leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it Prima edizione: aprile 2011 La riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza l’autorizzazione scritta dell’Editore è severamente vietata © 2011 Arcana Edizioni Srl Via Isonzo 34, Roma Tutti i diritti riservati Copertina: Laura Oliva ISBN: 978-88-6231-158-8 www.arcanaedizioni.com Francesco Donadio Edoardo Bennato Venderò la mia rabbia Indice Entrata 19 luglio 1980 11 15 PRIMA PARTE 17 19 31 41 45 49 65 67 75 79 1. I graffi sui ginocchi 2. Dopo il liceo che potevo far 3. Solo il pretesto per fare una canzone 4. A mia discolpa cito Sandro Colombini 5. Tempo sprecato 6. Avete letto mai Roberto De Simone? 7. Patrizio dice che si deve sempre dire 8. Un progetto in mente 9. Noi scopriamo talenti e non sbagliamo mai SECONDA PARTE 10. Venderò la mia pazzia 11. Raffaele è contento 12. Arrivano i cantanti 13. Una bella riuscita 14. Roma di primi incontri 15. Facciamo un compromesso 87 89 95 103 115 127 139 16. Io che non scendo a patti con te 17. Arrivano i buoni 18. Tu non sei un comune mortale 19. Non è questione di ingenuità 20. Guardare avanti sì ma ad una condizione 21. Comincia la festa TERZA PARTE 22. Non li senti trattenere il respiro? 23. È la mia città 24. Muoviti muoviti 25. Due per volta 26. Avete capito o no? 27. Come sarebbe bello se… 28. E invece sì QUARTA PARTE 29. L’eroe fantasy 30. Il gioco continua 31. Non puoi fermarti ora Uscita Discografia Bennatoweb Bibliografia Ringraziamenti 143 159 171 185 193 197 209 211 223 233 245 253 263 271 277 279 293 309 309 313 327 329 339 VENDERÒ LA MIA RABBIA Entrata Edoardo Bennato è stato tra i primi tasselli della mia formazione musicale. Su me undicenne la scoperta de I BUONI E I CATTIVI e di questo stravagante personaggio con voce irridente, armonica e kazoo, dopo una fase di Yuppi du e di Sugar Baby Love ebbe un effetto dirompente. Mi buttai a pesce, naturalmente, su LA TORRE DI BABELE, e il giorno stesso dell’uscita di BURATTINO SENZA FILI corsi a comprarlo al negozio di dischi sotto casa (altri tempi!) e lo ascoltai, credo, almeno una ventina di volte di seguito, facciata dopo facciata. Poi scoprii i Beatles, i Kiss (ebbene sì) e gli Who. Arrivarono il punk, la new wave e l’hip hop e iniziò, per me, tutta un’altra storia. Bennato sì, continuavo vagamente a seguirlo, mi prestarono SONO SOLO CANZONETTE e UFFÀ! UFFÀ!, che mi piacquero e che registrai puntualmente sui due lati di una C90, ma lo persi un po’ di vista. Poi, nel 1984, mi capitò di vedere un suo concerto al glorioso Tenda Seven Up di Roma (situato nello spazio dove oggi si erge l’Auditorium): era il periodo di È GOAL! e lui si presentava con una formazione elettrica, a imitare un certo suono rock da FM angloamericano: poco a che vedere con l’uomo-orchestra che in precedenza aveva acceso la mia immaginazione. Fu una delusione, considerando che qualche giorno prima su quel palco avevo visto i Waterboys e i Pretenders (ovvero: i new wavers “veri”), e su Bennato misi la classica croce sopra, derubricandolo a mera infatuazione preadolescenziale. 11 Poi – per motivi che sarebbe ozioso spiegare – un anno e mezzo fa mi è capitato di restare per una quindicina di giorni isolato all’estero con due soli Cd a disposizione: SONO SOLO CANZONETTE e BURATTINO SENZA FILI. Ascoltandoli a raffica, senza soluzione di continuità, mi è capitato di trovarmi a riflettere, per la prima volta dopo tanti anni, che dopotutto non era così male ’sto Bennato. Tornato a casa ho voluto approfondire: mi sono (ri)procurato tutti i primi dischi e ho realizzato che in effetti reggono ancora bene e che in particolare I BUONI E I CATTIVI e IO CHE NON SONO L’IMPERATORE possiedono una certa originalità e risultano validi anche pensando a quanto avveniva, all’epoca della loro uscita, sulla scena internazionale. Volendo saperne di più, mi sono reso conto che su Bennato non era stato pubblicato quasi niente: c’erano tre biografie, ma una (Da Rinnegato a Eroe Fantasy) era opera di autodichiarati fan e le altre due (Il succo del nocciolo di Giorgio Darmanin e Cosi è se vi pare di Aldo Foglia) erano state scritte da amici per la pelle dell’artista, facenti a tutt’oggi parte del suo entourage. Risultato: molti aneddoti ma nessuna analisi critica, scarse e superficiali indicazioni per la comprensione dei testi e una pressoché totale assenza del contesto in cui Bennato si trovò a operare nella parte più feconda e creativa della sua carriera. Una lacuna incomprensibile, per vari motivi. Negli anni Settanta Bennato è stato forse il più amato tra i cantautori e, anche se riluttante e spesso incompreso, ha svolto il ruolo di portavoce della generazione che si affacciava al mondo in quel frangente. Inoltre, sempre in quel periodo, ha composto almeno una trentina di brani che vanno considerati tra i “classici” della nostra discografia. Eppure oggi di Bennato si parla ingiustamente troppo poco, e bisogna rendergli giustizia. Per farlo, per raccontare una storia che a rileggerla sembra un romanzo, ho consultato gli archivi a disposizione (dischi, video, libri, riviste, quotidiani, teche Rai) e ho intervistato tutti (o quasi) coloro che hanno avuto a che fare con il cantautore/rocker di Bagnoli, in particolar modo durante gli “anni d’oro”. Ho ricostruito date ed eventi e ho cercato di chiarire il significato di liriche che lette su carta o ascoltate dai dischi possono risultare ambigue e di difficile comprensione. E, quando ce n’è stato bisogno, ho dedotto e ho tratto le mie conclusioni. Il risultato è un libro che spero riveli molti aspetti inediti su Bennato e nel contempo riesca a dire anche qualcosa sull’Italia musicale dell’ultimo mezzo secolo. Rileggendo quanto scritto, mi rendo conto che a Edoardo probabilmente non piacerà: mi sono fatto un po’ troppo gli affari suoi (e so quanto lui sia una persona schiva) e sono stato severo verso una parte della sua produzione, la più recente. Spero però capisca che un testo adorante – come se ne trovano su 12 tanti artisti – sarebbe stato inutile e forse perfino dannoso. Bisognava scegliere e discernere, elogiare e criticare a seconda dei casi, e questo è ciò che ho cercato di fare, usando come pietra di paragone la produzione angloamericana di ciascun singolo periodo, quella con cui in fondo lo stesso Bennato si è sempre confrontato, piuttosto che la meno stimolante scena italiana. L’auspicio è che la rivalutazione dell’ormai ultraquarantennale carriera di Edoardo Bennato possa cominciare da qui. Roma, marzo 2011 13 19 luglio 1980 Lo spettacolo sta per iniziare. Edoardo Bennato, con la chitarra a tracolla, si sta avviando a passo svelto verso il tunnel che conduce dagli spogliatoi dello stadio al campo di gioco. Non è solo: gli fanno strada i suoi amici di sempre, i “ragazzi del cortile” di Napoli, e alle sue calcagna c’è la troupe di cineoperatori della Rai che sta riprendendo ogni suo movimento. Alla loro testa c’è Gianni, il giornalista regista, che a un certo punto allunga la falcata e riesce ad affiancare Edoardo. Gli piazza il microfono praticamente in bocca e gli domanda: “Hai paura?”. La domanda è pertinente: come si può non avere almeno un pizzico di paura quando stai per andare a suonare per il pubblico più vasto della tua carriera, 80mila persone, in uno degli stadi più grandi e più gloriosi d’Italia? Come è possibile non provare neanche un tremolio quando stai per entrare in una dimensione di successo così enorme da essere irreale, e che non è stata mai conosciuta prima d’ora da nessun altro musicista italiano, neanche da un monumento come Lucio Battisti? Edoardo è teso, questo è sicuro. Durante un concerto del genere si può sempre verificare un malfunzionamento. L’amplificazione potrebbe non risultare all’altezza, le spie sul palco potrebbero andare in tilt, si potrebbe rompere una corda della chitarra nel momento sbagliato… Ma la paura è un’altra cosa. Edoardo la conosce bene, perché in passato ha provato la paura – anzi il terrore – di non riuscire a realizzare il suo sogno. È 15 capitato spesso: all’inizio, quando è emigrato a Milano dove gli davano del terrone e gli sbattevano tutte le porte in faccia. E poi durante il periodo di apprendistato per l’etichetta Numero Uno, con le tante, troppe volte che si è sentito trattare come uno di serie B. E ancora, dopo il fallimento del primo Lp, quando ha dovuto ricominciare da zero e affrontare folle che non sapevano neanche chi fosse, da conquistare con la sola forza della musica. E quindi, a ripetizione, durante gli anni Settanta, ogni volta che entrava in scena e sapeva che prima o poi sarebbe giunto il momento in cui un gruppetto di esagitati avrebbe iniziato a contestarlo, e a volte finiva addirittura a calci e a pugni, se non a ferite da coltello. Lì sì che c’era da spaventarsi. Ma non questa sera a San Siro, dove tutta quella gente ha pagato un biglietto per lui e non vede l’ora di vederlo salire sul palco. Ha sudato tutta una vita, Edoardo, per questo momento, e ora non vede l’ora di goderselo pienamente. Ma quale paura. 16 PRIMA PARTE 1. I graffi sui ginocchi Signor Presidente, i nostri alleati improvvisamente son stati attaccati e noi non possiamo restare a guardare l’Europa ci chiama, dobbiamo partire (Mi chiamo Edoardo) A Napoli dopo la fine della guerra ci stanno gli americani. Sono entrati in città il primo ottobre 1943 e non se ne sono più andati. Per gli Stati Uniti il porto della città ha una valenza strategica nel Mediterraneo: vi passano navi, automezzi, aerei, armi e soldati, in un flusso ininterrotto fino alla vittoria finale degli Alleati e poi anche in seguito, con l’avvento della Guerra Fredda. Poco tempo prima gli americani erano stati i “nemici” e avevano inflitto durissimi bombardamenti su Napoli, mettendo in ginocchio la città e la popolazione, ma la gente, si sa, dimentica in fretta. I napoletani ora amano gli americani che li hanno liberati dal giogo nazista, e i GI’s che si trovano nel capoluogo non possono che ricambiare, sbalorditi dalla bellezza (e dalle bellezze) di una città che per tanti di loro, venuti dalle monotone praterie dell’Arizona o dai campi di cotone del Tennessee, deve sembrare una specie di paradiso terrestre. Si sdebitano dell’accoglienza ricevuta, gli americani, portando sorrisi, vitalità, giovinezza, cibo in abbondanza, gomme da masticare, Coca-Cola, blue jeans e tanta musica: la loro. Che in quel preciso momento storico si chiama jazz, in tutte le sue varie declinazioni, dal dixieland al bebop passando per lo swing delle grandi orchestre. In questo clima di complessa ricostruzione, ma anche di ritrovata libertà e ottimismo, nasce a Napoli il 23 luglio 1946 il primo figlio di Carlo Bennato, impiegato, e Adele Zito, diplomata alle magistrali ma al momento casalinga. 19 Gli viene dato il nome Edoardo, in memoria di un fratello di Carlo morto alcuni anni prima in Sardegna, per un incidente aereo. I Bennato risiedono a Bagnoli, quartiere popolare a Nord-Ovest di Napoli facente parte della vasta area di origine vulcanica denominata Campi Flegrei. Quando Edoardo emette i primi vagiti, Carlo Bennato lavora già da tempo agli stabilimenti delle acciaierie ILVA, impiantati proprio a Bagnoli fin dal primo decennio del Novecento. Carlo vi era entrato fin da ragazzino, all’età di quattordici anni, intorno agli anni Trenta. Inizialmente addetto a mansioni umili (anche per questo motivo in seguito alcuni giornalisti scriveranno che Edoardo è “figlio di un operaio”), in seguito ha conseguito il diploma di ragioniere ed è entrato a far parte dei colletti bianchi dell’ILVA. Man mano riuscirà, con impegno e abnegazione, a salire tutti i gradini all’interno dell’azienda, fino a diventare responsabile dell’Ufficio Prodotti. La famiglia intanto si allarga: il 16 marzo 1948 Adele Zito dà alla luce il secondogenito Eugenio (dal nome del padre di Adele) e quindi, il 4 ottobre 1949, un terzo fratellino, a cui viene dato il nome di Giorgio, come il padre di Carlo. L’infanzia dei tre Bennato trascorre in maniera più che serena, grazie anche alle cure di Adele, che tutti descrivono come una donna dalla spiccata personalità, molto presente e attentissima all’educazione dei figli. I primi Cinquanta sono anni di giochi, di baruffe tra fratelli, delle prime partitelle di calcio e di estati passate a mollo nell’azzurro mare del golfo napoletano. E di qualche sortita al cinema, fra cui una che si rivelerà importantissima per la futura carriera musicale di Edoardo. Eugenio Bennato: Nel 1956 io, Edoardo e Giorgio andammo al Cinema Fiamma a vedere Peter Pan. Immagina per un bambino che cos’è Peter Pan al cinema. È una specie di magia. Quando uscimmo, sia io che Edoardo ci prendemmo la scarlattina. E nel delirio rivivevamo tutte le immagini di Peter Pan. Che, fra l’altro, secondo me è il cartone animato più bello che abbia mai fatto Walt Disney. A Edoardo resteranno impresse anche le passeggiate della domenica con uno zio, Alfredo (lo “zio fantastico” di una sua futura canzone), che talvolta lo porta in Villa Comunale e che infiamma la sua immaginazione di bambino con fantasiosi racconti di viaggi esotici e del periodo della guerra. E poi, nel bene e nel male, ci sono gli stabilimenti ILVA, che sono fin da subito una presenza costante nella vita dei Bennato. Eugenio Bennato: L’ILVA era incombente, con i suoi altiforni che producevano un rumore di fondo continuo che alla fine, come tutte le cose della 20 vita, diventava rassicurante. Quando noi aprivamo i balconi, si sentiva un ruggito sordo. Pfuummm… Delle frequenze basse, interrotte dalle colate, che erano invece più rumorose. Però questa cosa, negli inverni di quei fine anni Cinquanta, per noi diventava anche una compagnia, la presenza dell’industria metallurgica, che oggi non esiste più. Carlo Bennato è un “uomo ILVA” a tutto tondo e non disdegna di frequentare l’ambiente aziendale anche al di fuori dell’orario di lavoro: il CRAL (Circolo Ricreativo Aziendale per i Lavoratori) dell’ILVA di Bagnoli, peraltro, è molto attivo e propone numerose occasioni di svago per i dipendenti e le loro famiglie. È così che nella seconda metà del decennio i tre fratelli Bennato si trovano a passare gran parte del loro tempo libero in un luogo di ritrovo riservato agli impiegati (ma non agli operai) dell’ILVA: il Circolo Canottieri di Bagnoli. Eugenio Bennato: I miei ricordi più belli – anche quelli di Edoardo e di Giorgio – sono legati al Circolo Canottieri, dove c’erano delle estati straordinarie, di grande divertimento. Il bagno a mare era il meno, poi c’era il campetto di calcio, c’erano i tornei di calcio… E c’era il jukebox. Il famoso jukebox. Ricordo i titoli: Peppino Di Capri con Malatia e Nun è peccato, Paul Anka con i grandi successi, Diana e così via. Poi, ancora un po’ dopo, Nico Fidenco e Legata a un granello di sabbia. E ricordo bene il suono del jukebox, fantastico come tutti i ricordi, il suono del 45 giri attraverso il jukebox di cui ci siamo dimenticati, di cui l’umanità si è dimenticata. Si scrive Bagnoli si legge “Only You” come quella canzone gettonata di più nei jukebox dei desideri, lì nell’angolo del bar di viale Campi Flegrei (Si scrive Bagnoli) Nel 1956-57 arriva anche a Bagnoli il rock’n’roll, la nuova inebriante musica proveniente dagli USA, che propone agli adolescenti idoli dal fascino ribelle come Elvis Presley, Little Richard, Jerry Lee Lewis e Buddy Holly. Di tutte le città italiane Napoli è quella meglio posizionata per accogliere in tempo reale tutte queste suggestioni, essendo sede dell’AFSOUTH, branca della NATO che in tempi di Guerra Fredda si occupa del controllo di tutto il Mediterraneo. E proprio a Bagnoli, nei primi anni Cinquanta, è stata inaugurata la base NATO che garantisce che in giro ci sia sempre un flusso costan21 te di GI’s e delle loro famiglie, rendendo quella flegrea l’area più “americanizzata” del Paese. La base di Bagnoli, come sostiene Marilisa Merolla, docente di Storia Contemporanea all’Università di Roma La Sapienza, “è una città nella città, e tutta l’economia locale ne risente”. Pur interagendo spesso e volentieri con la popolazione autoctona, gli americani aprono propri locali e importano la loro musica. È logico che quando oltreoceano esplode il rock’n’roll si riversi anche su Napoli un flusso di 45 giri e Lp d’importazione che gli adolescenti del resto d’Italia si possono solo sognare, a meno di farsi bastare i primi goffi tentativi d’imitazione di Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Ghigo e Ricky Gianco. Secondo Merolla, “Napoli alla fine degli anni Cinquanta era una città che ascoltava i suoni in diretta con l’America, piuttosto che con Roma”. L’incontro con Elvis Presley, per Edoardo, è il primo vero punto di non ritorno. “Lui è stato la scintilla da cui è partito tutto”, ha detto più volte. Non è facile oggi comprendere appieno l’effetto catartico e liberatorio suscitato da un performer sfrenato ma nel contempo cool come Elvis sugli adolescenti degli anni Cinquanta. A volte basta semplicemente vedere una foto di Elvis per conquistare un ragazzo alla causa del rock’n’roll. In apparenza i fratelli Bennato sono dei ragazzini senza tanti grilli per la testa, dediti allo studio, ai giochi e allo sport. Tifosi del Napoli (è l’epoca del tandem d’attacco formato dallo svedese Hasse Jepsson e dal brasiliano Luís Vinício detto “’O Lione”, due fuoriclasse che però non riescono a scollare la squadra dal limbo di metà classifica), partecipano regolarmente ai tornei di calcio del Circolo Canottieri. Edoardo, forse perché più grande, è anche il leader della squadretta, e in un’occasione conquista il titolo di capocannoniere. Poi, improvvisamente, scatta qualcosa. Eugenio Bennato: Il virus scoppia per iniziativa di mia mamma che nell’estate del 1957, o forse del 1958, disse: “Questi bambini tutta l’estate qualcosa possono fare”, e quindi ci portò un maestro di musica che si chiamava Giacomo Caridi, giovanotto calabrese di Roccella Ionica, istruttore all’Istituto Madonna Assunta di Bagnoli, che era una sorta di collegio dove c’erano dei ragazzi “sfigati” o indisciplinati. Quell’anno venne a casa nostra a insegnare musica a tutti e tre i fratelli, ed evidentemente trovò terreno fertile. Mi comprarono una fisarmonica. Edoardo si diresse subito verso la chitarra. Giorgio alle percussioni. Edoardo era il fratello maggiore, quindi era prepotente, ed era intonatissimo, come mia madre; con questa vocina ancora bianca cantava “Nella vecchia fattoria ia ia o / Quante bestie ha zio Tobia ia ia o”. Io con la fisarmonica non perdevo un colpo e Giorgio pure era molto dotato: dovevamo essere veramente una cosa spettacolare. 22 Nasce così il Trio Bennato, sotto la supervisione del maestro Caridi ma con il vitale incoraggiamento di mamma Adele, appassionata di musica e in particolare di canzoni napoletane. Giorgio Bennato: Mia madre muoveva le fila di tutto, riuscendo a mettere insieme questi tre fratelli che però erano due entità: Edoardo da una parte e io ed Eugenio da un’altra, in quanto eravamo molto più amici io ed Eugenio. Edoardo teneva anche delle amicizie un po’ diverse: all’epoca uno o due anni di differenza avevano un certo peso. I primi esperimenti con Nella vecchia fattoria vengono presto soppiantati da interpretazioni più complesse di successi del momento. Eugenio Bennato: “You’re so young and I’m so old”: Diana di Paul Anka. Poi facevamo Passion Flower dei Fraternity Brothers, che avevano fatto una cosa straordinaria: avevano preso la sonata di Beethoven e l’avevano resa “pari”, più semplice, un successo mondiale. Dalle prime esibizioni casalinghe alla più impegnativa dimensione del concerto dal vivo il passo è breve. Il primo pubblico del Trio Bennato è composto esclusivamente dalle famiglie dei dipendenti ILVA, in spettacoli aziendali che si tengono dapprima al Circolo Canottieri e poi al Teatro Mediterraneo, nel quartiere Fuorigrotta. È in quest’ultima occasione che i fratelli Bennato vengono notati da qualche dirigente della Rai. Uno dei programmi prodotti a Napoli – e diffusi in tutta Italia dall’unico canale della Rai – si chiama Il nostro piccolo mondo, una trasmissione per ragazzi ideata dalla giornalista/autrice Lea Maggiulli Bartorelli, celebre nell’area campana con il nome d’arte di Zietta Liù. È proprio da Zietta Liù che il Trio Bennato viene ingaggiato nel 1959. Eugenio Bennato: Facemmo molte puntate del Nostro piccolo mondo. C’era questo ensemble di ragazzi: la presentatrice, la ballerina, l’attrice e noi come musicisti. Nello staff musicale dei “grandi”, al pianoforte c’era Roberto De Simone. È lì che lo abbiamo conosciuto. Noi eravamo bambini. Io avevo dodici anni, lui ventisette. Era molto bravo, diplomato in composizione, armonia e così via, ma lì faceva una cosa molto leggera, ma comunque con grande classe: suonava le musichette della tv dei ragazzi. La stessa estate, a un concerto del Trio al Circolo della Marina Mercantile è presente Aldo Grimaldi, importante armatore nonché nipote di Achille Lauro, il quale fa alla famiglia Bennato un’offerta che è impossibile declinare. 23 Eugenio Bennato: Grimaldi ci vide, gli piacque evidentemente quello che facevamo e ci propose una crociera di un mese in cui dovevamo suonare nella sala delle feste. Il fatto di suonare era il minimo rispetto al divertimento di stare su un transatlantico con due piscine, con tanti bambini, i grandi, la gente che partiva… Dopo due giorni stavamo a Barcellona. E dopo quattro a Tenerife. E poi per sette giorni c’era solo l’oceano intorno. Per me che ero appassionato di geografia era un’emozione straordinaria. Fino all’arrivo in America, le Antille, e poi il Venezuela. E così il ritorno. La famiglia Bennato al completo salpa da Napoli ai primi di luglio, sulla motonave Venezuela diretta a Caracas: una lunga crociera che mostra per la prima volta a Edoardo, Eugenio e Giorgio orizzonti diversi e più vasti di quelli offerti da Bagnoli e dal Golfo di Napoli. Si tratta di un’esperienza molto importante per i tre, che serberanno a lungo i ricordi di questa che per loro è soprattutto una bellissima avventura. Chi va per mare è un uomo fortunato perché sa capire il vento Così chi va in cerca del futuro è un uomo fuori dal suo tempo (In cerca del futuro) Ma le emozioni non sono finite: sulla nave viaggia uno dei responsabili artistici di una tv venezuelana, Canal 7, che resta colpito dal Trio e invita i fratelli a partecipare allo spettacolo televisivo Lo show de las doces una volta sbarcati. Proposta che i Bennato, naturalmente, accettano. Aldo Foglia, nella sua biografia di Edoardo Così è se vi pare, riporta: “Subito dopo l’apparizione televisiva, il centralino di Canal 7 andò letteralmente in tilt per le migliaia di telefonate di italiani in Venezuela che chiedevano di rivedere i ragazzi suonare. Il presidente di Canal 7 convocò seduta stante i genitori di Edoardo, offrendo loro un contratto per una lunga serie di esibizioni. Ma la signora Adele, pur lusingata dall’offerta ricevuta, sottolineò che i figli dovevano tornare a scuola”. Quindi c’è il ritorno alla realtà quotidiana di Bagnoli. I Bennato fanno qualche altra esibizione come trio ma poi, piano piano, il loro impegno nella musica inizia a segnare il passo. C’è probabilmente – tra il 1960 e il 1962 – una fase in cui la musica assume una posizione più defilata nella vita di Edoardo il quale, ormai adolescente, inizia ad avere anche altri interessi e a 24 correre appresso alle gonnelle delle coetanee. Si iscrive inoltre al liceo artistico, un ambito in cui può dare più solide basi alle sue già innate capacità per il disegno, una passione che lo accompagnerà per tutti gli anni a venire. Son già le sette nell’aria c’è un suono è Magda forse che studia il piano. Lino mi chiama già dal cortile: è la sua voce certo non mi posso sbagliare. (Campi Flegrei) Edoardo inoltre inizia a frequentare intensamente un nuovo giro di amici. In quella stagione l’ILVA – che nel frattempo si è fusa con la Cornigliano Spa mutando ragione sociale in Italsider Alti Forni e Acciaierie Riunite Ilva e Cornigliano: in breve Italsider – completa la costruzione di un gruppo di condomini popolari a Bagnoli per le famiglie dei dipendenti. Di conseguenza la famiglia Bennato si trasferisce in una di queste palazzine, in via Diomede Carafa. È un grande palazzo dalla struttura rettangolare, con otto scale e un vasto cortile in mezzo. Praticamente tutti gli inquilini sono dipendenti dell’Italsider con le loro famiglie, e spesso con figli delle età di Edoardo, Eugenio e Giorgio: Franco De Lucia, Giorgio Darmanin, Aldo Foglia, Massimo Tassi e ancora tanti altri. Il grande cortile viene utilizzato per epiche partite di calcio di una squadra denominata Real Cortile. Nasce qui l’epopea dei “ragazzi del cortile”, il gruppo di amici di Bagnoli cresciuti insieme fin da ragazzini di cui Edoardo sa di potersi fidare ciecamente. Molti di loro lo seguiranno nelle sue peripezie nel mondo della musica, nella più classica delle situazioni alla “uno per tutti, tutti per uno”. Poi, nel 1963-64, il grande ritorno di fiamma per la musica. Eugenio Bennato: Un giorno Edoardo tornò a casa e mi portò Please Please Me. Io non ebbi dubbi che fosse una cosa straordinaria. E mi ricordo che Edoardo fu il primo, a Napoli non lo sapeva nessuno dell’esistenza dei Beatles. Ovviamente poi lui si lanciò a tuffo sui Rolling Stones. Dopo Elvis e il rock’n’roll, l’avvento dei Beatles e dei Rolling Stones rappresenta per Edoardo un secondo colpo di fulmine. Ispirato da questi nuovi idoli, accantona momentaneamente l’acustica e si procura una chitarra elettrica. Anche Eugenio passa agli strumenti a corda, mentre Giorgio riesce a procurarsi addirittura un banjo. Anzi: un mandobanjo. 25 Giorgio Bennato: Come Trio Bennato partecipammo a una gara al Politeama. Vinsero i Campanino, un gruppo che poi a Napoli ha fatto qualche disco. Noi eravamo più piccoli, e facemmo tre brani: Sugar Time, Sarà chi sa di Murolo, alla Elvis, e L’uomo del banjo, dato che io suonavo il banjo. Sugar Time era in inglese e la cantavamo in tre, proprio alla Ricchi e Poveri. Dopo quell’esibizione credo che non abbiamo più suonato insieme. O se abbiamo suonato, è stata una cosa così, familiare. Mia madre depose le armi, e comunque fu una cosa naturale, senza litigi. Anche perché in quel periodo già incominciavano a venir fuori i differenti caratteri di ognuno: tre diversi modi di vedere la musica che hanno fatto sì che ognuno prendesse la sua strada. Non è casuale che uno dei brani interpretati in questo canto del cigno del Trio Bennato provenga dalla penna di Roberto Murolo, perché intanto Edoardo ha iniziato ad andare a lezione di chitarra dal maestro Eduardo Caliendo, che del grande Murolo è stretto collaboratore storico. È il più rinomato docente di chitarra che si possa trovare a Napoli e dintorni. Il periodo di tirocinio di Edoardo con il maestro, però, ha dello stravagante. Eugenio Bennato: Anch’io sono andato qualche anno dopo dal maestro Caliendo. Però, mentre io ho imparato la chitarra classica, Edoardo costrinse Caliendo a subire, nel suo salone di studio, la chitarra elettrica. Perché lui voleva suonare la chitarra elettrica! E Caliendo, che era una persona di larghe vedute, diceva: “E vabbuò, suonala, io però non la capisco ’sta chitarra elettrica”. È il momento di una nuova, a lungo andare decisiva, scoperta: Bob Dylan. Il tramite sono i Beatles, e in particolare John Lennon, che con una dichiarazione a effetto rilasciata al magazine britannico «New Musical Express» (“Bob Dylan mostra la strada”) e poi riportata dai giornali di tutto il mondo, fa drizzare immediatamente le antenne di Edoardo, il quale si mette alla caccia di un disco del folksinger del Minnesota tra i negozi di Napoli. Eugenio Bennato: Dopo aver portato a casa i Beatles, Edoardo portò un 33 giri che si chiamava THE TIMES THEY ARE A-CHANGIN’. Mia mamma diceva: “Io questa faccia non la voglio vedere”. C’era la faccia – pulitissima, per carità – ma comunque spiazzante, di Dylan, la foto che campeggiava sul disco, e lei protestava. Giorgio Bennato: I dischi che teneva in casa Edoardo erano di Bob Dylan, soprattutto. Forse anche perché Edoardo è sempre stato sempre molto solitario, intimista. Si rispecchiava in quel tipo di musica e di sonorità. 26 Da questo momento in poi Dylan diventa una sorta di stella polare per Edoardo. Continua ad adorare anche i Rolling Stones, mentre non è così marcato il suo amore per i Beatles, che dà l’impressione di tramontare dopo la prima, iniziale infatuazione. Nel dicembre 2005, in un’intervista rilasciata a Fernando Fratarcangeli di «Raro!», Edoardo dichiarerà: “L’abc della musica per me è Forever di Joe Damiano, c’è Elvis, ci sono Neil Sedaka e Paul Anka, c’è Chubby Checker, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Fats Domino. I Beatles non ci sono perché le loro canzoni sono diverse rispetto a quelle della prima ora”. E sempre nella stessa intervista, citando un altro 45 giri da lui amato, Walking Proud di Steve Lawrence, esprimerà la convinzione che “[…] anticipa di cinque o sei anni quello che, nel 1965, avrebbero poi fatto i Beatles”. L’Edoardo adolescente non è più il ragazzino spensierato che vagava al Circolo Canottieri col pallone sempre sottobraccio. Ha maturato un carattere riservato e introverso (quantomeno con chi non fa parte del suo giro) che manterrà negli anni, ed esteriormente è un ribelle o un aspirante tale, sul solco di Elvis e del James Dean di Gioventù bruciata, a cui si ispira nell’atteggiamento e nel vestiario. In realtà Edoardo è e rimane un bravo ragazzo della media borghesia, non lontano dal modello filoamericano della celeberrima canzone di Renato Carosone, che vuole “vivere alla moda” coi soldi provenienti dalla “borsetta di mammà” e che se solo prova a bere “whisky e soda” poi si “sente ’e disturba’”. Naturalmente, nella Napoli dei primi anni Sessanta Bennato non è l’unico teenager ad essere contagiato dal morbo del rock anglofono. Al Vomero, in particolare, sta nascendo una piccola scena di gruppi e di locali, il cui principale punto di riferimento è il diciannovenne Raffaele Cascone, chitarrista e animatore di eventi musicali. Nel 1964, infervorato dalla rivoluzione beatlesiana, Cascone dà vita sulle ceneri dei Diamonds – il suo primo gruppo – a una nuova formazione, il cui nome iniziale di Wild Beats viene presto mutato nella sua traduzione italiana. In breve, i Battitori Selvaggi diventano una piccola leggenda della Napoli beat di quel periodo, apprezzati anche dai soldati americani che affollano l’USO club di Calata San Marco. Raffaele Cascone: Bennato l’ho conosciuto intorno al 1964 a Napoli, quando cercavamo un cantante per i Battitori Selvaggi. Venne a provare ma lo trovammo totalmente “squadrato”. Allora lui sembrava proprio un cowboy, era un ragazzetto, non so quanti anni avesse, comunque era più piccolo di me. Io suonavo con gli americani, nelle basi americane. Lui venne, provammo, aveva la sua chitarra, ma non era abituato a suonare in un gruppo, per 27 cui andava per i fatti propri. Poi aveva questo stile proprio country, da cowboy. Non lo prendemmo in considerazione, quella volta. Ma la band napoletana che di lì a poco farà più parlare di sé è quella degli Showmen, con Mario Musella alla voce, James Senese ai fiati e Franco Del Prete alla batteria. I loro concerti nei locali della zona portuale hanno del leggendario, e verso la fine degli anni Sessanta gli Showmen arrivano a imporsi anche a livello nazionale con una serie di 45 giri per la RCA (cover in italiano di successi ryhthm’n’blues angloamericani) e perfino una partecipazione al Festival di Sanremo, nel 1970, in coppia con l’inglese Mal. Lei mi è apparsa all’improvviso e ho avuto un tuffo al cuore silenziosa e luccicante come una visione così vera e provocante dietro la vetrina non l’avevo vista mai così vicina (La chitarra) All’Italsider Carlo Bennato ora dirige l’ufficio spedizioni, un’attività che lo mette in contatto con diversi vettori privati. Uno di questi è la Burlotti Spedizioni Spa, ditta con sede a Darfo, in provincia di Brescia. Il titolare, Pietro Burlotti, è il più classico dei self made men del Nord Italia: la sua azienda, creata dopo la fine della guerra, si sta ampliando a vista d’occhio e, secondo i ricordi del suo ex dipendente Claudio Zeziola, “Burlotti mette su un ufficio a Napoli nel novembre del 1961, al Rione Vasto, poco distante dalla Stazione Centrale. Lui già conosceva Carlo Bennato per motivi di lavoro, ma mentre prima ci appoggiavamo ad altre agenzie di rappresentanza, poi decise di creare un ufficio in loco”. Nel giro di qualche anno la conoscenza di Carlo Bennato con Pietro Burlotti diventa una vera e propria amicizia, e spesso quando l’imprenditore bresciano scende a Napoli per lavoro porta con sé la moglie Valentina, che a sua volta fraternizza con Adele Bennato. Le due coppie passano molte giornate assieme, e i Burlotti hanno anche modo di incontrare Edoardo, Eugenio e Giorgio, di venire a conoscenza del loro interesse per la musica, e anche di sentirli suonare. Burlotti si trova a Napoli anche in occasione di un 23 luglio, il giorno del diciassettesimo o diciottesimo compleanno di Edoardo. Vittorina Gaioni (segretaria storica di Pietro Burlotti): Passavano a Napoli, in un vicolo di Bagnoli, ed Edoardo davanti a una vetrina disse: “Ma che 28 bella questa chitarra!”. E allora Burlotti disse: “Vediamo se può andare bene”. Era una chitarra particolare, una 12 corde, ed Edo disse: “Questa andrebbe bene”. Burlotti gliela regalò. Dunque è Burlotti a procurare a Edoardo la Eko a 12 corde “made in Recanati”, modello Ranger J56 dal corpo in mogano con il battipenna nero, che sarà la sua fedele compagna per i successivi tre lustri. E così Edoardo inizia a concentrarsi sul suono folk acustico con il sostegno dell’armonica. Eugenio Bennato: Io non l’ho visto cambiare. Se senti le registrazioni di Edoardo bambino, è lo stesso. Cioè, il senso del ritmo, la musicalità sono gli stessi. Era il periodo in cui venne fuori (per noi un’altra grande scoperta) Fabrizio De André, il personaggio voce e chitarra. Edoardo mi stupiva per il tocco che aveva col plettro sulla chitarra, sulla 12 corde: era una cosa di una musicalità straordinaria, che non ha a che fare con la tecnica. La tecnica appartiene a quelli che si mettono per ore e ore a studiare uno strumento. Invece Edoardo aveva la capacità che quando toccava la chitarra era un’orchestra. Della tecnica, peraltro, Edoardo ha deciso che può fare a meno. Ha infatti smesso di seguire le lezioni allo studio di Caliendo, passando il testimone a Eugenio, che lo frequenta con ben maggior profitto e dove conosce un ragazzo del Vomero appassionato anche lui dei gruppi della nuova ondata di rock anglofono: Patrizio Trampetti, che in seguito diventerà suo grande amico oltre che membro storico della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Patrizio Trampetti: Ero ragazzino e studiavo la chitarra classica con Eugenio dal maestro Caliendo. Edoardo già non ci andava più. Un giorno venne e fece sentire delle sue cose con l’armonica a Caliendo e a Murolo. Non mi ricordo se Caliendo, che era molto tradizionale, si schifò o gli disse bravo. Edoardo, ormai diciannovenne, si trova di fronte alle prime grandi scelte di vita. All’inizio dell’estate 1965, ottenuto il diploma di maturità artistica, deve decidere se e come proseguire gli studi e in che modo, eventualmente, mantenere vivo il sogno di sfondare nel mondo della musica. È un momento indubbiamente cruciale, che Edoardo anni dopo menzionerà nel testo di una delle canzoni più autobiografiche della sua produzione. Tu cosa farai Londra che ne so l’università, l’Italsider mai 29 forse partirò forse me ne andrò a Milano (Sogni) C’è tutto il mondo del Bennato giovane in questi pochi versi: lo spettro dell’Italsider, il mito della Londra degli anni Sessanta che sembra offrire possibilità illimitate, e infine la terza via, la più praticabile, che consiste nel trasferirsi a Milano per iscriversi alla facoltà di Architettura, la qual cosa gli consentirebbe anche di ottenere il rinvio del servizio militare. Quel che è certo è che con Bagnoli e l’Italsider Bennato non vuole avere più niente a che fare. Lo spauracchio è quello che metterà in scena, una decina di anni più tardi, sulla copertina del suo album BURATTINO SENZA FILI: l’immagine di se stesso in bianco e nero, impiegato incravattato con lo sguardo perso nel vuoto seduto alla scrivania di un anonimo ufficio. Uno dei tanti futuri possibili potrebbe essere proprio questo, ma è probabile che sia il suo carattere ribelle a salvarlo, la sua voglia di provare il proprio talento in un mestiere che, visto dalla ristretta prospettiva dei Campi Flegrei, appare tutto da inventare. 30 2. Dopo il liceo che potevo far Uno dei sogni di Edoardo è vedere da vicino quanto sta accadendo a Londra, l’immaginifica metropoli da cui provengono tante novità in ambito beat e rhythm’n’blues da fargli realizzare quanto al confronto la discografia italiana sia piatta, provinciale, fondata su schemi superati. Negli anni Settanta, quando Bennato sarà un affermato cantautore, il periodo passato a Londra assumerà contorni quasi mitologici. Il paradigma è quello dell’eroe che arriva incauto dall’Italia e deve fare i conti con una realtà anni luce più evoluta rispetto a quella del suo luogo d’origine; che si rimbocca le maniche, che viene folgorato dai busker che suonano nelle stazioni dell’Underground nel solco dei vagabondi americani e del primo Dylan e che decide di imitare, facendo una dura quanto imprescindibile gavetta. L’eroe che infine ritorna a casa con una fisionomia da artista fatto e finito: la sua voce, la chitarra a 12 corde, l’armonica, il kazoo e il tamburello a pedale, pronto per un sound da uomo-orchestra che in Italia mai si era sentito prima. Questa la leggenda. Qual è invece la realtà? È probabile che Bennato metta piede sul suolo britannico per la prima volta nell’estate del 1965. Quanto tempo ci resti, non è chiaro. Forse qualche mese, o solo quindici giorni. Possibile, in definitiva, che Bennato a Londra ci vada anche altre volte nel corso degli anni Sessanta, e che magari solo la prima vi rimanga per tutto il periodo coincidente con le vacanze estive post-diploma. 31 Se è così, a Edoardo non potrebbe andare meglio, perché quell’estate Londra è più swinging che mai ed è uno dei luoghi, per chi ama la musica, più eccitanti del globo. Imperversano i Beatles, al top delle classifiche con Ticket To Ride, Help! e Yesterday, e non sono da meno i Rolling Stones, che hanno appena pubblicato (I Can’t Get No) Satisfaction, che a breve diventerà uno standard del nascente genere rock. Anche Bob Dylan è onnipresente: in primavera ha appena concluso un pubblicizzatissimo tour del Regno Unito (quello da cui sarà tratto il documentario Don’t Look Back di D.A. Pennebaker), e risale a marzo l’uscita del suo quinto album, BRINGING IT ALL BACK HOME, che segna un distacco dallo scarno folk-blues degli esordi verso sonorità elettriche che rimandano al primo rock’n’roll e ai gruppi della cosiddetta British Invasion. L’indignazione dei fan della prima ora è più che bilanciata dall’apprezzamento del pubblico del pop rock, genere che Dylan sta totalmente riconfigurando grazie a straordinarie liriche che finalmente non parlano più delle solite storielle “boy meets girl” ma di argomenti più veri, connessi ai tumulti interiori dei giovani degli anni Sessanta. L’immagine del menestrello con la chitarra e l’armonica a bocca è un’icona veneratissima, che tanti provano a imitare. Uno dei primi a emergere è lo scozzese Donovan ma, in quella Londra brulicante di musica, di epigoni di Dylan se ne incontrano a bizzeffe. Li si può vedere nei locali e nei pub, ma anche per strada: sono i busker che suonano nei corridoi della metropolitana, talora dando maggiore enfasi al ritmo tramite un marchingegno a pedale collegato a un tamburo. Bennato ne resta colpito e decide di trasformarsi in uno di loro: munito della fedele Eko che si è portato dall’Italia, fa così un’esperienza che ricorderà spesso e anche con vanto quando, divenuto famoso, si troverà a dover spiegare le origini del suo stile da uomo-orchestra. Le settimane trascorse nella capitale inglese hanno l’effetto di ampliare sensibilmente gli orizzonti musicali di Bennato. È qui che nasce in lui la passione per Woody Guthrie, il folksinger degli anni Trenta-Quaranta che il primo Dylan aveva preso a modello. Ed è ugualmente a Londra che approfondisce la conoscenza di John P. Hammond, un altro one man band chitarra/armonica che oltre ai classici del blues possiede un repertorio composto da standard rock’n’roll di autori quali Chuck Berry e Bo Diddley. Londra è anche particolarmente ricettiva nei confronti dei padri afroamericani del blues che, ignorati in patria, in Inghilterra ricevono un’accoglienza da celebrità. Uno di questi è il settantenne Jesse Fuller, uno dei più completi one man band in circolazione: suona infatti in contemporanea la chitarra a 12 corde, l’armonica, un complesso apparecchio percussivo a pedale di sua invenzione chiamato fotdella e un kazoo, piccolo strumento a fiato di presunta ori32 gine africana, dalla forma tubolare schiacciata, che produce un suono a metà tra quello di un sax e una pernacchia. Il 19 marzo 1965 Jesse Fuller si trova a Londra, dove incide i sei brani che compongono la facciata A di un Lp dal titolo MOVE ON DOWN THE LINE, che esce poco più tardi per l’etichetta inglese Topic. È possibile che Bennato ascolti quel disco (e l’uso che vi si fa del kazoo e della batteria a pedale); magari che veda anche Fuller suonare dal vivo, in qualche localino di Londra; o, al limite, che a Fuller ci arrivi per interposta persona, ovvero tramite qualche busker di strada che si rifà a quello stile, spartano ma efficace. Spicca, in ogni caso, la somiglianza tra l’attrezzatura strumentale usata dall’anziano bluesman di colore e quella impiegata di lì a qualche anno da Edoardo, quando sarà chiamato a eseguire dal vivo le sue canzoni senza poter contare su una band di accompagnamento. Alla fine Edoardo sceglie di iscriversi alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano: una decisione legata anche al fatto che il capoluogo lombardo, in quegli anni, è il fulcro dell’industria discografica italiana (a Roma c’è solo la RCA e poche altre realtà di nicchia, mentre Napoli appare fuori dai giochi). Ma a questa scelta è sotteso un ulteriore motivo: a meno di un’ora di macchina da Milano, in Val Camonica, risiedono i coniugi Burlotti, che possono dargli sostegno e rifugio, quantomeno nel primo periodo di ambientamento. Nella seconda metà del 1965 Edoardo si trova già a Milano, dove prende domicilio alla Casa dello Studente nei pressi di viale Abruzzi. Per un ragazzo napoletano degli anni Sessanta, l’impatto con la grande metropoli dallo stile di vita quasi asburgico deve essere spiazzante, se non traumatico. Ma Bennato è un napoletano anomalo: non possiede la loquacità all’apparenza invadente dei suoi concittadini, di cui detesta il pressappochismo, e ha una determinazione più da nordico che da mediterraneo. In breve tempo inizia ad apprezzare Milano, la sua efficiente organizzazione e la laboriosità dei suoi abitanti. Pur restando sempre visceralmente legato a Napoli, Milano gli entrerà nel cuore. Ne farà la sua città elettiva e vi passerà la maggior parte del tempo anche dopo che avrà terminato l’università e che sarà diventato un idolo degli stadi. Nelle vostre stanze di segreti e di alleanze di compromessi e di strette di mano, vi prego non toccatemi Milano (Milano) Bennato segue le lezioni di architettura e studia chino sui libri, ma spesso sente l’urgenza di tornare nella sua Bagnoli, dalla famiglia e dagli amici. Tanto 33 più che adesso si è procurato anche una macchina: una stravagante 850 Spider che non passa certo inosservata. Specialmente nei primi tempi, Edoardo trascorre molto tempo a Darfo, ospite nella villa di Pietro e Valentina Burlotti, che non hanno figli e lo trattano come fosse parte della famiglia. Arriva “con la sua bagnarola”, talvolta con il pullman, e spesso resta in Val Camonica per tutto il weekend, altre volte per intere settimane. Quella di Darfo è una ristretta e ordinata comunità, lontana anni luce dal trambusto di Milano e di Napoli, fatta di gente mai sopra le righe. Edoardo viene immesso nel giro di nipoti, cugini e amici dei Burlotti, stringendo così amicizie che resteranno a lungo, come quelle con i nipoti coetanei Claudio Burlotti e Loredana Angeloni, e con Claudio Zeziola. Eppure, ai valligiani, Bennato deve apparire né più né meno come un soggetto alieno. A parte il chiaro accento napoletano, che già in partenza lo contraddistingue, si veste in una maniera che per l’epoca e il luogo – pre-Sessantotto in un piccolo centro di provincia – deve sembrare orrendamente trasandata, ma che in realtà è presa in prestito dalle icone ribelli della musica e del cinema degli anni Cinquanta: giubbotto e jeans, t-shirt americane e stivaletti simili a quelli indossati da John Hammond sulla copertina del suo album del 1964, BIG CITY BLUES. Loredana Angeloni: La zia lo sgridava sempre: “Ma come vai conciato?”. Lei era una molto elegante, e allora voleva che lui vestisse bene. “E fai il bagno, appena arrivato da Milano, fai il bagno e vestiti, fai la doccia e vestiti bene”. Ma lui… lui era così e basta. Claudio Zeziola: Dai Burlotti spesso suonava in taverna. Era in fase di studio, lo faceva spesso. La sua impronta musicale ricalcava Bob Dylan. Forse per ricambiare l’ospitalità, Edoardo fa anche dei lavoretti per l’azienda di Burlotti, e passa diverse giornate in ufficio ad applicare diligentemente le marche da bollo sui documenti. Alla Burlotti Spedizioni c’è anche una flotta di camion e un’officina. È qui che Edoardo fa la conoscenza di uno dei meccanici, Albino Fiorini detto “Fiurì”, che gli dà un’idea per il meccanismo di supporto dell’armonica. Undici anni più tardi, in un’intervista pubblicata sul volume Edoardo Bennato. Un mondo in canzonetta, Bennato dirà: “Sono stato il primo a suonare l’armonica, due anni dopo a Sanremo ci andarono Gian Pieretti, Antoine… Il supporto per tenerla al collo, siccome non si trovava in Italia, me l’ero fatto fare da uno che riparava i camion. A quel tempo anche se fossi stato un cane, completamente stonato, bastava l’armonica per attirare l’attenzione”. 34 In realtà, al folk-blues comprensivo della sottostante filosofia one man band ci sono già arrivati in tanti, sia in Europa continentale che in Italia. In Francia si fa notare uno spilungone che propone canzoni per voce, chitarra e armonica con testi giocosamente provocatori: si chiama Pierre Antoine Muraccioli, in arte Antoine, e all’inizio del 1966 sbanca le classifiche del suo Paese con un brano intitolato Les élucubrations d’Antoine, che ricorda per molti aspetti Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan. Non passa molto tempo che l’etichetta Vogue decide di lanciare Antoine anche in Italia. La traduzione viene affidata a Herbert Pagani. Nato a Tripoli da genitori italiani di origine ebraica, Herbert Avraham Haggiag Pagani ha solo ventidue anni ma è già un raffinato cosmopolita: è pittore, attore, compositore, cantante, grafico pubblicitario e dj. Pagani ha anche il physique du rôle della popstar, e parallelamente alla radiofonia sta perseguendo una carriera come cantante, prevalentemente con cover in italiano di Jacques Brel, ma senza ottenere alcun riscontro sul piano delle vendite. Maggiori soddisfazioni gli arrivano dal più oscuro lavoro di paroliere per le star d’oltralpe, che puntando al mercato italiano hanno bisogno di efficaci e puntuali traduzioni dal francese. Così, per mano sua, Les élucubrations diventano Le divagazioni di Antoine, un 45 giri che pur non vendendo cifre sconvolgenti contribuisce a diffondere nell’immaginario del pubblico l’idea del cantautore alla Dylan. Le canzoni di Dylan, tra il 1965 e il 1966, sono oggetto di una serie di traduzioni in italiano, quasi mai efficaci come gli originali. Sono le Edizioni Radio Record (legate all’etichetta Ricordi) che acquistano i diritti per l’Italia di parte del catalogo dylaniano e incaricano il ventenne Giulio Rapetti in arte Mogol – figlio di Mariano Rapetti, direttore del ramo della Ricordi che gestisce le edizioni di musica leggera – di tradurre i testi. Più che a Dylan si ispira invece a Donovan Gian Pieretti, originario della Toscana ma anch’egli orbitante intorno alla scena milanese. Nella seconda metà del 1966 Gian Pieretti compone insieme a Ricky Gianco (autore e cantante già attivo ai tempi del primo rock’n’roll) un brano, Il vento dell’est, che pare uscito dalla penna del cantautore scozzese. Fin da Bagnoli Bennato ha iniziato a comporre canzoni in una sorta di pseudo-inglese, per chitarra voce e armonica nello stile di Bob Dylan e di Woody Guthrie, e ora va facendo i primi seri tentativi di proporsi ai direttori artistici delle case discografiche milanesi, che si trovano in gran quantità nella zona della Galleria Vittorio Emanuele II. È dura, perché Edoardo non è che uno degli innumerevoli aspiranti cantanti che si recano a Milano provvisti di 35 belle speranze con il miraggio di essere notati e di seguire le orme di Bobby Solo e Gianni Morandi, in quei mesi ai vertici della hit parade. È proprio in Galleria che Bennato ottiene un primo contatto con uno dei discografici italiani più in vista del momento, Vincenzo Micocci. Trentottenne, romano di nascita, Micocci è un “nome” già dalla fine degli anni Cinquanta quando, da direttore artistico della RCA guidata da Ennio Melis, ha lanciato la cosiddetta “prima scuola romana” dei cantautori, composta essenzialmente da Gianni Meccia, Edoardo Vianello e Nico Fidenco. Nei primi anni Sessanta Micocci si è trasferito alla Ricordi di Milano, contribuendo al successo di Luigi Tenco, Ornella Vanoni, Giorgio Gaber e Gino Paoli e scoprendo il presleyano Bobby Solo. Quando iniziano a nascere come funghi i complessi beat, Micocci mette sotto contratto due gruppi milanesi che in seguito venderanno centinaia di migliaia di dischi: I Quelli (futura Premiata Forneria Marconi) e i Dik Dik, il cui chitarrista è Pietruccio Montalbetti. Pietruccio Montalbetti: Tutto gravitava intorno a via Berchet, dove c’era la Ricordi, e un po’ più in là, sotto la Galleria, c’erano le Edizioni dirette da Mariano Rapetti. In mezzo c’erano le Tre Gazzelle, un bar dove si prendevano gli aperitivi. Bennato era un po’ imbranato, timido… Veniva lì a far sentire le sue cose, anche da Mogol. Bazzicava con la sua chitarra e la sua armonica, ma lo snobbavano, nessuno gli dava molto credito. All’epoca, è vero, c’era anche Gian Pieretti che faceva cose simili. Però, mentre Gian Pieretti imitava Donovan, Bennato aveva già un suo stile più personale. Io penso che Bennato sia stato realmente il primo vero cantautore in Italia. In qualche modo Edoardo riesce a ottenere un’audizione dal direttore artistico della Ricordi. Stando alle memorie dello stesso Micocci, nella sua autobiografia Vincenzo io ti ammazzerò, Bennato non fa altro che seguire il consiglio della madre, che gli ha detto “di andare a Milano a proporre le canzoni alla Ricordi”, la stessa casa discografica di Bobby Solo, di cui la signora Bennato è grande estimatrice. A Micocci il ragazzino con quel suo piglio dylaniano indubbiamente piace. Il problema è che, nel momento in cui gli si presenta Bennato, Micocci ha già deciso di lasciare la Ricordi e di tornare nella capitale, per stare vicino alla moglie e ai figli. Dall’inizio del 1966 Micocci passa ormai la maggior parte del tempo lavorativo negli uffici di Roma della Ricordi (dietro piazza Venezia, proprio sopra l’omonimo negozio di dischi), in una tipica situazione di stand-by. È qui che Edoardo torna a trovarlo e che Micocci gli rivela il suo piano: mettere in piedi una propria etichetta discografica indipendente, distribuita dalla RCA. In pri- 36 mavera nasce infatti la Parade, i cui consociati, oltre a Micocci, sono Ennio Morricone, Luis Bacalov, Nico Fidenco e il paroliere Carlo Rossi. L’idea è quella di metter su uno zoccolo duro di produzioni nel settore delle colonne sonore (per il tramite di Morricone e Bacalov, ben inseriti a Cinecittà), cercando allo stesso tempo di lanciare nuovi talenti nel campo della musica leggera. Tra i primi a venire assunti alla neonata casa discografica – che nel frattempo ha aperto i propri uffici a viale Bruno Buozzi, nel quartiere Parioli – c’è il venticinquenne Gianni Dell’Orso, un autore-pianista a cui viene affidato il compito di arrangiatore. Ed entra nell’orbita della Parade un altro giovane romano, il ventiquattrenne Alessandro Portelli, grande intenditore di Bob Dylan e del folk-blues americano, di cui possiede una vasta collezione di dischi, che trasmette in un programma radio della Rai condotto da Adriano Mazzoletti. A Portelli viene data l’opportunità di pubblicare un libro, un’antologia di testi della canzone popolare di protesta americana (che poi uscirà entro l’anno per i tipi di Guanda, con il titolo Folk Songs). Si trova però di fronte a un problema di diritti d’autore in relazione ai testi di Bob Dylan, detenuti dalla Ricordi, e si rivolge pertanto a Micocci, quale rappresentante dell’etichetta. Non riesce a ottenere i diritti per pubblicare i testi di Dylan, ma Micocci gli fa un’altra proposta. Alessandro Portelli: Mi disse: “Abbiamo qui un giovane musicista che si ispira molto a Bob Dylan. Invece di fare le traduzioni testuali per pubblicare il libro, potrebbe pensare di fare delle traduzioni cantabili per questo giovane musicista”. E io dissi: “Be’, ci si può provare”. È così che intorno a settembre-ottobre del 1966 Micocci presenta a Portelli Edoardo Bennato, il “giovane musicista” che di lì a poco dovrebbe esordire per la Parade. Alessandro Portelli: Le riunioni avvenivano a casa mia, a Montesacro. Bennato era un ragazzo molto simpatico, anche se non particolarmente estroverso. Suonava chitarra e armonica nel modo che aveva visto fare a Bob Dylan, che Bob Dylan aveva visto fare a Woody Guthrie e che Woody Guthrie aveva visto fare ai bluesmen. L’idea era di fare cover di Dylan in italiano, perché negli anni Sessanta rifarle in inglese non era attuabile. Quindi io dovevo tradurgliele in maniera che potesse cantarle in italiano. L’unica che ricordo era nientedimeno Love Minus Zero / No Limit, che è una delle mie grandi passioni dylaniane. Poi lui mi fece conoscere Donovan. Mi sembra di ricordare che riuscii a fare una traduzione decente di Colors. E poi venne l’idea di fare canzoni originali. 37 Bennato ne ha composta una che ricorda lo stile delle ballate sentimentali di Elvis Presley, da intonare con la tipica voce languida del King of Rock’n’Roll. Si dice, anzi, che in origine sia stato proprio l’ascolto di questa canzone ad aver convinto Micocci delle potenzialità di Bennato. L’idea di Micocci è di cedere il brano a Bobby Solo, ma poiché l’operazione non va in porto Bennato è libero di tenerla per sé e – con un testo di Portelli dal titolo Era solo un sogno – di farne il lato A del suo primo 45 giri. L’altro brano su cui Bennato e Portelli lavorano è più prettamente dylaniano, con una marcata presenza dell’armonica. Alessandro Portelli: Facemmo questa cosa tipicamente “pre-sessantottina con velleità”, che si chiamava Le ombre, di cui io scrissi il testo: “guardale andare… le ombre vane che il tempo scioglierà…”. Era una cosa non politica, diciamo anti-civiltà di massa. Gli incontri con Portelli si alternano a quelli con Gianni Dell’Orso, incaricato da Micocci di dare forma e struttura alle canzoni di Bennato. Il primo incontro tra i due avviene a viale Bruno Buozzi. Gianni Dell’Orso: Alla Parade io avevo una stanza musicale col pianoforte e le varie attrezzature per registrare. Io al piano e Bennato con chitarra e armonica cercavamo di sviluppare le idee, canzoni a volte solo abbozzate, con le armonie semplici. Lui era molto preparato musicalmente. Era già pronto per fare la prima esperienza discografica. In realtà per me si trattò più di una produzione artistica, non una produzione come si intende oggi. Il produttore vero era Micocci, era lui il deus ex machina della situazione. Le due canzoni, Era solo un sogno e Le ombre, vengono registrate il 25 ottobre 1966. Secondo le note di copertina si tratterebbe di un’incisione dal vivo. Più probabilmente, secondo Dell’Orso, la registrazione viene effettuata in diretta, ovvero senza sovraincisioni, agli studi Dirmaphon di via Pola, con un complesso di giovani strumentisti abitualmente utilizzati dalla Parade. Il 45 giri d’esordio di Edoardo Bennato viene poi pubblicato alla fine dello stesso anno. In copertina c’è una foto di Edoardo, seduto sulla scalinata di piazza di Spagna mentre suona con fare sognante la sua 12 corde. Ai piedi ha un paio di stivaletti come quelli che portano i Beatles e i Rolling Stones, e che da qualche tempo ha iniziato a indossare anche Bob Dylan. Era solo un sogno ha un mini-arrangiamento orchestrale, un po’ sdolcinato e certamente non memorabile. Ma ciò che colpisce è la voce di Edoardo, che appare asettica, 38 priva dei caratteri che la renderanno immediatamente riconoscibile di qui a qualche anno. Edoardo sta fin troppo attento a eliminare ogni inflessione napoletana, e predilige piuttosto l’accento “anglo” usato in questo periodo dagli esterofilissimi complessi beat, tradendo una certa immaturità. Di poco meglio il lato B, Le ombre, che parte da un riff d’armonica (nelle intenzioni) alla Dylan e che si dipana con l’accompagnamento di basso e batteria: un dignitoso folk-rock all’italiana, penalizzato tuttavia dal tentativo dell’interprete di cantare imitando Mal dei Primitives o Shel Shapiro dei Rokes. Un esordio dunque per nulla travolgente, e dalla resa sonora fin troppo a bassa fedeltà. Non meraviglia che la Parade non si impegni più di tanto nel promuoverlo, e che il 45 giri, invenduto, scompaia dalla circolazione nel giro di poche settimane. In seguito diventerà il disco più raro dell’intera discografia di Bennato. Portelli, dopo altre esperienze nel mondo della musica (in particolare con la cantautrice Giovanna Marini e con il gruppo folkloristico Canzoniere del Lazio), diventerà uno dei massimi esperti italiani di letteratura angloamericana. Micocci si sfilerà dalla Parade e fonderà un’altra etichetta, stavolta tutta sua, la IT, con la quale scriverà pagine indelebili nella storia della musica italiana degli anni Settanta. Dell’Orso diventerà anche lui produttore in proprio, e qualche anno dopo avrà nuovamente a che fare con Edoardo, sebbene stavolta in modo indiretto. Edoardo resta comprensibilmente deluso dall’insuccesso del singolo per la Parade. Negli anni a venire rivendicherà di essere stato “il primo cantante italiano a suonare su un disco con l’armonica”, la qual cosa – cronologicamente – è forse anche vera. Ancora più grande è quindi lo smacco quando in quello scorcio finale di 1966 Gian Pieretti porta fino al n. 26 della hit parade la sua canzone Il vento dell’est, in cui vengono proposte le stesse intuizioni dylaniane a cui era già pervenuto Edoardo da oltre un anno. 39