissione di un fatto antigiuridico, si costituisce il diritto-dovere alla rieducazione, che vede, per l’appunto, Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x due destinatari: l’ente pubblico ed il reo. Se il venire meno del dovere da parte del condannato è, in qualche modo ricompreso e ricompensato nella e dalla pena detentiva, la privazione della libertà che assume, infatti, anche connotati afflittivi e non solo rieducativi, il venir meno del suo diritto, ovvero il non adempimento da parte dell’autorità pubblica al compito (al dovere) rieducativo ad essa ascritto dall’ordinamento stesso, ha due conseguenze. Per un verso, provoca un danno al condannato in quanto persona umana parte di un consesso societario; l’inattività della pubblica autorità non lo pone nelle condizione di superare le soggettive situazioni di antigiuridicità che lo hanno determinato alla commissione del reato (si vedano, a titolo esemplificativo, gli articoli 13 e 15 dell’Ordinamento penitenziario). Venendo meno alla funzione di rimozione degli ostacoli, che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana, fra i quali va annoverata la propensione all’antigiuridicità del reo, si produce una sorta di negazione da parte dell’ente pubblico stesso del suo carattere costitutivo, segnato, come ampiamente dimostrato dalla dottrina e dalla giurisprundenza, dall’articolo 3 del Dettato. Appare quindi palese come la pena privata delle sue finalità rieducative risulti estranea all’ordinamento giuridico vigente. Allora una questione può essere posta: se e come l’esecuzione della pena per mezzo dell’espulsione dal territorio dello stato del condannato detenuto possa ricondursi ad una funzione rieducativa della stessa. Oltre i propri confini lo stato, come evidenziava già Grozio, non esercita alcuna potestà, men che meno può dispiegare un trattamento rieducativo. La pena, in questa fattispecie, consiste esclusivamente nella messa al bando del condannato, su questo non è operato alcun intervento, la Repubblica non esercita il suo principale e caratterizzante compito privando il condannato dell’azione rieducativa di cui ha diritto anche nel caso in cui alla estinzione della pena detentiva venga espulso. In proposito appare indicativa una pronuncia di Cassazione. Già nel febbraio 1982 la Cassazione ha evidenziato come l’espulsione a 135 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) pena espiata non contrasti affatto con le finalità rieducative della stessa né, più in particolare con il graduale reinserimento del reo nella società. “Poiché la risocializzazione deve intendersi in senso sovranazionale” non rileva l’ambito statuale nel quale avverrà il trattamento di reinserimento sociale del soggetto; ciò che importa è l’idoneità del trattamento rieducativo a favorire il “recupero sociale nel contesto del consorzio civile, quale elemento dell’intera comunità internazionale”. La Cassazione ribadisce la parità di trattamento fra cittadini italiani e cittadini stranieri, che ritrova la propria ratio nella parità di diritti propria all’essere umano, così come si evince dalla disposizione dell’articolo 2 del dettato costituzionale. Operare una discriminazione nel campo dell’esecuzione della pena in base alla cittadinanza del reo fa venire meno l’effettività dei diritti inalienabili dell’uomo riconosciuti dall’ordinamento; ciò pone l’ordinamento stesso, disancorato sia dall’articolo 3, che dall’articolo 2 del dettato, in balia di correnti che possono trascinarlo verso i vortici del diritto inteso come una tecnica di controllo sociale. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x Sul carcere quale “fabbrica del reinserimento sociale” 1. Il rapporto fra reinserimento sociale e lavoro nel quadro valoriale tratteggiato dalla Carta costituzionale; 2. L’intervento del legislatore ordinario nell’affermare i valori costituzionali; 3. Imprese e carcere fra norme promozionali e “marchio etico”; 4. L’evoluzione del lavoro nella società contemporanea e le sue possibili ripercussioni nel processo rieducativo del reo; 5. Sul ristretto e l’etica del lavoro; 6. Su possibili implicazioni fra il lavoro carcerario e la decarcerizzazione; 7. Il percorso della rieducazione: da lavorante a lavoratore. 1. Il rapporto fra reinserimento sociale e lavoro nel quadro valoriale tratteggiato dalla Carta costituzionale. L e tematiche proposte nell’ambito di una riflessione su una realtà carceraria tesa a divenire una “fabbrica del reinserimento sociale” inducono a riconoscere come, sia pure all’interno d’una quotidianità resa precipua dal regime di limitazione della libertà, si assista all’intrecciarsi di diritti fondamentali della persona umana, ai quali corrisponde l’affermarsi di precisi doveri che investono, ovviamente da prospettive diverse, sia coloro i quali scontano una pena, che le istituzioni sociali, le quali tale esecuzione hanno previsto. In un quadro illuminato dalle disposizioni contenute nell’articolo 3, comma secondo della Costituzione del 1948, il quale, come noto, nel riconoscere l’obbligo rimozionale della Repubblica di quegli ostacoli che limitando la libertà e l’eguaglianza dei cittadini ne impediscono il pieno sviluppo come persone umane, afferma il principio partecipativo di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale del paese, si colloca il comma terzo dell’articolo 27 del dettato e, quindi, la necessaria interazione fra il diritto del condannato alla rieducazione ed il dovere delle istituzioni a predisporre un trattamento penitenziario conforme al finalismo rieducativo lì sancito. La tensione alla riedu136 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) cazione del condannato non può che ritrovare nel lavoro il proprio punto di riferimento e ciò a maggior ragione in un contesto istituzionale, come quello tratteggiato dall’articolo 1 della Carta costituzionale, che si riconosce, sia pure senza alcuna pretesa di esclusività, fondato anche sul principio lavorista. Il lavoro è, dunque, uno dei pilastri su cui si regge il contesto socio-politico del paese ed è, nel contempo, strumento per partecipare attivamente a tale contesto, come evidenzia il comma secondo dell’articolo 3, poco innanzi richiamato. Di fatti, al riconoscimento ed alla promozione del diritto al lavoro, che dà vita ad un interesse costituzionalmente garantito, si affianca, come evidenziato dal comma secondo dell’articolo 4 della carta costituzionale, il dovere, sia pur, come rilevato1, non coercibile, e, per tanto, di natura più morale che giuridica, ad “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Appare, quindi, chiaro, e ora va soltanto brevemente accennato, come l’articolo 41 del dettato sottolinei che il lavoro, combinato al capitale ed alla conoscenza tecnologica, non possa “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”. La finalità rieducativa della pena non può, all’interno di questo quadro normativo e valoriale, che ritrovare esplicazione anche in una prassi di educazione al lavoro, sicché al dovere del condannato corrisponde il diritto della società di esigere che la rieducazione del reo avvenga anche per mezzo del lavoro, nel momento in cui questo pare rappresentare uno dei nuclei intorno ai quali si fonda e si dispiega la vita societaria. Va soltanto accennato come l’articolo 35 della Costituzione, al comma secondo, dopo avere, al comma primo, tutelato “il lavoro in tutte 1 Cfr. per tutti V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952, p. 150. Proprio in tema di condanna penale va in ogni caso rilevato come, ai sensi dell’articolo 133, comma secondo, punto quarto del Codice penale, il giudice, nell’esercitare il poter discrezionale nell’applicare la pena, possa, nel tener conto “della vita individuale, familiare e sociale del reo”, prendere in considerazione il suo rapporto con il lavoro. Va altresì sottolineato che tali considerazioni posso pesare notevolmente sulla dichiarazione di delinquente o contravventore abituale ai sensi degli articoli 103 e 104 del Codice penale. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x le sue forme ed applicazioni”, quindi, anche il lavoro dei carcerati, faccia cura alla Repubblica della formazione e della elevazione professionale del lavoratore, in modo tale da potersi ravvisare un diritto del cittadino incarcerato alla formazione professionale, diritto rinforzato da una interpretazione estensiva del comma terzo dell’articolo 38 del dettato, del resto legittimata dalla modifica delle norme in materia di cooperative sociali (legge n. 381 del 8 novembre 1991), che già all’origine ricomprendevano nella categoria delle “persone svantaggiate”, oltre ai soggetti esplicitamente menzionati dal legislatore costituzionale nel sopra richiamato articolo, i detenuti negli istituti penitenziari. All’interno di tale contesto, lo stesso istituto familiare risulterebbe monco se separato dal lavoro; non appare, infatti, casuale che la carta costituzionale riconosca, all’articolo 36, comma primo, il diritto del lavoratore ad una “retribuzione […] sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. La stessa libertà, quindi, in una “Repubblica democratica, fondata sul lavoro” non appare disgiungibile da quest’ultimo; è di fatti il lavoro che promuove sostanzialmente nella vita concreta la libertà, la quale ritrova, per l’appunto, nel lavoro, quale mezzo istituzionale per una esistenza almeno dignitosa, più che in vuoti enunciati, il proprio supporto e ciò a maggior ragione per chi, come il detenuto, si vede limitato nell’uso di questo bene, la cui piena riacquisizione passa attraverso un processo rieducativo nel quale l’essere lavoratore appare centrale. Solo per inciso va rilevato come la forte tutela dei diritti dei lavoratori, l’imprescindibilità della funzione sociale del lavoro, l’impossibilità, quindi, di esplicarlo a nocumento della sicurezza e della dignità umana, nonché il riconoscimento del lavoro quale fondamento della vita democratica stessa, rendono impossibile sul piano della ricostruzione dei valori costituzionali tragici accostamenti fra i sostantivi lavoro e libertà, che forse verrebbero alla mente avuto riguardo ad una certa rappresentazione del lavoro penitenziario storicamente verificabile. 137 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) 2. L’intervento del legislatore ordinario nell’affermare i valori costituzionali. Il legislatore ordinario ha più volte ribadito la centralità del lavoro nel trattamento rieducativo del condannato. Nello stesso Ordinamento penitenziario, radicalmente riformato con la legge n. 354 del 26 luglio 1975, che abbandona definitivamente l’idea di pena come ritorsione istituzionalizzata a fronte di un reato, emerge, all’articolo 15, fra i principali elementi di trattamento del condannato, il lavoro. Tale tema ritrova, come noto, sua specificazione in primis all’articolo 20, il quale tratteggia, per i detenuti, la distinzione fra lavoro interno (intramurario) e lavoro esterno (extramurario), ma soprattutto stabilisce, al comma quinto che “l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale”. In tal senso appare centrale sottolineare come, nonostante il lavoro penitenziario tragga origine più da un obbligo legale che da un rapporto contrattuale, nello stesso ritrovi applicabilità nella sua interezza la legislazione a tutela del lavoro (dalla sicurezza al riposo festivo, dalla tutela assicurativa e previdenziale alla erogazione degli assegni famigliari). Va solo rammentato che dall’entrata in vigore della richiamata legge del 1975 la normativa sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà ha subito una notevole modificazione; centrale in tal senso appare la legge n. 663 del 10 ottobre 1986 (cosiddetta legge Gozzini), che dà impulso ad una politica di decarcerizzazione per mezzo delle cosiddette misure alternative alla detenzione, le quali ritrovano un importante intervento normativo nella legge n. 165 del 28 maggio 1998 (cosiddetta legge Simeone). Come si ha agio d’osservare, le misure alternative appaiono fondamentali ed imprescindibili al fine di ipotizzare il lavoro extramurario, il quale ritrova ulteriore rilancio per mezzo della legge n. 193 del 22 giugno 2000 (cosiddetta legge Smuraglia), contenente norme per Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x favorire l’attività lavorativa dei detenuti attraverso la concessione di agevolazioni per aziende (cooperative sociali ed imprese pubbliche e privata) che impieghino lavoranti detenuti. Fondamentale, non soltanto per il lavoro intramurario, appare il precedente intervento normativo avvenuto con legge n. 293 del 12 agosto 1993, il quale favorisce lo sviluppo delle attività lavorative all’interno delle strutture penitenziali ed avvia il processo di formazione professionale dei detenuti. La prospettiva solcata dal legislatore con la riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 non è nel corso di questo trentennio mai stata posta in discussione ed anzi gli ulteriori interventi normativi succedutisi nel tempo la hanno maggiormente rinforzata, tratteggiando, con particolare riguardo all’idea del rapporto fra lavoro e trattamento rieducativo, un’ipotesi per la quale il lavoro del detenuto, lungi dal apparire soltanto un espediente per togliere il ristretto da una situazione di ozio foriero di ulteriore sregolatezza (il lavoro, infatti, all’interno di questa rappresentazione, che ritrova il proprio punto di riferimento nel Regolamento penitenziario del 1931, di poco successivo alla promulgazione del codice penale tutt’ora in vigore, “sostituendo all’inerzia il movimento, dona all’individuo, se non il gusto, per lo meno la nozione della regolarità e dell’ordine”), viene proposto come diritto costituzionale e dovere sociale, elemento indispensabile alla rieducazione ed al reinserimento sociale del reo. Qui è possibile soltanto accennare (e la questione meriterebbe un’analisi particolareggiata), come con la riforma del 1975 venga istituito il Centro di Servizio Sociale per Adulti (si veda l’articolo 72), al quale vengono attribuite, fra le altre, importanti funzioni nell’ambito della organizzazione del lavoro penitenziario (si veda in proposito gli articoli 47 e seguenti del regolamento esecutivo della legge n. 364 de 1975 posto con DPR n. 230 del 2000), nonché, con particolare riguardo al fine di favorire il reinserimento del reo nella società, il Consiglio di aiuto sociale (vedi articolo 74)2. 2 Su tali questioni ci permettiamo di rimandare al lavoro di tesi di laurea in Scienze del Servizio Sociale di Luciana Bertoia, Il servizio sociale penitenziario: le misure 138 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) 3. Imprese e carcere fra norme promozionali e marchio etico Da quanto sopra brevemente accennato è possibile in ogni caso cogliere una precisa linea di tendenza, che partendo dalla tensione all’equiparazione del lavoro penitenziario, sia nella forma intramuraria che in quella extramuraria, al lavoro svolto nella società libera, giunge da ultimo a riconosce, per tramite di norme promozionali, degli incentivi alle imprese che impiegano lavoranti detenuti e lavoratori ex detenuti; questa prospettiva si colloca all’interno di una cornice istituita dai supremi valori costituzionali, la quale racchiude un’idea di rieducazione del reo, in cui la vigenza del diritto/dovere al lavoro appare assolutamente imprescindibile. Ripensando agli incentivi a favore delle imprese impegnate a conciliare le esigenze di mercato con un netto e marcato intervento a favore della persona umana, di cui la legge Smuraglia del 2000 rappresenta un chiaro esempio, nel momento in cui estende alle imprese agevolazioni prima usufruite soltanto dalle cooperative sociali (ex articolo 4, legge 381/1991), e, nel contempo, radicalizza l’intervento a favore dell’assunzione di lavoranti detenuti e lavoratori ex detenuti, sovviene il dibattito sviluppatosi anche in Italia in merito al cosiddetto marchio etico. Giova in proposito rammentare come, anche sulla scorta di iniziative comunitarie (vedi il Consiglio europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000 e successivamente il libro verde della Commissione Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese del luglio del 2001), il legislatore nazionale sia stato più volte sollecitato ad intervenire, per tramite di norme promozionali, sul riconoscimento di un marchio etico per le imprese socialmente responsabili. Estrapolando dalla relazione ad un disegno di legge presentato nel corso della XIV legislatura, “il concetto di responsabilità sociale delle imprese significa che esse decidono, di propria iniziativa, di contribuire a migliorare la società, cioè di investire maggiormente nel alternative alla detenzione, anno accademico 2002-2003, Università degli Studi di Trieste. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le parti interessate, al fine di conciliare le ragioni della competitività con quelle dello sviluppo sociale”. Si tratta, per tanto, di incentivare le imprese a “sviluppare le prassi socialmente responsabili” già istituzionalizzate da organismi internazionali; in proposito uno dei principali punti di riferimento è offerto dal Social Accountability International, estensore della norma SA 8000, a cui anche la proposta di legge sopra richiamata faceva riferimento. Ebbene, senza dilungarci sull’argomento, spiace in questo contesto constatare che l’utilizzo del lavoro penitenziario sia preso in considerazione solamente nella sua accezione negativa o patologica, di lavoro obbligatorio (meglio forzato), si veda in proposito in punto 2 della SA 8000, mentre nessuna menzione viene fatta in merito alla promozione del reinserimento dei detenuti ed ex detenuti nel contesto societario per mezzo dell’offerta sia di formazione professionale, che di opportunità di impiego. Infatti, all’intero della cornice che il legislatore nazionale riterrà di porre e in quella già predisposte dai legislatori regionali3, il lavoro penitenziario, nella sua accezione fisiologica ricavabile dai principi costituzionali, di cui prima si è fatto cenno, non appare valorizzato quale requisito per accedere al marchio etico, mentre, come osservato, questo è un veicolo primario al fine di porre l’impresa al servizio della persona umana e più in generale per valorizzare la sua funzione sociale. La quotidiana promozione della persona, anche della persona ristretta nelle maglie della istituzione penitenziaria, rappresenta, infatti, la strada regia per l’affermazione dei diritti dell’uomo. In questo senso, meriterebbe attenzione e ulteriore valorizzazione lo sforzo compiuto dal mondo delle imprese al fine di agevolare, per tramite della formazione professionale e dell’offerta lavorativa, il pieno reinserimento dei detenuti ed è pertanto auspicabile un coordinamento delle iniziative volte a promuovere la funzione sociale dell’imprese e con questa, 3 In materia è già intervenuta la Regione Abruzzo, con legge n. 12 del 14 febbraio 2000 e, dopo la riforma del Titolo quinto, sono presenti proposte di legge presso i competenti organi delle Regioni Campania, Emilia-Romagna, Piemonte. 139 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) come appare ovvio da quanto siamo andati dicendo, promuovere la vigenza dei diritti inalienabili della persona umana. In proposito un attento osservatore della questione ha avuto modo di suggerirci che “non ci può essere vera tutela di un diritto solo attraverso la repressione come reato della condotta che lo viola […] tutelare un diritto significa garantire il soddisfacimento di un bisogno fondamentale”4 quale è, nel nostro contesto, il bisogno di reinserimento del reo nella società. issn 2035-584x Da queste brevi considerazioni non si può che constatare come ogni richiamo, ogni tentativo di far entrare il lavoro nel carcere, di favorire il reinserimento sociale del detenuto anche per tramite della sua partecipazione alla realtà lavorativa, si colloca a pieno titolo nell’alveo valoriale tracciato dai principi costituzionali ed anzi diviene una delle principali vie per rendere effettivi, anche nel mondo del carcere, nel piccolo e povero vissuto quotidiano, i grandi valori racchiusi nelle enunciazioni di principio. È necessario, quindi, verificare nella realtà quotidiana l’estrinsecarsi sia dei principi, che degli interventi volti a realizzarli. In proposito ci giunge come stimolo la riflessione per la quale “la giuridificazione [dei diritti umani] è una conquista della civiltà giuridica e politica; è, con i suoi strumenti applicativi, necessaria, ma non sufficiente per il soddisfacimento dei bisogni”5. Nel discutere di lavoro e carcere e nel distinguere quest’ultimo dalla galera, alcune questioni non possono venire sottaciute. Di queste daremo soltanto brevi cenni. Ci permettiamo di porre due questioni di carattere generale per poi dar conto di alcuni punti di criticità presenti, a nostro avviso, nel rapporto fra lavoro e carcere, così come tratteggiato dalla vigente normativa. La prima questione è relativa al fatto che la società a noi contemporanea ha avviato un processo di radicale modificazione della realtà lavorativa. Il lavoro, inteso nella sua accezione di posto di lavoro, sta perdendo sempre di più quella caratteristica di fissità che lo aveva caratterizzato negli scorsi decenni a tutto vantaggio di forme lavorative protese verso la flessibilità, la segmentazione, la mobilità, di cui autorevole esempio appare la legge n. 30 del 14 febbraio 2003, con particolare riferimento agli articoli 3 e 4. Come ci viene sottolineato6, ogni modificazione regolamentativa del lavoro produce immediatamente i suoi effetti nell’ambito del lavoro penitenziario, nel momento in cui, come stabilisce la normativa vigente, questo si adegua a quello della società libera. Pertanto, la realtà lavorativa verso la quale i detenuti vanno incontro all’interno d’un processo di trattamento rieducativo è ben diversa da quella presente fino agli anni Novanta dello scorso secolo, in cui l’asse del rapporto fra flessibilità e sicurezza era sbilanciato a vantaggio di quest’ultima; sull’orizzonte che ricomprende il reinserimento sociale del reo anziché palesarsi il posto di lavoro si staglia la potenziale incombenza della parzialità e temporaneità dello stesso. Il lavoro si concretizza nell’immaginario collettivo sempre meno con le sembianze del posto fisso, intorno al quale costruire o, nel caso del reo, ricostruire la propria vita sociale; infatti, se, per un verso diamo per non mutato l’ambito valoriale nel quale si colloca il lavoro, per altro è sicuramente mutata la realtà concreta nella quale il rapporto di lavoro si esplica, sicché in questo il tempo ritrova sempre più precise determinazioni, che non possono che influire sull’interazione, di natura psicologica, fra il reo e l’idea di lavoro da questo percepita e produrre effetti ben più esiziali alla prova dei fatti. Va da sé che l’effetto pratico di questo processo conduce inevitabilmente e, per certi versi istituzionalmente, ad una sorta di precarietà, anzitutto psicologica non potendo l’immaginario il più delle volte ancorarsi a quella idea di stabilità lavorativa, che la legge delega del 2003 4 A. Papisca, Infrastrutture e diritti umani per il sistema democratico, in L. Strumendo (a cura di), Costituzione diritti umani garanzie, Padova, 1998. 5 Ibidem. 6 Cfr. l’intervento del magistrato Monica Vitale, autrice del volume Il lavoro penitenziario, Milano, 2001, alla giornata di studi su “Carcere: lavorare in stanca”, Padova, 9 maggio 2003 reperibile sul sito www.ristretti.it/convegni/lavoro. 4. L’evoluzione del lavoro nella società contemporanea e le sue possibili ripercussioni nel processo rieducativo del reo Digressioni sull’esecuzione della pena 140 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) tende a superare. Si può presumere che tale flessibilità nella acquisizione del reddito investirà sempre più prepotentemente l’immaginario dei soggetti deboli, fra i quali si annoverano i detenuti e gli ex detenuti e ciò con conseguenze facilmente intuibili per quanto concerne il fenomeno della recidiva (ma su questo oltre). Altro fattore non secondario da tenere presente nel momento in cui viene affrontato il nostro tema è il fenomeno della delocalizzazione dei processi produttivi, ovvero lo sradicamento degli stessi dalle tradizionali aree geo-economiche per mezzo dello spostamento sempre più massiccio di fasi e settori della produzione verso aree ove il costo del lavoro (inteso in senso lato e comprensivo anche di sicurezza, di politiche ambientali nonché di politiche sindacali-rivendicative) sia più favorevole. Tale processo non può che investire il lavoro penitenziario, lavoro, al di là di tutti i meritevoli sforzi, reso da manodopera non qualificata e perciò facilmente fungibile, nonché, anche per motivi strutturali, rivolto verso fasi di lavorazione non altamente specializzate e, quindi, facilmente delocalizzabili. Bisogna, quindi, interrogarsi sulla reale portata degli incentivi offerti alle imprese dalle norme promozionali del lavoro del detenuto e dell’ex detenuto (vedi legge Smuraglia) a fronte della possibilità di usufruire, da parte delle imprese, di altra forza e forme di lavoro a basso costo. La delocalizzazione delle attività produttive è indubbiamente una di queste possibilità, per tacer ovviamente del ricorso al cosiddetto lavoro nero od al lavoro in condizioni di totale illegalità avuto riguardo ai parametri normativi di sicurezza7. Non appare perciò casuale che le percentuali di occupati nel mondo della reclusione siano non elevate; in proposito i dati riconoscono una percentuale annua di circa il 20% di occupati nella popolazione penitenziaria, ma tale dato8, stando a stime calibrate, ad esem7 Mi piace soltanto rammentare, in proposito del lavoro sommerso, il lavoro redatto negli anni Settanta da A. Bagnasco, Le tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, 1977. 8 Il Ministero della Giustizia offre al 30 giugno 2006 una percentuale di detenuti lavoranti pari al 25,3% dei Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x pio dalla constatazione della temporaneità e brevità del rapporto lavorativo, va dimezzato, giungendo alla stima del 10% di occupati nella popolazione carceraria9. A tale proposito va aggiunto che, per quanto concerne il lavoro intramurario, ovvero l’attività produttiva che si svolge all’interno degli istituti penitenziari, il rispetto della normativa in materia di sicurezza del lavoro, quindi l’adeguamento dei locali del carcere adibiti a laboratori ai parametri normativi, è posta a carico dell’impresa. Ciò porta ovviamente ad un notevole incremento dei costi di produzione e disincentiva non poco l’utilizzo di reclusi soprattutto da parte di imprese private. Va altresì rilevato che, al momento della sua attuazione, la legge Smuraglia offriva copertura per circa 750 posti di lavoro in tutto il territorio nazionale e per l’intera popolazione carceraria (il cui ammontare superava le 60.000 unità), come noto soltanto la metà dei fondi stanziati a copertura ebbe modo di venire utilizzato, poco più di 300 unità lavorative usufruirono realmente dei benefici posti in essere dal legislatore10. Questo dato induce ad interrogarsi se effettivamente un intervento, come quello previsto dalla attuale normativa, che tende ad incentivare l’assunzione di detenuti solo attraverso la riduzione del costo del lavoro, si collochi, per così dire, in armonia con le attuali dinamiche del mercato del lavoro. Un’ultima questione merita qui richiamo detenuti presenti (15.501 detentuti lavoranti, di questi 936 donne, su una popolazione carceraria di 61.264 unità, di cui 2.923 donne). Di questi, lo 81,2% (12.591 unità) sono alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, il restante 18,8% (2.908 unità) non è alle dipendenze dell’amministrazione, ma di datori di lavoro esterni. Va rilevato, in merito ai detenuti stranieri, come sia stimata, sempre dalla stessa fonte, una percentuale del 23% di lavoranti, dato che appare in sintonia con quello generale. Una stima del 2005 curata dall’Associazione Antigone e reperibile sul sito della stessa (www.associazioneantigone.it) rileva la presenza di 19.836 detenuti stranieri su una popolazione complessiva di 59.523 unità. 9 Cfr. la relazione di A. Margara, ex direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, alla già richiamata giornata di studi su “Carcere: il lavoro non stanca”, reperibile sul sito www.ristretti.it/ congegni/lavoro. 10 Ibidem. 141 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) ed è offerta dalla più volte evidenziata11 sfasatura fra la formazione professionale offerta ai detenuti negli istituti carcerari e le esigenze lavorative esterne, in modo tale da determinare una situazione di non competitività del lavorante recluso rispetto all’aggiornamento professionale del lavoratore libero. Tutto ciò si riflette pesantemente sulla possibilità dell’ex detenuto di ottenere, una volta eseguita la pena, una occupazione lavorativa dignitosa, che gli permetta di acquisire un reddito sufficiente; come evidenziato negli studi in materia12, gli ex reclusi trovano impiego in lavori a basso profilo professionale, per lo più nel settore dell’edilizia o in quello della ristorazione nonché in cooperative di pulizia o facchinaggio13. All’interno di questo quadro, non certamente idilliaco, non appare trascurabile l’ipotesi, più volte sollevata14, di riservare legislativamente una quota di posti di lavoro a detenuti ed ad ex detenuti, così come già avviene per altre categorie socialmente svantaggiate. L’incentivo alla attività lavorativa della popolazione carcerata può apparire di non secondaria importanza, al di là del centrale richiamo nel trattamento rieducativo, per quanto concerne l’esecuzione delle pene pecuniarie, il più delle volte convertite in regime di libertà controllata. In questo senso, la possibilità di usufruire di lavoro intramurario o di misure alternative 11 Nel primo semestre del 2006, stante ai dati del Ministero della Giustizia, sono stati attivati 316 corsi di formazione professionale con 3.569 iscritti; ne sono stati portati a compimento 231, a cui hanno partecipato 2.847 detenuti. Fra le tipologie di corsi più seguite spiccano quelle di informatica (18%), di arte e cultura (13%), cucina e ristorazione (12%). 12 Cfr. L. Baccaro – G. Mosconi, Il girone dei dannati: ovvero il fenomeno della recidiva, in “Dei delitti e delle pene”, 2003, n. 3. Il lavoro ha per oggetto una ricerca su un campione di detenuti nella Casa di Reclusione e nella Casa Circondariale di Padova. 13 Non appare fuori luogo riproporre dati del Ministro della Giustizia in merito alla scolarità della popolazione detenuta e riferiti al 31dicembre 2006: analfabeti 1,5%; senza titolo 3,8%; scuola elementare 19,4%; media inferiore 35,2%; scuola professionale 1,6%; media superiore 4,6%; laurea 1,1%. 14 Cfr. le conclusioni, tratteggiate da Giuseppe Mosconi, alla giornata di studi su “Carcere: lavorare non stanca” consultabile sul sito www.ristretti.it/convegni/lavoro. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x alla detenzione permetterebbe al condannato di eseguire la pena pecuniaria e, nel contempo, alle istituzioni di rendere non soltanto letterale tale forma di pena. A maggior ragione lo stesso ragionamento si applica per quanto concerne il risarcimento del danno. Tale discorso implica che le pene accessorie erogate debbano essere tali da non inficiare la capacità lavorativa del reo e, pertanto, debbano essere calibrate con il suo inserimento nel mondo del lavoro. In questa direzione si volge il dibattito15 che ravvisa opportuno che la misura alternativa sia applicata già nella sentenza, dal giudice di merito e non successivamente nella fase esecutiva della condanna dal tribunale di sorveglianza. A detta dei fautori di quest’ipotesi, la cui realizzazione non appare certo priva di problematiche se non altro per la constatazione che la misura alternativa attualmente si colloca all’interno del trattamento rieducativo ed è concessa a seguito di approfondite indagine sul percorso rieducativo stesso, porterebbe a snellire i tempi della concessione della misura stessa, ponendo immediatamente il condannato nelle condizioni di accedere ad occupazioni lavorative esterne al carcere e, più in generale, farebbe prevalere già nella sentenza la fase della rieducazione e della risocializzazione del reo su quella della sua dichiarazione di colpevolezza collocando chiaramente la pena, già nella sua fase dichiarativa, verso le finalità rieducative e non afflittive. 5. Sul ristretto e l’etica del lavoro. La seconda e forse più radicale questione inerisce alla constatazione che, abitualmente, discutendo di lavoro carcerario si assume in modo aproblematico un preciso quadro valoriale, all’interno del quale si inserisce il lavoro. Il quadro valoriale riconducibile a quanto descritto nella prima parte del presente intervento, può ritrovare indistintamente punti di riferimento sia nel pensiero di Sieyès, che in quello di Marx ed Engels (le loro due opere più note, rispettivamente Che cosa è il terzo stato?, apparso nel gennaio 1789 ed il Manifesto del partito comunista, pubblicato nel marzo del 15 Cfr. ibidem. 142 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) 1848, se divergono profondamente da un punto di vista operativo, si riconnettono sull’orizzonte teoretico proprio in considerazione dell’identico valore offerto dagli autori al lavoro; entrambe i testi fondano e si fondano su una precisa etica del lavoro, borghese la prima, proletaria la seconda). Il problema è interrogarsi, a maggior ragione discutendo di carcere e lavoro, su quale sia il grado di interiorizzazione dell’etica del lavoro nella popolazione carcerata. Infatti, prendendo a prestito una nota teoria sociologica16, il lavoro rappresenta uno dei principali mezzi istituzionali per raggiungere delle mete socialmente condivise (ad esempio, il benessere materiale, ma anche, in una prospettiva consumistica ed edonistica, l’esibizione per tramite di simboli di status sociale); in questo senso, si perdoni la banalità, chi lavora per conquistare tali mete ha un comportamento socialmente conforme; chi, invece, pur condividendo i valori sociali incarnati in quelle mete, rifiuta i mezzi istituzionali per raggiungerle, ponendo in atto altri percorsi non socialmente (e giuridicamente) legittimi assume un comportamento deviante (per Merton si tratta di una sorta di devianza riformista giacché non pone in discussione l’intero assetto sociale, condividendone, infatti, le mete di fondo, ma attua una prassi volta al loro raggiungimento non ortodossa). La maggior parte dei reati contro il patrimonio (per inciso va rammentato che il 30% della popolazione carceraria ha commesso reati contro il patrimonio) si colloca su questo sfondo teorico, che vede fra le proprie basi il rifiuto del lavoro quale principale mezzo istituzionale per realizzare le mete sociali. Sicché, se esaminati sotto lo spettro della teoria del sociologo funzionalista, in coloro che delinquono contro il patrimonio si riscontra un radicale rifiuto del mezzo istituzionale pur a fronte di una accettazione dei valori sociali dominanti, in modo tale che l’attività lavorativa conforme ai dettami sociale viene considerata inadeguata al raggiungimento di tali scopi (più proficui appaiono le modalità descritte, ad esempio, negli articoli 624 e seguenti del codice penale; 16 Si fa riferimento a R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, trad. it. Bologna, 1971. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x lo stesso discorso può applicarsi ovviamente ai delitti contro la persona, quali quelli descritti dall’articoli 600 e seguenti del codice penale)17. In tale contesto un trattamento penitenziario che concentra la sua attenzione sul lavoro quale fulcro dell’intero processo di risocializzazione potrebbe palesare il lavoro anziché quale mezzo di rieducazione quale momento di angheria, di lavoro forzato, imposto coattivamente su soggetti totalmente refrattari, che tutt’al più lo accettano al fine di usufruire delle agevolazioni connesse alla misure alternative. In tale quadro, dal punto di vista del soggetto refrattario trattato, il lavoro penitenziario, lungi dal manifestarsi quale possibilità di reinserimento sociale, si concretizza quale ulteriore affiliazione da aggiungere alla privazione della libertà18. 17 Dati della Associazione Antigone relativi al 2005 evidenziano che al 30,3% della popolazione detenuta è ascritto reati contro il patrimonio; al 14,6% reati connessi alle sostanze stupefacenti; al 16% reati connessi alle armi; 2,5% reati di stampo mafioso; 0,6% reati connessi al mondo della prostituzione. Fra l’altro, dati forniti dall’Associazione Antigone e riferentisi al 2005 indicano che, su una popolazione detenuta di 59.125 unità, 23.012 risultano, ai sensi del articolo 73 del Testo Unico n. 309 del 1990, tossicodipendenti o alcolisti. Tali percentuali collimano sostanzialmente con i dati rilevati dal Ministero della Giustizia al 31 dicembre 2006, che riscontrano il 28% dei detenuti con ascritto reati contro il patrimonio; il 14% con reati contro la legge della droga; il 16,6% contro le legge sulle armi; il 3,4% reati di tipo mafioso; lo 0,6% reati connessi alla prostituzione. 18 Senza voler in nessun caso disconoscere il ruolo centrale svolto da autori come Hugo e Sue nella formazione di un movimento di riforma delle politiche penali, che ritrovi nella valorizzazione della persona umana e non nella sua repressione i fulcro del trattamento penitenziario, è indubbio che, proprio avuto riguardo all’etica del lavoro e con particolare riguardo a certe categorie di condannati, difficilmente potremmo ritrovarci di fronte al Jean Valjean de I miserabili, né, sul piano apposto all’espropriatore anarchico Jacob. Ovvero o a soggetti che, pur desiderandolo, non hanno avuto, dalla società del loro tempo, l’opportunità di usufruire di quei mezzi istituzionali per raggiungere delle mete sociali da loro condivise, prima fra tutte un’esistenza dignitosa, oppure, all’opposto, che, in quanto refrattari ai tutti i valori sociali hanno coscientemente e scientemente rifiutato mezzi e mete istituzionali. In proposito, oltre a rimandare alla rilettura delle opere di Victor Hugo e di Eugène Sue, segnaliamo, sulla vicenda dei lavoratori della notte, di cui Jacob fu indiscusso ispiratore, il volume di B. Thomas, Jacob, trad. it. Catania, 1989. Pare che il Maestro, descritto ne I misteri di Parigi, sia pure depurato da tutta 143 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Che, sia pure entro certi limiti, il lavoro non rappresenti il principale problema del carcerato lo si può con chiarezza evincere da una recente ricerca su i recidivi19, dalla quale emerge che soltanto il 15,3% degli intervistati ritiene che la maggiore difficoltà incontrata nel periodo di scarcerazione sia connessa al lavoro, alla mancanza o insufficienza dello stesso; la stessa indagine rileva che solo il 7,1% degli intervistati riconosce quale causa della recidiva l’assenza di lavoro (ciò in un campione in cui, prima della seconda detenzione, il 5,9% si dichiara disoccupato, il 65,1% con un impiego precario e solo il 28,6% con un contratto di lavoro fisso e regolare; fra gli occupati solo il 9,4% si dichiara soddisfatto dell’attività lavorativa, il 45% chiaramente insoddisfatto della stessa). In questo contesto, il combinarsi di una oggettiva scarsa propensione al lavoro (meglio, a riconoscersi in quell’etica del lavoro sopra richiamata e che è posta a fondamento dell’intreccio fra carcere e lavoro) con l’altrettanto oggettiva difficoltà del ex detenuto ad entrare nel mondo del lavoro e, qualora questo ingresso avvenga quasi sempre è per una porta di servizio, rischiano di depotenziare non poco gli sforzi che mirano al reinserimento del reo attraverso tali percorsi. Sicché, avuto riguardo alle obbiezioni sopra poste, si corre il rischio di veder naufragare il progetto di trattamento penitenziario fra gli scogli di una carità pelosa, da una parte, e dell’angheria, dall’altra; pericolo, questo, reso ancor più pressante dalla constatazione che la navigazione in oggetto non avviene in un mare aperto, libero, ma entro zone rigidamente delimitate dal regime penitenziario e dall’intervento della magistratura di sorveglianza. 6. Su possibili implicazioni fra il lavoro carcerario e la decarcerizzazione L’idea di carcere quale fabbrica del reinserimento sociale, qui indagata, prevede anche l’ipotesi, come evidenziato dai promotori della la crudeltà ascrittagli da Sue, sia un ragionevole paradigma del detenuto medio. 19 Cfr. il già citato saggio di L. Baccaro - G. Mosconi, Il girone dei dannati: ovvero il fenomeno della recidiva. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x prospettiva, “di project financing, affinché chi si accolla l’onere della loro realizzazione possa poi rientrare nei costi e guadagnare, garantendo l’erogazione dei servizi necessari per la gestione del carcere stesso. Costruire, quindi, un carcere [… e affidarlo poi] nella gestione dei servizi ai privati, con esclusione di quelli della sorveglianza, del trattamento rieducativo e dell’assistenza sanitaria”20. Questa prospettiva, invero innovativa per la panoramica italiana, non è però scevra da problemi di fondo. Infatti, per il proverbiale non addetto ai lavori una delle constatazioni più sorprendenti, nel confrontare il numero dei detenuti con il numero dei condannati, è offerta dall’osservare come, a fronte della sostanziale costanza del secondo si assiste a notevoli variazioni del primo21. Questa macroscopica sfasatura ritrova spiegazione nel fatto che il numero dei detenuti dipende da scelte di politica penale e non direttamente dalla propensione a delinquere di una data popolazione rapportata alla capacità delle autorità di erogare sanzioni. In questo senso, assumiamo che la percentuale di popolazione detenuta è anche il frutto di scelte di politica penale22. Va riconosciuto che in Italia, per lo meno dalla cosiddetta “legge Gozzini” del 1986, si è assistito ad una netta politica di decarcerizzazione, sia per tramite dell’applicazione delle misure alternative alla pena detentiva, che per mezzo di altri interventi da parte delle autorità competenti. 20 La citazione è tratta della Presentazione del Convegno «Per una nuova idea di carcere fabbrica del reinserimento sociale», organizzato a Trieste il 25 maggio 2007 dall’Istituto Internazionale di Studi sui Diritti dell’Uomo. 21 Tale rapporto è agevolmente coglibile, ad esempio, nello studio di Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al gulag, trad.it. Milano, 1996. Più in generale sulla cosiddetta costante tendenza al crimine cfr. S. Vinciguerra, Principi di criminologia, Padova, 2004. 22 Stante i dati del Ministero della Giustizia, la popolazione carceraria in Italia il 30 giugno 2006 ammontava a 61.264 unità, la stessa popolazione carceraria al 31 dicembre 2006 ammontava a 39.002 unità. Appare evidente come una precisa scelta di politica penale, l’entrata in vigore della legge n. 241 del 31 luglio 2006, Concessione di indulto, abbia quasi dimezzato la popolazione presente nelle carceri italiane. 144 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Il moto di decarcerizzazione è però contraddistinto da una ratio contraddittoria; infatti, a ben vedere, il punto di avvio di tale processo è offerto soprattutto dalla constatazione del sovraffollamento delle carceri italiane23. Senza addentrarsi in una specifica analisi di tale fenomeno, va in ogni caso riconosciuto come una situazione di sovraffollamento endemico è largamente nociva per qual si voglia tentativo di trattamento rieducativo. In proposito, sociologi ed etologi da sempre evidenziano nelle loro ricerche un aumento degli atteggiamenti violenti all’interno di spazi comunitari sovrappopolati. Nella realtà carceraria una situazione di sovrappopolamento si oppone in linea di principio alla funzione rieducativa della pena per esaltarne nei fatti il suo essere affittiva; la lesione della dignità umana rende precari, all’interno di quel determinato spazio, la fruizione dei diritti umani. Pertanto, lo svuotamento delle carceri oggettivamente riduce notevolmente il palesarsi di queste problematiche, rendendo all’interno degli istituti più vivibile la permanenza dei reclusi e, quindi, offrendo parametri di qualità della vita più consoni alla vigenza dei diritti umani24. Se ciò è indubbio, non va sottaciuto il fatto, più volte rimarcato in dottrina, per il quale lo Stato, avviando un processo di decarcerizzazione, ispirato soltanto da ragioni operative, viene meno al suo dovere di rieducazione del reo per tramite della pena ed il 23 Nella voce Ordinamento penitenziario redatta da M. G. Coppetta per il IV aggiornamento della Enciclopedia del diritto edito nel 2000, possiamo leggere: “l’esigenza di contenimento della popolazione detenuta entro limiti ragionevoli ha caratterizzato tutti i recenti interventi del legislatore penitenziario, il quale, a tal fine, ha operato nel senso di agevolare l’accesso ai «benefici» ai condannati considerati portatori di una minore pericolosità sociale. In definitiva, si è assistito ad una crescente strumentalizzazione delle misure de quibus ad obiettivi di deflazione carceraria”, p. 897. 24 A titolo esemplificativo, la Casa Circondariale di Trieste, con capienza regolamentare dichiarata dal Ministero della Giustizia di 155 unità, nel 2005, stante dati della Associazione Antigone, ospitava circa 250 detenuti; al 31 dicembre 2006, dati del Ministero della Giustizia, ospitava 106 detenuti. Il che significa, confrontando i due dati, che sono calate le presenza di ben 150 unità. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x reo stesso perde contemporaneamente il suo diritto al trattamento rieducativo implicante il reinserimento sociale25. Pare di poter cogliere come la politica di decarcerizzazione, al di là di enunciazioni di principio, sia direttamente indirizzata più da constatazioni di ordine operativo (riduzione dei costi del controllo sociale: edilizia e infrastrutture, servizi anche rieducativi ai detenuti, personale), che da considerazioni sulla funzione della pena. Ove l’esecuzione della pena diviene troppo onerosa lo Stato abdica il suo diritto-dovere alla rieducazione, ma se ciò corrisponde alla realtà allora l’esercizio della funzione rieducativa è subordinato, in linea di principio, da ragioni di ordine economico. Se però, per qualche espediente, il dato economico relativo alla carcerazione potesse rilevarsi in pareggio se non addirittura in attivo, allora le tendenze alla decarcerazione potrebbero invertirsi. Il condannato detenuto da una fonte di passività potrebbe trasformarsi in una fonte di attività, di guadagno. È ben chiaro che tale problema non investe tanto quella percentuale di condannati per reati gravi, che hanno di fronte a loro ancora una lunga condanna detentiva da eseguire, la cui permanenza nel regime detentivo appare difficilmente eliminabile26, piuttosto quella percentuale di condannati a pene detentive la cui presenza nel carcere è subordinata alla modificazione delle politiche di esecuzione penale. Proposte volte a rinsaldare i legami fra carcere e mondo produttivo, anche per mezzo della privatizzazione di parte del sistema penitenziario, investono direttamente questo proble25 In tal senso si esprime, ad esempio, già M. P. Giuffrida, I Centri di servizio sociale dell’Amministrazione penitenziaria, Roma, 1999, che rileva come la legge n. 165 del 1998, in materia di estensione dell’istituto della detenzione domiciliare, abbia effetti deflativi sul sovraffollamento delle carceri e, quindi, palesi una rinuncia dello Stato ad esercitare il suo diritto/dovere di trattamento per quei soggetti i quali, non potendo uscire dal circuito penitenziario per mezzo di altre misure alternative, come l’affidamento, misure che implicano un forte impegno personale del soggetto rispetto al percorso rieducativo, usufruiscono della detenzione domiciliare. 26 Si veda in proposito, al comma secondo dell’articolo 1 della legge n. 241 del 2006, l’elencazione dei delitti per i quali non si applica la concessione di indulto. 145 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) ma e possono determinare notevoli contraccolpi sulle politiche penali, particolarmente su quelle relative alla decarcerizzazione. Ove, infatti, la detenzione risultasse produttiva in termini economici si potrebbe verificare una tendenza alla ricarcerizzazione, tale da vedere aumentare (sia pure a fronte della sostanziale costanza del numero dei condannati) la percentuale della popolazione detenuta e questo non tanto per una riscoperta del valore della detenzione nel trattamento rieducativo quanto per la scoperta del valore economico della detenzione, sì da fare ripensare quel rapporto fra i sostantivi lavoro e libertà, a cui avevamo fatto cenno all’inizio, sostantivi che certamente non verranno più declinati né nella lingua de La mia battaglia, né in quella in cui vennero scritti Memorie dalla case dei morti e Una giornata di Ivan Denisovič, ma che pur tuttavia anche in realtà di democrazia consolidata rendono non esenti da problematiche le relazioni fra carcere e lavoro. Alcuni criminologi, sia pur in un contesto critico forse esasperato, tanto da assumere a loro emblema uno studio titolato Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, ci fanno in ogni caso rilevare come a seguito dell’ingresso del mondo della produzione nel sistema carcerario statunitense la percentuale di popolazione ivi detenuta sia bruscamente aumentata (sia pure con notevoli differenze fra gli Stati federati, dal 1970 si riscontra un aumento della popolazione carceraria del 65%)27. È ben vero che altre cause hanno influito su tale incremento28, ma è altrettanto vero che il dato quanto meno dovrebbe essere foriero per una riflessione. Questa constatazione, che non vuole assolutamente essere utilizzata quale freno ad un processo di indubbio valore sociale, come quello che vede l’accostarsi al carcere del mondo imprenditoriale, va in ogni caso presa in 27 Di contro è curioso il dato riguardante il crepuscolo dell’URSS: nel 1986 assistiamo a 458.729 condanne a pene detentive, 1990 soltanto a 292.992 condanne a pene detentive. Cfr. N. Christie, Il business penitenziario, cit. 28 Cfr. il volume di A. De Giorni, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Roma, 2000. Sulla tematica vedi anche il volume di Lucia Re, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Roma-Bari, 2006. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x considerazione a maggior ragione inserendo il rapporto fra carcere e lavoro in un contesto che si qualifica per l’attenzione alla vigenza dei diritti umani, in modo tale che il lavoro del recluso ritrovi la propria ragione esclusiva in un quadro di vigenza dei diritti della umana persona e venga, perciò, eliminato ogni equivoco avuto riguardo ad una sua possibile rappresentazione nei termini di sfruttamento del lavoro della persona detenuta. 7. Il percorso della rieducazione: da lavorante a lavoratore Al di là delle constatazioni sopra espresse preme effettuare, in fase conclusiva, ancora alcuni rilievi. Risulta palese come l’Ordinamento penitenziario contenuto originariamente nella legge 354 del 1975 sancisca che il lavoro dei condannati debba riflettere le modalità del lavoro libero, ma come evidente, la disposizione, nel richiamare il riposo festivo, la tutela assicurativa e previdenziale, così al comma diciassettesimo dell’articolo 20 della sopra richiamata legge, non fa esplicita menzione di altri diritti riconosciuti ai lavoratori, ad esempio il diritto alle ferie annuali retribuite. La formulazione della disposizione ha permesso che, per mezzo di una interpretazione letterale della stessa, si traessero delle norme tali da creare una situazione di disparità di trattamento fra lavoranti detenuti e lavoratori liberi, nonché fra detenuti ammessi al lavoro interno e detenuti ammessi al lavoro esterno, in palese violazione dell’articolo 3 del dettato costituzionale. Una giurisprudenza costituzionale protesa a rendere vigenti le enunciazioni di principio che caratterizzano, sino dalla riforma del 1975, la normativa in materia di esecuzione penale ha reso effettivi anche per il lavorante detenuto i diritti riconosciuti ai lavoratori. Va qui richiamata la sentenza n. 158 del maggio 2001, la quale riconosce, intervenendo sull’articolo 20, comma 16, dell’Ordinamento penitenziario, al lavorante detenuto il diritto al riposo annuale retribuito, dato che “ove ne sussistano le caratteristiche, alla soggezione derivante dallo stato di detenzione si affianca, distinguendosene, uno specifico rapporto di lavoro 146 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) subordinato, con il suo contenuto di diritti (tra cui quelli previsti dall’art. 2199 c. c.) e di obblighi”. Di fatti, nel contesto penitenziario, “né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato”. Come sottolineato in dottrina29, la pronuncia della Corte sembra confermare “la qualificazione del lavoro carcerario come una species del lavoro subordinato”, tanto da poter riconosce una “progressiva osmosi dei due rapporti di lavoro”. Ciò, fra l’altro, porrebbe fine al dibattito non solo dottrinario sulla natura del lavoro penitenziario facendo primeggiare l’opinione30 per la quale nello stesso sono presenti tutti gli elementi che caratterizzano il lavoro subordinato e per tanto la distinzione, ancora presente, fra lavoranti detenuti e lavoratori liberi avrebbe rilevanza soltanto lessicale e non giuridica31. Tale ipotesi viene, altresì, confermata da una precedente pronuncia della stessa Corte, la sentenza n. 26 del febbraio 1999, in materia di omessa previsione di tutela giurisdizionale contro violazioni di diritti di detenuti e di internati32. D’altro canto, prima di abbandonare definitivamente l’ipotesi per la quale il lavoro carcerario potrebbe palesarsi, non tanto come privo di ogni riferibilità agli schemi del lavoro subordinato perché nascente da un obbligo legale e come tale riconducibile ad un rapporto di diritto pubblico33, prospettiva in vero ora rigettata dalla Corte con la richiamata sentenza del 2001, quanto come un rapporto di lavoro 29 Cfr. A. Morrone, Il diritto alle ferie ai detenuti, in “Giustizia Costituzionale”, 2001, pp. 1227 e segg. 30 Già coeva alla riforma del 1975, cfr. Di GennaroBonomo- Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1976. 31 Per un primo succinto ma puntuale approccio al dibattito in materia si veda G. Galli, «Mercede» e «remunerazione» del lavoro del detenuto, in ”Giustizia Costituzionale”, 1988, pp. 5299 e segg. 32 Cfr., in commento alla stessa, i contributi di S. Bartole, E. Fazzioli, M. Ruotolo e C. Santoriello in “Giurisprudenza Costituzionale”, 1999, pp. 190 e segg. 33 Si veda in proposito C. Erra, sub voce Lavoro penitenziario, in Enciclopedia del diritto. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x atipico, ovvero collocato all’interno d’un contesto anche normativo dotato di autonomia e connotato per la presenza di elementi pubblicistici tali da renderlo peculiare rispetto al rapporto di lavoro subordinato, ma non per questo avulso da tutte le disposizioni, compatibili con il regime penitenziario, che lo tutelano34, è ben riproporre la spinosa questione relativa all’articolo 22, comma primo dell’Ordinamento penitenziario in materia di mercedi. Il lavoro carcerario è ricompensato, ma tale trattamento economico più che ricondursi alla disposizione dell’articolo 36 della Costituzione, ai sensi della quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del suo lavoro”, pare venire attratto ancora verso l’articolo 145 del codice penale, secondo il quale “ai condannati è corrisposta una remunerazione per il lavoro prestato”. La possibilità di rendere, anche qui, soltanto lessicale la distinzione fra retribuzione, diritto del lavoratore, e la remunerazione, corrisposta al detenuto lavorante, non appare così scontata. Infatti, a ben vedere, tale ipotesi cozza contro la disposizione dell’articolo 22 dell’Ordinamento penitenziario; ai sensi del suo primo comma, come noto, “le mercedi per ciascuna categoria di lavoratori sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato”; in tal modo il legislatore ordinario fa proprie le indicazione della Costituzione, ma specificando che le mercedi del detenuto sono fissate “in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro”. Quindi, la remunerazione del detenuto lavorante può risultare inferiore di un terzo rispetto a quella del lavoratore libero, sì da far supporre che l’articolo 36, ma ancor prima l’articolo 3, della Costituzione trovi solo una parziale applicazione in ambito carcerario. Tutto ciò ci viene confermato dalla stessa Corte Costituzionale in una nota pronuncia. Ci riferiamo alla sentenza n. 1087 del dicembre 1988, che ci permettiamo, per meglio evidenziarla, di collocarla, non solo cronologicamente ma an34 Tesi, quest’ultima, sostenuta ad esempio da R. Kostoris, sub voce Lavoro penitenziario, in Nuovissimo Digesto Italiano, Appendice IV. 147 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) che idealmente, a metà strada fra la sentenza n. 264 del novembre 1974, a ridosso della riforma penitenziaria del luglio dell’anno successivo, e la già richiamata sentenza n. 158 del 2001. Infatti, la pronuncia del 1988, pur riconoscendo, sulla scorta del nuovo Ordinamento penitenziario, “che il lavoro prestato dai detenuti è uno strumento per la loro redenzione ed il loro riadattamento alla vita sociale: non è un elemento di espiazione della pena ma è un metodo di trattamento”, ribadisce che il rapporto di lavoro del detenuto con l’amministrazione penitenziaria “trae origine da un obbligo legale e non da un libero contratto; ha una propria particolare regolamentazione tra cui assumono rilievo le qualità delle parti […]. Ma soprattutto rilevano le finalità da raggiungere: la redenzione ed il riadattamento del detenuto alla vita sociale; l’acquisto o lo sviluppo dell’abitudine al lavoro e della qualificazione professionale che valgono ad agevolare il reinserimento nella vita sociale. Dette finalità sono assolutamente prevalenti”. Sicché in questo quadro il detenuto impegnato in attività lavorative non sarebbe a pieno titolo un lavoratore, piuttosto un lavorante, ovverosia una persona il cui lavoro ha finalità, prima ancora che produttive, rieducative; difatti il lavoro “è un metodo di trattamento”. In tal senso, solo indirettamente il lavoro carcerario va ricondotto al comma secondo dell’articolo 4 della Costituzione. Infatti, prosegue la Corte nella sua argomentazione, “l’amministrazione non si prefigge né utili né guadagni; si avvale di una mano d’opera disorganizzata, a volte non qualificata, disomogenea, variabile per le punizioni ed i trasferimenti da stabilimento a stabilimento; i prodotti non sono sempre curati e sempre rifiniti; essi, il più delle volte, si vendono sottocosto”. Ed al fine di eliminare ogni equivoco su ipotetiche sinonimie, la Corte rileva che “il compenso previsto per le prestazioni non si denomina retribuzione ma o remunerazione o mercede”. Attraverso queste argomentazioni la Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 22 della legge n. 354 del 1975 che, con riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione, era stata sollevata, senza per questo non ritenere che, Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x ove si palesassero le condizioni, al detenuto lavorante, a titolo di mercede, possa venire corrisposta l’intero ammontare della retribuzione spettante al lavoratore libero. Infatti, “vero è che stabilito un trattamento minimo non inferiore ai due terzi del salario previsto [dai contratti collettivi di lavoro], ma trattasi solo di una determinazione nel minimo, mentre non può escludersi l’osservanza del criterio della relazione con la qualità e la quantità del lavoro prestato e nemmeno possono trascurarsi, secondo il precetto costituzionale, i bisogni della famiglia di chi lavora”. La sentenza del 1988 qui richiamata porta in nuce il principio di lì a poco esplicitato dalla sentenza n. 49 del 1992, ai sensi della quale sussiste violazione del articolo 3 della Costituzione ogni qual volta si ponga “una irrazionale ingiustificata discriminazione tra i detenuti e gli altri cittadini”; su questo principio si fonderanno le successive pronunce della Corte in materia. Si assiste, per tanto, ad una netta inversione di tendenza rispetto alla posizione assunta dalla Corte nel 1974, anno in cui la stessa riteneva, per un verso, che la “funzione (e fine) della pena non è certo il solo riadattamento dei delinquenti, purtroppo non sempre conseguibile”, per altro, che “il lavoro, ben lungi dall’essere in contrasto con la morale esigenza di tutela e rispetto della persona, è gloria umana, precetto religioso per molti, dovere e diritto sociale per tutti e reca sollievo ai condannati che lavorando, anche all’aperto […] godono migliore salute fisica e psichica, conseguono un compenso e si sentono meno estraniati dal contesto sociale”. È ben vero che la sentenza n. 158 del 2001 supera ampliamente le previsioni del giudice costituzionale del 1988, ponendo le basi per il definitivo e pieno scioglimento della dicotomia tra detenuto lavorante e lavoratore libero e, infatti, avendo come riferimento la sentenza n. 26 del 1999, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell’articolo 20, comma 16 dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non riconosce il diritto alle ferie annuali retribuite al detenuto che presta la propria attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Sicché la Corte conferma la qualificazione del lavoro penitenziario come specie del lavoro subordinato ma, 148 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) come rilevato, apre solo le porte per la definitiva caduta di “ogni residuo fattore di disomogeneità che la legislazione e parte degli interpreti ancora configurano nel caso del lavoratore dipendente dell’amministrazione penitenziaria”35. In proposito va rilevato che la stessa Corte, con sentenza n. 341 del ottobre 2006, riconosce che “il lavoro dei detenuti, sia che venga svolto in favore dell’amministrazione penitenziaria, sia che venga effettuato – come avviene sempre più di frequente – alle dipendenze di terzi, implica una serie di diritti e obblighi delle parti, modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati”; in tal modo si rinforza sempre di più la prospettiva che vede nel contratto e non nell’obbligo legale la fonte del lavoro penitenziario. Ciò non di meno non si può che rilevare come l’abbandono della dicotomia fra lavorante e lavoratore, sia pur ora molto attenuata attraverso le pronunce della Corte, ma ancora sostanzialmente presente nella prassi e nella normazione, e, quindi, l’affermarsi del principio per il quale il lavoro penitenziario vada in tutto assimilato al lavoro libero, passa attraverso una reinterpretazione del disposto dell’articolo 22 della legge 354 del 1975, che ponga anche in evidenza il problema del trattamento di fine rapporto. Infine, in materia di diritti dei lavoratori, così come statuiti dalla legge 300 del 1970, non va sottaciuta la questione relativa al diritto allo sciopero, invero sancito dalla carta costituzionale all’articolo 40, e da ipotizzarsi, nel più genuino rispetto del dettato costituzione, nei limiti compatibili con l’ordine carcerario (in proposito va rammentato come la sopra richiamata sentenza n. 341 del 2006 ritenga che “i diritti dei detenuti devono trovare un ragionevole bilanciamento nel diritto della collettività alla corretta esecuzione delle sanzioni penali”) e, ancor prima, avuto riguardo anche alle richieste dei lavoranti detenuti; i quali palesano l’ipotesi di elezione diretta dei rappresentanti sindacali, rappresentanti, quindi, non sorteggiati come quelli previsti dall’Ordinamento del 1975 agli articoli 12 (biblioteca) e 27 (attività culturali). A detta dei promotori di quest’ultima inizia- issn 2035-584x tiva, una rappresentanza sindacale elettiva non contravverrebbe alla disposizione dell’articolo 3 dell’Ordinamento, che fa divieto all’istituzionalizzarsi di posizioni di preminenza fra detenuti, piuttosto valorizzerebbe la partecipazione dei detenuti lavoranti, “si realizzerebbe, insomma, un effettivo riavvicinamento tra le modalità di vita all’interno del carcere e quelle all’esterno: risultato di indubbio valore – come sottolinea la redazione della rivista “Ristretti orizzonti”- , in prospettiva del reinserimento sociale”. 35 A. Morrone, Il diritto alle ferie ai detenuti, cit., p. 1278. Digressioni sull’esecuzione della pena 149 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) La legge n. 180 del 13 maggio 1978 ed “il pieno sviluppo della persona umana” 1. I valori sociali vigenti e la scoperta di nuovi valori giuridici; 2. L’incisività dei valori sociali sull’ordinamento giuridico; 3. I reietti e lo sviluppo della persona umana; 4. La devianza quale condizione per l’esclusione dalla polis; 5. Sulla genericità della terminologia usata nella legislazione in materia; 6. La legge 180 e la rottura con le istituzioni totali; 7. Oltre il recinto della istituzione. 1. I valori sociali vigenti e la scoperta di nuovi valori giuridici N egli anni Settanta dello scorso secolo, indubbiamente a seguito di istanze sociali prodotte dal radicale modificarsi dei costumi e della morale pubblica iniziata il decennio precedente, sono, anche da un punto d’osservazione giuridico, caratterizzati da profonde innovazioni. Queste hanno in parte modificato l’asse di rotazione dell’ordinamento giuridico; il fenomeno è particolarmente evidente se confrontato con il precedente trentennio repubblicano informato, ovviamente, anch’esso dal dettato costituzionale del 1948. Il diritto del lavoro ed il diritto di famiglia sono protagonisti di radicali riforme, le quali offrono vigenza e giustiziabilità a istanze politiche e culturali quali l’eguaglianza fra uomo e donna (ex articolo secondo della Costituzione; ai sensi del quale, è bene ricordarlo, “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alle legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), e la reale e diretta partecipazione dei lavoratori alla gestione della vita economica (va anche qui rammentato che il dettato costituzionale prevede nella parte dedicata ai Principi fondamentali, “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”, così all’articolo 3, comma secondo). La nuova rappresentazione giuridica della condizione femminile e di quella dei lavoratori ritrova legittimità all’interno di una diversa Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x lettura dei valori costituzionali che allora andava affermandosi. Solo per inciso va accennato che il testo della carta costituzionale è rimasto (per ciò che concerne i Principi fondamentali e la Parte prima, Diritti e doveri dei cittadini) inalterato; le nuove rappresentazioni giuridiche a cui sopra si è fatto cenno, che taluni potrebbero anche definire come più consone agli allora valori sociali radicati in una cospicua parte della società italiana (si pensi all’esito del cosiddetto referendum sul divorzio avvenuto nel 1972; fu quella la prima volta in cui lo strumento referendario usci con prepotenza dalla mera lettera della Costituzione dove giaceva inerte da ventiquattro anni), hanno potuto sostituirsi alle precedenti a seguito di un diversa interpretazione del dettato costituzionale e, più in generale, del corpus normativo vigente, tanto da far palesare, proprio negli anni Settanta, un nuovo e diverso ordinamento giuridico. All’interno di un contesto socio-culturale allora dominante e fortemente proiettato verso radicali innovazioni, la centralità della persona umana, da grazioso orpello contenuto nel testo costituzionale, diviene momento costitutivo dell’ordinamento giuridico. Va ancora richiamato che l’articolo 3, comma secondo della Costituzione recita nella sua interezza: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. La Repubblica pertanto si caratterizzerebbe, secondo una certa lettura della Carta, essenzialmente per il compito rimozionale che essa solennemente si assume, per essere la stessa il volano, il momento propulsivo di un processo di coinvolgimento sempre più complessivo di tutti i cittadini nella vita economica e sociale del paese. La partecipazione dei cittadini deve essere stimolata dalle articolazioni di cui la Repubblica si compone attraverso la progressiva, ma inarrestabile rimozione di qualsiasi ostacolo si frapponga al pieno sviluppo dell’essere umano, considerato singolarmente, oppure, come ben evidenziato all’articolo 2 del 150 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) testo, “nelle formazioni sociali”. Il venir meno a questo compito, che porterebbe a palesare la persona umana non più come fine in sé, bensì quale strumento funzionale al perseguimento di scopi che la travalicano, determinerebbe una grave crisi di legittimità; la Repubblica cessando di essere il fulcro su cui si fonda la promozione della persona umana, rimarrebbe contenitore formale di istituzioni il cui operato sarebbe privo di ogni riferimento al supremo valore repubblicano. In questo senso può essere letta la disposizione contenuta nell’articolo 139 del dettato: “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Giova rammentare come la Corte costituzionale abbia riconosciuto che “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, così la sentenza n. 1146 del 15 dicembre del 1988. 2. L’incisività dei valori sociali sull’ordinamento giuridico Il lento modificarsi dottrinale e giurisprudenziale della materia lavorista (il diritto del lavoro ed il diritto sindacale) nell’arco del decennio che ha preceduto lo Statuto del 1970 (legge n. 300 del 20 maggio 1970, Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), ed il profondo rinnovamento dell’istituto familiare investito, sempre nel 1970 (legge n. 898 del 1° dicembre 1970, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), da una provvedimento legislativo che lo libera delle ultime vestigia sacrali, testimoniano come istanze sociali rappresentative di Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x valori sociali emergenti abbiano potuto incidere sull’ordinamento giuridico. Anche una differente lettura del testo del comma secondo dell’articolo 3 della Costituzione permette, sia nel campo legislativo che in quello giurisprudenziale (inteso nella sua duplice accezione di giurisdizione ordinaria e di giurisdizione costituzionale), di avviare un riposizionamento della qualificazione giuridica di status soggettivi e di quotidiani comportamenti posti in essere dai soggetti giuridici. Il diritto di famiglia ritroverà nuova regolamentazione di lì a poco con al legge n. 151 del 19 maggio 1975, Riforma del diritto di famiglia; tale legge, nel modulare diarchiamente la gestione di questa società naturale, attraverso il riconoscimento della parità fra i coniugi (riconoscimento che giungerà a definita completezza con la legge n. 218 del 31 maggio 1995, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), dà effettivo vigore e giustiziabilità, sottraendolo all’eterea validità formale, al principio di eguaglianza fra i sessi, contenuto sin dal 1948 nel dettato costituzionale all’articolo 3, comma primo. Con tale, ancor oggi discussa, disposizione legislativa, la Repubblica rimuove un ostacolo (la primazia in famiglia del coniuge maschio titolare dalla patria potestà) al pieno sviluppo della persona umana, in questo caso il coniuge femmina che viene tolto, nell’ordinamento giuridico, da una condizione di minorità. Oltre alle già richiamate riforme in ambito lavoristico e familiare, pare utile qui ricordare, al fine di rimarcare il processo di riposizionamento dell’ordinamento giuridico avuto riguardo ai valori sociali (riposizionamento determinato da un fatto indubitabile: dalle stesse disposizioni costituzionali sono state tratte delle norme di contenuto diverso da quelle che hanno sovrainteso la vita giuridica dei primi cinque lustri di vita della Repubblica), alcuni interventi epocali sull’insieme legislativo italiano. In questa sede non possono che essere richiamati sotto forma di semplice elencazione. Nel 1969 la sentenza della Corte Costituzionale n. 147 del 3 dicembre porta all’abrogazione integrale, in quanto non conformi con i principi della Costituzione, degli articoli 151 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) 559 (Adulterio) e 560 (Concubinato) del Codice penale (l’articolo 559 era già stato oggetto di sindacato costituzionale l’anno precedente quanto la Corte ne aveva abrogato i primi due commi, in quanto non conformi al principio di eguaglianza fra i sessi); la legge n. 194 del 22 maggio 1978 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) abroga l’articolo 553 (Incitamento a pratiche contro la procreazione). Bisogna attendere il 1981 perché la legge n. 442 del 5 agosto di quell’anno abroghi nel Codice penale il tristemente famoso articolo 587 (Omicidio e lesione personale a causa d’onore) ed il forse meno noto, ma sicuramente altrettanto infamante per la società italiana, articolo 544, ai sensi del quale alcuni reati contenuti nel Titolo del Codice penale riguardante i delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume, fra i quali quelli di cui agli articoli 519 (Violenza carnale), 521 (Atti di libidine violenti), 522 (Ratto a fine di matrimonio), 523 (Ratto a fine di libidine), 524 (Ratto di persona minore degli anni quattordici o inferma, a fine di libidine o di matrimonio) e 530 (Corruzione di minori, ma in realtà, stando alla descrizione della fattispecie, “atti di libidine su persona o in presenza di persona minore degli anni sedici”), si estinguono con il così detto matrimonio riparatore; citiamo testualmente: “il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo”. Un’ultima annotazione; è del 1996 (legge n. 66 del 15 febbraio) la disposizione legislativa che transita la violenza sessuale nel Titolo XII Dei delitti contro la persona, sottraendola alla precedente collocazione nel Titolo IX Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume. 3. I reietti e lo sviluppo della persona umana In un contesto contrassegnato da profondi cambiamenti sociali e culturali si collocano anche gli interventi legislativi che vedono protagonisti i reietti della società: i matti e i delinquenti. All’interno di una prospettiva che si muove lungo l’asse del “pieno sviluppo della persona Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x umana” non appare corretto disgiungere la riforma manicomiale da quella che ha investito l’istituzione carceraria. Non tanto perché, come in quegli anni lo stesso Basaglia, sulla scorta di Goffman, ci rammentava che entrambe sono istituzioni totali, oppure perché la prima, la riforma dell’ordinamento penitenziario, precede di poco la seconda, l’intervento in ambito manicomiale, quanto per la constatazione che l’intervento legislativo, il quale si incunea in questi luoghi di sofferenza e privazione modificandone l’aspetto e la finalità, è in entrambi i casi guidato da quella riscoperta del assoluto valore della persona umana, a cui fa esplicito riferimento il richiamato articolo 3 della Costituzione. Intento del legislatore è di far entrare la persona umana nell’ambito del trattamento psichiatrico e nel campo dell’esecuzione della pena; si palesa cioè la possibilità di sradicare quei cancelli che separavano totalmente gli ospiti dei manicomi e delle carceri dalla società dei “normali” impedendo ogni contatto fra i relegati nell’istituzione totale e la società esterna e determinando con ciò la creazione di due mondi incomunicabili: il modo della normalità e quello della devianza. Normalità e devianza costituivano i due esclusivi poli di aggregazione della popolazione; strutturandosi concettualmente in un aut aut priva di soluzione di continuità la coppia dicotomica normale/deviante erigeva fra i due punti una barriera invalicabile che assumeva la veste di un confine fra il sano complesso sociale e la massa disaggregata degli individui malati. Si può con una certa sicurezza affermare che sia nel carcere, che nei manicomi, prima degli interventi legislativi del 26 luglio 1975, legge n. 354 Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, e del 13 maggio 1978, legge n. 180 Accertamenti sanitari volontari e obbligatori, la persona umana fosse considerata un estraneo, una presenza indesiderata. Il suo sviluppo, da attuarsi attraverso la rimozione di quegli ostacoli, che nel limitare la sua partecipazione alla vita sociale ne hanno determinato l’internamento, non pareva essere compito né delle istituzioni carcerarie né di quelle manicomiali, entrambe 152 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) rette da disposizioni legislative radicate in un ambito valoriale incentrato sulla pericolosità sociale dei reclusi (per quanto concerne l’ambito manicomiale il punto di riferimento era ancora la legge n. 36 del 14 febbraio 1904 Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati, a cui segue la legge n. 431 del 18 marzo 1968 in materia di Accertamenti sanitari volontari e obbligatori; il sistema carcerario ritrovava la propria regolamentazione nel Codice di procedura penale del 1933). Si è detto che il trattamento carcerario e manicomiale si sviluppava avuto riguardo ad una particolare rappresentazione dell’essere umano; questa era tratteggiata sulla sua pericolosità sociale, sul suo essere oggettivo elemento di disturbo per una normale vita sociale, quella, per l’appunto, che si sviluppava fuori della istituzioni totali. Il potenziale di pericolosità rappresentato dal deviante (matto o delinquente che fosse) era la chiave di volta di ogni intervento sullo stesso. In proposito, l’articolo primo della legge manicomiale del 1904 stabilisce al comma primo: “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi”. Che il punto di riferimento sia principalmente la sicurezza sociale e non la cura dell’infermo è bene evidenziato dal comma primo dell’articolo 2 della predetta legge, ai sensi del quale “l’ammissione degli alienati nei manicomi deve essere chiesta dai parenti, tutori o protutori, è può esserlo da chiunque altro nell’interesse degli infermi e della società”. La presenza dell’alienato si configura, all’interno di questo quadro, principalmente come una questione di ordine pubblico, più che di sofferenza personale; ciò è comprovato dal fatto che, ai sensi del comma terzo del su citato articolo, “l’autorità locale di pubblica sicurezza può, in caso di urgenza, ordinare il ricovero, in via provvisoria, in base a certificato medico”. Ciò che qui preme rilevare non è tanto la possibile arbitrarietà di un ricovero in una struttura manicomiale, quanto la sua valenza di provveDigressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x dimento relativo al mantenimento dell’ordine pubblico. In questa prospettiva, la sicurezza dei normali si fonda principalmente sulla esclusionesegregazione di chi normale non è e di colui il quale, sulla scorta di una classificazione antropometrica di sapore attuariale, è oggettivamente una fonte di rischio sociale. In questo senso, sono le istituzioni totali e non le politiche sociali gli strumenti con cui la sana società affronta, isola e sconfigge coloro che le sono ostili. 4. La devianza quale condizione per l’esclusione dalla polis Da un punto di vista prettamente giuridico appare interessante notare come la certificazione della malattia mentale, nella prospettiva sopra tratteggiata, sia semplicemente considerata dall’ordinamento il presupposto per la incapacità di agire, per la sospensione o soppressione dello status di persona socialmente ed economicamente attiva; l’incapace non partecipa, infatti, alla vita della polis. L’incapacità giuridica istituzionalizza una condizione di assoluta minorità, di totale dipendenza dagli altri; vale la pena di ribadire che colui il quale dagli altri dipende non è più il soggetto delle sue azione, ma l’oggetto delle azioni altrui; è rappresentato, quindi, come una cosa. Parimenti al matto, anche il delinquente, a fronte di determinati reati ritenuti dal legislatore particolarmente pericolosi per la società, è reso incapace di interagire giuridicamente con la società; è da questa, per così dire, annientato come persona umana, ridotto a mero organismo biologico che vegeta sotto lo stretto controllo della istituzione carceraria (oppure, sul versante del malato di mente, relegato dietro le sbarre del manicomio). Malato e delinquente vengono spersonalizzati e desoggettivati; così rappresentati vengono relegati in case chiuse, chiuse dall’interno in modo che il recluso non possa uscire e contaminare con la sua presenza i sani, chiuse dall’esterno perché nessuna persona normale e sana vi possa entrare. La casa chiusa deve suscitare reazioni claustrofobiche e quindi di repulsione, soprattutto all’elemento sano del153 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) la società, la reazione dell’internato poco conta all’interno di questa prospettiva, in quanto incapace è un dovere sociale rinchiuderlo e renderlo innocuo. In proposito va richiamata la stesura originaria dell’articolo 414 del Codice civile. Va sottolineato che tale articolo, nonché la stessa rubricazione del Titolo XII in cui è inserito, venne modificato dalla legge n. 6 del 9 gennaio 2004 Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo alla istituzione dell’amministratore di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazioni, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali. L’articolo sopra richiamato disponeva che coloro “i quali si trovano in condizioni di abituale infermità mentale che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, devono essere interdetti”; la parte in corsivo è stata sostituita dal legislatore del 2004 e attualmente si legge “sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”. Va rilevato che l’istituto dell’interdizione, dopo la novella del 2004, non si pone più come finalità la tutela della società dall’infermo di mente, piuttosto la tutela dell’infermo; non sono più gli altri (i sani) ad essere protetti dall’infermo, ma l’infermo dagli altri cosiddetti sani. Qui è centrale la protezione dell’infermo, l’assicuragli nelle forme più consone la adeguata protezione di cui necessita a causa del suo stato di non stabilità mentale. Egli riacquista dignità giuridica, ridiventa soggetto giuridico anche se sottoposto a restrizioni, ma queste sono funzionali al suo completo reinserimento nella società non al suo totale isolamento dalla stessa (si pensi all’abrogato, dalla legge 180 del 1978, articolo 420 del Codice civile Internamento definitivo in manicomio, ai sensi del quale “la nomina del tutore provvisorio può essere altresì disposta dal tribunale con lo stesso provvedimento col quale autorizza in via definitiva la custodia di una persona inferma di mente in un manicomio o in un altro istituto di cura o in una casa privata. In tal caso, se la istanza di interdizione non è stata proposta dalle altre persone indicate nell’articolo 417, è proposta dal pubblico ministero”). Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x 5. Sulla genericità della terminologia usata nella legislazione in materia Dopo questa digressione, che ci proietta in una dimensione rappresentativa del matto del tutto diversa da quella dominante l’ordinamento giuridico dopo della cosiddetta riforma Basaglia, è bene soffermare l’attenzione su un fatto di non secondaria importanza, di cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente. Le disposizioni legislative in materia, segnatamente quelle racchiuse nel Titolo XII del Libro primo del Codice civile, sono redatte, da un punto di vista medico-psichiatrico, con un linguaggio non tecnico. A tale proposito va riconosciuto come il legislatore del 1942 abbia voluto ricomprendere sotto le generiche dizioni di “infermità mentale” e di “incapacità di intendere e volere”, ricorrenti nelle disposizioni contenute dal Titolo in oggetto, sia le patologie psichiche comportanti alterazioni del senso di identità (quali la mancanza di coerenza, della propria identità, dell’autostima) e del recepimento della realtà esterna (quali deliri, allucinazioni), che di cosiddetti disturbi della personalità, i quali non necessariamente sconfinano in psicosi, nonché, ciò segnatamente all’articolo 415, l’abuso di bevande alcoliche e di stupefacenti. Le generiche dizioni in oggetto vengono nel linguaggio del legislatore solo apparentemente graduate e, quindi, ricondotte ai diversi stati di patologia psichica o di disturbo della personalità o ancora di etilismo oppure di tossicodipendenza, e si accompagnano ad altre altrettanto generiche espressioni quali, ad esempio, il richiamo, nel primo comma dell’articolo 415, a “lo stato [di infermità mentale] non talmente grave da far luogo all’interdizione”. Il legislatore, utilizzando anche in questo contesto clausole generali o concetti giuridici indeterminati, che di si voglia, offre all’interprete discrezionalità nella scelta dei provvedimenti da adottare a fronte del caso concreto. Tale discrezionalità non essendo vincolata da precise delimitazioni offerte dalla scienza medica, che del resto paiono avulse dalla ratio che ha accompagnato la riforma Basaglia, non può che basarsi, al fine di non apparire arbitraria, su più generali valori sociali che informano l’ordi154 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) namento giuridico; primo fra questi la rappresentazione della persona umana e la sua collocazione all’interno di una tassonomia valoriale. Se, come più volte richiamato, in un passato anche recente, tali espressioni erano funzionali esclusivamente alla dichiarazione di interdizione o di inabilità dell’infermo di mente, tanto da poter escludere un ruolo attivo dell’ordinamento nel recupero sociale del matto, ora tale passività è rigettata e l’ordinamento deve farsi carico di ricercare per ogni singolo caso la soluzione più adatta al fine di favorire in ognuno il pieno sviluppo della propria personalità. La sopra richiamata legga n. 6 del 2004 non a caso individua la figura dell’amministratore di sostegno quale supporto, meno traumatico ed invasivo della tutela e della curatela, per la persona in difficoltà. 6. La legge 180 e la rottura con le istituzioni totali Nel voler sia pur brevemente richiamare i tratti salienti della legge 180 del 1978, va sicuramente evidenziato come il testo legislativo all’articolo primo voglia richiamarsi esplicitamente a valori e diritti costituzionali, che le precedenti normative in materia, pur trovandosi ad operare in un contesto politico e giuridico informato dalla Costituzione repubblicana, avevano di fatto sottaciuto e ciò, è bene ribadirlo, non tanto a causa d’un, per così dire, conservatorismo dei funzionari pubblici preposti a tali compiti, piuttosto per una diversa interpretazione del dettato costituzione. Il primo comma dell’articolo 1, proprio per voler rimarcare la rottura con la passata impostazione informata ancora dalla legge del 1904, ribadisce, senza alcuna relazione specifica con le patologie psichiche, che “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”. Nel far ciò il legislatore ordinario vuole offrire vigore al principio costituzionale contenuto nell’articolo 32 del dettato, la libertà di accettare o rifiutare il trattamento sanitario, esaltando la volontarietà del trattamento a discapito della sua obbligatorietà, che è in ogni caso prevista dal testo costituzionale nel momento in cui l’obbligo può essere derivato da una “disposizione di legge”. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x Appare evidente che il bersaglio del legislatore ordinario non è tanto rappresentato dalla generale tutela della salute pubblica, quanto dal sistema coattivo posto in essere dalla legislazione precedente in materia di internamento degli alienati. È palese la contraddizione della disposizione se confrontata con le disposizioni costituzionali e con quelle che, nella stessa legge, la seguono (essa infatti come evidenziato cozza contro il comma secondo dell’articolo 32 della Costituzione, che pone accanto ai trattamenti volontari quelli stabiliti dalla legge come obbligatori, ma è in insanabile contraddizione con il comma seguente dello stesso articolo, che fa riferimento esplicito a “gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori”), ma acquista significato valoriale, di principio, se confrontata con quanto disposto dal comma terzo dello stesso articolo, per il quale “nel corso del trattamento sanitario obbligatorio chi vi è sottoposto ha diritto a comunicare con chi ritenga opportuno”. Ovvero la ratio del comma primo non va ricercata in una assurda ipotesi negazionistica del trattamento sanitario obbligatorio, quanto nella affermazione della intrinseca antigiuridicità della segregazione del malato di mente, del suo isolarlo completamente dal mondo esterno rinchiudendolo all’interno della istituzione totale. La spersonalizzazione, centrale nelle istituzioni totali, qui va bandita; il paziente è un soggetto da coinvolgere nel trattamento, non si rappresenta più come un oggetto di trattamento, un passivo organismo biologico che altri custodiranno a causa della sua pericolosità; il soggetto deve essere compartecipe al trattamento, infatti, al comma quinto si esplicita come “gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori […] devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione di chi vi è obbligato”. La volontarietà del trattamento in realtà sottende, al di là del mero significato delle parole, ad una forte istanza di deistituzionalizzazione dell’intervento sul malato di mente, deistituzionalizzazione che si sostanzia in una sorta di svuotamento del manicomio nella società, perché i matti sono parte della società (se non addirittura la società stessa, come suggerisce 155 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) l’ossimoro proposto nel 1971 da Franco Basaglia e Franca Ongaro quale titolo al loro studio su l’ideologia del controllo sociale: la maggioranza deviante). 7. Oltre il recinto della istituzione L’intera legge è pervasa da questo spirito; l’uso di un linguaggio “burocratico”, proprio all’austerità del legislatore, non impedisce di coglie in questa una volontà irrefrenabile volta all’abbattimento delle mura della istituzione manicomiale. Tale tensione è immediatamente riscontrabile nell’articolo 2 della legge; al comma secondo infatti leggiamo un “trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiatriche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”. Sicché, avuto riguardo alla disposizione, di norma l’intervento terapeutico va condotto in strutture extraospedaliere, fuori dalla mura del manicomio. Questa è la via normale, quotidiana di trattamento, solo in ben circoscritti ed eccezionali casi sarà legittimo continuare con un trattamento intra-murario, in tutti gli altri il paziente va immerso nella società, vive in mezzo agli altri, tanto da non poter più riscontrare quella separazione fra il matto ed il normale che caratterizzava invece la precedente prospettiva. A conferma di quanto sopra, il comma primo dell’articolo 6 stabilisce che “gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extra ospedalieri”. Lapidario in merito appare il comma sesto dell’articolo 7, che racchiude, pur nella sua concisione, la storia e le aspirazioni di più di un decennio di psichiatria democratica: “è in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x sezioni neurologiche o neuropsichiatriche”. La degenza ospedaliera è, all’interno di questa prospettiva, l’estrema ratio e, a differenza della precedente normativa, il ricovero è sottoposto ad una procedura per così dire aggravata al fine di tutelare il soggetto debole. Tale procedura viene esplicitata all’articolo 3 e coinvolge, come noto, oltre al personale medico della struttura sanitaria pubblica, il sindaco ed il giudice tutelare. Ulteriori aggravi sono previsti dalla normativa qualora il trattamento obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno. In merito alla tutela del malato di mente, centrale appare senz’ombra di dubbio il comma primo dell’articolo 5 (Tutela giurisdizionale), a norma del quale “chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque vi abbia interesse, può proporre al tribunale competente per il territorio ricorso contro il provvedimento convalidato dal giudice tutelare”. La disposizione ora richiamata fa sì che sia il matto in prima persona ad assumere la propria tutela rivendicando i propri diritti; la situazione di sofferenza che lo investe non implica, come per la precedente normativa, la perdita della sua dignità e della sua capacità di agire giuridicamente. Egli è persona, non più oggetto di trattamento; la struttura sanitaria, in quanto articolazione di quella Repubblica informata dall’articolo 3 del dettato costituzionale, è protesa non alla custodia, alla segregazione del malato, alla separazione dal suo contesto sociale, bensì alla rimozione degli ostacoli che si frappongono al suo pieno sviluppo. 156 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Considerazioni intorno al rapporto fra pena e misura di sicurezza personale nel processo di rieducazione del reo issn 2035-584x ’espressione misura di sicurezza riporta alla mente dell’osservatore di questioni giuridiche la ben nota teoria posta in essere dalla Scuola positiva, che vede in Enrico Ferri, a cavallo fra Otto e Novecento, il suo indiscusso animatore. La misura di sicurezza è qui, come nel vigente ordinamento (vedi articoli 202 e 203 Codice penale), correlata alla pericolosità sociale del reo. Per una autorevole fonte, infatti, le misure di sicurezza “storicamente si ricollegano alle istanze della Scuola positiva rivolte a sostituire il concetto di responsabilità con quello di pericolosità e quello di pena con quello di sanzione criminale avente uno scopo di difesa sociale”1. Va effettuato immediatamente un distinguo al fine di non far palesare come specie dello stesso genere ciò che appartiene a mondi diversi; se, infatti, il rapporto fra misura di sicurezza e pericolosità sociale collega la riflessione dottrinaria della Scuola positiva con il vigente ordinamento penale, le prospettive che sottendono l’opera di ordinamento penale sono sostanzialmente divergenti. Per un lato, la Scuola positiva ritiene che il presupposto soggettivo della pena sia la pericolosità sociale e non la colpevolezza; è, di fatti, la pericolosità criminale “la causa giuridica, il titolo giuridico per l’applicazione della sanzione”2, per altro, la stessa prospettiva ritiene che la pena, erogata a fronte di un soggetto pericoloso socialmente, debba svolgere funzioni essenzialmente di prevenzione speciale, ovvero mutare la personalità del soggetto oppure eliminarlo dal contesto sociale. Al fine di perseguire questi scopi, la pena si deve configurare come adatta al precipuo intervento sul reo per far cessare il suo stato di pericolosità e deve altresì caratterizzarsi per la sua indeterminatezza, dato che deve perdurare sino alla cessazione dello stato di pericolosità del condannato3. Infatti, se qui si richiama la prospettiva propria ad Enrico Ferri ed alla Scuola positiva, è bene rammentarsi come la stessa, nel volere porre in essere un Codice penale basato sul delinquente e non sul delitto, il cosiddetto diritto penale dell’autore, concentra tutte le sue forze sull’idea di pericolosità sociale e non sull’imputabilità, requisito formale che viene aggirato con la presupposizione di una responsabilità legale, la quale andrebbe a sostituire, in questa prospettiva, la responsabilità morale propria alla Scuola classica, fondata sul binomio colpapena, che pare invece informare le politiche penali poste in essere dall’Italia repubblicana, ove la pena, la sua erogazione e la sua esecuzione, è imprescindibilmente legata alla colpa, meglio, alla colpevolezza dell’imputato. Ciò a maggior ragione avviene nella sua fase di esecuzione, dato che la pena mira esclusivamente, nell’Italia repubblicana, alla rieducazione del reo; ma, come ribadisce più volte la Corte costituzionale, emblematica appare la sentenza n. 364 del marzo del 1988, non vi può essere rieducazione se non in presenza di una colpa. La Corte sottolinea infatti, che “collegandosi il primo al terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione agevolmente si scorge che, comunque s’intenda la funzione rieducativa [… della pena …], essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la «rieducazione» di chi, non essendo almeno «in colpa» (rispetto al fatto) non ha, certo, «bisogno» di essere «rieducato»”. 1 P. Nuvolone, sub voce Misure di prevenzione e misure di sicurezza, in Enciclopedia del diritto, p. 650. 2 F. Grispini, Diritto penale italiano, vol. I, Milano, 1947, p. VIII. 3 Vedi E. Ferri, Relazione al Progetto di Codice penale italiano, Milano, 1921, pp. 38 e 76. 1. Pericolosità sociale versus colpevolezza; 2. Il doppio binario: pena e misura di sicurezza; 3. Sulla funzione rimozionale della Repubblica: formazione o educazione alla persona umana?; 4. Pena e misura di sicurezza fra soggetti capaci e soggetti incapaci; 5. Misura di sicurezza come alternativa alla rieducazione; 6. Lo straniero e la funzione preventiva della misura di sicurezza; 7. Nota conclusiva. 1. Pericolosità sociale versus colpevolezza L Digressioni sull’esecuzione della pena 157 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Va altresì evidenziato come la Corte, nella stessa sentenza, rilevi che “il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate”; viene pertanto ribadita la vigenza nell’ordinamento italiano del binomio pena-colpa, che certe prospettive teoriche tendono a negare. Ove non sia possibile muovere un rimprovero all’imputato, ovvero in assenza dell’elemento soggettivo del reato (la colpevolezza), la pena inflitta non produrrebbe effetti rieducativi, si paleserebbe esclusivamente quale momento afflittivo. Infatti, per il giudice costituzionale, “soltanto quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma ciò è sicuramente da escludersi nel nostro sistema costituzionale, data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili […] alla predetta colpa dell’agente”. Una prospettiva retribuzionistica o preventiva, che indirizzi l’erogazione e l’esecuzione della pena, non è concepibile all’interno dell’ordinamento giuridico italiano: è sicuramente da escludersi, così si esprime la Corte costituzionale. Ancora la Corte sottolinea che “dal collegamento tra il primo e terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione risulta […] l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza, espressi dalle norme penali” Tutto ciò è accennato, per rammentare che l’ordinamento giuridico italiano, avuto riguardo alla esperienza penalistica, si fonda su un legame inscindibile, che collega il fatto criminoso, esplicitamente previsto nelle fattispecie astratte componenti la parte speciale del Codice, ad una pena derivante dalla imputabilità dell’agente e dalla sua colpevolezza e finalizzata, la pena, alla rieducazione del reo. In proposito della stretta correlazione fra la colpevolezza e la sanzione penale, la Corte Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x così si esprime: “per precisare ancor meglio l’indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d’attuare compiutamente la funzione di garanzia assoluta del principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su «congrui» elementi subiettivi”. Il giudizio verte dunque sulla antigiuridicità di un fatto, sull’imputabilità dell’agente e sulla sua colpevolezza; da questo giudizio deriva, se l’imputato non è prosciolto, l’erogazione di una pena finalizzata esclusivamente alla rieducazione. 2. Il doppio binario: pena e misura di sicurezza Fin qui per quanto concerne la pena ex articolo 27 della Costituzione, ma, come evidente, accanto alle pene si collocano le misure di sicurezza, da prima, dal 1930, ai sensi del Codice penale, poi, dal 1948, ai sensi articolo 25, comma terzo del dettato costituzionale. L’ordinamento giuridico repubblicano eredita da quello del Regno la misura di sicurezza e poco, se non nulla, rileva che nel codice del 1930 “il legislatore si preoccupa fondamentalmente di costruire un sistema penale conforme alla realtà istituzionale costituita dal nuovo regime autoritario e caratterizzato da una rigida difesa sociale per assicurare la prevalenza degli interessi generali su quelli particolari e la subordinazione incondizionata del singolo alla collettività”4. La questione da affrontare è quella relativa alla armonizzazione della misure di sicurezza, in vero formalmente recepite nel testo costituzionale, con i principi dell’ordinamento giuridico vigente, informati dallo stesso testo costituzionale. Sicché si tratta di tentare di leggere le misure di sicurezza ora vigenti non con la lente dello storico del diritto, alla luce della loro origine storico-poli4 E. Musco, sub voce Misure di sicurezza, in Enciclopedia giuridica Treccani, p. 1. 158 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) tica, piuttosto con l’intento di coglierne la loro compatibilità con l’attuale assetto giuridicoistituzionale. In definitiva osservare e giustificare, fin dove ciò appare possibile, il doppio binario (pena e misura di sicurezza) presente nell’ordinamento italiano. L’uso dell’espressione del doppio binario appare correlata alla constatazione che, in prima istanza, pena e misura di sicurezza assolvano a compiti diversi ed abbiano differenti fonti. Per quanto concerne il primo aspetto si rileva come in generale le misure in questione “ontologicamente non possano considerarsi sanzioni penali, anche se intervengono dopo il delitto […] esse si ricollegano ad un presupposto diverso [… da quello della pena, e cioè ad ] una situazione che lascia ragionevolmente prevedere che uno o più individui commetteranno delitti”, e “in vero, l’applicazione delle misure di sicurezza non discende dall’accertamento del reato, che è una semplice premessa storica, ma dall’accertamento di una situazione soggettiva di pericolosità criminale”5. Sicché in questa prospettiva, obiettivo principale della misura erogata al soggetto socialmente pericoloso, è l’inibizione della recidiva, ovvero di un altro attentato a beni ed interessi giuridicamente protetti. Qui l’aspetto prevenzionistico è sicuramente esaltato; infatti, se per prevenire un’azione criminosa si sottopone il soggetto ad un processo di rieducazione, quest’ultima è infatti subordinata all’obiettivo da raggiungere, è misura, per così dire, operativa che potrebbe essere sostituita, se ciò apparisse più proficuo rispetto alla meta da conseguire, con altre misure di sicurezza personali, come l’isolamento del soggetto dal contesto sociale, il suo internamento. Ma come appare evidente, questa prospettiva può reggersi nell’attuale assetto valoriale che informa l’esperienza giuridica solo attraverso una operazione di natura formale: ovvero, rovesciando specularmente la rappresentazione del rapporto pena misura precedente all’attuale assetto costituzionale, attribuendo alla pena funzioni rieducative e ascrivendo alla misura di sicurezza compiti di difesa sociale, i quali 5 P. Nuvolone, sub voce Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., p. 633 e 634. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x però potrebbero farla palesare come misura repressiva ed emarginativa, se non afflittiva6. Sul versante della fonte, in passato si è sostenuto che le misure di sicurezza avessero natura amministrativa e non giurisdizionale; tale tesi, se accolta, permetterebbe di salvaguardare formalmente la attuale natura rieducativa della sanzione penale promanante dalla autorità giurisdizionale, evitando di inquinarla con le tendenze prevenzionistiche presenti nelle misure di sicurezza amministrativamente poste. Ma questa strada è impercorribile; in dottrina si è rilevato, infatti, che, “dopo l’entrata in vigore della Costituzione […] l’applicazione delle misure di prevenzione e, in genere, delle misure di sicurezza deve ritenersi un atto giurisdizionale. Nel procedimento relativo, infatti, vi è un conflitto tra il diritto di libertà del cittadino e la pretesa pubblica preventiva: conflitto che si svolge davanti all’autorità giudiziaria su di un piano di parità”7. D’altro canto, la stessa giurisprudenza di Cassazione da tempo riconosce che pene e misure di sicurezza “sono sanzioni criminali aventi la stessa natura giurisdizionale ed applicabili con processo giurisdizionale” (Cass. Pen. 15 luglio 1960). Sulla centralità del momento giurisdizionale, ove, nel dire e contraddire, si dispiega la difesa dell’imputato, nella erogazione di misure di sicurezza interviene più volte la Corte costituzionale (sentenze n. 53 del 1968 e n. 74 del 1973). La teoria del doppio binario ritrova, per tanto, delle indubbie difficoltà nel sorreggersi, e ciò avuto riguardo alla funzione rieducativa della sanzione penale. Si potrebbe ipotizzare, sulla scorta del pensiero di Nuvolone8, la presenza nell’ordinamento di una legalità, per così dire, repressiva, che si manifesta nel comminare ed erogare la pena, ed una legalità definibile come preventiva, la quale ritroverebbe la propria attuazione nella misura di sicurezza. La prima, nel garantire tutela ai beni ed agli interessi giuridicamente protetti, garantisce altresì, per tramite della riserva di legge e con l’istituzione di precise regole procedurali, i 6 Cfr. E. Musco, sub voce Misura di sicurezza, cit., p. 9. 7 Così P. Nuvolone alla sopra richiamata voce Misure di prevenzione e misure di sicurezza, p. 649. 8 Ibidem, p. 635. 159 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) diritti dell’imputato; la seconda, nel garantire nuovamente i diritti dell’imputato, ha come finalità il preservare il contesto societario da nuovi attacchi, ovvero, per usare le parole di Nuvolone, “di rendere più difficile all’individuo la possibilità di commettere reati”9. Il problema è che all’interno dell’attuale quadro valoriale tratteggiato dalla Costituzione, una ipotetica legalità preventiva, volta cioè a preservare il contesto sociale dal crimine, non può assumere connotati prevenzionistici, né speciali, né generali; su questo punto la Corte costituzionale appare inequivocabile. Per tanto, la costituzionalmente legittima misura di sicurezza posta in essere dall’autorità giurisdizionale competente non potrà che palesarsi quale misura rieducativa. Appare importante sottolineare che la pena si palesa quale rieducazione post delictum, mentre la misura si propone quale rieducazione ante delictum, che ritrova nel reato in proprio antecedente storico, ma non la propria ragione d’essere: questa è determinata dal riconoscimento della pericolosità sociale del reo, ovvero dalla sua accertata (nel dibattimento, come la abrogazione della pericolosità sociale presunta, ovvero dell’articolo 204 del Codice civile, testimonia) propensione a delinquere. Tale potrebbe essere la differenza, legittimata dai valori costituzionali, fra la pena e la misura di sicurezza: l’una, la pena, erogata dopo la commissione di un reato, l’altra, la misura di sicurezza, erogata in conseguenza d’una sentenza di condanna, la quale accerti anche la pericolosità sociale del reo, e finalizzata a prevenire altre infrazioni penalmente rilevanti. Entrambe hanno però la stessa finalità; la pena, e con questa la misura di sicurezza, non è reazione sociale, mera retribuzione o prevenzione, è rieducazione, quindi è volta a condurre il reo nell’alveo della piena socialità, per tanto, a non commettere atti antisociali, in particolare rieduca alla non commissione di reati. La distinzione sopra accennata, se vale a mantenere in piedi una sorta di dualismo nell’unitario ambito della sanzione penale, non giustifica certamente il suo permanere nell’ordinamento giuridico. 9 Ibidem. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x Ciò a maggior ragione in considerazione al fatto, ben evidenziato dalla sentenza qui richiamata della Corte costituzionale, che entrambe ritrovano la loro legittimità sostanziale e non meramente formale (vedi i richiamati articoli 25 e 27 del dettato costituzionale), nell’articolo 3, al comma secondo, ove si stabilisce che il compito della Repubblica è la rimozione degli ostacoli i quali si frappongono al pieno sviluppo della persona umana; pertanto l’azione di rieducazione del reo (persona umana) ha di mira il suo pieno sviluppo, sia che si tratti di pena oppure di misura di sicurezza, non la difesa della società. Questa, la sicurezza, si acquisisce indirettamente, attraverso una opera di rieducazione inserita all’interno di questo quadro valoriale. Se le articolazioni con cui ora si palesa la sanzione penale mirano al pieno sviluppo della persona umana, attraverso la rimozione di ostacoli e questa rimozione avviene anche con la rieducazione del reo, allora tali articolazioni appaiono sì costituzionalmente legittime, ma potrebbero venire ricomposte in un unico momento rieducativo, riportando la sanzione penale ad una unitarietà non solo sostanziale ma anche formale, dato che una distinzione formale, come quella ora presente nell’ordinamento pare foriera di equivoci. 3. Sulla funzione rimozionale della Repubblica: formazione o educazione alla persona umana? Il richiamo qui effettuato alla persona umana, premette di far cenno ad un altro problema di non secondaria importanza e connesso con la funzione rimozionale che la Repubblica si è assunta. Va evitato, a maggior ragione in un contesto culturale pluralistico, come appare il contesto sociale presente, e ciò con particolare riguardo al nostro universo di discorso, che volenti o nolenti ci fa volgere lo sguardo al carcere, presumere di poter effettuare un intervento rieducativo partendo da un preconcetto modello culturale. Se la rieducazione implica la risocializzazione questa non può palesarsi, proprio al fine di non limitare o costringere la persona umana a forme predefinite, quale for160 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) mazione ad un modello prestabilito. Se ciò avvenisse si correrebbe il rischio di sclerotizzare una forma ideale, alla quale costringere l’individuo concreto, snaturando la sua personalità e ponendo in essere un trattamento coercitivo e non educativo. In questo senso, la tendenza a ricercare forme ideali a cui ispirare modelli di trattamento sanzionatorio e solo apparentemente rieducativo, si palesa, come Giuseppe Bettiol ebbe a sottolineare più di mezzo secolo fa, come “una forza conservatrice che sclerotizza la giustizia”10. La meta del processo di rieducazione, da cui la finalità della sanzione penale, non può essere un pre-concepito modello di risocializzazione, da applicarsi aproblematicamente erga omnes; ciò implicherebbe, ancora per Bettiol, “una meccanica sottomissione” del reo a regole e valori sociali precostituiti alla sua volontà. L’educazione deve esaltare la dignità della persona umana, respingendo ogni tentativo di costringerla in predeterminati modelli comportamentali. In questo senso, il reo socialmente pericoloso non deve essere sottoposto ad un trattamento di trasformazione, che è poi il fine a cui tende la prospettiva della difesa sociale; trattamento, che al di là della etichetta di “rieducativo”, è chiaramente riconducibile a tendenze prevenzionistiche. Nell’ordinamento vigente, di contro, il trattamento è educativo, ovvero volto a ricondurre il reo non a modelli astratti (o dominanti), ma a se stesso, ovvero alla sua umana personalità. In questo differiscono profondamente, e non solo per una questione di termini, le istanze proprie alla Scuola positiva dalle politiche penali che vanno poste in essere nella Repubblica11; il momento chiave qui è ancora una volta l’interpretazione del comma secondo dell’articolo 3 della Costituzione. 4. Pena e misura di sicurezza fra soggetti capaci e soggetti incapaci Di norma, nel vigente processo di ordina10 Dal positivismo giuridico alle nuove concezioni del diritto, ora in Scritti giuridici, vol. II, Padova, 1966, p. 863. 11 Cfr. lo studi di F. Cavalla, La pena come problema. Il superamento della concezione razionalistica della difesa sociale, Padova, 1979. Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x mento penale, la pericolosità sociale del fatto e di chi lo ha posto in essere rilevano in maniera ben diversa da come risultano essenziali nella prospettiva solcata dalla Scuola positiva, ove la pericolosità sociale e la conseguente misura di sicurezza si collocano in un quadro informato dalla responsabilità legale e non dalla colpevolezza. Di norma, ex articoli 202, 203 e 205 del Codice penale, una misura di sicurezza si accompagna ad una sentenza di condanna che comporti il riconoscimento della pericolosità sociale del reo (di cui all’articolo 203 del Codice penale). In questo caso, e solo in questo caso, la misura di sicurezza si ricollega e diventa parte integrante del percorso posto in essere della erogazione della pena e, per tanto, è riconducibile a pieno titolo al comma terzo dell’articolo 27 del dettato costituzionale, così come lo stesso è stato più volte esplicitato dalla Corte costituzionale. Si tratta di un rafforzamento della pressione rieducativa, che nella unicità della sanzione penale, ritrova due momenti distinti. Ciò potrebbe però, come già accennato, palesare il problema della ridondanza, ben noto ai teorici generali del diritto: se i due termini designano due processi che tendono allo stesso obiettivo, ovvero denotano la medesima situazione (è il caso dell’omonimia), perché non unificarli anche lessicalmente già nel momento della sentenza con l’erogazione di una sola sanzione penale, la quale tenga conto, senza menzionare la misura di sicurezza, della pericolosità sociale del reo e della necessità di sottoporlo ad un particolare trattamento rieducativo. Di converso si può anche ipotizzare che se il legislatore ha voluto nominare e mantenere la pena accanto alla misura di sicurezza può darsi che le due abbiano finalità diverse; ecco allora ricomparire il doppio binario e con questo i possibili equivoci intorno a diverse finalità della pena e della misura di sicurezza. Va pertanto in questo caso accolta e ribadita l’istanza più volte emersa in dottrina relativa al superamento di questo sistema dualistico con l’istituzionalizzazione di una sanzione penale unitaria, che ribadisca inequivocabilmente l’esclusiva finalità rieducativa della stessa e ponga fine a fraintendimenti relativi alla sua funzione e derivanti dalla presenza nell’ordi161 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) namento di pene e di misure. Ma qui siamo di fronte al caso in cui pena e misura sono contenute in (e derivate da) una sentenza di condanna, pertanto il reo è un soggetto capace e, quindi, imputabile, ovvero rieducabile. Diverso, totalmente diverso, appare il caso in cui una misura di sicurezza si fonda su una sentenza di proscioglimento derivante dall’applicazione dell’articolo 85 del Codice penale; ove manchi il requisito della imputabilità a fronte di “un fatto preveduto dalla legge come reato” non può essere erogata una pena, di cui all’articolo 17 del Codice penale. Ciò non di meno, il soggetto agente, non imputabile, è sottoposto a misure di sicurezza ex articolo 215 del Codice penale anche in assenza di una pena erogata. Vi è anche il caso in cui la misura di sicurezza, pur venendo erogata in una sentenza di condanna assieme alla pena, non può essere ricollegata alla pena stessa; indicativo è in proposito il comma terzo dell’articolo 222, che differisce, nel caso di soggetto cosiddetto semiimputabile, l’esecuzione della pena (rieducativa) “fino a che perduri il ricovero nell’ospedale psichiatrico”. Sicché questa misura di sicurezza non ha né può avere funzione rieducativa e si colloca, non essendo riconducibile alla pena, fuori dall’alveo tracciato dal comma terzo dell’articolo 27 della Costituzione. Lungi dal voler sostenere che le misure in questione, ovvero quelle che ineriscono a soggetti semi-imputabili o non imputabili, presentino aspetti prevenzionistici o retributivistici, va invece evidenziato il loro svilupparsi a sostegno della persona umana proprio per essere espletate con quelle finalità di recupero e reinserimento del diverso nella società, le quali ritrovano nella legge 180 del 1978 il proprio fulcro; la legge manicomiale in questione e la prassi da questa sviluppatasi offrono un metodo di intervento tale da minimizzarne l’aspetto di misura di difesa sociale, per voler qui richiamare ancora termini propri alla Scuola positiva, ma non pare che tale prassi possa eliminarne completamente tale natura prevenzionistica. La misura di per sé, infatti, pone il soggetto agente, prosciolto perché non imputabile, nella condizione di non nuocere, in quanto sottoposto a controllo. Il soggetto Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x appare qui, più isolato e controllato, che partecipe ad un processo di rieducazione, il quale se mai è attivato da una determinata prassi di intervento sul disagio sociale, che non è però implicita nella misura di sicurezza posta in essere, al di là del mutamento di alcuni termini (come noto l’articolo 62 dell’Ordinamento penitenziario, nell’elencare gli istituti preposti per l’esecuzione della misure di sicurezza, sostituisce il termine di manicomio giudiziale con quello si ospedale psichiatrico giudiziario); la tensione ad un processo rieducativo, che informa esplicitamente la pena, la si può solo supporre nella misura di sicurezza, accostando, alla luce di principi dedotti dal dettato costituzionale, disposizioni legislative fra loro diverse, ma accomunate da intenti rimozionistici, quali quelle concernenti l’Ordinamento penitenziario e gli Accertamenti sanitari. È solo possibile accennare in questa sede all’importanza dell’articolo 113 del cosiddetto Regolamento penitenziario del 30 giugno del 2000, ove si stabilisce che “l’Amministrazione penitenziaria, al fine di agevolare la cura delle infermità ed il reinserimento sociale dei soggetti internati negli ospedali psichiatrici giudiziari, organizza le strutture di accoglienza tenendo conto delle più avanzate acquisizioni terapeutiche anche attraverso protocolli di trattamento psichiatrico convenuti con altri servizi psichiatrici territoriali pubblici”. D’altro canto, risulta indicativa di tendenze non rieducative presenti nelle misure di sicurezza la seconda parte del comma primo dell’articolo 222 del Codice penale, ove in caso l’agente non imputabile venisse prosciolto per delitti colposi o non particolarmente pericolosi socialmente (con pena massima editale di due anni), o ancora per contravvenzioni, la sentenza di proscioglimento non appare accompagnata da alcun esplicito intento terapeutico, che non sia la comunicazione alla Autorità di pubblica sicurezza, alla quale viene delegato il controllo del soggetto; è fuori dubbio che il punto di riferimento del legislatore nel richiamare l’Autorità di pubblica sicurezza non fossero certamente i servizi alla persona. 162 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) 5. Misura di sicurezza come alternativa alla rieducazione Ma, come si suol dire, vi è dell’altro a confermare l’ipotesi che storna le misure di sicurezza personali dalla finalità rieducativa della pena e ciò si palesa nel momento in cui non appare possibile erogare la pena stessa; come evidente, le misure di sicurezza vanno ascritte anche al minore non imputabile o al minore riconosciuto non imputabile (vedi articolo 224 del Codice penale). A tali soggetti, in quanto incapaci di intendere e di volere (ex articoli 97 e 98 del Codice penale), non può essere erogata una pena; ciò non di meno l’agente, qualora venga ritenuto pericoloso socialmente, può essere sottoposto, ex articolo 224 Codice penale, a misure di sicurezza. In questi casi, e in generale a fronte di soggetti non imputabili, ci troviamo di fronte ad una pericolosità sociale alla quale non corrisponde una responsabilità/imputabilità penale, in quanto la pericolosità sociale è ascritta ad un soggetto non capace di intendere e di volere; questa non capacità rende il soggetto non disponibile alla pena, dato che l’esecuzione della pena è caratterizzata da funzioni rieducative, che non possono in alcun modo esplicarsi a fronte di chi è incosciente delle proprie condizioni di colpa. Pare utile in proposito richiamare ancora una volta la giurisprudenza costituzionale dalla sentenza del 1988 in materia di ignoranza della legge. Per la Corte “trattandosi, appunto, dell’applicazione d’una pena, da qualunque teoria s’intenda muovere (eccezione fatta per quella della prevenzione generale in chiave di pura deterrenza, che, peraltro, come s’è già avvertito, non può considerarsi legittimamente utilizzabile per ascrivere una responsabilità penale) e dovendo la violazione del precetto essere rimproverabile, l’impossibilità di conoscenza del precetto [… l’affermazione qui va riportata ad una condizione non di ignoranza scusabile, bensì di incapacità di intendere e volere, che impedisce al soggetto agente di discernere fra comportamenti leciti ed illeciti e di prevederne le conseguenze …] non ascrivibile alla volontà dell’interessato Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x deve necessariamente escludere la punibilità”. Nel nostro caso la punibilità è esclusa perché non può produrre, su un soggetto incapace, alcun effetto rieducativo, solo effetti afflittivi, di prevenzione, che, come sottolinea la Corte, non possono considerarsi legittimi. L’assenza del cosiddetto elemento soggettivo del reato fa sì che il comportamento criminoso non si costituisca in reato, nel senso che ad una fattispecie concreta oggettivamente (solo oggettivamente) criminosa, perché riconducibile a fatti espressamente preveduti come reato dalle disposizioni legislative, non corrisponde né la minaccia, né l’erogazione della pena. La misura di sicurezza ivi comminata (ma è una voce che chiama nel deserto, dato che il potenziale reo, in quanto incapace, può forse sentirla, ma non comprenderla) e, poi, erogata, è pertanto separata da una prospettiva rieducativa dell’agente, dato che questa non può essere posta in atto a fronte di un soggetto non imputabile perché incapace di intendere e di volere. Ci troviamo di fronte a misure di sicurezza che non possono avere finalità rieducative data la qualifica di incapace offerta dall’ordinamento, ad esempio, al soggetto minore di quattordici anni d’età, di cui si presume la totale incapacità di intendere e di volere, e al soggetto compreso fra i quattordici ed i diciotto anni d’età non ancor capace di intendere e di volere. A questi soggetti è preclusa l’applicazione di una pena in quanto oggettivamente, i primi, soggettivamente, i secondi, impossibilitati ad usufruire di un processo di rieducazione; di contro, nel caso previsto dagli articoli 98 e 225 del Codice penale, se il secondo soggetto (quello collocato fra i quattordici ed i diciotto anni d’età) fosse psicologicamente in grado di partecipare ad un processo rieducativo, a questo, nelle forme previste dalla legislazione vigente, sarebbe erogata una pena, alla quale può affiancarsi una misura di sicurezza. In questo caso, a fronte di una sentenza di condanna, la misura di sicurezza sarebbe direttamente collegata al, ed informata dal, processo di riabilitazione ascritto dall’ordinamento all’esecuzione della pena. Ciò è da escludersi per quanto riguarda la fattispecie prevista dall’articolo 224 del Codice 163 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) penale; qui la misura di sicurezza non può avere, per le cause sopra accennate, alcuna funzione rieducativa. La misura di sicurezza avrà una forma altra rispetto alle finalità rieducative e sarà direttamente legata alla pericolosità sociale del soggetto; appare una misura di difesa sociale che potrà recuperare solo indirettamente funzione rieducativa per tramite di un trattamento sensibile ai valori della persona umana. 6. Lo straniero e la funzione preventiva della misura di sicurezza Che la misura di sicurezza possa acquisire nell’ordinamento giuridico italiano una connotazione quasi esclusivamente ricollegabile alla misura di difesa sociale è oltremodo evidente avuto riguardo all’articolo 15 del d. leg. 286 del 1998, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, il quale prevede che a seguito di una sentenza di condanna che abbia ad oggetto reati di cui agli articoli 380 e 381 del Codice di procedura penale, il giudice possa prevedere, per lo straniero ritenuto socialmente pericoloso, la misura di sicurezza della espulsione. Qui la misura di sicurezza non interviene nel processo rieducativo posto in essere dall’esecuzione della pena; anzi, il provvedimento dell’espulsione dal territorio dello stato lascia supporre che la pena non possa di per sé produrre effetti rieducativi sulla personalità del reo e che pertanto la misura di sicurezza che determina l’espulsione sia una necessaria misura di difesa sociale. La difesa sociale, in questo particolare ambito legislativo, prende il sopravvento sulla funzione rieducativa della esecuzione penale, nel momento in cui l’articolo 16 del predetto decreto legislativo configura la misura dell’espulsione come sostitutiva alla esecuzione della pena detentiva; ove il giudice ritenga di erogare una pena detentiva inferiore a due anni ad uno straniero clandestino ai sensi dell’articolo 13, comma secondo del su citato testo unico (questo straniero non è esattamente lo straniero richiamato dall’articolo 15 del testo unico, perché questo si qualifica, in sostanza, Digressioni sull’esecuzione della pena issn 2035-584x per la mancanza di permesso di soggiorno e di validi documenti di transito), il giudice “può sostituire la medesima pena con la misura dell’espulsione”. Ora, se pena e misura di sicurezza sono fungibili, né l’una né l’altra hanno funzione rieducativa; dato che la Repubblica abidica al suo diritto-dovere dalla rieducazione sottraendo, con l’espulsione, il reo alla sua giurisdizione e l’espulsione sostituisce la pena, si presume che anche alla pena stessa, qualora venisse eseguita, possano essere attribuiti gli stessi caratteri della misura di sicurezza. Qui ci troviamo di fronte ad un provvedimento che ritrova la propria ratio esclusivamente nella tensione alla difesa sociale e, potremmo aggiungere, in una difesa sociale a basso costo, dato che non prevede la presenza del reo in istituti di pena, ma solo il suo allontanamento dal territorio nazionale. Va sottolineato che l’articolo 16, a differenza dell’articolo 15, entrambi qui richiamati, non prevede al fine di erogare una misura di sicurezza quale l’espulsione, l’accertamento della pericolosità sociale del reo attraverso i parametri offerti dall’articolo 133 del Codice penale, tanto da poter supporre che, se la misura di sicurezza è erogata a fronte della pericolosità sociale, la condizione di clandestinità, in cui sostanzialmente versa questo straniero, sia da considerarsi di per sé pericolosa socialmente; ma se ciò fosse vero, cosa del resto dimostrata dalla presenza nell’ordinamento del comma 11 bis dell’articolo 61 del Codice penale, allora, a fronte della necessità di difesa sociale, verrebbero meno sostanzialmente le garanzie poste all’articolo 199 del Codice penale e soprattutto all’articolo 25 della Costituzione, e verrebbe reintrodotta nell’ordinamento per alcune categorie di soggetti quella idea di pericolosità sociale presunta o oggettiva, che prescindeva dall’accertamento della qualità di persona socialmente pericolosa, che viene ricondotta all’abrogato articolo 204 del Codice penale. Pare in definitiva che, dalla lettura dell’articolo 16, la pericolosità sociale, da cui la necessità di misure di sicurezza, sia ascrivibile non tanto alla persona soggetta al provvedimento, quanto al gruppo (i clandestini), a cui la persona è riconducibile. Se ciò fosse vero, allora ci tro164 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) veremo, per un verso, di fronte ad un caso di difesa sociale di natura attuariale12, per altro ad un difficilmente solubile caso di costituzionalità della disposizione in oggetto, perché qui, fra le altre, sarebbe lesa la condizione di parità di trattamento di fronte alla legge, che soltanto una capziosa interpretazione letterale dell’articolo 2 della Costituzione potrebbe salvaguardare (e portarci a dover elaborare una ingegneria costituzionale dei diritti basata su una sorta di rediviva separate but equal doctrine). Ma al di là di quest’ultima considerazione, che ci conduce lontano dal seminato, appare evidente come nei casi qui descritti, e principalmente in quello riguardante lo straniero ai sensi dell’articolo 16 del Testo unico qui richiamato, la Repubblica abdichi, nel porre in essere sanzioni prive del requisito della rieducazione, alla sua funzione rimozionale, sancita dall’articolo 3 della Costituzione. issn 2035-584x agente, oppure, ed è il caso dello straniero di cui sopra, in sostituzione di azioni rieducative riconducibili alla esecuzione della pena. In questi casi, la misura di sicurezza, vuoi nel suo essere slegata dalla imputabilità, vuoi dal suo porsi in alternativa all’esecuzione della pena, ci riporta nell’alveo del pensiero proprio alla Scuola positiva, ovvero fa palesare un utilizzo delle misure di sicurezza slegato dalla funzione rieducativa della pena: qui le misure di sicurezza si dirigono verso la pura difesa sociale. 7. Nota conclusiva Da questi brevi cenni sul rapporto fra pena, misura di sicurezza e rieducazione appare come la reazione penale ad un comportamento criminoso non assuma sempre e comunque aspetti pienamente ed apertamente rieducativi. Questi indubbiamente primeggiano nella (ed informano la) pena, così come viene concepita dal nostro ordinamento, e possono riscontrarsi nei casi in cui la misura di sicurezza promani da una sentenza di condanna e, quindi, si collochi a fianco della pena (con vistosa eccezione nei casi previsti dagli articoli 15 e 16 del Testo unico in materia di immigrazione); qui ci troviamo di fronte a soggetti imputabili, o, sia pur con i dovuti distinguo, di soggetti cosiddetti semi-imputabili. L’unitarietà sostanziale fra pena e misura di sicurezza, che si evidenzia attraverso la loro comune funzione rieducativa, non si riverbera in tutti i casi d’erogazione e d’esecuzione di misure alternative. Queste, come osservato, possono venire poste in essere anche in assenza di elementi oggettivi e soggettivi atti a presupporre una possibilità di rieducazione del 12 Cfr. A. De Giorgi, Zero tolleranza, Strategie e pratiche della società di controllo, Roma, 2000. Digressioni sull’esecuzione della pena 165 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa e la nuova positività: riflessioni per l’inquadramento del dibattito sull’interpretazione giuridica nel novecento italiano Stefano Favaro Abstract Parole chiave L’ermeneutica giuridica contemporanea, compenetrando filosoficamente e nel contempo superando il normocentrismo della Scuola di Torino e il carattere concreto e giudiziale del giusrealismo italiano, evidenziando la fisiologicità dell’azione interpretativa, rappresenta l’esperienza giuridica come il luogo dell’incessante incontro dialettico tra fatti, norme, parti e giudice, in cui la “nuova” positività non è data ma è, anzi, prodotta dalla mediazione interpretativa. Scuola di Torino; Neopositivismo; Giusrealismo; Ermeneutica giuridica; Interpretazione giuridica; Positività; Bobbio Norberto; Tarello Giovanni; Betti Emilio. 1. Premessa. l’interpretazione e la comunicazione giuridica nella dimensione controversiale del diritto L a peculiarità irrimediabilmente caratteristica dell’esperienza giuridica, ove considerata nella propria complessità strutturale, che da quando esiste il primo consorzio umano soggiace instancabilmente a molteplici e mai compiuti tentativi di definizione e spiegazione1, consiste in primo luogo, come è noto ed 1Cfr., per quanto riguarda la difficoltà che gli operatori giuridici incontrano nel momento in cui tentano di definire il diritto, le parole di A. Trabucchi (Istituzioni di diritto civile, Padova, 1996, p. 1): l’Autore, oltre a segnalare la persistente attualità di un «problema tanto grave che ha tormentato la mente e la coscienza degli uomini», da sempre tesi «alla ricerca di una definizione, che già Kant indicava come il caput mortuum del giurista», prosegue affermando che «ancora oggi riesce difficile rispondere a questa semplice domanda: “cos’è il diritto”?». Per i rilevanti contributi scientifici relativi alla conoscenza del fenomeno giuridico sotto il profilo prettamente speculativo (prevalentemente risalenti ai primi decenni del secolo scorso, dato che la scienza giuridica degli ultimi anni si è andata indirizzando verso riflessioni maggiormente ancorate ad ambiti settoriali e legati al diritto L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa evidente, nella sua genetica dinamicità, dal momento che la mera cristallizzazione dei principi regolativi del tessuto politico e sociale in castelli normativi di eburnea perfezione, ma avulsi dalla realtà effettiva della dimensione relazionale dell’uomo, ne vanificherebbe l’esistenza e la funzione essenziali2. In secondo luogo, e altrettanto geneticamente, l’esperienza giuridica è caratterizzata positivo, che sembrano considerare le radici filosofiche dell’esperienza giuridica come un fatto incontestabile e insuscettibile di ulteriori sviluppi), si rimanda alla bibliografia che lo stesso Autore indica in nota alle citazioni riportate; in questa sede ci si limita a segnalare: S. Cotta, Il diritto nell’esistenza, Milano, 1991; A. Ravà, Diritto e Stato nella morale idealistica, Padova, 1950; I. Petrone, Il diritto nel mondo dello spirito, Milano, 1910. 2 Ciò non significa, peraltro, ed è opportuno segnalarlo in tale sede, che la stessa espressione “esperienza giuridica”, comunque, sotto la lente di un’altra angolazione, non possa legittimamente assurgere anche a “segno” linguistico atto a designare una realtà che venga presa in considerazione, sebbene secondo una prospettiva meramente descrittiva, dunque parziale e perciò stesso fuorviante, per la propria componente strutturale di storica staticità, e, quindi, di – seppur temporanea – “immobilità”. 166 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) anche da un’intensa ed insopprimibile problematicità, dal momento che la sua dinamicità, nel suo emergere, si profila sempre come operativamente e necessariamente finalizzata a porre soluzione a quelle lacerazioni, potenziali o concretamente realizzatesi, relative alla sfera intersogettiva dell’agire umano, che si rivelano, ove non siano ricomposte, lesive della pacificazione sociale che costituisce il parametro di riferimento di ogni dimensione giuridica. D’altra parte, e in terzo luogo, è altrettanto innegabile che tale dinamicità e tale problematicità, oltre ad essere fattori reciprocamente condizionanti la caratterizzazione dell’esperienza giuridica3, non possono a propria volta darsi, dal suo stesso interno, se non nella – genetica – dimensione comunicativa tra i soggetti e gli strumenti coinvolti dall’esperienza giuridica e nell’esperienza giuridica: si può, anzi, ulteriormente affermare che l’essenza (dinamica e problematica) dell’esperienza giuridica è, interamente, nella comunicazione, e, pertanto, anche nel linguaggio, comune e giuridico, attraverso cui tale comunicazione si esprime. Ove, poi, si consideri che, in via di generale (e non esaustiva) schematizzazione, e indipendentemente dalle più o meno macroscopiche differenziazioni giusfilosofiche stratificatesi nel corso dei decenni, di cui si farà cenno nelle pagine seguenti, i soggetti protagonisti della moderna esperienza giuridica europeo-continentale sono le parti (e i rispettivi difensori) coinvolte dalla lacerazione nella relazione intersoggettiva loro riferibile, nonché il giudice chiamato a ricucire la lacerazione medesima, e posto che gli strumenti a disposizione di tali soggetti sono la legge (quale parametro per la ricostruzione e valutazione del fatto di causa controverso) e il processo (quale “luogo” della 3 In effetti, se è evidente che la dimensione problematica del “giuridico” non potrebbe neppure sorgere in una considerazione eminentemente statica dell’essenza dell’esistenza umana, che, di fatto, negherebbe ab origine la sua ragion d’essere, d’altra parte, è altrettanto evidente che, correlativamente, la dinamicità dell’esperienza giuridica non può non accompagnarsi alla sua problematicità, posto che, in caso contrario, essa sarebbe da considerarsi assolutamente perfetta e, pur tuttavia, per tale stesso fatto, assolutamente inutile. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x controversia), si può ulteriormente e più specificamente affermare che l’esperienza giuridica contemporanea, nella propria dinamicità e problematicità, è, interamente, nella comunicazione processuale tra le parti ed il giudice, e, pertanto, anche nel linguaggio4, sia comune che giuridico, in cui si esprimono, nel processo, le parti ed il giudice, nella loro opera incessante di lettura-traduzione-rappresentazione giuridica, attraverso il ricorso alla legge (e al suo linguaggio), del concreto fatto di vita controverso. Una simile concezione della sfera del giuridico – germinazione di quella mentalità che, sulla scia degli insegnamenti di alcuni tra i massimi esponenti della dottrina giusfilosofica del ventesimo secolo5, considera l’uomo 4 Si vedano, con specifico riferimento alla fisiologica ineliminabilità, dalla dimensione dell’esperienza giuridica, della componente linguistica, le efficaci parole di F. Gentile in Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2005, p. 121: «Per noi, terrestri, solo nella controversia si danno giusto e ingiusto così come solo nel discorso si danno vero e falso. E poiché non si discorre né si controverte senza il medio del linguaggio, nella definizione del vero come del giusto il linguaggio esercita un ruolo non accidentale ma strutturale, complementare ma determinante, organico. Più esattamente: l’assertorietà del linguaggio, con la sua resistenza alla problematicità del discorrere e del controvertere non è un’accidentalità storica, propria del resto di ogni discorso come di ogni controversia, ma è la stessa determinazione dell’atto problematico intrinseco al controvertere e al discorrere. Sicché senza l’assertorietà implicita nel linguaggio la leva della problematicità avrebbe un’efficacia puramente illusoria e per noi, terrestri, sarebbe vano cercar di discernere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto». 5 Si fa riferimento, al riguardo, alla concezione processuale dell’esperienza giuridica di E. Opocher (di cui si veda soprattutto il testo Il diritto nell’esperienza pratica. La processualità nel diritto, in Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1983, pp. 265 ss.), alla filosofia e alla concezione “classica”, ma lucidamente rivolta al presente, dell’esperienza giuridica di F. Gentile (tra le cui opere si segnalano: Per fare il punto sulla filosofia giuridica e politica italiana degli anni settanta, in “Archivio giuridico”, CXXIII/1, 1977; La cultura giuridica contemporanea fra scienza e storia, in “Incontri culturali”, anno XIII, 1980, n. 1-2; Intelligenza politica e ragion di stato, Milano, 1984; Politicità e positività nell’ordinamento giuridico. L’opera del legislatore, Cusl Nuova Vita, Padova, 1992; Ordinamento giuridico. Controllo o/e comunicazione. Tra virtualità e realtà, in U. Pagallo, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico. Sei studi di teorie generale del diritto, Padova, 1999; Ordinamento 167 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) come un essere eticamente orientato al Bene e all’autoregolamentazione, cioè come quella «straordinaria creatura a cui il Creatore non ha plasmato soltanto il corpo materiale ma con l’anima ha infuso il suo Spirito, assimigiuridico tra virtualità e realtà, cit.; Politica aut/et statistica. Prolegomeni di una teoria generale dell’ordinamento politico, Milano, 2003; Filosofia del diritto. Le lezioni del quarantesimo anno raccolte dagli allievi, Padova, 2006; Legalità, giustizia, giustificazione, Napoli, 2008), e, inoltre, al pensiero di G. Capograssi (di cui si segnala, in particolare, Il problema della scienza del diritto, Milano, 1962, e su cui vedasi anche E. Opocher, Giuseppe Capograssi filosofo del nostro tempo, Milano, 1991), che si può legittimamente considerare uno dei massimi esponenti della filosofia, e, nello specifico, della filosofia del diritto italiana del ventesimo secolo. In questa sede ci si limita a ricordare che, delineando i contorni di una “filosofia della riflessione” – da intendersi come filosofia dell’azione e della volontà umane – «che sembra rappresentare il più completo tentativo di elaborare una filosofia del diritto muovendo da presupposti esistenzialistici di tipo positivo» (E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, cit., p. 231), Capograssi ritiene che il diritto considerato in sé e per sé, e cioè indipendentemente dall’esperienza etica degli uomini e dalla vita della coscienza, non possa neppure essere oggetto di riflessione alcuna, e giunge ad operare una ricostruzione del mondo del diritto che vede nell’esperienza giuridica, in cui l’azione e la volontà del soggetto tendono ad oggettivizzarsi nella giustizia, una dimensione eminentemente individuale in cui la società civile svolge il compito etico di sollecitare gli uomini alla moralità e a scoprire l’assoluto nell’interiorità delle coscienze. A sua volta, la successiva dimensione processuale dell’esperienza giuridica così configurata, vera e propria dimensione principe del diritto nel momento del suo “farsi” concreto, caratterizzata dall’assoluta ineliminabilità del momento interpretativo – attraverso cui le norme devono essere ricondotte alla propria vera essenza spirituale e razionale –, è per Capograssi la dimensione in cui, attraverso la composizione delle controversie, la Verità razionale emerge dalle pieghe dei conflitti consentendo che il diritto viva e diffonda i propri valori etici e di giustizia nella vita dell’uomo. Le parole dell’Autore (cfr. Il problema della scienza del diritto, cit., passim) sono, al riguardo, chiarissime, e meritano, anche alla luce del vasto seguito che il pensiero in esse espresso ha avuto in parte della dottrina giuridica italiana, di essere citate: «Non sembra esagerata la veduta di coloro che ritengono che solo nel processo il diritto sia diritto, perché solo nel processo esso diventa comando e volontà effettiva. […] Nel segreto della controversia è dunque implicita la intuizione che la verità deve vincere e deve regolare la vita, e che la verità consacra, per così dire, la “pretesa”. Nella frase “aver ragione” è proprio implicito questo profondo principio, che la ragione deve regolare la vita e che perciò nel conflitto deve vincere la pretesa che ha la ragione per sé». L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x labile, con immagine dantesca, all’orizzonte che sta tra il cielo e la terra, a questa appartenendo come a quello»6 – individua pertanto nella legge positiva una – sempre indiscussa ed imprescindibile – disposizione di condotta che però, una volta posta, e considerata così nella propria “fattualità” oggettivamente data, «non esaurisce le modalità dell’ordine nei rapporti tra soggetti […] ma consente di attuare l’ordinamento della controversia, che è ordine emergente dal disordine, mediante fluttuazione dialettica tra le due divergenti vedute dell’ordine che la costituiscono»7, e individua, inoltre, nella processualità la dimensione comunicativa perfetta per il concreto – dinamico e dialogante – comporsi dialettico delle interferenze intersoggettive secondo i principi di cui le leggi sono positivizzazione, così che, nelle aule di tribunale, «il disordine si manifesta come divergenza tra due vedute dell’ordine. E l’ordinamento si realizza se e in quanto fra queste si stabilisca un rapporto dialettico. […] Dialetticamente la controversia si risolve mediante il riconoscimento […] di ciò che è proprio delle parti in causa»8. Ebbene, la descritta decisa rivendicazione di una dimensione eminentemente comunicativa e processuale dell’esperienza giuridica, nell’ambito della quale la controversia tra i soggetti, formante la vera e propria essenza di ogni uomo quale essere relazionale, è in sé «innervata dalla differenza»9 e, dunque, da 6 F. Gentile, Ordinamento giuridico. Controllo o/e comunicazione. Tra virtualità e realtà, in U. Pagallo, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico. Sei studi di teoria generale del diritto, cit., p. 249. 7 F. Gentile, Politicità e positività nell’ordinamento giuridico. L’opera del legislatore, cit., p. 27. 8 F. Gentile, Ordinamento giuridico. Controllo o/e comunicazione. Tra virtualità e realtà, in U. Pagallo, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico. Sei studi di teoria generale del diritto, cit., p. 240. Per un ulteriore ed incisivo approfondimento relativo alla concezione processuale del diritto, si vedano anche, tra gli altri testi in materia: F. Cavalla, La prospettiva processuale del diritto. Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991; F. Cavalla, Il controllo razionale tra logica, dialettica e retorica, in Atti del XX Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Padova, 1948, pp. 40 ss., F. Cavalla, Retorica, processo, verità, Padova, 2005. 9 F. Puppo, L’esempio del decreto penale di condanna, in P. 168 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) un’insopprimibile esigenza comunicativa che trova proprio nelle pieghe tecniche e dialettiche del processo il metro della propria soluzione e riconduzione a Verità e Ordine, in cui, cioè, «il processo è l’ordinamento giuridico della vita particolare e non l’attuazione nella vita particolare di un ordinamento»10, implica inoltre, necessariamente, che se certamente, in funzione del processo e della comunicazione processuale, «è nell’ordinamento che si reperisce la legge»11, ossia il parametro normativo di riferimento alla luce del quale ricostruire e rappresentare giuridicamente il fatto di causa controverso12, d’altro canto non può essere che l’attività interpretativa delle norme (di qualunque natura esse siano) il tramite, perennemente aperto ad ogni variazione nel “respiro” della vita dell’uomo (così come essa è trasfusa nella propria veste processuale), attraverso il quale, secondo il “miracolo” ermeneutico che Carnelutti definiva arte del diritto, la controversia si compone, sempre nuova a se stessa, mediante l’«applicazione della legge al caso singolo»13, Moro (a cura di), Etica informatica diritto, Milano, 2008, p. 186. 10 G. Capograssi, Intorno al processo (ricordando Chiovenda), in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 1938, ora in G. Capograssi, Opere, Milano, 1959, vol. IV, pp. 131169. La citazione è tratta da M. Cossutta, Dieci riflessioni intorno al processo come algoritmo, in P. Moro (a cura di), Etica informatica diritto, cit., p. 68. 11 Ibidem. 12 Con riferimento al ruolo che la legge positiva riveste nell’ambito della comunicazione processuale per la composizione della controversia in essa confluita, si vedano le parole di F. Gentile, che in Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit. pp. 58-59, avvicinando analogicamente la legge ed il concetto così scrive: «Come col concetto si rappresenta una cosa fissandone i tratti essenziali, così col precetto giuridico, legislativo amministrativo o giudiziario che sia, si rappresenta un’azione, fissandone i tratti qualificanti e in tal senso essenziali. […] Come il concetto, con la sua fissità interlocutoria, costituisce un principio regolatore della conoscenza umana, nel senso che l’uomo, mediante il concetto, o meglio mediante la rete dei concetti, in cui si unificano le precedenti esperienze, si apre ad esperienze nuove, così il precetto, con la sua fissità interlocutoria, esercita la funzione di modello per l’azione umana, nel senso che l’uomo trova nel precetto, o meglio nella rete dei precetti, in cui si sono raccolti i tratti qualificanti di un rapporto, le indicazioni utili per disporsi alla relazione con gli altri». 13 F. Carnelutti, sub voce Arte del diritto, in Novissimo L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x trasformando così, attraverso l’erosione delle imperfezioni proprie del linguaggio normativo di riferimento14, l’astratto in concreto. L’interpretazione normativa si rivela, infatti, inevitabilmente, come il necessario veicolo attraverso cui si realizza concretamente, nella prospettiva processuale dell’esperienza giuridica, la comunicazione tecnico-linguistica tra i soggetti in essa coinvolti per la composizione di una controversia: distinguendosi, nella più grande varietà di figure interpretative esistenti nei diversi ambiti conoscitivi ed operativi, «per essere al tempo stesso “actio interpretans” (interpretazione-attività) e “designatum” (interpretazione-prodotto), risultando ormai un dato non più discutibile nella dottrina giuridico-filosofica formatasi in tema di interpretazione che ciò che caratterizza tali attività è determinato dall’oggetto, dal risultato e dal metodo dell’interpretazione stessa»15, essa, avente ad oggetto, sempre secondo la più autorevole dottrina dell’interpretazione contemporanea, «un testo giuridico, normativo e autoritativo che sia, ossia una fonte del diritto»16, si pone quale ineludibile raccordo comunicativo tra la rappresentazione del fatto controverso, così come operata da ciascuna delle parti alla luce della particolare interpretazione dei fatti stessi nonché delle singole norme che ognuna di esse ritiene applicabile per il soddisfacimento dei propri interessi, e l’interpretazione del medesimo fatto, nonché delle norme applicabili al caso, anche diverse da quelle indicate dalle parti, compiuta, dialetticamente mediando tra le opposte esigenze e il nucleo giuridico loro comune, dall’Autorità Digesto Italiano, Torino, 1959, p. 545. 14 Per un’attenta disamina della rilevanza nonché per un’elencazione delle maggiormente problematiche questioni giuridiche di natura linguistica ad oggi profilabili agli operatori del settore, quali, ad esempio, dal punto di vista semantico, l’omonimia, la polisemia e la vicinanza di senso tra i termini di un periodo linguistico, vedasi M. Cossutta, Questioni sull’informatica giuridica, Torino, 2003, pp. 87 ss. 15 F. Casa, Gli argomenti del giurista tra «premesse» e «strategie» interpretative, in “L’Ircocervo. Rivista elettronica di metodologia giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello Stato”, 2008, n. 2, p. 1. 16 Ibidem, p. 3. 169 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) giudicante chiamata a pronunciarsi sul caso prospettatole. In altri termini, in un’epoca, come quella contemporanea, in cui l’esperienza della realtà, anche giuridica, è sempre più, e sempre più consapevolmente, esperienza di messaggi, di comunicazioni, di raccolta, organizzazione e trasmissione di informazioni che necessitano di essere decodificati, l’interpretazione giuridico-normativa assurge a strumento, e a metodologia, per la realizzazione di quel «complesso iter, che dal dato legislativo o consuetudinario giunge alle nuove formulazioni attraverso l’interpretazione»17 stessa, che costituisce i capisaldi fondanti il moderno comunicare dialetticamente, problematico, dinamico e quotidiano, nelle aule di giustizia, e, pertanto, il “farsi” continuamente del diritto nella sua più intensa dimensione processuale. Nonostante le ambizioni di certezza giuridica proprie dell’attività interpretativa dei testi normativi siano, in realtà, parzialmente inficiate, in nuce, dal fatto che «il significato attribuito ad un determinato documento normativo dipenda quasi esclusivamente dall’argomento dell’interpretazione cui il giurista ritiene di fare ricorso, con la precisazione che “con esso si indica non un argomento in senso logico ma un certo tipo di considerazioni rilevanti ai fini dell’attribuzione di significato ai testi di legge, fatte valere in sede di argomentazione interpretativa quali ragioni a sostegno di una determinata tesi interpretativa”»18, e nonostante, ad oggi, vi sia chi sancisce, sostanzialmente, «l’impossibilità di costruire una unitaria dottrina dell’interpretazione, dovendosi separare la dottrina e la teoria dell’interpretazione dalla sua applicazione l’attività del giurista da quella del giudice, distinguere con riferimento all’interpretazione giudiziale il “contesto di decisione” da quello di “giustificazione”»19, appare opportuno, tuttavia, procedere ad un rapido 17 E. Paresce, sub voce Interpretazione, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1998, pp. 178 ss. 18 Cfr. F. Casa, Gli argomenti del giurista tra «premesse» e «strategie» interpretative, cit., p. 17. La citazione dell’Autore fa riferimento a E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, 1999, p. 307. 19 Cfr. F. Casa, Gli argomenti del giurista tra «premesse» e «strategie» interpretative, cit., p. 12. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x excursus orientativo, nel labirintico panorama relativo alla riflessione filosofico-giuridica italiana che, nell’immediato dopoguerra e nei decenni ad esso successivi, si è interessata in particolar modo della speculazione sulla teoria e sul metodo dell’interpretazione normativa, dei principali orientamenti speculativi che si sono a più riprese occupati di tale rilevante problematica. Al riguardo, è possibile procedere all’evidenziazione, che sarà oggetto più dettagliato del prosieguo del presente contributo, della configurabilità di una tripartizione di massima nella quale far confluire i differenti approcci operati dalla scienza giuridica di riferimento20: il primo indirizzo, la cui massima espressione è costituita dagli esiti della riflessione degli esponenti della Scuola di Torino, si può definire di matrice eminentemente «geometrica», si muove nell’orbita latamente intesa del positivismo giuridico, e, fondandosi su di una rappresentazione entusiasticamente normocentrica dell’esperienza giuridica, sfocia, ineludibilmente, in una concezione meccanicistica e matematizzante dell’interpretazione; il secondo indirizzo, maggiormente aderente alle istanze del realismo giuridico, nel porre quale cardine della propria indagine non solo le leggi ma anche i soggetti che con esse operano, e, in particolar modo, i giudici, focalizza la propria attenzione soprattutto sul modus operandi, nelle aule giudiziarie, dei soggetti titolari della funzione giurisdizionale attraverso la loro opera di interpretazione “politica” nell’applicazione delle leggi ai casi concreti prospettati; il terzo indirizzo, ancorato ad un approccio critico e filosofico della realtà sociale e giuridica, innesta nel tessuto dottrinale dello studio del dato normativo e del suo utilizzo concreto le istanze problematiche proprie della dialettica e dell’ermeneutica. 20 Per un generale inquadramento sistematico dello stato della cultura giuridica e filosofica italiana degli ultimi decenni si vedano, tra gli altri: L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma, 1999; Enrico Pattaro, Temi e problemi di filosofia del diritto, Bologna, 1994; F. Casa, Sulla giurisprudenza come scienza, Padova, 2005. 170 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) 2. La scuola di Torino Per quanto riguarda la Scuola di Torino, si ricorda che essa, sviluppatasi con esiti fecondi soprattutto a partire dagli anni Sessanta, può considerarsi in senso ampio inserita nel movimento – avviato negli anni Trenta in Inghilterra dal movimento di Oxford, ma operante anche al di qua della Manica per opera del Circolo di Vienna21 – che prende il nome di neopositivismo (o positivismo logico, o empirismo logico)22, e che si sostanzia in uno snodo attua21 Formatosi a partire dal 1923 grazie all’attività di insigni studiosi come M. Shlick, R. Carnap, e O. Neurath, il Circolo di Vienna vede il momento essenziale per la posizione delle proprie basi sistematiche nella lettura del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, e sviluppa successivamente un programma che trova massima espressione nel manifesto filosofico, datato 1929, sapientemente intitolato La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vienna, in cui vengono posti i cardini concettuali per una rifondazione su basi esclusivamente logiche ed empiriche dell’esistenza umana, e per la sua ricostruzione in un linguaggio unificato della scienza. 22 La filosofia analitica propria del neopositivismo si caratterizza per ambire, secondo un atteggiamento antiidealistico, ad un rigore metodico analogo a quello della scienza, e per il suo collocarsi, dunque, in una posizione non alternativa né conflittuale rispetto ad essa, ma anzi in una fitta rete di interazioni con le sue modalità operative e procedurali. Le idee comuni a tutti gli esponenti dell’empirismo logico possono, così, essere riassunte nell’utilizzo di un modo obiettivo di sviluppare le tematiche filosofiche che faccia impiego sistematico delle più rigorose tecniche di argomentazione e dimostrazione (ricorrendo anche agli strumenti della logica e della matematica); nel gusto per analisi minuziose e tematicamente ristrette piuttosto che per l’elaborazione di sintesi vaste o addirittura onnicomprensive; nella preminente attenzione rivolta verso il medium linguisticoespressivo delle proposizioni. Sulla base di tali assunti, e soprattutto con riferimento all’estrema importanza assegnata al compito di analizzare e chiarificare il funzionamento dell’espressione linguistica, il neopositivismo si sviluppa secondo linee di pensiero che sfociano nella convinzione che le uniche proposizioni dotate di senso siano quelle suscettibili di verifica empirica e fattuale (si parla in questo caso di “criterio di significanza”); nella certezza che la scienza, in quanto basata proprio sulla verifica, rappresenti l’attività conoscitiva per eccellenza, la sola forma possibile di razionalità, così che si definiscono senza senso le proposizioni della metafisica, in quanto trascendenti l’orizzonte dell’umanamente verificabile; nella considerazione della religione, dell’etica e della metafisica, per l’appunto, come attività che non forniscono conoscenze, risolvendosi in proposizioni L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x lizzante e modernizzatore di quel “romanticismo della scienza” che è carattere fisiologico proprio del positivismo filosofico23. La speculazione della Scuola di Torino, caratterizzandosi per il proprio gravitare nell’orbita “geometrica” del positivismo giuridico (o, per la precisione, del neoempirismo logico), adotta, in materia di interpretazione giuridica, una concezione rigorosamente scientifica, convenzionale, operativa e meccanicistica dell’azione interpretativa24. Il “normativismo” di tale scuola, ove per normativismo si intenda «quella corrente della filosofia giuridica in virtù della quale il diritto coincide con le norme poste in essere dal legislatore»25, prende infatti lo spunto da consistenti in mere manifestazioni esteriori di atteggiamenti emotivi, interiori, nei confronti dell’esistenza; nel principio, infine, per il quale la filosofia non è una scienza, ma un’attività avente funzione chiarificatrice, finalizzata ad analizzare il linguaggio “sensato” della scienza e a denunciare il linguaggio “insensato” della metafisica. Per maggiori dettagli sui singoli esponenti del neopositivismo si rinvia a N. Abbagnano, Filosofi e filosofie della storia, Torino, 1996, vol. III, pp. 491 ss. 23 Ci si limita a ricordare, in questa sede, che le convinzioni di fondo dei sostenitori di questo movimento, come osserva N. Abbagnano (Filosofi e filosofie della storia, cit., vol. III, pp. 281-282), sono le seguenti: «a) la scienza è l’unica conoscenza possibile ed il metodo della scienza è l’unico valido: pertanto il ricorso a cause o princìpi che non siano accessibili al metodo della scienza non dà origine a conoscenza; e la metafisica, che fa appunto tale ricorso, è priva di valore; […] b) la filosofia tende a coincidere con la totalità del sapere positivo, o, più specificamente, con l’enunciazione dei principi comuni alle varie scienze. La funzione peculiare della filosofia consiste quindi nel riunire e nel coordinare i risultati delle singole scienze, in modo da realizzare una conoscenza unificata e generalissima; […] c) il metodo della scienza, in quanto è l’unico valido, va esteso a tutti i campi, compresi quelli che riguardano l’uomo e la società; […] d) il progresso della scienza rappresenta la base del progresso umano e lo strumento per una riorganizzazione globale della vita in società». 24 Per un’ampia bibliografia degli studi sulla Scuola di Torino, cfr. F. Casa, Dalle scienze cognitive alle applicazioni giuridiche dell’intelligenza artificiale, in U. Pagallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, Padova, 2003, p. 72. In particolare, si segnalano in questa sede: E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1983, pp. 247-254; F. Gentile, La cultura giuridica italiana tra scienza e storia¸ in “Incontri culturali”, anno XIII, 1980, n. 1-2; F. Gentile, Per fare il punto sulla filosofia giuridica e politica degli anni settanta, in “Archivio giuridico”, CXXIII/1, 1977. 25 F. Casa, Dalle scienze cognitive alle applicazioni giuri- 171 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) una rappresentazione volontaristica, formale e risolutamente convenzionale – trattasi di un vero e proprio postulato indiscutibile, necessario affinché l’intera costruzione sistematica possa resistere ad ogni critica – del giuridico26, secondo la quale è diritto quanto sia concretamente posto, efficace e suscettibile di applicazione in virtù dell’ordine vincolante impartito da chi detiene il potere: in altri termini il diritto è, in un simile approccio antimetafisico e razionale, il solo diritto positivo, quale prodotto normativo vincolante, espressivo-linguistico, compiuto e completo, da sottoporre a rigoroso studio scientifico27. Ora, se per i seguaci della scuola analitica tutto il diritto si esaurisce nel diritto positivo (secondo l’insegnamento quod non est in lege, nec in iure), allora la teoria dell’interpretazione giuridica si sostanzia necessariamente nella teoria dell’interpretazione diche dell’intelligenza artificiale, in U. Pagallo (a cura di), Prolegomeni di informatica giuridica, cit., pp. 110-111. 26 Si vedano, al riguardo, le efficacissime parole di F. Gentile (Intelligenza politica e ragion di Stato, cit.), secondo cui «la presenza di un insieme coercitivo di norme, effettivamente funzionante nelle sue grandi linee, costituisce la conditio sine qua non dell’ordinamento giuridico che verrà elaborato dalla scienza giuridica». L’Autore continua (Ibidem, p. 158) dichiarando che «una concezione scientifica del diritto che assuma il dato di fatto di un vigente sistema cogente di norme risolve inevitabilmente la propria ricostruzione in una «elaborazione di un sistema logico per ‘adoperare’ il diritto effettivamente esistente». 27 Ancora una volta sono le parole di F. Gentile (cfr. Intelligenza politica e ragion di Stato, cit., p. 155) a chiarire nel modo migliore quanto si viene dicendo in ordine all’oggetto, alla scientificità e alla convenzionalità dell’analisi dell’esperienza giuridica che contraddistinguono la Scuola di Torino. Assimilando efficacemente il modus operandi del “normativista” giuridico a quello del fisico, infatti, l’Autore afferma che «quello del perché un uomo libero si deve comportare nel modo previsto da una norma, non è problema che interessi la scienza giuridica, più di quanto interessi la scienza fisica il perché un grave lasciato libero nell’aria deve cadere a terra. Giacché, come le molte cadute dei gravi lasciati liberi nell’aria costituiscono i fatti che la scienza fisica non mette in discussione ma si propone di dominare, unificandoli mediante la loro rappresentazione sulla base di un principio ipotetico, così i molti comportamenti conformi alle norme degli uomini liberi costituiscono i fatti che la scienza giuridica non mette in discussione ma si propone di dominare, unificandoli mediante la loro rappresentazione sulla base di un principio ipotetico». L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x del diritto positivo, così come la scienza giuridica non può non coincidere con la scienza della norma, ossia con uno studio dettagliato del testo di legge. L’indagine del giurista si focalizza, quindi, sul dato normativo, che, al fine di essere meglio compreso, viene scomposto e ricomposto nelle sue unità strutturali-linguistiche di matrice grammaticale, sintattica, semantica. L’attività di interpretazione della legge è dunque sostanzialmente assente, risolvendosi in un puro esercizio grammaticale, linguistico, logico. Gli esiti normativistici della Scuola di Torino si risolvono così in una rappresentazione dell’esperienza giuridica nella quale non vi è alcuno spazio per un’autentica attività interpretativa. L’interprete, secondo il pensiero di tale movimento, non scopre nulla di nuovo nel testo di legge che analizza, ma si limita ad un’opera “meccanica”, ricognitiva di esso, il cui esito consiste nell’esplicitare, attraverso un ragionamento “matematico” marcatamente sillogistico, ciò che, già contenuto nella norma sin dalla sua formazione ad opera della manifestazione di volontà del Legislatore, a causa di disfunzioni di vario genere – linguistiche, grammaticali, sintattiche, ecc. – la disposizione non ha chiaramente espresso sì da risultare ambigua e polisensa. Egli si limita, sulla base delle proprie profonde conoscenze della struttura del linguaggio normativo, ad “estrarre” dall’errore nella redazione del testo legislativo il contenuto originario e completo della legge, rivelandosi così un tecnico che certamente “ascolta” con orecchio attento la voce più profonda della legge, ma che non può in alcun modo, pena la violazione del principio volontaristico della presa d’atto del vigore della legge stessa così come essa è posta, lasciare l’impronta della propria mano, della propria sensibilità, del proprio spirito. Una delle figure di maggior spicco dell’indirizzo di pensiero della Scuola di Torino, nonché dell’intero panorama filosofico della cultura italiana del secondo dopoguerra, è senza alcun dubbio Norberto Bobbio28. Autentico 28 Per una completa bibliografia delle opere di Bobbio, si veda C. Violi (a cura di), Bibliografia degli scritti di Norberto Bobbio: 1934-1993, Roma, 1995. In particolare, con ri- 172 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) scienziato del diritto, convinto che la filosofia debba fungere solamente da supporto teorico all’operatività della scienza, definita come «un sistema di proposizioni, di cui sono esattamente definite le proposizioni iniziali e le regole di trasformazione delle proposizioni, e che si svolge coerentemente con le premesse poste e le regole date»29, così che «una ricerca si dirà scientifica non già per la verità che essa abbraccia, ma per il rigore con cui procede»30, Bobbio vede nell’esperienza giuridica un complesso di regole di comportamento cogenti in un dato tempo e in un dato luogo, cioè un ordinamento coattivo di disposizioni linguistiche positive che lo scienziato del diritto ha il compito di porre ad oggetto esclusivo delle proprie ricerche. La scienza del diritto deve dunque, per L’Autore, innestare nel peculiare oggetto della propria analisi le stesse procedure della scienza genericamente intesa, e così perseguire lo scopo di rendere il più rigoroso possibile – e in tal modo di purificare – il linguaggio del legislatore: proprio in ciò consiste la specificità dell’attività di interpretazione delle leggi. È sufficiente, al riguardo, a conferma del fatto che Bobbio risulta un convinto positivista, sottolineare ulteriormente come per il filosofo torinese il compito interpretativo si snodi nei tre passaggi, necessari e successivi l’uno rispetto all’altro, della purificazione, del completamento, e della riconduzione a sistema delle disposizioni linguistiche legislative, e come, per questa via, egli dimostri di concepire l’interpretazione della legge come un’operazione tecnica e meccanica che finisce per fare del giurista «puramente e semplicemente un ritrovatore di norme giuridiche già implicite nel sistema normativo dato»31. ferimento ai testi bobbiani relativi specificatamente alla questione interpretativa, si indicano: Teoria della scienza giuridica, Torino, 1950; Teoria della norma giuridica, Torino, 1958; Il positivismo giuridico, Torino, 1979; Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1984. 29 Cfr. N. Bobbio, Teoria della scienza giuridica, cit., p. 29. 30 Ibidem. 31 Ibidem, pp. 179-189. È opportuno segnalare, inoltre, anche la figura del più brillante allievo di Norberto Bobbio, Uberto Scarpelli, l’opera del quale, per la comprensione delle cui tendenze neopositivistiche è sufficiente la mera lettura dei titoli dei principali contribu- L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x 3. Il giusrealismo analitico italiano Per quanto riguarda il giusrealismo analitico italiano – il secondo movimento che ha maggiormente influito sulla moderna concezione dell’interpretazione giuridica nel panorama culturale italiano – va osservato che esso risulta maggiormente aderente alle concezioni, radicalmente antimetafisiche e antipositivistiche, proprie di quel particolare movimento giusfilosofico risalente al secondo dopoguerra, e particolarmente vivace sino agli anni Settanta, operante sia oltreoceano (negli Stati Uniti d’America) sia in Europa (in Scandinavia), che si palesa rivolto al tentativo di contrastare, sotto diverse angolazioni, i risultati raggiunti dal neoempirismo logico e dalla scuola analitica del diritto32. ti (si vedano: Cos’è il positivismo giuridico, Napoli, 1997; L’etica senza verità, Bologna, 1982: Filosofia analitica e giurisprudenza, Milano, 1953; Diritto e analisi del linguaggio, Milano, 1976; Contributo alla semantica del linguaggio normativo, Milano, 1985; Il linguaggio del diritto, Milano, 1994), e che soprattutto nella sua prima parte si è svolta all’insegna della più profonda continuità rispetto agli insegnamenti di Bobbio, in una successiva fase del suo sviluppo, senza tradursi semplicemente in una mera conferma e ripetizione dei convincimenti raggiunti dal filosofo torinese, acquisisce un’autonomia speculativa affatto rilevante quanto a profondità analitica ed originalità. Se da un lato Scarpelli infatti, senza alcun dubbio sulle orme di Bobbio, pone, nei primi anni del proprio lavoro accademico, la filosofia analitica e la scienza giuridica al centro del proprio sistema speculativo e alla base di un rigoroso positivismo giuridico di impronta metodologica, che si traduce nella nota definizione (cfr. Che cos’è il positivismo giuridico, cit., p. 88.) per cui «non si fa una scienza del diritto come scienza del diritto positivo perché interessa conoscere scientificamente il diritto positivo e quindi se ne fa la scienza, ma si fa la scienza come scienza del diritto positivo perché interessa fare la scienza del diritto positivo e trovando nel diritto positivo l’oggetto che la rende possibile, le si assegna appunto questo oggetto», dall’altro lato, però, egli, ancora più del proprio maestro, esasperando e portando alle estreme conseguenze le istanze di “modernizzazione” del positivismo giuridico rivendicate dalla filosofia analitica neopositivista, si dimostra particolarmente interessato alle problematiche relative al linguaggio giuridico, alla sua struttura, nonché alla sua “depurazione”, funzionale al perseguimento della massima certezza giuridica, ad opera degli interpreti. 32 Per una dettagliata e minuziosa disamina delle speci- 173 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Considerando l’esperienza giuridica come ficità delle convinzioni dei giusrealisti americani, si veda G. Tarello, Il realismo giuridico americano, Milano, 1962: al riguardo, in questa sede è sufficiente indicare i nomi di Walter Wheeler Cook, William O. Douglas, Jerome Frank, Max Radin, Felix Salten Cohen, e soprattutto Karl N. Llewellyn. I principali esponenti del realismo giuridico scandinavo furono, invece: Axel Hägerström, il fondatore del movimento, il cui pensiero antimetafisico si può riassumere nella massima praeterea censeo metaphysicam esse delendam, e la cui tesi essenziale è che il diritto positivo è soltanto un sistema di regole per gli organi dello Stato, risolvendosi il fenomeno giuridico, in tutti gli altri casi, in un’idea falsa, in un’idea di poteri soprasensibili di carattere per così dire “magico”, così che i concetti di cui si avvale la scienza giuridica sono entità metafisiche cui non corrisponde assolutamente nulla di reale; Vilhelm Lundstedt, autore di un libro dall’emblematico titolo La non scientificità della scienza giuridica, che esaspera le tesi di Hägerström, sostenendo che tutta la scienza giuridica moderna è non scientifica, che i diritti e gli obblighi non esistono, che l’unica cosa reale è la “macchina del diritto”, ossia uno strumento di organizzazione della forza per il conseguimento di certi scopi di carattere sociale, e che, nello specifico, «le “norme giuridiche” non sono altro che l’espressione della protezione che in certe circostanze lo stato offre a certe utilità dei soggetti che così ne ricavano una situazione di vantaggio» (cfr. E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, cit., p. 245); Karl Olivecrona, il quale, si caratterizza, da un lato, per aver definito il diritto come tecnica di organizzazione della forza e non come tecnica del controllo sociale costituente il prodotto della forza preminente in un dato momento storico in un dato ambiente, dall’altro, e soprattutto, per aver fornito ai propri studi un’angolazione di carattere prevalentemente analiticolinguistico. Infine, va citato Alf Ross, allievo sia di Hans Kelsen che di Hägerström, il quale si rivela come il più originale e “indipendente” fra i seguaci della scuola giuridica scandinava: risentendo tanto degli insegnamenti del più rappresentativo “geometra” legale del secondo dopoguerra quanto delle convinzioni del fondatore della scuola di Uppsala, Ross sviluppa un pensiero che, seppur saldamente ancorato ad una visione empiristica e realistica del fenomeno giuridico, differenziandosi da quello dei tre filosofi svedesi sopra esaminati si avvicina, per certi versi, al realismo giuridico americano. Egli, infatti, in perfetta consonanza di vedute con il principio fondamentale del giusrealismo d’oltreoceano, sostiene che la validità delle norme giuridiche è data dal fatto che le norme stesse siano effettivamente applicate dai tribunali: «una norma giuridica è valida quando è sentita come obbligatoria da parte dei giudici e (perciò) è probabile che in futuro verrà applicata: in altre parole “esistono” (in quanto norme) quelle che sono sentite dai giudici come tali e si presentano come criterio di giudizio anche (probabilmente) per i casi futuri» (cfr. G. Tarello, sub voce Realismo giuridico, in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1959, p. 933). L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x un’esperienza non normativa ma esclusivamente fattuale, fortemente convinti che «nella realtà il diritto […] esiste solo come meccanismo sociale»33 di organizzazione della forza «che mira ad ottenere determinati tipi di condotta»34, e ritenendo che la fattualità cogente del diritto consista dunque nel condizionamento di natura psicologica cui i suoi destinatari sono assoggettati per opera delle decisioni giudiziarie, i giusrealisti vedono nelle norme giuridiche non tanto dei comandi provenienti da chi detiene il potere, obbligatori e vincolanti, il cui rispetto da parte dei loro destinatari faccia funzionare la macchina del diritto, quanto, piuttosto, delle rappresentazioni di comportamenti espresse in forma imperativa, il cui rispetto, la cui efficacia, cioè, sulla condotta degli uomini, non determina, come effetto, il funzionamento del sistema giuridico, ma anzi «dipende dalla esistenza e dal regolare funzionamento del diritto come meccanismo e realtà sociale, cioè dalla esistenza di forze sociali organizzate per il raggiungimento di determinati scopi»35. Sulla base di tali convincimenti, inoltre, il giusrealismo italiano si concentra non più sulla legge, e sul suo dettato linguistico, ma sul giudice e sulla sua attività concreta di interpretazione del diritto: poiché il diritto non è “dato” staticamente né “bloccato” in una serie di disposizioni, ma è creato dagli operatori di giustizia con la progressiva stratificazione dei provvedimenti conclusivi dei processi, allora l’attività di interpretazione del diritto deve passare dall’analisi delle norme poste all’analisi dei procedimenti con cui i giudici, i più attivi protagonisti della realtà giuridica, “danno vita” al diritto da interpretare. Conseguentemente, in modo diametralmente opposto rispetto alle istanze della Scuola analitica di Torino, il giusrealismo vede nell’interpretazione giudiziale della legge non più una meccanica operazione logicosillogistica di estrazione dal testo normativo di ogni contenuto in esso implicito, operata da un giurista vincolato ai dettami della voluntas 33 S. Castignone, Diritto, linguaggio, realtà. Saggi sul realismo giuridico, Torino, 1995, p. 245. 34 Ibidem. 35 Ibidem, p. 247. 174 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) legis, ma un’attività autonomamente creativa di diritto, operata, sulla base di scelte soggettive di “politica giudiziaria”, nel momento il cui diritto stesso “si fa vita” concreta, cioè all’interno delle aule di giustizia, dai tribunali chiamati ad applicare la legge. Poiché la logica giuridica non coincide con la logica formale, l’interpretazione della legge non va condotta secondo lo stretto rigore del sillogismo giuridico, ma – inevitabilmente – secondo altri e diversi principi guida, quali la soggettività, i sentimenti, la psicologia, le opzioni di natura latamente “politica” dei singoli giudici, al punto che per tale via vi è «la possibilità da parte della magistratura di arrivare a conclusioni diverse partendo dalle stesse premesse»36. L’interpretazione, pertanto, ha carattere “politico”, creativo e giudiziale: «non solo la sua validità è condizionata dall’opera dei tribunali, ma si può dire che, senza il controllo di questi, “l’ideologia interpretativa” non ha alcun vigore. […] Un’interpretazione dottrinale o scientifica non potrebbe avere un qualsiasi sbocco»37. Il filosofo maggiormente rappresentativo appartenente al giusrealismo analitico italiano è senz’altro Giovanni Tarello (1934-1987)38, il cui pensiero in materia di interpretazione prende l’avvio dalla critica nei confronti del neopositivismo logico della Scuola di Torino: il diritto, secondo l’Autore, non è suscettibile di alcuna definizione concettuale ed esclusivamente normativa, configurandosi piuttosto, sulla base di una sua lettura fenomenica e non astrattizzante, come un concreto insieme non sistematico di regole normative finalizzate a disciplinare le relazioni intersoggettive. Inoltre, per Tarello non è possibile fornire una definizione “tradizionale” di norma giuridica, per il fatto che, nella realtà dell’esperienza, vi 36 Ibidem, p. 27. 37 E. Paresce, sub voce Interpretazione, in Enciclopedia del diritto,cit., p. 201. 38 Per la completa bibliografia di Tarello si rimanda a M. Caserta, Giovanni Tarello. Teoria, ideologie e metagiurisprudenza, Napoli, 2001, pp. 131-145; per quanto riguarda, invece, le opere dell’Autore attinenti specificamente all’oggetto del presente contributo, si indicano, tra le tante: Il realismo giuridico americano, cit.; Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna, 1974; L’interpretazione della legge, Milano, 1980. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x è una netta differenza, mediata dall’interpretazione, tra ciò che è la disposizione normativa e ciò che è la norma. La disposizione normativa è infatti un enunciato, il testo di legge in sé e per sé considerato, ossia l’espressione linguistica in forma compiuta che il giurista si impegna ad analizzare e interpretare o applicare “in senso normativo”, e che, prima dell’intervento pratico dell’operatore di diritto, racchiude nel proprio nucleo linguistico una pluralità di significati possibili. La norma è, invece, una comunicazione precettiva esprimente il significato – quel singolo, specifico significato – che emerge in virtù dell’interpretazione della disposizione normativa che sia stata effettuata. L’Autore, al riguardo, è chiarissimo: «La norma non ha un significato per la buona ragione che è (null’altro che) un significato. La norma è il significato di un segmento di linguaggio in funzione precettiva, enunciato da un documento in lingua. […] Per cui non si può parlare affatto di interpretazione della norma ma solo di interpretazioni di enunciati in lingua, di documenti (di leggi, di sentenze, di raccolte di consuetudini): il processo interpretativo si esercita su di un enunciato, procede a partire da un enunciato e perviene alla norma; la norma non precede come dato, bensì segue, come prodotto, il processo interpretativo»39. Se, dunque, nel pensiero di Tarello, il diritto non vive, nella prassi, se non nel momento in cui le disposizioni normative si tramutano in norme per effetto dell’attività interpretativa, ne esce enormemente valorizzato il ruolo che l’interpretazione assume, concretamente, effettivamente, nel mondo del diritto: l’interprete è l’artefice primo della dinamica e della concreta esperienza giuridica, in quanto è il responsabile della trasformazione della disposizione – priva di qualsiasi significato, ma in potenza suscettibile di contenerne una enorme pluralità perché in “attesa” di essere interpretata da un singolo operatore giuridico – in norma, cioè, in sostanza, in significato. In altri termini, secondo Tarello l’interpretazione non è un’attività meramente ricognitiva di significato, ma è un’attività “ascrittiva” di significato 39 Cfr. G. Tarello, Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, cit., p. 57. 175 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) (agli enunciati), e, dunque, “creativa” (di significato, cioè di norme). Queste osservazioni confermano, dunque, la dirompente rilevanza, stante l’inevitabile ed ineliminabile ruolo di mediazione che l’interpretazione riveste nell’esperienza giuridica, del ruolo svolto dai giudici-interpreti nella vita del diritto. Inevitabile, in una simile situazione, l’ingresso, nella norma scaturita da una simile interpretazione giudiziale, delle opzioni latamente “politiche” di cui ogni organo giudicante è “intriso”. Ecco perché si parla, relativamente al pensiero di Tarello, e, in modo più ampio, relativamente a quello dei giusrealisti, di “interpretazione politica” della legge: l’atto interpretativo di ascrizione di significato all’enunciato di un documento normativo è, per sua natura, indissolubilmente legato alla soggettività, alla cultura, alla preparazione professionale, ai pregiudizi, anche all’onestà, e, in una parola alla visione “politica” dell’interprete stesso. Ecco perché si parla, facendo riferimento all’attività interpretativa operata dalla magistratura, di “governo dei giudici”40. 40 Conviene segnalare, tra gli esponenti del giusrealismo analitico italiano, anche Riccardo Guastini, la cui produzione scientifica (di cui si indicano le seguenti opere: Realismo giuridico e analisi del linguaggio, Genova, 1990; Lezioni sul linguaggio giuridico, Torino, 1985; Critica del diritto e analisi del linguaggio, Bologna, 1982; Lezioni di teoria analitica del diritto, Torino, 1982; Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, 1993; Dalle fonti alle norme, Torino, 1992; L’analisi del ragionamento giuridico. Materiali ad uso degli studenti, Torino, 1989) risulta, in senso assai generale, e pur nella sua personale specificità, tendenzialmente rivolta allo sviluppo dei principali convincimenti di Tarello. Se si possono cogliere delle differenze fra i due Autori, esse vanno ricercate in primo luogo nella maggiore attenzione rivolta da Guastini allo studio del realismo giuridico scandinavo, e in secondo luogo in un approccio maggiormente analitico nei confronti dell’analisi dell’esperienza giuridica, soprattutto sul versante della teoria del linguaggio giuridico-normativo. Con riferimento specifico a tale secondo aspetto, Guastini approfondisce in modo particolarmente intenso – nell’ambito delle problematiche attinenti all’interpretazione dei testi normativi – gli studi sul linguaggio normativo: egli, in effetti, presa coscienza della rilevanza dell’opera ermeneutica giudiziale nell’attività interpretativo-creativa del diritto, nonché del fatto che l’interpretazione è un’attività di produzione di norme, si dedica soprattutto – a fini di “terapia” del linguaggio – all’analisi della struttura, dei difetti, delle correzioni da apportare al linguaggio giuridico in cui si esprimono L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x 4. L’ermeneutica giuridica Per quanto riguarda l’ermeneutica giuridica, ossia la terza corrente di pensiero relativa agli studi in materia di interpretazione giuridica che sono oggetto del presente contributo, è opportuno segnalare che si tratta di una particolare tipologia di speculazione che, da qualche decennio, germinando dall’ermeneutica tout court, è assai feconda di approdi conoscitivi, e che, dal punto di vista della metodologia di indagine, si rivela essere in grado di impiegare quella capacità di sviluppare, da un nucleo di opinioni predeterminate, una nuova e maggiormente compiuta rappresentazione del medesimo problema originario la quale, partendo dal pregresso bagaglio conoscitivo, e nel contempo partecipandone, se ne distacchi divenendo altro rispetto ad esso superandone nel contempo le aporie, che è carattere proprio del più alto e profondo filosofare41. le disposizioni normative da interpretare nella prassi giudiziaria. Egli sostiene (cfr. Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., p. 348) che «i problemi fondamentali di ogni interpretazione testuale nascono dalla vaghezza e dalla ambiguità dei testi soggetti ad interpretazione. La vaghezza attiene al significato, e dunque alla semantica, dei vocaboli e dei linguaggi. L’ambiguità, a sua volta, può dipendere dal significato dei vocaboli e dei sintagmi (ambiguità semantica), dalla sintassi degli enunciati (ambiguità sintattica), o dal contesto d’uso degli enunciati (ambiguità pragmatica)». L’interpretazione dei testi normativi da cui emergono le norme, ossia i significati delle disposizioni prese in esame, sarà così tanto più ardua quanto più “difettoso” sarà il linguaggio utilizzato dal legislatore: di qui la necessità, per l’interprete che voglia operare con piena cognizione di causa senza cadere nelle “trappole” tese dalle imperfezioni linguistiche dei testi di legge, di giungere a conoscere la più intima struttura del linguaggio in cui essi esplicitano il proprio “messaggio” da interpretare. 41 È noto come la forma mentis di chi ambisca ad essere autenticamente e genuinamente filosofo – secondo le linee ereditarie del precipitato speculativo classico che storicamente, partendo da Socrate per giungere a Platone e passando per Aristotele, delinea i tratti essenziali propri anche del pensiero moderno e contemporaneo – sia caratterizzata dalla convinzione che la “Verità” vi sia, che tutto non possa non gravitare nell’orbita di valori “metafisici” assoluti che fungono da guida e da punti di riferimento nell’agire e nel pensare umani, e che, conseguentemente, l’uomo, irrimediabilmente immerso, nella realtà, in una complessa e inestricabile stratificazione di continue rappresentazioni e opinioni 176 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Nel prendere atto del fatto che, oggi, costituisce un dato assodato e incontestabile la consapevolezza che il “problema interpretativo” è assolutamente coessenziale alla natura dell’essere umano42, nel constatare, in altri tersulla realtà stessa, per potersi avvicinare alla Verità su ciascuna di esse debba operarne una perenne, infaticabile radicalizzazione problematica e critica, abbattendo la barriera di tutti i preconcetti scientistici che spesso ne inquinano la trasparenza e la nitidezza. In un simile processo di approfondimento problematico emerge inevitabilmente, quale fondamentale ed imprescindibile baluardo metodologico di cui ogni filosofo deve essere “armato”, la necessità di calarsi dialogicamente, dialetticamente interrogando e interrogandosi nel contesto profondo dell’opinione analizzata, senza che residui lo spazio distorcente proprio di pregiudizi aprioristicamente ancorati ad una limitata prospettiva nei confronti della rappresentazione della realtà sottoposta a “critica”. Lungo questo percorso, cogliendo cioè proprio dall’interno di ogni rappresentazione (o opinione) della realtà (o sulla realtà) la sua maggiore o minore coerenza, sia rispetto a se stessa sia rispetto al novero delle altre rappresentazioni o opinioni afferenti alla medesima problematica di riferimento, il filosofo riesce dunque a scoprire nelle opinioni ciò che opinabile non è, ossia la Verità, sottesa ad ogni conseguimento conoscitivo e, anzi, parametro latente e silenzioso, guida geneticamente istintiva per l’emergere proprio di qualsiasi approdo valutativo e speculativo. Tale conseguimento e tale approdo, peraltro, non comportano l’abbandono tout court della rappresentazione (o opinione) stessa in quanto parziale. Da un lato, infatti, l’atteggiamento filosofico autentico si traduce senz’altro nel disvelamento dell’essenza prima di ogni cosa rappresentata attraverso la radicalizzazione del problema cui l’opinione ha fornito una risposta fallace o incompiuta, l’evidenziazione delle sue aporie e della sua parziarietà, il superamento della sua pretesa indiscutibilità, e il raggiungimento di conclusioni “altre” e più esaustive rispetto ad essa. Dall’altro lato, però, esso non può, in quanto inscindibilmente gettato nel nucleo più profondo del problema stesso da cui è sorta la rappresentazione che è stata “filosoficamente” problematizzata, ripudiare, in virtù del suo superamento, l’opinione che ha fornito risposta al problema. Il metodo filosofico conoscitivo autentico, in altri termini, non rifiuta radicalmente mai nessuna opinione, limitandosi a “svilupparla” ove ne rilevi la contraddittorietà o l’insufficienza rispetto agli scopi che essa si era prefissi, per andare oltre – senza cancellarla – la sua finitezza, e per giungere così alla Verità sul suo oggetto. 42 D’altra parte – e a riprova della giustificatezza di un simile generalizzato convincimento – è sufficiente prendere in considerazione la storia del pensiero filosofico, dalle sue origini ad oggi, per rendersi conto di come il problema interpretativo, pur con le inevitabili differenze, estensioni ed amputazioni che ogni specifi- L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x mini, che agli albori del terzo millennio si può legittimamente affermare che il risultato di secoli di speculazione consiste nella certezza che l’uomo, e, con esso, la società, non possono “darsi” senza la mediazione interpretativa, per il fatto che, assai semplicemente, esistere è, necessariamente, anche interpretare43, l’erco contesto storico-culturale ha riverberato sull’oggetto di tali studi, abbia sempre tagliato trasversalmente, nel corso dei secoli, come una sorta di indispensabile e perennemente irrisolta tensione intellettuale comune a tutte le speculazioni, ogni forma di riflessione dell’essere umano su se stesso e sulle proprie azioni. Al riguardo, per una breve ma esaustiva sintesi della storia dell’ermeneutica, si rimanda, in particolare, alle pagine di N. Abbagnano (Storia della filosofia, cit. vol. VII, pp. 2-8), nonché al volume di G. Mura, Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Roma, 1990, oltre che a G. Gusdorf, Storia dell’ermeneutica, trad. it., Roma-Bari, 1989. In questa sede ci si limita a ricordare che l’ermeneutica, che in una prima fase della propria evoluzione rimase strettamente legata agli studi relativi all’efficacia delle espressioni linguistiche e all’esperienza del trasmettere i messaggi, fu sostanzialmente trascurata nel Medioevo cristiano e scolastico, per trovare solo nel Rinascimento quel fermento culturale idoneo a farla emergere quale disciplina autonoma rispetto a tutte le altre forme affini di sapere. Pur avendo mantenuto l’ermeneutica ancorata ad applicazioni riferite solamente all’interpretazione e all’esegesi dei testi sacri, il Rinascimento contribuì a porre le basi per la svolta universalistica che il Settecento, latore di un forte fermento razionalistico, impresse a tale scienza filosofica, legittimando il suo sviluppo anche con riferimento all’interpretazione non solo di qualsiasi testo, ma anche di qualsiasi segnale espressivo-comunicativo calato nell’esperienza umana. Lungo questa direttrice, e attraverso l’opera di illustri pensatori quali Friederich Schleiermacher, Wilhlem Dilthey, Martin Heidegger, l’ermeneutica progredì verso un’autoreferenzialità e una portata filosofica sempre maggiori nell’ambito del panorama culturale moderno, fino ai nostri giorni, in cui sembra ormai quasi impossibile riuscire a districarsi e ad orientarsi, nella sterminata rete di comunicazioni e messaggi da cui siamo bombardati, senza l’apporto di una “scienza” che si dedichi in via esclusiva a chiarire i percorsi filosofici e metodologici necessari per avvicinarsi ad una corretta interpretazione di ognuno di essi. 43 È particolarmente interessante notare come l’idea per cui la questione interpretativa risulta umanamente imperscindibile trovi un lucido precursore nella figura carismatica e contraddittoria di Nietzsche. Il filosofo che più di ogni altro, nella storia della filosofia moderna, è riuscito, col proprio argomentare tagliente e profetico, a distruggere ogni certezza e a svelare all’uomo l’illusorietà dei suoi convincimenti (Nietzsche giunse a sostenere che le certezze degli uomini non sono che i 177 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) meneutica contemporanea deve concepirsi come la coscienza esplicita e filosofica del “fatto dell’interpretazione”, cioè come la coscienza umana di «sapersi teoreticamente pensiero interpretante»44 e come metodologia pienamente consapevole di se medesima: essa costituisce un «tipico parto della modernità»45, da cui scaturisce l’esito secondo il quale la filosofia dell’uomo non può non essere una filosofia dell’interpretazione. Si assiste così, ai nostri giorni, quale esito di tale acquisita coscienza dell’ineliminabilità dell’atto interpretativo come coessenziale all’esistenza umana, non solo all’intensificarsi – come mai prima nella storia del pensiero filosofico – degli studi sull’ermeneutica, ma addirittura al proliferare delle “ermeneutiche”: dall’ermeneutica generale, preoccupata di cogliere le basi per una propria “autofondazione” filosofica, all’ermeneutica relativa a discipline più o meno circoscritte a specifici settori, all’ermeneutica che cerca di inserirsi in nuovi ambiti – come la medicina e la psicologia – che sempre più cercano nuovi collegamenti con la filosofia. Ma la più rilevante differenziazione di cui bisogna prendere atto è senza dubbio quella tra l’ermeneutica ontologica e l’ermeneutica metodologica: se la prima è rivolta a tracciare i confini di un pensiero rigorosamente filosofico volto a delineare l’essenza dell’uomo inteso come essere che in quanto esiste, interpreta, e che, in quanto interpreta, esiste46, la seconda, loro errori inconfutabili), oltre ad affermare l’impossibilità di esprimere in forma compiuta e corrispondente all’intuizione avuta qualsivoglia pensiero, ritiene infatti che nel mondo non esistano solo fatti, bensì solo interpretazioni, legittimando così una concezione dell’esperienza umana irrimediabilmente marcata, nella propria struttura più profonda, dal carattere interpretativo di ogni pensiero, azione, accadimento. 44 N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., vol. VII, p. 2. 45 Ibidem. 46 Il massimo esponente della moderna ermeneutica ontologica – sviluppatasi sulla scia della totale radicalizzazione heideggeriana del fenomeno interpretativo, per cui «l’interpretazione è l’articolazione o lo sviluppo interno della comprensione, attraverso cui “la comprensione, comprendendo, si appropria di ciò che ha compreso”» (cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., vol. VII, p. 7, in cui l’Autore fa riferimento alle parole di L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x Heidegger contenute nel paragrafo 32 di Essere e Tempo) –, è senza dubbio Hans Georg Gadamer (1900-2002), che è legittimamente annoverato fra i massimi pensatori del ventesimo secolo. Nel suo capolavoro, Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica (tradotto in italiano per la prima volta nel 1971), Gadamer sviluppa un complesso itinerario configurante un’ermeneutica filosofica che bandisce risolutamente dai propri scopi ogni velleità metodologica concentrandosi, in via esclusiva, sull’intento di chiarire le strutture trascendentali del comprendere, ossia i modi d’essere in cui si concretizza il fenomeno interpretativo. Convinto che l’uomo sia intrinsecamente “gettato”, senza possibilità alcuna di uscirne, nella finitudine della storia, così che l’essere “gettati nel mondo” di Heidegger diviene un essere gettati nella “storia”, in modo che «non è tanto la storia che appartiene a noi, ma noi che apparteniamo alla storia», Gadamer afferma, inoltre, che l’esistenza stessa non si dà, e non si può dare, senza il linguaggio: esso non è solo uno strumento di comunicazione, ma la dimensione ineliminabile in cui l’essere si apre al mondo e comincia davvero ad esistere in quanto tale, è, cioè, la totalità onniabbracciante di io e mondo, che si dispiega – nella storia – secondo le forme linguistiche del rapporto dialogico domanda-risposta (Gadamer stesso afferma che «in verità noi siamo sempre di casa nella lingua», e che «chi ha linguaggio ha il mondo»). Il comprendere, a sua volta, non è, per Gadamer, uno dei tanti possibili atteggiamenti dell’uomo nell’esperienza, ma è piuttosto il modo di essere dell’esistenza umana come tale, un modo di essere costitutivo dell’esistenza nella sua storicità, nella sua finitezza, e nel suo darsi linguisticamente nel corso della storia: esistere è comprendere nella storia e nel linguaggio. Tale profonda storicità-linguisticità del comprendere umano, attraverso cui l’uomo, per mezzo del linguaggio e nel linguaggio, esiste e percepisce la propria esistenza (nella storia, nel linguaggio e col linguaggio), si attua mediante un perenne “circolo ermeneutico” in virtù del quale, mediante la dialettica domanda-risposta, stante la continuità fluida tra presente e passato – per cui la “lontananza temporale” fra essi è mediata dalla “tradizione storica” nella cosiddetta “fusione degli orizzonti” – la “cosa” da interpretare, già filtrata sulla base della “precomprensione” che la sua distanza storica dall’interprete immette nel modo di quest’ultimo di approcciarsi ad essa, nel contempo influenza ed è influenzata dall’interprete stesso: in pratica il suo essere già parte della tradizione storica genera la precomprensione dell’interprete, mentre l’interprete, avvicinadosi alla cosa intriso dai pregiudizi di tale precomprensione, interrogherà la cosa dalla propria particolare prospettiva temporale, e perverrà così ad un esito geneticamente diverso da tutte le precedenti interpretazioni. Efficaci al fine della comprensione di tale complesso meccanismo ermeneutico-esistenziale – di natura circolare, svolgentesi nello scorrere del tempo e della storia – in cui interpretandum ed interprete si trovano in una situazione di simultanea prossimità e distanza, 178 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) invece, risulta maggiormente preoccupata – una volta constatata la necessaria imprescindibilità dell’atto interpretativo per il darsi dell’uomo nel mondo – di fornire all’uomo stesso i parametri procedurali minimi per il compimento di una corretta interpretazione. In un simile panorama culturale e filosofico di estrema attualità, in cui il problema interpretativo-ermeneutico è «un termine di confronto con cui chiunque lavori sul terreno delle scienze umane, e forse anche delle scienze positive, non può non misurarsi»47, il più specifico problema dell’interpretazione giuridica tende inevitabilmente ad essere assorbito nel più ampio nucleo di riflessioni che fanno riferimento alla questione generale dell’“interpretare”, così da configurarsi in un rapporto di species a genus nei confronti della riflessione ermeneutica contemporanea. Se perciò, da una parte, il particolare modo “giufilosofico” di porsi nei confronti dell’attività interpretativa deve continuare ad operare tenendo conto delessendo l’interprete «dimidiato fra la sua appartenenza a una tradizione e la sua distanza rispetto agli oggetti che sono il tema delle sue ricerche» (cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., vol. VII, p. 45), sono le parole di Giovanni Fornero (cfr. Ibidem, p. 59): «Accostarsi ad un testo significa ricostruire la domanda originaria di cui esso è la risposta, al di là delle stesse intenzioni consapevoli dell’autore. […] Questo lavoro di ricostruzione della domanda originaria che sta dietro il testo implica quindi un nostro domandare sul testo. Ma questo domandare è già, a sua volta, sollecitato dal testo medesimo, che, all’interno di una determinata tradizione, ci pone determinate domande. La nostra domanda sul testo è quindi la risposta ad una domanda precedente, che il testo stesso ci rivolge. Per cui, prima di essere e di porsi come l’interrogante, l’interprete, dal punto di vista di Gadamer, risulta, di fatto, l’interrogato». Attraverso la fusione degli orizzonti storici così delineata, Gadamer giunge, conseguentemente, ad affermare l’impossibilità di un’interpretazione storica obiettiva, in quanto è la stessa dimensione esistenziale dell’uomo che la impedisce, dal momento che ogni cosa da interpretare “altera”, dal passato nel quale l’interprete deve calarsi per interpretare, l’atteggiamento dell’interprete stesso che alla cosa si avvicini, e, osservata a partire da tale pregiudizio, viene inevitabilmente “letta” dall’interprete alla luce non dell’effettivo momento storico in cui essa si è data nel mondo, ma alla luce dell’attuale storico darsi dell’esistenza in cui è gettato l’interprete. 47 G. Vattimo, Tempo d’interpretare, in “La Stampa”, cit., p. 3. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x la specificità del suo oggetto, e cioè della specificità dell’esperienza giuridica – species rispetto al genus dell’esperienza umana in generale –, dall’altra parte esso deve, proprio in virtù di tale rapporto assorbente la prima esperienza nel cuore della seconda, considerare l’esperienza giuridica come “gettata” nel (e facente parte del) mare magnum dell’odierna riflessione ermeneutica generale, e condividerne gli slanci e le articolazioni di pensiero, poiché se tutto, nell’esperienza umana, è interpretazione, a maggior ragione, si può dire, tutto è interpretazione anche nella più specifica e ristretta esperienza giuridica. In virtù di questo atteggiamento “condiviso” tra ermeneutica ed ermeneutica giuridica, accade pertanto che, anche nel circoscritto campo dell’ermeneutica giuridica, in cui è dato rinvenire un vero e proprio tertium genus che, partecipando tanto delle istanze della Scuola di Torino quanto di quelle del giusrealismo analitico, nel contempo se ne distacchi acquisendo contorni propri ed indipendenti dalla portata chiarificatrice e dirompente, sia possibile individuare una diversificazione tra i sostenitori di un approccio “ontologico” alle questioni interpretative e i sostenitori di un’ermeneutica giuridica maggiormente interessata ai risvolti metodologici dell’interpretazione. In Italia, fra i tanti pensatori che negli ultimi decenni hanno approfondito tali tematiche, meritano di essere citati e osservati con particolare attenzione Emilio Betti e Giuseppe Zaccaria. 4.1. Segue: Emilio Betti La figura di Emilio Betti, nel panorama filosofico-ermeneutico del cuore del ventesimo Secolo, si è contraddistinta per una decisa tensione alla configurazione di una teoria ermeneutica generale di carattere metodologico che, antitetica rispetto alla concezione ontologica heideggeriana e gadameriana del comprendere – suscettibile di pervenire ad esiti drasticamente soggettivistici – tenesse costantemente presente l’esigenza di un’autogiustificazione, cioè di una fondazione del sapere che, riflettendo sulla propria struttura, fosse in grado, legittimandosi in virtù di tale 179 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) riflessione, di assumere connotati oggettivi e razionali. Betti infatti, pur essendo consapevole della intrinseca fallibilità di ogni impresa umana e dell’impossibilità di dare fondamento “assoluto” a qualsiasi asserto o riflessione, non si esime tuttavia dal ritenere che sia necessario tentare, attraverso un’immensa e capillare opera in grado di scavare fin nella profondità estrema del meccanismo interpretativo umano in ogni settore, «di conferire validità non meramente soggettiva alle nostre interpretazioni, e che sia pertanto necessario riflettere sulle procedure attraverso le quali possiamo sottoporre a controllo le conoscenze raggiunte»48. La teoria bettiana dell’interpretazione è, così, costruita metodologicamente sulla base dell’idea della sussistenza e «in difesa dell’oggettività intrinseca ad ogni corretta interpretazione»49, ed è “generale” proprio perché, secondo il filosofo di Camerino, «toutes les activités interprétatives […] affichent une structure épistémologique commune. Le rôle d’une herméneutique générale est d’en éclairer les fondaments et d’en distinguer les types afin de définir les conditions d’une interprétation qui soit objective»50. 48 F. Bianco, La Teoria generale dell’interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 28. 49 Ibidem, p. 27. 50 J. Grondin, L’universalité de l’hermenétique selon Emilio Betti, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 115. Filosofo e giurista dall’enorme cultura ed erudizione, immerso per l’interezza della propria attività accademica anche nelle pieghe del pensiero filosofico tedesco (grazie anche ad una perfetta padronanza della lingua tedesca stessa), Betti ha lasciato una enorme bibliografia, all’interno della quale è sufficiente ricordare, oltre alla monumentale Teoria generale dell’interpretazione, Milano, 1990: Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica, Milano, 1949; L’ermeneutica come metodologia generale delle scienze dello spirito, Roma, 1987, Teoria generale del negozio giuridico, Milano, 1994. Interessato ad inseguire l’ideale di un’ermeneutica obiettivistica e metodicamente addestrata ad impedire le possibili degenerazioni soggettivistiche del lavoro interpretativo, Betti, scagliandosi contro Gadamer e la sua ermeneutica radicalmente ontologica, accusa il filosofo tedesco, come si è detto poco sopra, di aver creato una filosofia dell’interpretazione suscettibile di aver indebitamente sopravvalutato la soggettività dell’interprete, «sino a L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x La riflessione di Betti, così concepita, in ordine all’interpretazione giuridica, prende l’avvio a partire da una configurazione dell’esperienza giuridica in generale che, nei suoi caratteri, conferma la profondità del pensiero dell’Autore e ne dimostra chiaramente il pieno dominio di quella capacità critica, descritta nel paragrafo precedente, per cui chi è filosofo dimenticare che l’ermeneutica […] è una scienza e che, come tale, non può fondarsi su quella ambigua parola che è la “precomprensione”, la quale non fa che abolire l’alterità del conosciuto, e, quindi, la consistenza autonoma dell’oggetto storico» (N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., vol. VII, p. 108). Sulla base di questi rilievi Betti, distinguendo tra quello che è il significato obiettivamente individuabile di un fatto storico e il significato che lo stesso fatto può assumere per un interprete dell’epoca contemporanea, costruisce, nel proprio capolavoro, la Teoria generale dell’interpretazione, la propria personale riflessione metodologica sul problema ermeneutico. In tale enorme e capillare lavoro di minuziosa analisi della struttura dell’attività interpretativa in tutti i campi del sapere, la teoria dell’interpretazione risulta articolata nei quattro canoni ermeneutici dell’autonomia dell’oggetto (cioè della sua alterità rispetto all’individualità del soggetto interpretante), della totalità della considerazione ermeneutica (cioè dell’essenziale correlazione tra le parti della cosa interpretata e il tutto che dalle parti è costituito), dell’attualità dell’intendere (cioè dell’immedesimazione dell’interprete nel punto di vista interno, storicamente determinato, da cui ha preso vita la cosa da interpretare), e dell’adeguazione dell’intendere (cioè della necessità che l’interprete sia dotato, oltre che dell’interesse ad intendere, di sufficienti apertura mentale e profondità riflessiva). L’indagine di Betti prosegue poi attraverso la descrizione dei quattro momenti ermeneutici del processo interpretativo, che vengono individuati in «quello “filologico”, quello “critico”, quello “psicologico” (volto a “calarsi” nel mondo interiore dell’autore), e “quello tecnico-morfologico” (volto ad intendere il senso del mondo oggettivo-spirituale alla stregua della sua particolare legge di formazione)» (N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., vol. VII, p. 107). L’Autore traccia, inoltre, una precisa classificazione dei diversi tipi di ermeneutica entro i quali è possibile collocare ogni forma di interpretazione: egli parla innanzitutto di “interpretazione ricognitiva”, che è volta alla comprensione dell’oggetto da interpretare (un’opera letteraria o un’opera d’arte) così come esso è in se stesso, quindi di “interpretazione riproduttiva”, che è tesa alla riproduzione e alla successiva comunicazione di un’esperienza altrui (è quello che accade, per esempio, nell’interpretazione teatrale o musicale), e, infine, di “interpretazione normativa”, che è finalizzata a fornire norme o direttive di azione (rientrano in tale categoria, per Betti, sia l’interpretazione etica che quella religiosa che quella giuridica). 180 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) accetta, problematizza, e supera le riflessioni altrui in vista della formulazione di una riflessione “altra”, più esaustiva e compiuta di ciascuna di esse. Betti, infatti, nella definizione di diritto che offre, possiede qualcosa sia dello scienziato giuridico, sia del giusrealista, sia del filosofo autentico. Come gli “scienziati” giuridici “normativisti” l’autore sostiene che il diritto è sostanzialmente norma, che esso è, dunque, anche forma, cioè la forma in cui si esprime linguisticamente la norma stessa, e che esso «non può adeguatamente cogliersi se non come ordine o ordinamento giuridico»51: il diritto è, anche per Betti, uno strumento tecnico, e specificamente una tecnica finalizzata alla realizzazione della civile e pacifica convivenza tra gli uomini52. Come i realisti giuridici, inoltre, Betti ritiene che il diritto, indirizzandosi ad una specifica realtà sociale – meglio, ad una limitata parte della specifica realtà umana e sociale in cui opera e che vuole disciplinare53 –, non possa essere mai disancorato dalla sua attualità contingente per essere colto solo nella coerenza formale dell’ordinamento normativo in sé e per sé considerato. Come i giusfilosofi autentici, infine, Betti è fermamente 51 A. Catania, La definizione generale di diritto nel pensiero di Emilio Betti, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 36. 52 Molto chiare sono, al riguardo, le stesse parole di Betti, che in Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 817, afferma: «Le norme giuridiche – a differenza dei giudizi teoretici, che enunciano un sapere e sono fine a se stessi come conoscenza di verità – non sono fine a se stesse, ma strumenti a fini di convivenza sociale, e le norme di diritto privato di regola rappresentano la soluzione di un conflitto d’interessi». 53 È infatti necessario notare che per Betti «il diritto non è […] un universo chiuso delimitato e bastante a se stesso, ma lo strato spirituale di un processo di realizzazione dello spirito la cui vita si obiettivizza anche in altre forme rappresentative» (G. Zaccaria, Creatività dell’interpretazione e principi generali nell’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 186). A conferma di tale principio per cui l’esperienza umana non si esaurisce nella sola esperienza giuridica cfr. anche E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 7: «I rapporti giuridici hanno il loro substrato in relazioni sociali esistenti già prima e anche all’infuori dell’ordine giuridico: relazioni che il diritto non crea, ma trova dinanzi a sé, prevede ed orienta nella direttiva di qualifiche e valutazioni normative». L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x convinto che anche nella sfera dell’esperienza giuridica sia necessario conferire la dovuta rilevanza ai valori, oggettivi e assoluti, che, radicati nell’essenza umana, contribuiscono alla formazione e al mantenimento della società54. L’esperienza giuridica è pertanto, secondo Betti, per effetto di questo fruttuoso, sebbene parziale, accoglimento critico delle istanze proprie delle correnti di pensiero e di metodo che si sono analizzate nelle pagine precedenti, un concreto e storicamente determinato mezzo tecnico predisposto per disciplinare le relazioni sociali del consorzio umano, consistente in un ordinamento giuridico inteso come organico e formale sistema di norme, costituente nel contempo espressione dei valori o princìpi assoluti, etici e politici, immanenti alla natura umana. In altri termini, nella concezione bettiana del diritto, al quale l’Autore conferisce «unità di senso»55 stante la sua natura di «totalità spirituale»56, è possibile cogliere i segni di una visione che considera rilevanti, sullo stesso piano, sia la realtà concreta, che la positività dell’ordinamento, che i superiori principi umani di cui esso è storica manifestazione: si potrebbe pertanto dire, sinteticamente, che per Betti il diritto è sia fatto che norma che Valore. Così concepito, il diritto si dispiega concretamente, per Betti, secondo una genetica, insopprimibile dinamicità che – in una continua “osmosi” tra dato normativo, ambiente sociale e valori assoluti – procede all’unisono con il variare delle esigenze e degli interessi che esso mira a regolare: sostanziandosi in una «perenne dialettica tra eternità di valori e contingenza»57, l’esperienza giuridica è una 54 L’Autore afferma infatti (cfr. Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 847) che «certamente le finalità generali dell’ordine giuridico toccano i più profondi problemi etici e politici della vita sociale; e una legislazione geniale è quella che sa trovare e apprezzare i veri valori della civiltà nel momento storico in cui entra in vigore». 55 G. Zaccaria, Creatività dell’interpretazione e principi generali nell’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 187. 56 Ibidem. 57 E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 848. 181 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) realtà irrimediabilmente in fieri che non può esistere «fuori dall’attuazione»58, e che trova pertanto nel momento controversiale, cioè nella dimensione processuale in cui avviene la composizione delle liti – sempre nuove e concretamente diverse –, il momento principe in cui si attua la sua specifica praticità. Il diritto, in altri termini, non si esaurisce nella norma, «perché la norma […] ha vigore attuale in una con l’ordinamento di cui è parte integrante, ed è destinata a passare e a trasfondersi nella vita sociale, alla cui disciplina deve servire»59, così che l’ordinamento giuridico «non è né qualcosa di bell’e fatto (come può credere una visione statica e immobilizzante, alla Kelsen), né un organismo che si sviluppi da sé per mera legge naturale: è qualcosa che non è, ma si fa»60, trovando nella controversia (che altro non è se non un concreto conflitto di interessi tra soggetti) e nella sua soluzione processuale il luogo deputato al proprio farsi, e trovando altresì nell’imprescindibile momento dell’interpretazione l’attività senza la quale è impossibile quella sintesi tra astrattezza della legge e concretezza della situazione (cui la legge deve venire applicata) che dalla controversia, e dal suo esito processuale, deve emergere. Dalla concezione bettiana di diritto emerge dunque conseguentemente, con prepotente evidenza, l’importanza del ruolo che l’Autore attribuisce all’interpretazione giuridica: essa per Betti consiste in un “intendere” che non è esclusivamente fine a se stesso, ma è finalizzato all’ “agire”, cioè «al fine di regolare l’agire alla stregua di massime che si desumono da norme o dogmi. […] La giurisprudenza si trova dinanzi a testi vincolanti da interpretare: testi, le cui enunciazioni pongono non solo la comune esigenza teoretica di essere intesi, ma inoltre anche un’esigenza pratica, di essere osservati: il che conferisce alla interpretazione giuridica […] una funzione normativa. […] Dai testi legali promana non solo un appello di intelligenza, rivolto allo spirito contemplativo, 58 G. Marino, Principi, processualità, ermeneutica. Note su Capograssi e Betti, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 142. 59 E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 817. 60 Ibidem, p. 836. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x ma anche un appello di osservanza, rivolto allo spirito pratico»61. Lungi dall’esaurirsi in un’attività esterna al darsi del diritto come realtà a sè stante che dell’interpretazione è solo l’oggetto di analisi, l’interpretazione è parte integrante e formativa del diritto stesso62, poiché solo attraverso l’imprescindibile “creatività” dell’atto ermeneutico le norme generali ed astratte possono calarsi adeguatamente nella realtà concreta della singola controversia che sono chiamate a disciplinare, “piegare” alla contingenza i Valori di cui sono “positivizzazione”, respirare la “storia” della vita sociale in cui operano, ed essere “attualizzate” ed integrate per venire quindi attuate e applicate rispondendo con effettività alle specifiche esigenze umane che chiedono soddisfazione63. In altri termini, per Betti l’interpretazione giuridica consiste nell’intendere per conoscere, in modo da conoscere per poter poi attuare la legge e garantire l’efficace soddisfazione degli interessi in gioco nella controversia. 61 Ibidem, pp. 790-791. 62 Sotto questo punto di vista Betti è particolarmente critico nei confronti di Kelsen, che, secondo l‘Autore, con la sua teoria pura del diritto «trasferendo nella legislazione ogni capacità produttiva dell’ordinamento giuridico, disconosce il carattere attivo dell’interpretazione giuridica, così costretta ad “esaurirsi in una ricognizione meramente contemplativa del significato proprio della norma considerata nella sua astrattezza e generalità”» (cfr. F. Riccobono, Emilio Betti e la “malattia kelseniana”, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 175. Riccobono, in queste righe, fa riferimento alle parole di Betti in Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in “Rivista italiana di scienze giuridiche”, 55, 1948, pp. 34-92). 63 Sottolineano con particolare efficacia i caratteri di una simile «virtù etica» dell’interpretazione giuridica, che risiede «nel fine di far emergere i valori della giustizia sotto forma di significati normativi» (cfr. F. Riccobono, Emilio Betti e la “malattia kelseniana”, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 177), le parole dello stesso Betti (Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 142): «Essa interpretazione ha sempre l’ufficio di vivificare mediante un incessante ripensamento, di aggiornare e di rimettere a nuovo – seguendo passo passo il moto perenne della vita sociale – le espressioni e le formulazioni sorpassate, conferendo loro quel valore che, senza distaccarsi e prescindere dal significato originario, sia meglio conforme alle esigenze dell’attualità nella cornice del sistema». 182 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Il fenomeno interpretativo risulta in tal modo, per Betti, strutturato in due distinti momenti, entrambi indispensabili per una corretta interpretazione: al momento esclusivamente ricognitivo del senso originario della disposizione, così come esso si configurava storicamente, con riferimento allo specifico ambiente sociale del momento della creazione della norma, deve seguire necessariamente il momento riproduttivo o rappresentativo, che superi tale senso originario per consentire alla legge di adeguarsi al presente al quale essa deve essere applicata64. Parlando di interpretazione giuridica Betti è al riguardo chiarissimo: «L’interprete ha bisogno anche qui di ricostruire, anzitutto, l’idea originaria della formula legislativa, o il senso iniziale dell’atto giuridico, pur non avendo, con questo, finito di adempiere il suo compito. […] L’interprete deve raffigurarsi nelle reazioni e ripercussioni pratiche, e in questo senso drammatizzarsi»65, mirando, in presenza di atti concreti disciplinati dal diritto, «a ricavare dal tipo della dichiarazione emessa o del comportamento tenuto il senso che vi ricollega l’ambiente sociale, e così ad integrare nel suo contenuto la fattispecie dell’ atto giuridico, raffrontandola alla fattispecie legale. […] E quanto più generali e astratti sono i termini in cui il precetto è formulato, quanto più remoto esso si presenta dalla concreta situazione di fatto per la quale deve valere, tanto più si avverte l’esigenza che esso venga rielaborato e rinnovato, adattato e adeguato alla vita e alla natura dei rapporti disciplinati»66. I due momenti in cui si risol64 Cfr. E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 825: «L’interpretazione della legge viene a trovarsi dinanzi a un duplice compito: a) ricercare la valutazione originaria immanente alla norma nella sua concatenazione con l’intero ambiente sociale in cui fu emessa: e ciò, mediante un’interpretazione che si è chiamata sociologica e meglio si direbbe teleologica; b) inoltre, ricercare se la norma ha maturato un esito sociale ulteriore, ancorché non intenzionale, consistente nel comporre il conflitto fra le altre categorie d’interessi all’infuori di quelli previsti». 65 Ibidem, pp. 803-804. 66 Ibidem, p. 805. Ancora più chiare, se possibile, sono le parole di Betti a p. 817 della stessa opera: «Nell’interpretazione giuridica di un ordinamento in vigore il giurista non si può arrestare a rievocare il sen- L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x ve l’interpretazione giuridica, afferma Betti, si trovano in uno stretto rapporto di necessaria complementarietà, e tale rapporto è così forte che ognuno di essi, in assenza dell’altro, fa divenire l’interpretazione giuridica un’attività “morta”, priva di qualsivoglia risvolto pratico: infatti, da un lato, risolvendosi l’interpretazione giuridica, come si è visto, in un intendere per agire e non in un intendere tout court, una ricognizione storica del senso della legge che non abbia “continuazione” nell’attualità rimane semplicemente fine a se stessa; dall’altro, in assenza di un’opera storica di ricostruzione della ratio ispiratrice della norma, e cioè in caso di assoluta mancanza di qualsiasi punto di riferimento concretamente contestualizzato, non è possibile neppure iniziare il lavoro di adattamento alle nuove esigenze dell’attualità che l’applicazione della norma è finalizzata a soddisfare67. La disamina della configurazione bettiana della corretta metodologia dell’interpretazione giuridica, articolata nei due momenti appena analizzati, merita di essere completata con tre diverse osservazioni, che servono per meglio inquadrare l’orizzonte in cui si muove e nella cui orbita gravita la teoria dell’interpretazione di Betti, e che confermano ulteso originario della norma – come se si trattasse di un’entità storica, di un fatto del passato, avente un senso in sé conchiuso –, ma deve fare un passo avanti. […] Qui, pertanto, l’interprete non ha ancora finito di adempiere il suo compito, quando ha ricostruito l’idea originaria della formula legislativa, (cosa che deve pur fare), ma deve, dopo ciò, mettere d’accordo quell’idea con la presente attualità, infondendovi la vita di questa, perché è appunto a questa la valutazione normativa dev’essere riferita». 67 Cfr., con riferimento a questa seconda osservazione, E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 824: «La ricognizione della valutazione originaria immanente e latente nella lettera della legge e costituente la ratio iuris della norma è indispensabile per accertare in qual misura essa abbia subito modificazioni col sopravvenire di mutamenti nell’ambiente sociale o di nuovi orientamenti nell’ordine giuridico: giacché solo attraverso il tramite di essa, e non già immediatamente, è legittimo procedere ad un adattamento e ad una trasposizione del testo legale nella viva attualità, e bilanciare giustamente l’interesse statico alla stabilità, conservazione e certezza con l’esigenza dinamica di rinnovamento nell’indirizzo dell’evoluzione sociale». 183 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) riormente come egli possieda lo spirito tanto dello scienziato giuridico, quanto del filofoso, quanto ancora del giusrealista. In primo luogo, Betti osserva che, come il diritto, pur non essendo solo norma, è anche, inevitabilmente, norma, così l’interpretazione deve, comunque, operare tenendo presente, come imprescindibile punto di riferimento da cui partire e come delimitazione dei confini della propria ricerca di senso, la legge da interpretare: «Betti intese difendere, quale conquista non revocabile del pensiero, la possibilità di una interpretazione in grado di cogliere il senso del testo a partire dal testo stesso e non dalla soggettività dell’interprete, supponendo che esso, per così dire, fosse tutto contenuto nello scritto, sia pure soltanto allo stato latente, ed avesse bisogno di essere attualizzato, cioè portato a nuova vita attraverso l’attività interpretativa»68. Risulta assai evidente come, alla luce di tale principio, per cui l’interprete, nell’intraprendere il proprio compito attualizzante del diritto deve sempre, necessariamente, fare riferimento alla legge (considerata nella sua appartenenza al più vasto sistema normativo che forma l’ordinamento giuridico69) e al suo testo, e per cui «le sens doit être tiré du texte et non pas dicté de l’extérieur»70, secondo il canone latino «sensus non est inferendus, sed efferendus», Betti sia avvicinabile ai sostenitori di una “geometria legale” che circoscriva l’interpretazio68 F. Bianco, La Teoria generale dell’interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., pp. 29-30. Lo stesso Betti (cfr. Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 808), afferma perentoriamente che «il giurista interprete e il giudice […] hanno una posizione di stretta subordinazione alla legge». 69 Betti è particolarmente convinto nell’insistere sull’importanza del canone della totalità, per cui occorre effettuare un perenne riferimento «delle parti al tutto e perciò anche un riferimento delle norme al loro organico complesso» (cfr. Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 831). L’Autore, tornando più volte sul tema, nel suo capolavoro (Ibidem, p. 822) afferma, per esempio: «L’apprezzamento interpretativo rimane pur sempre vincolato e subordinato alla linea di coerenza logica e assiologica che si dimostra immanente all’ordine giuridico considerato nella sua organica totalità». 70 J. Grondin, L’universalité de l’hermenétique selon Emilio Betti, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit. p. 123. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x ne al testo della legge e nulla più. In secondo luogo Betti rileva che, come il diritto, pur essendo norma, non è solo norma, ma Valore, così l’interpretazione non può, pur partendo necessariamente dal testo di legge, limitarsi ad esplicitarne il senso così come esso emerge dalla mera considerazione della costruzione grammaticale o sintattica del linguaggio legislativo, ma deve andare oltre la barriera linguistica della disposizione, per individuare il “principio generale” che ne sta alla base, il tutto, ovviamente, in funzione della sua attualizzazione pratica sulla base del principio individuato. Per Betti i principi generali – particolarmente utili nei casi in cui la legge si manifesti lacunosa e perciò inidonea a prendere in considerazione i nuovi interessi che l’attualità storico-sociale produce ogni giorno – sono «l’idea germinale, il criterio di valutazione, di cui la norma costituisce la messa in opera, calata in una specifica formulazione precettiva71»: essi, diretta espressione della più profonda e radicata essenza etica di una società, cioè, si potrebbe dire, della sua “tradizione morale”, «sono da concepire […] come somme valutazioni normative, principi e criteri di valutazione costituenti il fondamento dell’ordine giuridico e aventi una funzione genetica rispetto alle singole norme»72. Assurgendo a valori e sistemi di valori che rappresentano l’antecedente logico e cronologico delle singole norme, tali principi generali non possono, quindi, essere mai identificati con esse, e, proprio in quanto complesso di valori fondanti le norme stesse – le quali non li rispecchiano, con lo specifico comando contenuto nel testo legislativo, se non in parte –, sono caratterizzati, rispetto al sistema positivo tutto, da una forte «eccedenza di contenuto deontologico»73 che si traduce a sua volta, inevitabilmente, in una rilevante «forza di espansione, ma non già di indole logica e dogmatica, bensì d’indole valutativa e assiologica: forza non già di “verità” e di ragione teoretica, ma di valori etici e delle loro valutazioni, che gradatamente maturano e si affermano in base a situazioni 71 E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 846. 72 Ibidem, p. 851. 73 Ibidem, p. 849. 184 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) storiche contingenti»74. Ed è proprio tale forza di espansione dei principi generali rispetto al contenuto del comando delle singole norme a costituire il veicolo imprescindibile perché le norme stesse, attraverso l’indispensabile individuazione interpretativa di tali principi, possano “attualizzarsi”, fuoriuscendo dalla stretta veste della disposizione linguistica generale ed astratta in cui sono espresse, e siano così in grado di comporre la controversia, cioè il conflitto d’interessi, che sotto la rubrica di una specifica legge va ricondotto75. È evidente, così, come attraverso il costante riferimento a Valori che trascendono e precedono la positivizzazione dell’ordinamento giuridico “manifestandosi” solo parzialmente nel contenuto delle singole disposizioni, in modo che l’interprete deve “percepirli” in esse per “espanderne” l’operatività alle concrete esigenze controversiali che chiedono soddisfazione, Betti, oltre che scienziato del diritto, si riveli ancora una volta, un filosofo autentico. In terzo luogo, e in diretta conseguenza rispetto alla precedente osservazione, va osservato che come il diritto è, per Betti, anche esperienza, così anche l’interpretazione della legge si configura, per l’Autore, come un’attività profondamente calata nella concreta dinamica dell’esperienza giuridica. Essa non è un fenomeno astratto, destinato a restare fissato nella mente di chi lo compie o a fungere da mero esercizio di ragionamento giuridico, ma, in quanto tramite imprescindibile per l’applicazione della legge, è la prima, effettiva, attività pratica da prendere in considerazione come elemento indispensabile per la vita stessa del diritto nel suo storico, quotidiano 74 Ibidem, p. 850. 75 Cfr., al riguardo, G. Zaccaria, Creatività dell’interpretazione e principi generali nell’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, in V. Frosini, F. Riccobono (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., pp. 198-199: «Correttamente Betti radica i principi generali su di un terreno assiologico e valutativo, che precede l’ambito della positività dell’ordinamento giuridico, e, altrettanto correttamente, a partire dal riconoscimento dell’insufficienza della positività normativa e contestualmente di una necessaria creatività di una prassi giuridica, egli individua il vitale bisogno dell’ordine giuridico di inserire nel proprio organismo i principi stessi». L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x “farsi”. Il corollario di una simile rilevanza concreta del fenomeno interpretativo è che – consistendo l’interpretazione in un’operazione di rinvenimento, a partire dalla legge, di quei principi generali alla luce dei quali è possibile comprendere appieno il contenuto della legge stessa, ampliarne l’ambito operativo superandone la positività, attualizzarla e applicarla alle controversie che chiedono soluzione per il suo tramite – anche per Betti assume particolare rilievo l’operato dei giudici. L’Autore infatti, nell’affrontare la questione relativa all’individuazione dei soggetti competenti ad “avvertire” la presenza latente dei principi generali, giunge alla conclusione che «l’organo della coscienza sociale nell’adempimento di tale compito deve oggi riconoscersi nella giurisprudenza, intesa nel senso più lato di giurisprudenza così teorica […] come pratica76». Ora, è palese che la giurisprudenza “pratica” alla quale Betti si riferisce non può che coincidere con la magistratura giudicante, ossia con il concreto operato dei giudici all’interno delle aule giudiziarie: tale operato, realizzandosi proprio nella sede principale del dipanarsi dell’intera dinamica giuridica di una determinata società, si traduce, in definitiva, in una tecnica di riformulazione della norma, alla luce del principio individuato, da parte del giudice: in altri termini, in un’attività eminentemente creativa. Sotto questa particolare angolazione, dunque, Betti dimostra di aderire alle rivendicazioni dei più convinti sostenitori delle tesi giusrealiste, che vedono nella figura del giudice – produttrice di diritto nuovo – la figura cardine per l’effettivo dispiegarsi dell’esperienza giuridica di una singola, specifica comunità civile e politica. 76 E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 858. Betti descrive con estrema precisione, poche righe più oltre, i caratteri dell’opera giurisprudenziale relativamente al rinvenimento e all’utilizzazione dei principi generali, ribadendo (Ibidem, p. 858) che «la giurisprudenza è competente a identificare e ad elaborare quei principi generali di diritto che, offrendo direttive e criteri di valutazione non esauribili in singole norme, costituiscono gli indispensabili strumenti di un’interpretazione integrativa dell’ordine giuridico». 185 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) 4.2. Segue: Giuseppe Zaccaria L’altra figura che – nel descrivere la concezione di interpretazione della legge propria del panorama culturale maggiormente legato, rispetto al “normativismo” e al realismo giuridico, alle istanze caratteristiche della filosofia più autentica e a quelle dell’ermeneutica contemporanea – merita di essere presa brevemente in considerazione, oltre a Emilio Betti, è quella di Giuseppe Zaccaria, legittimamente annoverabile tra i più attenti studiosi italiani in materia, autore di numerose opere sull’interpretazione77, anche con specifico riferimento a Gadamer ed Esser. Oltre che fine “fotografo” del panorama giusfilosofico a sé contemporaneo, Zaccaria sviluppa un pensiero “indipendente” sui generis, che, raccogliendo e riplasmando autonomomamente, apportandovi nuovi contorni originali, l’eredità dei suoi predecessori e contemporanei studiosi di ermeneutica, assurge ad emblema della riflessione sull’interpretazione giuridica italiana contemporanea, caratterizzandosi, alla stessa maniera di Emilio Betti, per il fatto di “mediare” filosoficamente e criticamente tra le esigenze normativistiche della Scuola di Torino e quelle enfatizzanti il concreto ruolo creativo del diritto del giusrealismo analitico italiano. La speculazione di Zaccaria si caratterizza per essere fautrice di un’ermeneutica giuridica che, con Heidegger e Gadamer, prima ancora di tradursi in “metodo”, sia innanzitutto pienamente consapevole di sé e del proprio fondamento filosofico-esistenziale avente il proprio perno nella rilevantissima categoria della precomprensione. Aderendo alle tesi di Gadamer, Zaccaria, infatti, individua innanzitutto nell’ermeneutica una radice ontologica strettamente dipendente dalla modalità di estrinsecazione dell’esi77 Ai fini del presente elaborato si terrà in particolare considerazione, nell’ambito della bibliografia di Zaccaria, la raccolta L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, Milano, 1990. Per altri lavori dell’Autore in materia di interpretazione, cfr.: Diritto positivo e positività del diritto, Torino, 1991; Questioni di interpretazione, Padova, 1996; Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Bari, 1999. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x stenza dell’uomo nel mondo: tutto, nell’esistenza, è interpretare, il darsi dell’individuo è un continuo, ineliminabile interpretare per comprendere, e l’uomo può qualificarsi «come un ente, il cui essere consiste nel comprendere: ogni teoria della conoscenza diviene immediatamente ontologica»78. Allo stesso modo del filosofo di Marburgo, inoltre, anche Zaccaria ritiene che l’essenza umana, nel suo essere una sola cosa con l’ontologica interpretazione del tutto in cui essa consiste e che la sottende, non possa darsi se non attraverso il linguaggio, che si configura, così, sia come la forma prima del “respiro” del darsi del mondo all’uomo, sia come mezzo imprescindibile perché egli esista e percepisca di esistere come essere “condannato” ad una perenne interpretazione del tutto79. E il nodo problematico dello sviluppo dell’esistenza interpretante attraverso il linguaggio si risolve – ancora una volta secondo una identità di pensiero rispetto a Gadamer – nel «gioco della logica di domanda e risposta, nella relazione dialettica tra l’interprete e l’opera da interpretare»80. Infine, per Zaccaria, così come per Heidegger e Gadamer, l’esistenza come interpretazione, il linguaggio come condizione comune e mezzo per l’interpretazione, e la dialettica domanda-risposta come nodo per il darsi dell’interpretazione nell’esistenza, non possono prescindere dall’ineliminabilità, alla radice di ogni atto ermeneutico, della precomprensione. Essa, effetto dell’essere gettato dell’uomo nella storia e nell’infinità di messaggi comunicativi già interpretati di fronte ai quali è costretto continuamente a porsi, consiste in un orizzonte precedente di conoscenza, anteriore a qualsiasi comprensione, senza il quale non è possibile nessuna comprensione, cioè nessun atto ermeneutico. Identificandosi in una vera e propria “anticipazione di senso” 78 G. Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, cit., p. 42. 79 Si veda, al riguardo, G. Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, cit., p. 81, in cui l’Autore afferma che il linguaggio è un «fenomeno umano originario, sul quale si fonda il fatto che gli uomini hanno un mondo. Reciprocamente, il mondo è tale in quanto si esprime e si costruisce nel linguaggio e attraverso il linguaggio». 80 Ibidem. 186 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) e di risultato – condizionata dall’essere nella storia dell’uomo – che precede qualsiasi questione interpretativa, la precompensione, in altri termini, delimita alla radice lo spazio e la direzione in cui i testi e gli oggetti da interpretare sono utilizzati, risultando così la conditio sine qua non di tutti gli specifici procedimenti interpretativi. Zaccaria, dunque, solo dopo aver preso atto dell’imprescindibilità della precomprensione come dato esistenziale strettamente connesso all’intima natura dell’uomo, identifica in essa lo snodo concettuale alla luce del quale è possibile passare dalla fase del riconoscimento filosofico delle radici prime dell’ “interpretare” alla fase del tentativo di delineare i tratti di un possibile “metodo” ermeneutico che riesca a fornire un minimo di certezza relativamente ai risultati di ogni atto interpretativo, così da fungere da parametro di riferimento per le interpretazioni future. L’ermeneutica filosofica di Zaccaria diviene, in altri termini, necessariamente anche ermeneutica metodologica, dal momento che, a causa dell’anticipazione di (possibile) significato sulla cui base l’interprete si avvicina all’oggetto da interpretare, si rivela doveroso ricostruire i passaggi attraverso cui egli, dalla precomprensione stessa, giunge a fornire il significato definitivo all’oggetto della propria analisi. Ora, il procedimento ermeneutico in generale, coerentemente inserito tra la comprensione iniziale e quella finale, non è, per Zaccaria, lineare, proprio in virtù della non linearità della modalità formativa della precomprensione dell’uomo, ma si risolve – dialetticamente – «in una ininterrotta posizione di ipotesi, in una loro successiva revisione ed infine in un loro eventuale abbandono a favore di altre ipotesi. Ognuno dei passi alternati in cui esso si articola ha per scopo di chiarire l’altro e insieme di approssimarsi all’obiettivo»81, cioè 81 G. Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, cit., p. 67. Quanto si viene dicendo è efficacemente chiarito in modo ancora più esaustivo dalle stesse parole dell’Autore (Ibidem): «La precomprensione non è un concetto metodologico-prescrittivo, ma un concetto analitico-descrittivo, che pone appunto un rilevante problema metodologico, quello dei modi e dei controlli del passaggio dalla comprensio- L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x all’interpretazione conclusiva82. Per quanto riguarda, più specificamente, il pensiero di Zaccaria relativo all’ermeneutica giuridica, è necessario sottolineare che la ricostruzione che l’Autore effettua dell’attività di interpretazione della legge prende lo spunto dal convincimento per cui «la legge altro non è che uno stato necessariamente incompiuto e transitorio, anche se dotato di una forza normativa vincolante, del processo di concretizzazione del diritto; un “semilavorato” […] che solo ignorando il contributo decisivo di chi applica il diritto può essere confuso con un prodotto finito»83. In definitiva Zaccaria ritiene che, a causa della genetica ed insopprimibile distanza che non può non sussistere tra la legge, generale ed astratta, e la particolare specificità di ogni caso concreto, la fase di applicazione della prima al secondo deve sempre passare attraverso un’opera di concretizzazione che si realizza mediante l’integrazione produttiva del diritto operata dall’interpretazione84: come ne provvisoria a quella conclusiva. […] Il comprendere consiste nell’analisi, nella penetrazione e revisione di uno schema progettuale di significato che è all’origine dell’accostamento al testo e che è rettificabile se nel corso del processo di comprensione si riveli inadeguato. Tra precomprensione, quale atto di inizio del comprendere […] e reperimento della massima di decisione, quale punto conclusivo, si stende una fitta rete di sondaggi e di anticipazioni di possibili soluzioni che, grazie al metodo dialogico delle domande rivolte al testo, consente di consultare i modelli […] in rapporto alle risposte che possono offrire». 82 A sua volta tale obiettivo – l’interpretazione finale, che chiude il procedimento ermeneutico – sarà sempre suscettibile, entrando a far parte della storia come interpretazione gettata nel divenire incessante delle cose, di costituire il fondamento di una nuova, diversa precomprensione rispetto allo stesso oggetto interpretato, e di innescare un nuovo procedimento che da essa giunga ad un ulteriore, differente, esito interpretativo-conoscitivo di significato, e così via, in una dinamica (gadameriana) “spirale ermeneutica” senza fine. 83 G. Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, cit., p. 87. 84 Cfr. Ibidem: «L’ermeneutica giuridica è definita teoreticamente dal riconoscimento che la norma astratta rivela una struttura necessariamente incompleta, completabile soltanto nel procedimento ermeneutico di concretizzazione della norma giuridica all’interno della decisione di un caso pratico». L’autentica interpretazione si risolve, per l’Autore, «in un necessario ampliamento del testo giuridico positivo: un ampliamento che 187 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) d’altra parte Betti, egli sostiene che l’interpretazione giuridica è il tramite grazie al quale la legge, dalla quale si deve “geometricamente” e scientificamente pur sempre partire85, da semplice “traccia” di ordine diviene ordine, concretizzandosi in una massima di decisione che la applichi al caso concreto sottoforma di provvedimento giurisdizionale. In quest’ottica anche la ristretta metodologia dell’interpretazione giuridica si configura, per Zaccaria, come un’ermeneutica caratterizzata da un’ineliminabile circolarità86, la quale, come si accennava, filosoficamente media tra le istanze normocentriche del neopositivismo giuridico e quelle giudiziali del giusrealismo analitico, sostanziandosi in due fondamentali passaggi che si trovano in perenne “osmosi” reciproca: il primo passaggio consiste nella trasformazione, da parte dell’interprete e alla luce della sua precomprensione, della circostanza di fatto – la situazione controversa da resta definito dal condizionamento rappresentato dalla comprensione del testo normativo con riguardo al caso da decidere». 85 Zaccaria sottolinea infatti, a questo proposito, come l’interprete, e in particolare il giudice che la legge è chiamato ad interpretare per applicarla poi al caso concreto, si trovi, pur nella facoltà che gli è concessa di innovare e integrare il testo di legge per meglio calibrarlo alla controversia, in un imprescindibile rapporto di dipendenza nei confronti della legge stessa, dal momento che il possibile ritrovamento di nuovi significati normativi alla luce del caso sussunto nella disposizione «si sviluppa sempre muovendo dal punto di osservazione del testo di legge» (G. Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, cit., p. 56). Cfr. anche Ibidem, p. 225: «Il testo letterale dell’enunciato normativo conserva […] un’irrinunciabile funzione di limite, definibile soprattutto in negativo: lo spazio di concretizzazione della norma, e le possibilità di sviluppo che in esso si danno, non possono mai andare oltre i confini tracciati dalla lettera del testo». 86 Il processo ermeneutico, produttivo di diritto a partire dalla legge, è per Zaccaria circolare nel senso che, coerentemente rispetto alle regole del “gioco” tra domanda e risposta che caratterizza il dialogo dialettico e che si è poco sopra esaminato, «mentre al testo può competere un significato soltanto nella prospettiva di una domanda, necessaria per introdursi in esso, il testo stesso può poi ripercuotersi sull’interprete e sulla sua comprensione, modificandone la domanda preliminare» (cfr. G. Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, cit., p. 100). L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x risolvere in via giudiziale – in circostanza rilevante per il diritto sulla base dell’idea di diritto che è già all’origine del suo accostamento al caso; il secondo passaggio consiste nel porre in relazione il caso concreto, così ricostruito e rielaborato, con il modello normativo e astratto della norma. In altri termini, a partire dalla norma si ricostruisce il fatto, e a partire dal fatto così delineato, si ritorna alla norma, per applicarla al caso: in questa spirale di continui rimandi reciproci fra i termini di riferimento del procedimento ermeneutico, accade che se, nel primo passaggio, la norma attribuisce connotati di giuridicità ai fatti in essa sussunti, nel secondo, invece, essa stessa si arricchisce dei connotati di novità storica dei fatti che prende in considerazione87. A seguito, e per mezzo, di queste fasi, avviene la vera e propria concretizzazione della norma giuridica rispetto allo specifico caso concreto, ossia il “miracolo interpretativo” per cui – passando dialetticamente dalla norma al fatto, dal fatto ancora alla norma, e da essa, arricchita da tali passaggi, alla sentenza – la norma generale ed astratta diviene un “abito” perfettamente calibrato rispetto alle “misure” della controversia da cui è sorta la questione interpretativa, e per cui è possibile giungere al provvedimento applicativo della legge che compone la controversia stessa. La circolarità dei due momenti del procedimento ermeneutico-giuridico implica, perciò, che «nel suo concreto prodursi giudiziale il diritto è la conclusione, la salita in cerchi concentrici sempre più verso l’alto, che congiunge l’interpretazione della legge e l’interpretazione delle circostanze di fatto»88, sulla base di un costan87 Le parole dell’Autore (cfr. Ibidem) in ordine alla descrizione della dialettica norma-fatto sono esemplari: «La considerazione astrattizzante – cui il fatto concreto, nel momento dell’interpretazione è sottoposto – in base alla quale vengono considerati solo i tratti rilevanti al fine di sussumerlo nella serie di tipi che formano il modello normativo, non è mai così totale da impedire che il nuovo elemento, assimilato a quelli già costituenti la serie, immetta in essa un residuo di quella irriducibile novità che è propria del reale. In tal modo la serie di tipi che costituiscono la fattispecie viene ridefinita sulla base dell’aggiunta di questo nuovo elemento. Infine questa ridefinizione si traduce in nuovo significato della regola». 88 G. Zaccaria¸ L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’erme- 188 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) te apporto creativo del diritto “giurisdizionale” nei confronti della legge. Va, infine, segnalato, alla luce di quanto si è venuto dicendo, un ulteriore, fondamentale corollario della dottrina dell’interpretazione giuridica elaborata da Zaccaria: si tratta del rilievo per cui, se l’ermeneutica giuridica consiste in un continuo lavorìo che, partendo dalla legge generale ed astratta, giunge alla decisione della controversia attraverso un rimando dialogico tra disposizione e fatto concreto, in modo che entrambi tali elementi si arricchiscano via via sempre più fino a condurre all’interpretazione più corretta rispetto al caso concreto stesso, allora muta radicalmente anche la concezione della positività dell’ordinamento giuridico. Zaccaria in effetti, in ciò prendendo le distanze dalla ancora consolidata tendenza dottrinaria contemporanea, per la quale – sulla base di una forte eredità di matrice “scientifica” – il diritto positivo è costituito solamente dall’ordinamento normativo vigente, ritiene che il “positivo” sia una dimensione dialetticamente integrante «l’omogeneità del “giuridico”, comprendendo organicamente […] non solo i dati normativi del diritto scritto, ma anche i procedimenti interpretativo-creativi che in rapporto ad esso si formano. Ciò è possibile collocando al centro – e proprio per questo non all’inizio, né alla fine del ciclo produttivo del diritto – il testo normativo e riconoscendo la stretta continuità tra fonti scritte e non scritte di produzione del diritto»89. L’Autore affronta a più riprese, nella sua opera, l’argomento, affermando che, non potendo essere concepita come un semplice insieme di norme, ma dovendo allargarsi fino a ricomprendere i processi di concretizzazione del diritto, «la positività non è, ma si produce»90 dinamicamente in un «processo ininterrotto di positivizzazione, indissociabile dalla concretezza degli atti che costituiscono il diritto come posto»91. In altri termini, Zaccaria, nel sostenere che l’uomo è esperienza interpretante gettata storicamente in una data società, e nel ritenere che, inevitaneutica giuridica contemporanea, cit., p. 55. 89 Ibidem, p. 20. 90 Ibidem, p. 222. 91 Ibidem, p. 58. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x bilmente, anche nella più ristretta esperienza giuridica, rivesta un ruolo ineliminabile proprio l’attività ermeneutica di interpretazione-attualizzazione delle norme, giunge a individuare nella positività del diritto, quale «fenomeno comprensivo sia del diritto legislativo, sia di quello giurisdizionale, con i suoi procedimenti di valutazione ermeneutica, e altresì […] del deposito dottrinale di massime e orientamenti scientifici, e più ampiamente del necessario riferimento all’intera tradizione giuridica»92, non il presupposto del prodursi dell’esperienza giuridica, ma il prodotto, anzi, addirittura l’essenza profonda dell’esperienza giuridica stessa. Conclusione Seguendo la traccia solcata dalla contemporanea speculazione ermeneutica di cui, nelle righe che precedono, si sono analizzati, sia pure brevemente, anche attraverso la sintetica delineazione delle specificità del pensiero di due tra i suoi massimi esponenti, i tratti essenziali, è possibile dunque affermare che, agli albori del terzo millennio, l’esperienza giuridica, alla luce e per mezzo dell’ineluttabilità umana del fenomeno interpretativo, sia pure a fronte del tecnicismo e della tecnologizzazione esasperata cui essa, sotto i più svariati versanti, sembra destinata ad andare incontro negli anni a venire, si configura in maniera tale per cui «il diritto positivo è tale non in quanto semplicemente positum ma piuttosto in quanto institutum nella realtà sociale da cui sorge»93, così che l’ineludibilità del fenomeno interpretativo, sia dei fatti che di quanto è meramente positum, non può non accompagnarsi all’ineludibilità della reciproca comunicazione, reciprocamente interpretante, di tutte le istanze e di tutti gli strumenti tecnici che sono nella disponibilità di tutte le parti (privati, avvocati, giudici) coinvolte nel luogo, il tribunale, in cui si sviluppa la dinamica della vita giuridica. Non ci si può, in ogni caso, esimere dal segnalare che i rischi connessi alla decisa rivendicazione dell’imprescindibilità del momento 92 Ibidem, p. 233. 93 Ibidem, p. 229. 189 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) interpretativo e alla conseguente ridefinizione del concetto di positività che si sono delineate sono, per la configurazione tradizionale dell’esperienza giuridica, resa monolitica e granitica anche in virtù della propria resistenza a scardinare concezioni fortemente saldate, nel corso dei decenni, nella forma mentis dei giuristi continentali, notevoli. È infatti evidente come, in una tradizione giuridica fondata, alla luce del principio-guida illuministico della tripartizione dei poteri, sulla garanzia dei cittadini raggiunta attraverso la codificazione e la concezione dell’interpretazione come sillogistica estrazione di significati già impliciti nelle norme, le frontiere dell’ermeneutica, legittimanti comunque l’inserimento di componenti eminentemente soggettive nel momento interpretativo, che viene concepito come il nucleo fondante il prodursi dinamico dell’esperienza giuridica, conducano alla destabilizzazione potenziale del sistema giuridico contemporaneo nella sua globalità. Sembrerebbe, cioè, che gli argini posti all’arbitrio dell’esecutivo e del legislatore attraverso la separazione dei poteri, la capillare codificazione legislativa, e la concezione dell’interpretazione come attività ricognitiva, oggettiva e “meccanica”, del contenuto della legge, possano crollare per opera della nuova teoria dell’interpretazione dell’ermeneutica giuridica: essa, per quanto circoscriva l’imprescindibile carattere soggettivo dell’interpretazione attraverso il forte convincimento che la norma positiva debba essere sempre il punto fermo per ogni concreta “azione” ermeneutica, di fatto, però, apre le porte alla crisi delle colonne portanti stesse della nostra secolare impostazione giuridica. Se, in effetti, dal punto di vista teorico l’esperienza giuridica non è più esperienza esclusivamente normativa, ma esperienza complessiva, in cui la legge positiva, i fatti, i Valori si congiungono a formare un’unica dimensione esistenziale tagliata trasversalmente, e così mediata, dall’interpretazione, da intendersi quale momento da cui ogni istante della vita dell’uomo è permeato; e se, dal punto di vista della prassi giudiziaria, una simile nuova impostazione si traduce nella ri-qualificazione del ruolo del giudice, primo soggetto depositario del comL’ineluttabilità dell’interpretazione normativa issn 2035-584x pito interpretativo – ossia dell’azione che più di ogni altra “crea” l’esperienza giuridica in un fluido rigenerarsi continuo della stessa –, così che il “positivo” si ricrea perennemente su se stesso, una volta contestualizzato rispetto al caso, di fronte ad ogni nuova controversia, attraverso una decisione che “ritaglia” la legge secondo un profilo, sempre nuovo, perfettamente calibrato agli estremi concreti della controversia stessa; se è così, allora non può non emergere il rischio che, per una sorta di paradosso giuridico-esistenziale, le nuove tecniche filosofico-intepretative, in grado di percepire nella sua completezza la dimensione ontologica dell’essere umano nel mondo, si traducano, una volta attuate nell’esperienza giuridica, in una potenziale incrinatura di quelle garanzie che sono poste, anch’esse, proprio a tutela e garanzia della dimensione sociale dell’essere umano. In un simile panorama, prima fra tutte ad entrare potenzialmente in crisi è proprio la garanzia che, in una materia delicatissima come il diritto penale, è attuata dalla posizione e dal rispetto del principio di legalità, il quale oggi, dunque, come si afferma da più parti, «è in crisi in virtù delle acquisizioni sempre più cogenti provenienti dalla ermeneutica giuridica, che hanno falsificato il criterio metodologico, su cui si reggeva il dogma della legalità e della sottoposizione rigida del giudice alla legge, ipotizzante un rapporto univoco di dipendenza del risultato dell’interpretazione dal testo di legge»94. 94 M. Ronco, La legge penale: fonti, tempo, spazio, persone, Torino, 2006, p. 20. Nello stesso testo l’Autore (che si cita nelle righe seguenti) opera una descrizione approfondita, sorretta anche da un’ampia ed esaustiva panoramica storica, del significato del principio di legalità in materia penale, secondo il quale «la norma penale è legittima soltanto quando il suo oggetto sia stabilito da una legge precisa e determinata». Si tratta di un principio che, inoltre, è ancorato ad un solido fondamento giuridico-penalistico finalizzato a garantire la certezza del diritto in materia penale, e ad un fondamento politico-costituzionale per cui esso è teso a garantire i cittadini dall’abuso e dall’arbitrio tanto del potere esecutivo quanto del potere giudiziario. Ora, l’ermeneutica giuridica contemporanea, rivendicante princìpi radicati nell’essenza e nella dignità di ogni essere umano in quanto tale, sembrerebbe aprire le porte, in virtù delle proprie istanze ontologicamente rivolte alla valorizzazione dell’imprescindibilità dell’interpretazione, al 190 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x Purtuttavia, nonostante la sussistenza dei rischi che si sono descritti, la via maggiormente praticabile, per il futuro dell’esperienza giuridica, sembra essere comunque quella della prosecuzione nel percorso di “introspezione ermeneutica” della dimensione esistenziale dell’uomo e della sfera del giuridico, tanto per la sua capacità, per ciò che attiene l’ambito strettamente giuridico, di penetrare con precisione chirurgica nelle pieghe più profonde del pulsare degli elementi fondanti l’esperienza giuridica stessa, quanto per la sua idoneità a fungere da collante tra l’aspetto più tecnico (la legge) della dinamica giuridico-processuale contemporanea e il suo aspetto più discrezionale (l’operato del giudice). Tutto ciò, però, ad una condizione, necessaria per fare in modo che l’ineluttabilità dell’interpretazione non degeneri in veicolo demolitorio di ogni certezza giuridica: a condizione che l’ermeneutica, nel suo peregrinare tra i percorsi vibranti dell’essenza dell’umano e del giuridico, sia sempre, filosoficamente, accompagnata dal senso, altrettanto ineludibile quanto l’interpretazione stessa, della “giusta misura” tra gli eccessi. Stefano Favaro, esercita in Padova la professione forense in materia civile ed è dottorando di ricerca in Filosofia del Diritto e Teoria Generale del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova. [email protected] crollo – paradossale – di tali argini posti in realtà dal legislatore penale, a propria volta, come limite alla potenziale degenerazione in arbitrio dell’equità dell’organo giudicante. L’ineluttabilità dell’interpretazione normativa 191 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x La presenza Carlista a Trieste Miguel Ayuso Francesco Maurizio Di Giovine Abstract Parole chiave La presenza Carlista a Trieste è rappresentata da tre luoghi della città che testimoniano tangibilmente la storia della famiglia reale proscritta di Spagna e del loro seguito: il palazzetto di via del Lazzaretto Vecchio 24, nel quale vissero Carlos V, la principessa di Beira, Carlos VI e la consorte; la cappella di San Carlo in cattedrale, dove sono seppelliti Carlos V e la consorte, Carlos VI e la consorte, Juan III e Carlos VII; il campo III del cimitero di S. Anna, che raccoglie i resti di uomini e donne fedeli al tradizionalismo e che seguirono fino alla morte la dinastia legittima di Spagna. Carlos V Carlos VI Juan III Carlos VII Beira Carlismo Legittimità Tradizionalista Tristany Cabrera Q ste del primo re Carlista (1848), alla morte della regina Maria Teresa (1874), ultima abitante del piccolo palazzo reale di via del Lazzaretto Vecchio. Non molti anni, ma sufficienti per aver lasciato una profonda traccia nella storia del Carlismo, al punto tale da poter parlare di un Carlismo triestino. Questa, per sommi capi, è la sua storia. Carlos di Borbone, secondogenito del re di Spagna Carlos IV, aveva sposato una donna dal grande acume politico e dai fermi principi cattolici e legittimisti: la principessa Maria Francisca di Braganza (1800 – 1834), figlia di Giovanni VI re del Portogallo dal 1792 al 1806. Alla morte di Ferdinando VII (1833), suo fratello, in assenza di eredi maschi del re, divenne il legittimo successore in quanto primo maschio in ordine di successione. Ma per le tresche della vedova di Ferdinando VII, Maria Cristina di Borbone, nata principessa reale delle due Sicilie (1806 – 1878) e di sua sorella, la principes- uando in Spagna, tra i cultori della storia nazionale, si cita la città di Trieste, la memoria associa il luogo alla cattedrale di San Giusto, perché essa custodisce le spoglie mortali della Famiglia Reale Proscritta di Spagna. Carlos V, Carlos VI, Juan III, Carlos VII rappresentarono l’incarnazione della legittimità dinastica conculcata dalla rivoluzione liberale che impose sul trono di Spagna una linea di successione illegittima e fuori dalla tradizione. Vi è, comunque, un altro luogo di Trieste caro alla memoria storica degli spagnoli. E’ un piccolo palazzo sito in via del Lazzaretto Vecchio. In esso, al secondo piano, vissero i primi due Sovrani Proscritti, con il piccolo seguito, e, dopo di loro, ancora per 13 anni, la vedova di Carlos V, la regina Maria Teresa, nata principessa di Beira. La presenza dei Reali di Spagna in esilio fu fortemente significativa e si esaurì nell’arco di 26 anni, quanti ne trascorsero dall’arrivo a TrieLa presenza Carlista a Trieste 192 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) sa Carlotta (1804 – 1844), che aveva sposato il fratello più piccolo di Ferdinando VII, Francisco de Paula, appoggiate dal potente partito liberale, per proclamare regina la figlia di Ferdinando VII, Isabella II (1830 – 1904), sotto la reggenza della madre. Attorno a Don Carlos si schierarono i vecchi realistas, coloro che avevano combattuto l’ingresso dei napoleonidi in Spagna e nella sua cultura, quanti avevano difeso la tradizione delle Spagne nel Nuovo Mondo. Fu la rottura. Attorno a Don Carlos si coagulò un mondo che già resisteva alla francesizzazione della Spagna ed ora, finalmente, prendeva un nome: carlismo. Iniziava a vivere un movimento politico che attraverso la fedeltà a Don Carlos propagandò una idea di legittimità politica in nome di un principio e di una dottrina che elaborò un forte pensiero in continuo adattamento alle domande dei tempi, ma nel rigoroso rispetto con la continuità e con la tradizione cattolica della Spagna e delle Spagne. Difendendo i diritti di Don Carlos i carlisti rinnovavano il credo nell’idea politica della monarchia cattolica, missionaria e federativa. Don Carlos, quando morì suo fratello Ferdinando VII, si trovava in Portogallo, ospite del suocero. Il soggiorno si trasformò immediatamente in esilio, che durò per tutta la vita. La Spagna tradizionalista e cattolica entrò in conflitto con le forze liberali fedeli alla nuova dinastia liberale impostasi con l’inganno legale e diede origine a quella che fu definita la prima guerra Carlista (1833 – 1840) conclusasi, dopo sette anni, con la sconfitta delle forze fedeli a Don Carlos. Nel settembre del 1834, mentre Don Carlos era segretamente rientrato in Spagna per mettersi al comando del sollevamento Carlista, la principessa Maria Francisca, che era rimasta in Inghilterra, ad Alverstoke, vicino a Portsmouth, si ammalò e l’11 settembre, all’età di 35 anni, morì. La sorella Maria Teresa, principessa di Beira (1793 – 1874), era con lei. Maria Francisca, morendo, le affidò la cura dei figli. E la principessa di Beira assolse scrupolosamente al compito. Dopo aver seppellito provvisoriamente la sorella nella cappella di Gosport si consacrò totalmente alla causa di Don Carlos. La presenza Carlista a Trieste issn 2035-584x La principessa di Beira era vedova ed aveva un figlio, Don Sebastian, che si mise al comando di reparti fedeli a Don Carlos nella guerra contro le forze liberali ed isabelline. Maria Teresa di Beira nell’ottobre del 1838 entrò clandestinamente nel nord della Spagna e giunse ad Estella dove sposò Don Carlos. La nuova regina ricevette sul campo di guerra l’omaggio delle forze carliste. Al termine della sfortunata guerra, Don Carlos e la nuova regina, Maria Teresa, attraversarono la frontiera e passarono in Francia. Si stabilirono, assieme ai tre figli: Carlos (1818 – 1861), Juan (1822 – 1887) e Ferdinando (1824 – 1861), a Bourges, sotto la sorveglianza di agenti della quadruplice Alleanza1. Nell’autunno del 1847 il Re Carlos V, protetto dalla casa imperiale d’Austria, si trasferisce a Venezia, stabilendosi a palazzo Rezzonigo (oggi sede del museo del Settecento Veneziano) e di qui, a causa dell’instabilità politica della città, il primo di aprile del 1848 passa a Trieste, sua definitiva, benché ritenuta provvisoria, dimora nell’attesa di rientrare a Madrid. A Trieste, i Reali di Spagna presero alloggio al secondo piano di un austero palazzetto neoclassico sito in via del Lazzaretto Vecchio. In quell’epoca, la via attraversava un quartiere residenziale elegante e di recente formazione. La via conduceva al primo Lazzaretto triestino voluto dall’imperatore Carlos VI nel 1721, nel quadro dei lavori di riqualificazione portuale della città, divenuti indispensabili in seguito alla investitura di Trieste quale città porto franco (1719). Il Lazzaretto fu realizzato in dieci anni nell’area di Campo Marzio, tra la Sacchetta e Sant’Andrea, per la contumacia delle navi sospette. Il Lazzaretto comprendeva una cappella, consacrata nel 1732 e dedicata a San Carlo Borromeo, cosa che determinò la chiamata del posto con il nome di Lazzaretto San Carlo. Nel 1769, Trieste venne dichiarata libera città marittima, vale a dire con l’estensione del porto franco a tutto il suo territorio. Per l’occasione fu costruito un nuovo Lazzaretto, sito in un luogo più lontano dall’abitato, a Roiano. Esso fu chiamato Lazzaretto di Santa Teresa in 1 Stipulata nel 1834, la Quadruplice Alleanza era formata da Francia, Inghilterra, Spagna liberale e Portogallo contro gli interessi di Don Carlos. 193 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) onore dell’imperatrice d’Austria. Perciò il precedente Lazzaretto fu chiamato “vecchio” e la denominazione si conservò nel nome della strada. Il costruttore e primo proprietario del palazzo di via Lazzaretto Vecchio fu Francesco Gossleth (1792 – 1879). Ebanista affermato, nel 1828 aveva fondato a Trieste una grande fabbrica di mobili artistici che erano stati utilizzati per arredare i palazzi delle più facoltose famiglie triestine. Anche il castello di Miramare era stato arredato con i mobili usciti dalla fabbrica del Gossleth. La sua falegnameria era sistemata nei vasti locali di pianterreno del palazzo di via del Lazzaretto Vecchio. Di qui uscirono i mobili che arredarono l’appartamento della Famiglia Reale Proscritta, tra i quali il massiccio letto in cui morì Carlos V. Il 10 ottobre 1840 il Gossleth, avendo acquistato una villa in Largo del Promontorio, vendette l’edificio di Via del Lazzaretto Vecchio 24, appena terminato, al conte Don Ettore Lucchese Palli Pignatelli de’ principi di Campoformio (1806 – 1864), marito morganatico della duchessa di Berry2, Maria Carolina di Borbone (1798 – 1870). La duchessa di Berry aveva messo a disposizione dei congiunti, i Reali di Spagna, il secondo piano del palazzo, riservandosi il primo piano dove viveva quando, dalla Stiria, si trasferiva a Trieste per essere più vicina ai due figli avuti dal duca di Berry, Enrico e Luisa Maria3. Il rigido cerimoniale spagnolo di corte cadenzò le giornate della famiglia reale proscritta e sebbene il Re Carlos V avesse rinunciato ai diritti regali in favore del figlio maggiore, assumendo il titolo di conte di Molina, tutto il seguito continuò a comportarsi come se egli fosse ancora il Re della Spagna. Così via del Lazzaretto Vecchio cominciò ad essere crocevia di incontri politici, diplomatici e cospirativi. I Reali di Spagna fecero del palazzetto di via del Lazzaretto Vecchio il luogo di udienze di un incessante pellegrinaggio di fedeli carlisti 2 Il palazzo dei reali di Spagna in esilio a Trieste, a cura di Giuliana Marini ed Edoardo Marini, Trieste 1989, pagg. 8 -10 3 Il palazzo fu alienato dalla duchessa di Berry nel 1852, quando acquistò a Venezia il palazzo Vendramin Calergi. Qui, nel 1883 morì Richard Wagner ospite del Conte di Chambord, Enrico di Borbone. La presenza Carlista a Trieste issn 2035-584x che giungevano a Trieste, dopo mille difficoltà, dalla penisola spagnola e dalle altre città europee in cui vivevano anch’essi in esilio. Il generale Cabrera, per fare un solo esempio, diede inizio ad un nuovo sollevamento a favore della causa Carlista dopo una udienza a Trieste. La permanenza dei reali di Spagna a Trieste è ancora tutta da studiare. Del lungo soggiorno borbonico sappiamo ancora poco. Lo storico José Maria Carulla, combattente Carlista nella terza guerra, visitò Trieste nel 1867 e lasciò una vivace descrizione della corte Carlista nel suo Viaje de Madrid à Roma. In esso rivela che i Carlisti abitavano “in un povero palazzo”4. Nei primi anni, Don Carlos e Donna Maria Teresa vissero pressoché lontani dai figli. Il primogenito Carlos, dopo il matrimonio con la principessa Carolina di Borbone delle Due Sicilie, si era stabilito a Napoli. Il secondogenito, Don Juan, allontanatosi dottrinalmente dal carlismo dopo essersi separato dalla cattolicissima consorte Maria Beatrice d’Austria Este, principessa reale di Modena, vagabondava per l’Europa, sicuro di sé per il ricco appannaggio annualmente concesso dalla arciduchessa Maria Beatrice per avere libertà libera nell’educazione dei due infanti nati dal matrimonio: Carlos ed Alfonso Carlos. A Trieste era rimasto in famiglia solo il principe Don Ferdinando. Con essi vi era un piccola corte di fedeli che in parte abitava nel palazzetto, mentre i più erano alloggiati nelle vicinanze. Questa era la piccola corte della famiglia reale proscritta a Trieste: Don Niceto Monino y Pinar, generale di brigata, maggiordomo e segretario; donna Teresa Flerus, cameriera della Regina; Don José Domingo de Azcoaga y Medinaveira, segretario della regina Maria Teresa; Don Gabriel de Flòrez, conte de Flòrez, ciambellano della Regina; Don Iosé Villavicencio, maggiordomo e gentiluomo; Don José de Flòrez, gentiluomo; Don Juan Guillén, gentiluomo; Don José Ibarra, gentiluomo; Don José Antonio Sacanell, maresciallo di campo, aiutante di camera; Don Pedro Barrera Ratòn, confessore; Donna Maria José de Torres Ruiz de Ribeira Pimentel y Connock, contessa di Matallara, dama d’onore della Regina; Donna Maria de la Concepcion de Le4 J. M. Carulla, , Madrid, 1867, pag. 25 194 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) saca, contessa de la Lealtad, dama d’onore della Regina; donna Maria Benita Calvet, contessa di Florez, dama d’onore della Regina; donna Maria de Lopez Nuno, dama d’onore della Regina; donna Gregoria de Azcoaga y Medinaveira, dama; don Francisco de Cardona y Almagro, archiatra; Don José Domingo de Azcoaga, (cameriere); Don Lorenzo de Angulo, sarto; Don José de Angulo, servitore; Donna Maria del Patrocinio de Angulo, domestica; Don Diego Zarranz, servitore; Don Joaquin Zarranz, servitore della Regina; Don José Yel y Mejia, servitore della Famiglia Reale; Don José Troitino, cuoco; Elisa ?, domestica; Augustin, paggio5. All’inizio del 1855, il Re Carlos V cominciò a sentirsi male. In febbraio le sue condizioni peggiorarono al punto da non riuscire più ad alimentarsi con regolarità. L’archiatra di corte consultò alcuni luminari della medicina, tra cui il professor Lorenzutti, primario dell’ospedale generale di Trieste. Riunitisi il 9 marzo, i clinici ritennero il reale paziente in condizioni estremamente gravi al punto da consigliare la somministrazione dell’estrema unzione. Il Re fu messo al corrente della situazione. Chiamò il suo confessore, padre Pedro Barrera Raton per quella che fu la sua ultima confessione. Poco dopo giunse il Vescovo di Trieste e Capodistria, Bartolomeo Pegat che amministrò il viatico alle ore 23. La notizia dell’imminente morte si sparse in tutto il quartiere. La commozione fu generale perché il Re era conosciuto ed amato. Si formò una processione spontanea che silenziosamente giunse fino alle porte del palazzo. Essa era guidata dal barone Carlo Pascotini, consigliere aulico e vicegovernatore della città. Per tutta la notte l’infermo fu vegliato dalla Regina, dall’infante Fernando e da Don José de Villavicencio, conte de la Constancia. Alle 4 del mattino il medico acconsentì a dare all’infermo l’estrema unzione. Alle ore 9,30 del mattino del 10 marzo, il Re che aveva alzato per primo la bandiera della legittimità e della tradizione cattolica in Spagna contro il principio dell’eresia liberale rendeva l’anima a Dio. Aveva compiuto 66 anni, 11 mesi e 9 giorni di 5 Antonio Manuel Moral Roncal, Carlos V de Borbòn, Madrid, 1999, pag. 405, Anna Monteduro, L’Escorial dell’Esilio, Trieste, 2006, pag. 125 - 144 La presenza Carlista a Trieste issn 2035-584x età. Il suo corpo fu imbalsamato e sepolto nella cattedrale di San Giusto con indosso l’uniforme di capitano generale dell’esercito reale di Spagna. Ai funerali partecipò un gran folla di popolo Triestino. Accorsero a Trieste molti principi reali, in testa ai quali vi era Enrico di Borbone, conte di Chambord6. Il conte di Montemolin, suo figlio, ora era il Re legittimo di Spagna, a tutti gli effetti, con il nome di Carlos VI. Nella primavera del 1860, sempre a Trieste, nella discreta cospirazione dei saloni di via del Lazzaretto Vecchio, si organizza un nuovo tentativo per portare sul trono di Spagna il nuovo re Carlista. Il generale Jaime Ortega, comandante delle isole Baleari, segreto sostenitore del Carlismo, si mise a disposizione del re legittimo per tentare la realizzazione di un progetto estremamente audace. Il 2 aprile 1860, il generale Ortega, al comando di 3.500 uomini, sbarcò a San Carlos de la Rapida, una località costiera nei pressi di Valencia. Con lui sbarcarono Carlos VI ed il fratello più giovane, l’infante Don Ferdinando. Ma l’operazione fallì. Carlos VI e suo fratello furono arrestati dalla polizia ed in cambio della libertà dovettero sottoscrivere una rinuncia ai diritti dinastici. I quali passarono automaticamente al secondo dei tre figli di Carlos V: Don Juan. Il meno Carlista, sotto il profilo dottrinale, dei tre fratelli. Egli, con un atteggiamento estremamente superficiale, accettò la successione ma spaventò il mondo tradizionalista per le sue idee molto vicine al liberalismo. In questo contesto politico, caratterizzato da una notevole confusione ideologica, Montemolin, il rinunciatario Carlos VI, appena libero, diffuse un pubblico disconoscimento della rinuncia estortagli durante la prigionia, definendola priva di valore legale. Anche il fratello Ferdinando fece una analoga dichiarazione. Ora il carlismo, paradossalmente, si trovava nella intima situazione di avere due sovrani, entrambi in esilio. I primi giorni di gennaio dell’anno seguente, il conte di Montemolin, sua moglie Carolina ed il fratello Ferdinando si trovavano in Stiria, nel castello di Brunnensee, ospiti della duchessa di Berry, zia della moglie di Montemolin. 6 Jean Paul Bled, L’esilio dei gigli. I Borboni di Francia e di Spagna a Gorizia e Trieste, Gorizia, 2003, pag. 101 195 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) Ferdinando, improvvisamente, si sentì male e poco dopo morì. La coppia reale, spaventata, fece immediatamente ritorno a Trieste con la salma dell’infante Ferdinando. Appena giunti a Trieste anche Montemolin e la moglie si sentirono male, avvertendo gli stessi sintomi accusati dal principe Ferdinando. Al tramonto del 13 gennaio Carlos VI, conte di Montemolin, moriva. La sposa, Carolina, colpita dal dolore, non si volle staccare dal corpo esanime del marito. Dopo poche ore era morta anche lei. Tutti e tre i reali congiunti vennero sepolti in San Giusto, nella cappella di San Carlo, accanto alle spoglie di Carlos V. I medici non seppero spiegare le cause dei repentini decessi: qualcuno parlò di morbillo, qualcun altro di scarlattina, altri ancora di tifo. Ma non si venne a capo della vera causa. Tra la popolazione di Trieste, soprattutto tra i poveri del quartiere, perennemente beneficati dalla coppia reale, serpeggiò la convinzione che i due fratelli fossero stati avvelenati durante la prigionia. Prontamente il fedele domestico di Montemolin, Manuel de Echarry, volle smentire la diceria affermando che, subita la stessa sorte del suo padrone e Re durante la prigionia, aveva sempre assaggiato tutti i suoi pasti. E non era morto. Ma il popolo triestino, diffidente, restò nelle originarie convinzioni. Don Juan rimaneva l’unico re legittimo e ciò complicava la questione proprio nel campo tradizionalista. In questo periodo si trovava a Trieste, tra il seguito militare della Famiglia Reale Proscritta, il generale Rafael Tristany in qualità di aiutante di campo del re Carlos VI. Ed in tale veste accompagnò in San Giusto il feretro del sovrano defunto. Tenente colonnello al termine della prima guerra Carlista, divenne generale di brigata nella campagna del 1847 – 1849. Era emigrato in Francia per sottrarsi all’arresto ed aveva fatto ritorno in Catalogna nel 1855 dove per oltre un anno assunse il comando di una formazione di 200 carlisti. Nel 1856 si recò a Napoli e poi a Modena, dove non riuscì ad entrare nell’esercito ducale per mancanza di un ruolo adeguato al suo grado. Tuttavia svolse alcune missioni delicate per conto del duca regnante Francesco V. Alla caduta del ducato, nel 1859, aveva seguito il duca a Verona e di lì La presenza Carlista a Trieste issn 2035-584x era passato a Trieste per entrare nel quartier generale di palazzo reale. Da Trieste tornò in Spagna per partecipare alla cospirazione di San Carlos de la Rapita ed in seguito al suo fallimento fece rientro a Trieste. Nel 1861 il Re delle due Sicilie Francesco II di Borbone, giunto da poco a Roma, in esilio, chiese la sua presenza per organizzare la resistenza militare in Abruzzo ai piemontesi. Il generale Don Rafael Tristany prima di accettare l’offerta chiese il nulla osta alla regina madre di Spagna e dopo averlo ottenuto si trasferì prima a Roma e poi nei pressi di Sora per organizzare la guerriglia antipiemontese e antiliberale in nome degli stessi principii tradizionalisti. E’ a questo punto che entra in scena, con un ruolo politico di spicco, la vedova di Carlos V, Maria Teresa, per riprendere le file della battaglia dal palazzo di via del Lazzaretto Vecchio. E’ questo il periodo di transizione del carlismo. I combattenti della prima guerra, la generazione di Don Carlos e Ferdinando VII se non è morta è al tramonto dell’esistenza. I tempi stanno mutando sotto la spinta di un’accelerazione scientista che sta allontanando l’uomo dalle campagne. Nasce il mondo delle fabbriche e dello sfruttamento più evidente dell’uomo sull’uomo. La principessa di Beira ed i suoi consiglieri avvertono il mutamento socio-politico in corso e rilanciano la dottrina Carlista adattandola alle domande che vengono dalla società, pur rimanendo nella piena ortodossia cattolica sul terreno della tradizione delle Spagne. Il cenacolo di intellettuali che si stringe attorno al palazzo reale di via del Lazzaretto Vecchio è sempre più ostile a don Juan, alle sue teorizzazioni, soprattutto ora che l’infante manifesta segni di ripetuto cedimento dottrinale avvicinandosi alla dinastia isabellina che aveva usurpato il trono. Il carlismo ha bisogno di un Re e dal palazzo di via del Lazzaretto Vecchio le speranze politiche della corte spagnola in esilio si riversano sul figlio primogenito di Don Juan, il giovane Carlos che viveva in Boemia, nel palazzo reale Praga, con il fratello Alfonso Carlos sotto la vigile tutela della madre, arciduchessa Maria Beatrice. La principessa austro-estense era fortemente contraria a che i figli abbracciassero 196 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) i principii del carlismo, non per un dissenso dottrinale, essendo l’arciduchessa una intransigente cattolica di orientamento tradizionalista. La regale madre temeva le dolorose conseguenze a cui sarebbero andati incontro i figli se si fossero messi alla testa delle rivendicazioni dei tradizionalisti spagnoli. Per questo motivo aveva allontanato tutti gli istitutori spagnoli, fidandosi soltanto di professori di lingua italiana, fuoriusciti dal cessato ducato di Modena perché fedeli al deposto duca Francesco V. Ma nei due giovani infanti batteva un cuore spagnolo. Il generale Cabrera, eroe della prima guerra Carlista, si recò a Praga per conoscere il futuro sovrano della linea Carlista, ma l’arciduchessa Maria Beatrice vietò l’incontro. Giunse a far montare di guardia due granatieri ungheresi fuori dall’appartamento dei due infanti per evitare contatti con spagnoli. Nonostante ciò i messaggi della principessa di Beira giungevano al giovane Carlos. Il quale era spagnolo. Parlava e rispondeva in castigliano, e, soprattutto, era consapevole di incarnare l’essenza storica del tradizionalismo spagnolo. Le insistenze del giovane Carlos fecero breccia nel cuore di donna Maria Beatrice la quale autorizzò il giovane a recarsi per otto giorni a Trieste dalla principessa di Beira. “Nella casa di mia nonna” scrisse il giovane Carlos “sono tutti spagnoli; il cibo è spagnolo, i letti sono spagnoli, ogni cosa è spagnola”7. Iniziò, per l’infante, la formazione dottrinale tradizionalista. Finalmente la principessa di Beira aveva incontrato la persona che poteva garantire al tradizionalismo spagnolo la continuità dinastica e forte di ciò nel 1864, quando Carlos, ormai trasferitosi a Venezia con il fratello e la madre, aveva 16 anni, rese pubblica la celebre Carta a los espanoles. Nell’efficace manifesto politico la principessa riaffermò i diritti intangibili del carlismo alla corona di Spagna, propose il programma del legittimismo in cui si stabiliva che alla legittimità di origine doveva esserci la legittimità di esercizio e presentò il sedicenne Carlos come il nuovo Re. Singolarmente l’investitura era stata concorda a Trieste. Il manifesto si chiudeva con un saluto a quello che da 7 Citato da T. Aronson, I Borboni e la corona di Spagna, Milano, 1969, pag. 147 La presenza Carlista a Trieste issn 2035-584x ora in poi sarebbe stato chiamato Carlos VII. L’astro del nuovo Re spuntò nel 1872 allorchè la Spagna legittimista prese le armi contro la falsa monarchia di Amedeo di Savoia e nel 1874, quando le fortune belliche sembravano favorevoli al carlismo, la principessa di Beira morì nel palazzo di via del Lazzaretto Vecchio. Aveva 81 anni. Era conosciuta soprattutto fra i poveri della città per le inesauribili opere assistenziali. Poco prima di morire fece chiamare al capezzale Isabel Burton, moglie del console britannico a Trieste e le raccomandò di continuare le sue opere di beneficenza8. Le spoglie mortali della principessa di Beira furono inumate in San Giusto, nella cappella di San Carlo, accanto a quelle del suo sposo. Non c’è dubbio che la figura più interessante del carlismo che visse nel piccolo palazzo della famiglia reale proscritta di Spagna di via del Lazzaretto Vecchio, fu la principessa di Beira. Di lei, il console spagnolo a Trieste, Joaquin Garcia Miranda, console del governo liberale, disse: “Quando morirà Maria Teresa si risentirà molto a Trieste. Migliaia di fiorini cesseranno di andare ai poveri”9. La vita della regina non è stata ancora studiata nella sua interezza. Ora è imminente la pubblicazione di una biografia in lingua inglese realizzata dalla storica statunitense Alexandra Wilhelmsen che, alla fine degli anni ‘90 ha svolto varie ricerche in Trieste. Maria Teresa di Braganza era nata ad Ajnda il 22 aprile 1793, prima figlia del re Giovanni VI di Portogallo e di Carlotta. Le fu assegnato il titolo di principessa di Beira, normalmente riservato all’erede presuntivo al trono. Il 13 maggio 1810 sposò a Rio de Janeiro, dove la famiglia reale portoghese si era rifugiata in seguito all’invasione napoleonica, l’infante Pietro Carlo che morì due anni dopo. Dal matrimonio nacque, postumo, l’infante Sebastiano. Donna dotata di un acume politico di notevole spessore, divenne una co8 Isabel Eagle Burton, moglie di Richard Francis Burton, console britannico a Trieste dal 1871 fondò la Croce Triestina, collegata alla Croce Rossa Internazionale. Di lei, nel duomo cittadino, è detto in una lapide “donna pia e devotissima”. 9 La dichiarazione è riportata in A, Monteduro, L’Escorial dell’Esilio, Trieste, 2006, pag. 104 197 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) lonna portante del Carlismo dottrinario. Pochi anni dopo la morte della principessa di Beira, nel novembre del 1887 morì a Brighton, all’età di 65 anni, Don Juan, il padre del re Carlos VII. In quella lontana città era conosciuto sotto il nome di Montagu ed alla morte i giornali locali ignorarono l’effettiva identità del defunto. I funerali si svolsero nella Chiesa del Sacro Cuore a Hove ed il corpo venne sepolto in una tomba allestita al cimitero presbiteriano. Pochi mesi dopo i funerali, le spoglie di Don Juan, assieme a quelle di sua madre, la principessa Maria Francisca di Braganza, sepolta a Gosport più di cinquanta anni prima, vennero portate a Trieste ed inumate nella cattedrale di San Giusto, sempre nella cappella di San Carlo. Furono seppellite al fianco di Carlos V. Sulla pietra sepolcrale di Don Juan, che i carlisti avevano più volte definito “l’apostata”, la carità cristiana degli stessi carlisti, in obbedienza al principio della legittimità dinastica, impose che si scrivessero in lettere d’oro le seguenti parole: “Joannes III Hispaniarum Rex”. Con la morte di Maria Teresa di Braganza, principessa di Beira, il palazzo di via del Lazzaretto Vecchio si chiuse per sempre per la corte proscritta. Ma non San Giusto. Passarono molti anni. Il secolo decimo nono si chiuse e si affacciò, pieno di speranze, il nuovo secolo. A Venezia viveva, in esilio, il re Carlos VII, figlio di Don Juan e nipote di Carlos V. Il 17 luglio del 1909, mentre si trovava in vacanza a Varese, in seguito ad un arresto cardiaco cessava di vivere. Il suo corpo, rivestito, come quello dei suoi predecessori, dell’uniforme di capitano generale dell’esercito reale di Spagna che usò durante la terza guerra Carlista, con l’insegna del Toson d’oro, la placca di San Fernando e le medaglie di Montejurra e Somorrostro, fu trasferito a Trieste e sepolto il 23 luglio dello stesso anno nella cappella di San Carlo, in cattedrale. Il funerale raccolse nella città adriatica i legittimisti provenienti da tutte le province spagnole ed i principi reali che si riconoscevano negli ideali di Don Carlos. Essi erano guidati da Don Saverio di Borbone, nipote della prima consorte di Don Carlos, la regina Margherita, nonché figlio dell’ultimo duca regnante di Parma, Don Roberto I, padre di numerosa prole tra la quale La presenza Carlista a Trieste issn 2035-584x è da ricordare Zita, l’ultima imperatrice d’Austria – Ungheria. Da questo momento, la piccola cappella di San Carlo cominciò ad essere appellata l’Escorial dell’esilio per il numero dei legittimi sovrani di Spagna qui sepolti. I carlisti convenuti nella penisola italiana proclamarono Don Jaime, figlio del Re Carlos VII, suo successore. A cento anni di distanza dalla morte di Carlos VII i tradizionalisti spagnoli non hanno dimenticato il valore di questo sovrano. Mutati i tempi, entrati ancora una volta in un nuovo secolo, morti tutti i vecchi legittimisti, il 17 luglio dell’anno che sta per terminare sono giunti da varie province spagnole uomini, Donne e giovani in nome del tradizionalismo e nel più puro stile Carlista, che ha sempre coniugato dottrina, religiosità e fedeltà dinastica, aiutati da tradizionalisti della penisola italiana, hanno organizzato un convegno di studi, patrocinato dal comune di Trieste, sul tema “Il Carlismo e la Trieste Asburgica” che si è tenuto nella sala Bobi Bazlen di Palazzo Gopcevich. Il convegno si è svolto sotto la presidenza del principe reale Don Sisto Enrico di Borbone, duca di Aranjuez, figlio di Don Saverio, che, come è stato già detto, cento anni prima capeggiava la pattuglia dei principi reali presenti al funerale di Carlos VII, testimoniando così una continuità dinastica di fedeltà ai principii del Carlismo. Al temine del convegno è stata celebrata un messa di requiem nella cappella di San Carlo, nella cattedrale, con il rito romano antico, officiata da Mons. Ignacio Barreiro - Carambula, un generoso figlio delle Spagne accorso a Trieste per la celebrazione commemorativa. La storia del Carlismo triestino non è, comunque, ancora completa. Abbiamo iniziato la ricognizione storica citando due luoghi di Trieste cari al tradizionalismo delle Spagne: la cappella di San Carlo in San Giusto ed il palazzetto di Via del Lazzaretto Vecchio. Vi è un terzo luogo che completa l’itinerario Carlista di Trieste: è il Campo III del Cimitero di Sant’Anna. La famiglia reale proscritta decise, con l’accordo dei fedeli di corte, di raccogliere tutte assieme le spoglie dei fedeli man mano che morivano. E per lo scopo fu acquistato un 198 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x campo nel cimitero monumentale. La prima salma fu sotterrata nel maggio del 1858 ed appartiene alla contessa Maria José de Ribera Pimentel y Connock, dama d’onore della Regina. L’ultima a Diego Zarranz, figlio di Joacquin, morto il 10 febbraio 1895. I loro nomi, scolpiti nella pietra tombale, segnano nel tempo un atteggiamento umano contraddistinto dalla fedeltà fino alla morte all’ideale della Legittimità storica, politica e dottrinale che, indipendentemente dalle contingenze temporali, resta di grande validità. Miguel Ayuso, ordinario di Diritto Costituzionale nella Università Comillas di Madrid; Dottore honoris causa della Università degli Studi di Udine, presidente della Union Internationale des Juristes Catholiques (Città del Vaticano); direttore del Consiglio di Studi Ispanici Philippo II (Madrid); vicepresidente del “Institut International d’Études Europeénnes Antonio Rosmini” (Bolzano). È autore di venti libri e circa trecento articoli. [email protected] Francesco Maurizio Di Giovine è uno studioso del Carlismo, in generale, e del pensiero politico dell’antirisorgimento italiano. Ha curato la pubblicazione delle intere collezioni di due giornali Napoletani editi a cavallo dell’unità d’italia: La Tragicommedia e L’Equatore. Ha curato la ripubblicazione dell’opera di Teodoro Salzillo, “L’assedio di Gaeta”; ha scritto il saggio “1799. Rivoluzione contro Napoli” e “L’età di Ferdinando II”. [email protected] La presenza Carlista a Trieste 199