LE INTERPRETAZIONI DEI RAPPORTI FRA INDIVIDUO E MODERNITA' di Alessandro Ferrara Quando parliamo di trionfo dell'individualismo viene subito in mente una pagina di Tocqueville che in qualche modo registra la nascita del termine. Scrive Tocqueville: "L'individualismo è un'espressione recente generata da un'idea nuova. I nostri padri conoscevano solo l'egoismo. L'egoismo è un amore appassionato ed esagerato nei confronti della propria persona il quale induce l'uomo ad anteporre sempre se stesso a tutto. L'individualismo è un sentimento riflessivo e pacifico che induce ciascun cittadino ad isolarsi dalla moltitudine dei suoi simili e a mantenersi appartato con la sua famiglia e i suoi amici, di modo che dopo aver formato una piccola società ad uso personale, abbandona la società più vasta. L'egoismo prosciuga la fonte delle virtù, l'individualismo all'inziio, prosciuga solo quella delle virtù pubbliche; a lungo andare però attacca e distrugge anche le altre e finisce col rinchiudersi nell'egoismo. L'individualismo è proprio delle democrazie e minaccia di svilupparsi tanto più quanto più la condizione dei cittadini tende verso l'eguaglianza". E ancora, uno dei motivi per i quali oggi il tema dell'individuo e dell'individualismo ritorna al centro della discussione è dato da un curioso paradosso che gli autori più sensibili alla rivalutazione del termine comunità -- penso a Robert Bellah, Charles Taylor, Peter Berger e tanti altri -- hanno segnalato. La cultura individualista che una volta fu il motore del processo di modernizzazione in Occidente sembra oggi essere divenuta l'ostacolo principale, il freno maggiore, che si oppone alla ulteriore modernizzazione delle società moderne. Questo per tre ordini di motivi. Primo, perché secondo alcuni (Taylor, Sandel) la cultura dell'individualismo ci conduce dunque a plasmare e a valutare le istituzioni, i ruoli, le aspettative e in ultima analisi la condotta in base a una idea inconsistente e fuorviante di soggettività. Secondo, perchè la tendenza dell'individualismo moderno a svalutare tutto ciò che è condiviso rispetto a tutto ciò che è individualmente unico si sommano alle tendenze anomiche già da sempre tipiche dei moderni processi di differenziazione economica e sociale. Tutto ciò che è socialmente condiviso, le basi comuni del senso, vengono svalutate a mere "convenzioni" e a loro volta le convenzioni, i ruoli e le istituzioni vengono intese come meri limiti posti all'affermazione del sé, limiti da essere sopportati per amore della cooperazione pacifica e della stabilità sociale. Ancora una volta si perdela consapevolezza, all'interno della prospettiva individualistica, del ruolo formativo delle istituzioni, del fatto che alcune di esse forniscono beni che hanno senso soltanto se goduti in comune, e del dovere-verso-la-società che da ciò deriva. Terzo, la cultura dell'individualismo strumentale si rivela essere un ostacolo alla riproduzione sociale in quanto conduce ad un enfasi miope sul breve periodo nella formazione e gestione delle politiche sociali, conduce all'impoverimento di quelle istituzioni che sono legate a interessi non strumentali, conduce a processi di giuridificazione che legittimano il punto di vista strumentale in ogni area dell'azione sociale, conduce ad una tendenza a sottostimare l'impatto delle interdipendenze globali come pure i problemi ermeneutici di comunicazione tra le culture e a ridurli a problemi strategici di decisionalità e implementazione, ed infine conduce a una diffusa sfiducia nei confronti della vita pubblica e alla assimilazione della politica al modello del mercato e della scelta del consumatore. Su quest'ultimo punto pagine illuminanti sono state scritte un secolo e mezzo fa dallo stesso Tocqueville, quando ci avvertiva in merito al rischio di una "tirannia della maggioranza" e di un nuovo "dispotismo mite". Ma per affrontare con profitto questa discussione su individuo e trionfo dell'individualismo occorre a mio avviso, come si dice in quel gergo borsistico finanziario che minaccia di diventare la koiné dell'era della globalizzazione, tornare ai fondamentali. E questo è quello che vorrei proporre in questa relazione, cercando di mettere a fuoco i diversi modi in cui questo nesso di individuo, individualismo e modernità è stato affrontato nella tradizione sociologica. Esistono ovviamente tante diverse interpretazioni di questo nesso quanti sono gli autori che della tradizione sociologica fanno parte, ma -- è in questo sta il senso del mio contributo -- è possibile a mio avviso ricondurre questa pluralità a quattro tesi distinte e ognuna con una sua propria fortuna storica. La prima è la tesi dell'«accrescimento di individuazione», la seconda è quella del «Sè plurale», la terza quella della «fine dell'individuo» e la quarta è una tesi più specifica, avanzata da Gehlen e poi ripresa da Luhmann, si sintetizza nel paradosso per cui l'individuo moderno acquista gradi di libertà espressiva nella misura in cui ne perde sul piano dell'autonomia di azione. Cominciamo col dire che cosa queste varie tesi hanno in comune: in comune condividono l'idea che l'individuo moderno è molto meno "certo di sè" rispetto all'individuo premoderno. Mentre questo ritrovava se stesso dentro un orizzonte di senso condiviso nella comunità di appartenenza, l'individuo moderno vive in una condizione in cui il sigillo di quell'unità di senso, la unità della tradizione, è infranto per sempre, e deve definire da se stesso chi è e che cosa vuole essere. La sfida che l'individuo moderno è chiamato a fronteggiare è quella, per utilizzare la felice formulazione di Walter Kaufmann, di sapersi trasformare da creatura in creatore. L'individuo premoderno poteva vivere una vita già scritta per lui e avvertirla come una buona vita -la vita del contadino, del gentiluomo di campagna, del soldato di ventura, del menestrello, del cortigiano, del curato, dell'artigiano. Poteva seguire un copione e nel seguirlo sentire che la sua esistenza aveva un senso. Nessun individuo pienamente moderno può vivere una vita sapendo di stare soltanto eseguendo un programma già scritto, senza aggiungervi nulla. Nel momento in cui si rendesse conto di stare facendo questo non potrebbe più pensare alla propria vita come a una buona vita. Le culture premoderne incorporano l'aspettativa di una totale adesione dell'individuo ai ruoli sociali che impersona e rendono minima la possibilità di un uso trasgressivo, ironico o comunque irregolare dei simboli di status -- pensiamo a quante vicende del Decamerone sono giocate sul tema del travestimento o della deliberata impersonazione di ruoli non previsti, dove l'elemento narrativamente saliente sta nella mancata scoperta dell'inganno e quindi nello sfuggire alle inevitabili sanzioni. Nelle condizioni della modernità pienamente dispiegata assistiamo a un capovolgimento delle posizioni. Ora è l'adesione pura e semplice, senza distanza, a un ruolo, a essere stigmatizzata come superficialità e inadeguatezza dell'individuo, come sua inautenticità -- su questo Sartre ha scritto pagine memorabili ne L'essere e il nulla. Oltre questo punto però le 4 diverse interpretazioni del rapporto tra individuo e modernità entrano in dissonanza, ed è opportuno ritracciarne il percorso singolarmente. La tesi dell'«accrescimento di individuazione» La tesi dell'«accrescimento di individuazione» è quella che gode forse di maggiore preminenza. La possiamo riassumere nell'osservazione secondo cui l'effetto principale che il contesto moderno esercita sull'individuo è quello di offrirgli la possibilità di essere incomparabilmente più individuo, cioè più autonomo, più unico o più se stesso di quanto gli esseri umani del passato, nella grande maggioranza, abbiano avuto modo di essere. Anche qui i limiti di una interpretazione condivisa sono presto raggiunti. Che cosa voglia dire essere "più individuo" è qualcosa che dipende dalla prospettiva teorica da cui si parte: per alcuni significa essere più autonomo nelle proprie scelte, per altri essere più differenziato da tutti gli altri individui, per altri essere più autenticamente se stesso. L'idea centrale sottesa a questa tesi è che la rapida accelerazione della differenziazione sociale che ha luogo nella modernità determina un accrescimento dell'individualità dell'individuo. Il fatto di partecipare a più ruoli sociali che nelle società premoderne, il fatto che le cerchie sociali di cui è membro o con cui semplicemente intrattiene rapporti sono più numerose e più ampie, ed il fatto di trovarsi esposto, nel corso della propria vita, a una diversità maggiore di contesti sociali e di sollecitazioni culturali, conduce l'individuo moderno ad autodefinirsi a partire da una gamma maggiore di possibili autorappresentazioni e dunque a porsi problemi di scelta nuovi. L'individuo acquista spessore nella misura in cui la più ricca pluralità di ruoli e coinvolgimenti possibili rende meno facile addossare la propria identità a rappresentazioni sociali fisse e prevedibili, e lo spinge invece verso una definizione della propria identità che si situa a un livello più profondo. Questa tesi secondo sorge col nascere stesso di una coscienza moderna, si dispiega pienamente con l'affermarsi della cultura illuminista, poi acquista nuove dimensioni nel XIX secolo, e nel nostro secolo si arricchisce di sfaccettature nuove ad opera di autori come Parsons e Habermas. Montesquieu è fra i primi che articolano con forza questa tesi. Rispetto a Lo spirito delle leggi, le sue Lettere persiane sono state spesso ingiustamente ignorate come fonte di rilevanza sociologica. Esse contengono invece una teoria implicita del Sé moderno, secondo cui il Sè non è riducibile alla somma dei ruoli in cui la persona è coinvolta. Le Lettere persiane sono un romanzo epistolare in cui Usbek, sultano persiano in viaggio in Europa, scambia con vari altri personaggi le sue impressioni di un lungo soggiorno a Parigi. Suoi corrispondenti sono le mogli del suo harem, che ha lasciato in Persia, e alcuni fra gli eunuchi che ha lasciato a guardia della loro fedeltà. Inoltre Usbek spesso corrisponde con Rica, suo compagno di viaggio. Due esperienze rivestono un carattere particolarmente centrale in questa "formazione" di Usbek. In primo luogo la vita parigina conduce Usbek a un'esperienza di presa di distanza dall'assolutezza delle sue credenze religiose originarie. Ma non si tratta di sostituire un nuovo dogma ad uno più antico. Si tratta piuttosto di cogliere la relatività di tutti i dogmi, il loro essere radicati già da sempre in un contesto di cui sono espressione. L'altra esperienza della modernità ha luogo nella sfera psicologica. Usbek e Rica comparano i rapporti di ogni tipo che possono intrecciare con le donne dei salotti parigini con la stereotipizzazione e ritualizzazione del comportamento nell'harem. Nel serraglio, in Persia, non vi sono che rapporti fatti di sottomissione e autorità, rapporti ritualizzati, rapporti spesso di grande sensualità, ma di una sensualità che però non conosce contatto con un Sè staccato dai ruoli che impersona. A Parigi, invece, ciò che colpisce Usbek è il coinvolgimento, o almeno la possibilità del coinvolgimento, con un Sè che nella vita della metropoli moderna ha già acquistato un identità più profonda e distinta dai ruoli che via via impersona. La scoperta che Usbek e Rica fanno a Parigi è quella di una diversa modalità dell'identità individuale, una modalità che è già integralmente moderna e metropolitana. Vedremo più avanti come questa sia solo una delle letture possibili del rapporto tra modernità, forma di vita metropolitana e individuo. Le impressioni di Parigi che Rousseau fa scrivere al protagonista del suo romanzo epistolare non potrebbero essere più contrastanti rispetto a quelle di Uzbek. Lunghissima è la lista di quanti, successivamente a Montesquieu, hanno condiviso, in varia misura e da prospettive diverse, la tesi dell'accrescimento di individuazione -- una lista che include Adam Smith, Immanuel Kant, Friedrich Schiller, Johannes Herder, Wilhelm Von Humboldt, Herbert Spencer, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Karl Marx, Emile Durkheim e Max Weber. Rinunciando per ragioni di spazio a trattare di ognuno di questi autori, mi soffermerò in questa sezione su uno dei classici del pensiero sociologico che con maggiore decisione ha legato la sua ricerca teorica a questa tesi e vi ha dato uno dei contributi più significativi: Georg Simmel. Meno univocamente ascrivibili a questa prospettiva appaiono invece le posizioni di Marx, Durkheim e Weber in merito al rapporto tra modernità e individuo -- posizioni che verranno prese in considerazione più avanti. In quasi tutte le opere più importanti di Simmel vi sono accenni al nesso di individuo e modernità, ma in particolare nel saggio Le metropoli e la vita dello spirito (1994) e nei saggi raccolti nel volume La differenziazione sociale (1995) troviamo osservazioni che mettono in luce aspetti nuovi. La grande metropoli è per Simmel la quintessenza della modernità, costituisce lo scenario che fa da sfondo a tutti i processi che vengono a influenzare le trasformazioni dell'individuo. La metropoli è infatti il luogo dove chiunque può esperire quella accelerazione del tempo e quella moltiplicazione degli stimoli che costituiscono due fra i più importanti aspetti dell'esperienza della modernità. A questi due aspetti corrisponde, sul versante della personalità, la nascita dell'individuo blasé, ossia disincantato, non disposto a lasciarsi coinvolgere in alcun ideale o valore, l'individuo che tiene a distanza quasi con cinismo tutto ciò che rischia di trascinarlo in impegni onerosi. Ma la metropoli è anche il luogo della libertà dell'individuo, della libertà espressiva in primo luogo: è nella metropoli che questa libertà di scegliere autonomamente quale direzione imprimere alla propria vita si esercita nel modo più completo, è nella metropoli che l'individuo moderno persegue i valori della originalità e della eccentricità, l'affermazione della propria differenza. E ancora, la metropoli è il luogo dell'impersonalità: il riserbo e la distanza che caratterizzano l'interazione fra estranei e semplici conoscenti nella metropoli costituiscono una condizione necessaria per il dispiegarsi di quella libertà inusitata di cui gode l'individuo, una libertà che senza quella privacy garantita dall'anonimato non potrebbe essere esercitata. La metropoli è inoltre il luogo della estrema oggettivazione dei rapporti sociali -- il denaro e l'interesse mediano gran parte dei suoi rapporti -- ed anche della estrema divisione del lavoro. La cultura della città, sottolinea Simmel, ha sempre premiato la capacità di individuare una nuova funzione che non può facilmente essere sostituita o evitata, e per questo tramite ha favorito la differenziazione, il raffinarsi e l'arricchimento dei bisogni. Di qui deriva un altro tratto antropologico dell'abitante della grande città, la diffusione del quale, nuovamente, intrattiene una relazione non casuale con l'accrescersi della individuazione. Si tratta della tendenza a differenziarsi dagli altri piuttosto che porre l'accento sui tratti che ci accomunano ad essi. Non soltanto l'abitante della metropoli aspira ad apparire «originale» e «interessante» -- il che è solo un altro modo per dire «unico», irripetibile o autentico come un'opera d'arte -- ma viene anche a dipendere sempre più dal riconoscimento di questa originalità da parte degli altri. In conclusione, per Simmel è la nascita e diffusione delle grandi metropoli a seguito dei processi di urbanizzazione legati all'economia moderna a costituire uno dei veicoli principali tramite cui la modernizzazione della società favorisce l'individuazione dell'individuo. In tempi a noi più vicini la tesi dell'accrescimento di individuazione ha trovato due autorevoli sostenitori in Talcott Parsons e Jürgen Habermas. Nei due saggi «Il ruolo dell'identità nella teoria generale dell'azione» (1968) e «The Link Between Character and Society» (1961, scritto insieme a Winston White), Parsons affronta direttamente il tema, toccato solo di sfuggita in La struttura dell'azione sociale (1937) e Il sistema sociale (1951). Dialogando con le tesi di David Riesman (su cui torneremo più avanti), Parsons ribadisce come «l'accresciuta mobilità personale, l'espansione delle frontiere geografiche, lo sviluppo di sistemi di mercato svincolati da relazioni particolaristiche, e la rapidità del progresso tecnologico, assieme ad altri fattori, determinarono una più ampia libertà nella implementazione dei fini, ossia un affrancamento del raggiungimento di scopi dai dettami di una tradizione che cessava di essere adeguata» (Parsons 1964: 185). Si creano così le premesse per una forma di individualità dotata di grande spirito di iniziativa, propensione al rischio, senso di autonomia, indipendenza e riflessività nei confronti della tradizione e della comunità locale - il tipo di personalità esemplificato dall'imprenditore del periodo della rivoluzione industriale. Secondo Parsons il tratto principale di questo tipo di individuo -- la capacità di assumersi responsabilità per le proprie autonome decisioni -- non verrà mai meno, neppure al mutare delle condizioni sociali nella modernità contemporanea, per effetto di fenomeni quali il sorgere di una produzione di massa e standardizzata ed il burocratizzarsi delle organizzazioni produttive. Nel suo saggio «Possono le società complesse formarsi un'identità razionale?» (in Habermas 1979) Habermas ci offre la versione più completa della sua ricostruzione del rapporto tra identità individuale e forma del legame sociale. Questo rapporto viene da Habermas inserito nel contesto di un processo evolutivo che attraversa vari stadi. All'inizio di questo processo evolutivo troviamo società arcaiche in cui l'individuo può sviluppare soltanto una identità naturale, ossia una percezione della propria continuità, unitarietà e demarcazione. L'individuo nel senso in cui oggi usiamo questo termine qui non esiste: è solo un'entità biologica. In seguito, con la formazione dei primi embrioni di organizzazione statale, con la desacralizzazione dell'ambiente naturale immediato, e con la nascita di nuove forme dell'agire religioso, si rendono possibili identità individuali centrate sulla capacità di riconoscersi in un ruolo sociale. É lo stadio dell'individuo "convenzionale" che definisce se stesso interamente a partire dai ruoli sociali che la comunità e la cultura gli assegnano -- l'immagine dell'individuo che solitamente associamo alla società antica e medievale, l'"homo hierarchicus" di Louis Dumont. Con l'età moderna, sostiene Habermas, l'istituzionalizzazione di vari aspetti del protestantesimo -- per esempio, l'assunto di un'eguale capacità ed eguale diritto di tutti i singoli di interpretare le Scritture secondo la loro coscienza -- si rende possibile la diffusione di un'identità individuale come sinonimo di sostrato psicologico sotteso alla pluralità di ruoli cui l'individuo partecipa. L'indivduo moderno possiede una "identità dell'Io" che lo pone in grado di situare la sua personale risposta alla domanda «Chi sono io?» ad un livello più profondo dei ruoli che si trova per scelta o per obbligo ad impersonare. Va infine ricordata una letteratura di taglio socio-psicologico la quale ha insistito sulla tesi di un'ulteriore accelerazione del processo di individuazione moderno che starebbe avvenendo da qualche decennio a questa parte, come effetto di nuovi modelli educativi diffusi soprattutto nelle famiglie della classe media ad alto grado di istruzione, che mira a coniugare insieme disciplina e convincimento, decisionalità e competenza, onestà morale e calore affettivo.1 In seconda istanza questo rafforzamento ulteriore dell'individuazione è favorito dalle modificazioni del ciclo vitale intervenute negli ultimi decenni nelle società industriali avanzate -- modificazioni che, attraverso la crescita della scolarizzazione, hanno portato a un allungamento della condizione adolescenziale. Come ha sottolineato Erikson, al prolungamento della condizione studentesca si associa una specie di moratoria psicosociale, che esonera il giovane da quegli obblighi e responsabilità della vita familiare, sociale, civile, i quali venivano in passato a influire sul ciclo 1Fondamentali da questo punto di vista rimangono gli studi di Keniston e di Mitscherlich. Cfr. Keniston (1965, 1968) e Mitscherlich (1963). vitale ad uno stadio ben anteriore. Inoltre la permanenza nelle istituzioni universitarie comporta, almeno nei paesi dove ciò tende a coincidere con la fuoriuscita dalla famiglia di origine, la affiliazione con cerchie sociali informali che il più delle volte tendono a rinforzare e premiare atteggiamenti critici nei confronti dell'ordine sociale. Sembra plausibile asserire che individui i quali hanno avuto a disposizione più tempo per sviluppare la propria identità sociale adulta, hanno avuto l'opportunità di esercitare le loro facoltà critiche più a lungo e con maggiore disciplina, e che hanno goduto di opportunità più ampie per assumere atteggiamenti critici nei confronti dei ruoli e delle istituzioni esistenti, tenderanno anche a sviluppare una identità più profilata ed individuata. La tesi del «Sè plurale» La tesi del «Sè plurale» si presenta come una radicalizzazione della tesi dell'«accrescimento di individuazione» che giunge però ben presto a una rottura e ad esiti notevolmente diversi. Anch'essa ha il suo inizio nel XVIII secolo, in quel dibattito ideale sulla condizione moderna che coinvolgeva su sponde opposte Montesquieu e Diderot, Voltaire e Rousseau. La troviamo presente per la prima volta, sia pure in forma implicita, in un'opera breve del filosofo illuminista Denis Diderot: Il nipote di Rameau. L'importanza di quest'opera -- importanza per che cosa lo vedremo fra un attimo -- può essere descritta con efficacia ricordando alcune tappe della sua fortuna. La data di composizione non è certa - spazia tra il 1761 e il 1774. Per ragioni di discrezione -- era coinvolto il nipote di una figura pubblica di spicco, il musicista Jean-Philippe Rameau -- il dialogo non venne pubblicato che postumo. Fu copiato clandestinamente dall'originale in possesso di Caterina di Russia e portato in Germania nel 1803. Schiller ne fu completamente estasiato e portò immediatamente il manoscritto a Goethe. L'effetto fu ancora più intenso: "una bomba" fu il commento di Goethe, che immediatamente lo tradusse in tedesco e intraprese letture di contorno per potere commentare il testo con riferimenti alla letteratura francese dell'epoca -- un testo che a suo dire aveva cambiato la sua percezione della cultura francese. Finalmente il testo tedesco fu pubblicato nel 1805. Fu questa la versione de Il nipote di Rameau che Hegel lesse. Ne fu a sua volta talmente colpito da dedicargli una intera sezione della Fenomenologia dello spirito, dal titolo "Il mondo dello spirito a sè estraniato: la cultura e il suo regno dell'effettualità", in cui il nipote di Rameau veniva presentato come il paradigma ed archetipo della cultura moderna. Nel 1869 troviamo un riferimento a questo commento di Hegel in una lettera con cui Marx accompagna il dono del libro ad Engels, descrivendoglielo come "un capolavoro unico". Nel nostro secolo un altro illustre lettore ed ammiratore dell'opera fu Freud, che più volte ne cita passaggi. Ed infine tra i contemporanei Foucault nella Storia della follia gli dedica un capitolo. Ma per che cosa è importante il Nipote di Rameau? E' importante perchè sta alle origini -- insieme con le Lettere persiane e la Nouvelle Heloise -- di uno dei temi principali che scorre, ora esplicito, ora sotterraneo, lungo tutta la conversazione ideale dei sociologi intorno alla modernità. Il Nipote di Rameau è ancora con noi. Ci aiuta a capire da dove viene l'energia che alimenta la polemica sulla natura del Sè moderno e che oppone la posizione de La folla solitaria di Riesman o La cultura del narcisismo di Lasch a quella implicita in La condizione postmoderna di Lyotard o L'antiedipo di Deleuze e Guattari. Il nipote di Rameau è un dialogo a due fra Diderot stesso, il filosofo contrassegnato come "Moi", e "Lui", il nipote del famoso musicista Rameau. Il dialogo ha luogo fra le cinque e le cinque e mezza di un pomeriggio qualsiasi a Parigi al Café de la Régence, un famoso locale dove avventori si avvicendano, camerieri passano fra i tavoli e giocatori di scacchi, fra cui alcuni ammirati e famosi, stanno curvati e pensosi sulle loro scacchiere. Il nipote di Rameau è presentato da Diderot come la più tipica creatura della modernità. E' un giovane musicista con segrete ambizioni e scarsi successi. Ha molte delle caratteristiche che Simmel attribuirà all'abitante della moderna metropoli: non si lascia incantare da nulla, ha rispetto solo per ciò che gli appare genuinamente nuovo e originale, tiene a distanza gli altri, finge di farsi coinvolgere in una socialità estesa ma che rimane di superficie. Il nipote di Rameau professa quel "culto dell'individuo" in cui Durkheim vede profilarsi la religione della società industriale, e possiede molti dei tratti che Riesman e Lasch attribuiranno alla personalità etero-diretta o narcisista. Il nipote di Rameau è una specie di Zelig immaginato da un Woody Allen di due secoli fa che prende Parigi invece che New York a sfondo metropolitano della sua commedia umana. Traspare in lui l'amarezza e il risentimento per il fatto di sapere di non essere un genio, di non essere destinato a nulla -- amarezza e risentimento che poggiano sulla sua concezione della vita: ai suoi occhi la sua vita non varrà niente perchè come musicista non produrrà niente di geniale e al tempo stesso egli è condannato a non dare valore ad altro, non ci sono altre compensazioni possibili. Il nipote di Rameau vive in funzione dell'ideale moderno del realizzare la propria unicità, dell'ottenere riconoscimento in quanto persona originale e creativa, ma è roso dall'invidia per quelli che hanno successo -- in primo luogo per suo zio -- e questo altro leitmotiv della sua identità ci è rivelato dal fatto che Diderot non ce lo fa mai conoscere con il suo nome vero: egli non è mai Jean-Francois, ma sempre, e resterà sempre soltanto, il nipote di qualcun altro. Diderot/"Moi", a un certo punto del dialogo, invita il giovane a imprimere una svolta nella propria esistenza: dati i suoi innegabili talenti musicali, se soltanto si applicasse con disciplina, potrebbe "ancora" raggiungere quei "beni interni", quella eccellenza musicale che proclama essere il solo obiettivo della propria vita. Ma il nipote di Rameau non è un genio proprio perchè non ha le risorse interne per concentrarsi veramente su un oggetto. Può solo saltabeccare da un progetto a un altro perchè non riesce a resistere alle lusinghe del riconoscimento sociale, alla vanità, e ai beni esterni. Questo lo porta al servilismo, alla piaggeria, all'adulazione, all'autoumiliazione e al risentimento verso coloro i quali riesce a sedurre, incantare, manipolare. Il nipote di Rameau -- come il narcisista di Lasch2 -- è la personificazione dell'ingratitudine. 2Cfr. Lasch (1979, 1984). Verso i suoi benefattori prova risentimento e fastidio, e talvolta questa ostilità si manifesta disastrosamente come un "irresistibile impulso ad offendere coloro che cerca di ingraziarsi".3 In questo modo di rapportarsi a coloro con i quali viene a contatto egli non prova alcun rimorso o scrupolo, nè pensa meno di se stesso per il fatto di giocare spesso e talvolta con gusto la parte dell'impostore. La vita sociale per il nipote di Rameau -- così come due secoli dopo per Goffmann -- è solo un immenso palcoscenico su cui le luci sono sempre accese e su cui si avvicendano attori che giocano una parte. Infine, il nipote di Rameau -- come la personalità eterodiretta di Riesman e il narcisista di Lasch -assume spesso la posa della persona originale, di genio, saggia, coraggiosa, cercata da tutti, ma in realtà ha una pessima opinione di se stesso. Sa che non sarà mai un genio e questa è l'unica cosa che conta per lui. Il resto sono piaceri compensativi per questa fondamentale mancanza, ma il loro perseguimento, la stessa necessità di una compensazione, il lavoro cui si sottopone per ottenere via via riconoscimento, denari, inviti e quant'altro per compensarsi del non essere un genio è in realtà ciò che lo assorbe e lo distoglie da quella autodisciplina che sola gli consentirebbe, forse, di produrre qualcosa di geniale. Qui è la sua debolezza. Tuttavia, se questa interpretazione esaurisse il significato del dialogo di Diderot, non avremmo motivo di vedervi nulla di diverso se non un'anticipazione della tesi della «fine dell'individuo» oppure una variazione sul tema dell'«accrescimento di individuazione». Invece la concezione del rapporto tra individuo e modernità che vi si scorge è dotata di una sua originalità. Questa originalità de Il nipote di Rameau emerge dalla lettura che ne offre Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. Ciascuno dei due -- la figura del filosofo "Moi" e il nipote di Rameau -incarna un modello di soggettività tipico rispettivamente del mondo premoderno e della modernità. I due modelli storici del Sè che qui vengono a contrasto sono chiamati da Hegel "la coscienza onesta" o "nobile" e la "coscienza disgregata" (Hegel 1972: II, 72-73). Ma che cosa sono veramente la coscienza onesta e la coscienza disgregata? Perchè la coscienza onesta con "incolta ottusità", come ci dice Hegel, prende "ogni momento come un'essenza stabile" (Hegel 1972: II, 72), mentre invece la coscienza disgregata, nella sua apparente "fatuità" (Hegel 1972: II, 76), in realtà parla "un linguaggio scintillante di spirito" (Hegel 1972: II, 77)? E' necessario fare un lavoro di traduzione. Il primo modello del Sè, quello della "coscienza onesta" è centrato attorno al valore della sincerità intesa come coincidenza fra quello che pensiamo o sentiamo e le nostre azioni o i sentimenti che mostriamo agli altri. C'è qualcosa che manca però, dal punto di vista di una personalità moderna, nel rapporto che la "coscienza onesta" stabilisce con il mondo sociale e le sue domande. Manca uno spessore, uno spessore che ha almeno due facce. Primo, una faccia critica. La "coscienza onesta" aderisce alla tradizione di cui fa parte e la prende per buona, vi si riconosce fino in fondo, ha pochi dubbi -- 3Cfr. Trilling (1971: 29): dovunque trova o è disposta a trovare ordine, armonia, senso, luce. La "coscienza onesta" è l'incarnazione di un atteggiamento "positivo" di fronte alla vita e alla società. E' la volontà di vedere tutte le cose nella loro luce migliore - anche in questo consiste la sua sincerità.4 Ma -- e qui troviamo la seconda mancanza di spessore -- questa onestà e sincerità di intenti, questa armonia tra interno ed esterno, tra sentimento e condotta, questo essere fedeli a se stessi di cui la coscienza onesta fa la propria bandiera contiene ancora un momento dell'"essere per gli altri". Più che un'urgenza autoimposta è ancora qualcosa che vogliamo per il bene che ce ne torna -- e questo bene è il sentirsi parte a pieno titolo della comunità, l'essere riconosciuti sinceri e onesti dagli altri. E' questa "voglia di appartenenza", di "riconoscimento" che muove la "coscienza onesta" a prendere ottusamente, come dice Hegel "ogni momento per un'essenza eterna" -- la famiglia per la Famiglia, l'ordine politico vigente per lo Stato e l'Ordine, le cose date per scontate, i cliché per la Cultura, le cose graziose per l'Arte. La "coscienza disgregata", parte invece dal presupposto contrario: quasi niente è per come appare. Sotto ciò che si presenta come eterno, vero, buono, bello, armonioso, c'è sempre qualcosa di storto. Non ancora una "volontà di potenza" -- anche se è lì che il movimento messo in moto da Il nipote di Rameau andrà a trovare un nuovo punto di equilibio -- ma un elemento di bassezza sotto l'apparenza della nobiltà. La "coscienza disgregata", parte dal presupposto che la morale non esaurisce ciò che vi è di degno e il valore nella persona umana. Anzi sotto sotto insinua, enrando qui in tensione anche con la tesi della «fine dell'individuo», che in certe condizioni storiche c'è più sincerità e individualità nel non essere sincero, nel mentire continuamente, nell'essere incoerente e opportunista del nipote di Rameau, nel suo non conoscere che cosa sia la vergogna, nel suo annullare se stesso nella buffoneria, inattendibilità, inaffidabilità e incoerenza che gli sono proprie. Solo che è una sincerità diversa, è autenticità. Il nipote di Rameau letteralmente saltella da un ruolo ad un altro, da un'impersonazione a un'altra, secondo l'estro del momento e l'interlocutore che ha di fronte, come la personalità eterodiretta di Riesmann, come Zelig. In questa apparente disgregazione, in questo rompersi dell'unità della personalità forte e centrata della "coscienza onesta", il nipote di Rameau giunge a una forma di soggettività in qualche modo più profonda nella sua pluralità interna, che è resa possibile solo da questa prima attività distruttrice.5 Nella apparente fatuità, nella apparente eteronomia e mancanza di carattere, in quel carattere apparentemente superficiale e dedito all'"effimero" che è proprio del nipote di Rameau -- ovvero dell'individuo metropolitano della metà del XVIII secolo -- "ogni contenuto", e cioè ogni mediazione simbolica depositata nella cultura, ogni aspettativa sociale, ogni imperativo di ruolo, ogni valore, ogni norma diventa "un negativo", un qualcosa che non può essere trattato at face value, per quello che dichiara di essere. Il vero momento "positivo" è la soggettività nel suo puro farsi, la processualità interna dell'Io del soggetto, il 4 5 mio essere Io. Da un lato il nipote di Rameau si inserisce in quella nuova stagione della soggettività, aperta da Usbek, in cui non solo l'identità, ciò che fa di me "me" e non un altro, è qualcosa di unico e più profondo dei ruoli sociali. Ma dall'altro lato questa identità ha una stoffa diversa. Non soltanto il nipote di Rameau è solo con se stesso alla deriva in un mare di significati, solo in parte condivisi, il cui senso complessivo gli sfugge, ma in un certo senso non ha alcun vero Sè a cui progettare di restare fedele. La verità del suo Sè, per utilizzare il linguaggio di Hegel, sta nel suo proteiforme adattarsi, nel suo lasciarsi fluttuare nel mare della vita sociale restando fedeli non a una rotta, che non ha mai posseduto, non a una meta, che non sa intravvedere, ma solo a un certo modo di navigare. Un Sè che sa e può essere se stesso solo nella dimensione della pluralità. In questo il nipote di Rameau è un antenato dell'"uomo senza qualità" di Robert Musil. La condizione in cui si trova Ulrich, l'eroe di Musil, nella Vienna del 1913-14 ripercorre i tratti di ciò che Diderot ritrova nella Parigi del 1770. Come fa notare Peter Berger, la paradossalità di una situazione in cui l'individuo impersona una pluralità di ruoli, partecipa di tante identità senza ridursi a nessuna di esse è che in qualche modo l'individuo diventa «più reale per gli altri che per se stesso» (Berger 1992: 23). Ha più coerenza, compattezza, sostanza se visto dall'esterno che non dall'interno. La visione del Sè presente nel testo di Diderot riemerge oggi con forza e con grande suggestività nell'opera di Goffman -- in cui l'unità dell'attore si scinde in una "molteplicità simultanea di Sè diversi", messi in scena a seconda delle circostanze dell'interazione. E ritorna anche, più in generale, nella concezione poststrutturalista e postmoderna della soggettività difesa da Foucault, Lyotard e Rorty. Ma esaminare il pensiero di questi autori ci condurrebbe su sentieri che portano lontano, ed urge invece esaminare la terza fra le tesi principali intorno al nesso di individuo e modernità. La tesi della «fine dell'individuo» La tesi della «fine dell'individuo» è la vera antagonista della tesi dell'«accrescimento di individuazione». Si pone, in diretto contrasto con essa, come uno smascheramento della falsità o ideologicità dell'assunto per cui nelle condizioni della modernità l'individuo guadagnerebbe in autonomia, autodeterminazione, spessore e unicità. Nella pluralità di voci che l'hanno articolata, dal XVIII secolo ad oggi, la tesi della «fine dell'individuo» denuncia una promessa mancata. Quell'accrescimento di individuazione è solo la promessa apparente, mai mantenuta, di una modernità che nasce e si sviluppa sotto il segno di una distorsione che alcuni leggono come una prevalenza di modalità di alienazione dovute alla natura capitalistica del sistema economico, altri vedono come il frutto di fenomeni di burocratizzazione pervasivi che, attraverso la prevalenza di modelli di azione orientata allo scopo, conducono a una "gabbia d'acciaio" e alla "società amministrata", e altri ancora vedono legata a condizioni sociali, specialmente nella tarda modernità, che conducono a trasformazioni in senso narcisistico della personalità. Anche la tesi della «fine dell'individuo», ovviamente, ha il suo punto di origine nel dibattito ideale che nella Parigi del XVIII secolo si va svolgendo intorno alle implicazioni della forma di vita moderna. Il suo artefice e primo sostenitore è Rousseau. Rousseau, l'influenza delle cui idee nella Parigi della metà e fine del XVIII secolo è difficile sopravvalutare, non è un parigino. Viene da Ginevra, "arriva" a Parigi da adulto. E nella vita della metropoli vede l'epitome della società moderna. É qui, in questo impatto -- descrittoci da Rousseau indirettamente attraverso gli occhi di Saint-Preux, uno dei due protagonisti del romanzo Julie, ou la nouvelle Heloise, e direttamente nelle Confessioni -- che si forma quell'atteggiamento rousseauiano che è poi diventato un cliché: il rifiuto della società, della modernità, unito a una paradossale critica dell'influenza corruttrice delle arti e della cultura. La vita parigina della metà del XVIII secolo appare a Rousseau come la forma di vita in cui l'erosione della soggettività è giunta al punto che è diventato quasi superfluo conoscere il carattere delle persone al fine di anticiparne il comportamento. Di solito basta conoscere i loro interessi del momento. All'interno di questa forma di vita "come gli orologi hanno di solito solo 24 ore di carica" così gli individui "devono andare in società la sera per apprendervi ciò che dovranno pensare l' indomani". Ma procediamo con ordine. La critica rousseauiana della società moderna è articolata nel Discorso sull'origine della disuguaglianza (Rousseau 1982). Quest'opera è stata spesso vista come una critica in astratto della società in quanto tale, ma si tratta di un'interpretazione alquanto fuorviante. La critica è rivolta a tutti i tipi di società che si riproducono mediante un certo meccanismo e alla società moderna in particolare, in quanto è quella che porta questo meccanismo al suo stadio più avanzato: il meccanismo in questione è quello della concorrenza, all'interno della divisione del lavoro, per risorse che oggi chiameremmo "a somma zero", il cui possesso da parte di qualcuno ha senso solo se altri ne sono privi: ricchezza, potere, prestigio. Rousseau cerca di mostrare come la società è qualcosa che "capita" all'uomo dello stato di natura senza che questi abbia la minima propensione verso di essa. Gli uomini passano dallo stato di natura alla vita associata perchè le difficoltà della sopravvivenza in combinazione con una certa propensione dell'uomo per il cercare di massimizzare i risultati col minimo sforzo, lo portano dapprima a crearsi degli strumenti o utensili e poi -con la crescita della popolazione umana e la sua concentrazione sul territorio -- a cercare la cooperazione di altri in queste imprese. A poco a poco la cooperazione si stabilizza e al naturale "amore di sè", poco dissimile dall'istinto di sopravvivenza, comincia a subentrare "l'amor proprio", ossia un interesse per come gli altri ci vedono. Da questa cooperazione occasionale e rudimentale si passa a poco a poco a una cooperazione stabile, nasce la questione della proprietà. Nasce anche l'idea intuitiva che la proprietà dei beni prodotti vada a chi li ha creati col proprio lavoro. La diversità di talenti naturale crea una prima diseguaglianza, che si traduce in differenze di ricchezze. Questa differenza di ricchezze si consolida con la trasmissione ereditaria, e sorgono le diseguaglianze sociali. Da qui ha inizio l'influenza corruttrice dell'ordine sociale. Sorge una competizione per il rango gerarchico, la proprietà o il potere, sostiene Rousseau, e da quel momento "per il proprio tornaconto fu necessario mostrarsi diversi da quello che si era effettivamente" (Rousseau 1982: 84). La necessità di apparire altro da ciò che si è viene resa ancora più pressante dalla natura stessa delle ricompense per le quali gli individui sono indotti a competere, e cioè ricchezza, potere e prestigio. Perchè l'acquisizione di ricchezza possa esercitare attrattiva bisogna che esistano altri i quali di ricchezza sono privi, perchè si possa avere interesse ad acquisire potere bisogna presupporre che altri non ne godranno in egual misura e dunque diverranno oggetto di dominio. Il risultato di ogni competizione, inoltre, dipende in qualche misura da ciò che gli altri credono di noi. In questo modo, continua Rousseau, ricompensando la conformità ai ruoli sociali e la partecipazione alla divisione del lavoro con beni a somma zero, tutte le società del passato hanno indirettamente conferito valore alla furbizia, alla capacità di dissimulare e di intimidire, all'invidia e alla diffidenza. Dall'altro lato, attraverso la competizione la società induce un'altra distorsione nella natura umana, più sottile ed insidiosa dell'insincerità: l'inautenticità. Proprio in quanto è utile apparire altro da ciò che si è l'evoluzione di una società civile competitiva inevitabilmente contribuisce ad allargare il divario fra momento emotivo ed azione, fra natura interna e comportamento sociale. Il timore di perdere terreno nella competizione induce l'individuo a privilegiare l'ambito sicuro delle rappresentazioni socialmente condivise rispetto a quello, ben più rischioso, della ricerca delle proprie motivazioni reali e della propria identità. L'individuo viene a poco a poco a dipendere talmente dall'opinione altrui che la sua stessa coesione interna ne viene messa in forse e il suo Sè risulta ridotto a mera esteriorità, a una copia di ciò che la società richiede. Al culmine dell'evoluzione sociale, nella società parigina del suo tempo, Rousseau vedeva nient'altro che una galleria di maschere sotto le quali non vi era più volto alcuno. Paradossalmente, nell'effervescenza esilarante di ruoli e nuovi stili di vita, celebrata da Diderot come fonte di nuove opportunità per l'espressione del Sè, Rousseau vedeva invece il rischio di una crescente frammentazione dell'individuo e di un crescente conformismo. Infatti, il disancoramento dal potere definitorio delle tradizioni e l'avvento di questa libertà di definire se stesso, osserva Rousseau, non avviene in un contesto che incoraggi una ricerca personale, solitaria e meditata, di chi si è. Avviene del contesto di una società urbana, caoticamente dinamica e ferocemente competitiva, in cui il timore di perdere terreno nella competizione induce l'individuo a privilegiare l'ambito sicuro delle rappresentazioni socialmente condivise rispetto a quello, ben più rischioso, della ricerca delle proprie motivazioni reali e della propria identità. L'individuo che prima dipendeva per la propria autodefinizione da tradizioni consolidate e condivise non acquista alcuna vera autonomia, ma viene a entrare solo in una nuova forma di dipendenza, questa volta dall'opinione altrui e dalle mode del momento, che la sua stessa coesione interna ne viene messa in forse e il suo Sè risulta ridotto a mera esteriorità, a una copia di ciò che la società richiede. Nel secolo successivo e a cavallo tra XIX e XX secolo la tesi della «fine dell'individuo» non manca di raccogliere illustri consensi. Vale la pena di ricordare Alexis de Tocqueville il quale, sia pure con accenti assai meno apocalittici di Rousseau e della Scuola di Francoforte, nella sua ricerca sui fattori che hanno favorito il sorgere della società democratica traccia un ritratto dell'homo democraticus che non a caso verrà esplicitamente richiamato nelle tesi contemporanee sul declino dell'uomo pubblico (Sennett), sul trionfo dell'individualismo espressivo (Bellah) e sul ritiro nel privato (Lasch, Rieff). Come dicevo prima il problema, per Tocqueville è che le democrazie favoriscono ciò che Tocqueville chiama individualismo, intendendo in larga parte l'orientamento al "particulare". L'individuo ha meno relazioni significative con i suoi pari, è più assorbito nelle sue imprese personali, e l'isolamento delle persone, l'innalzamento di barriere sottili, l'assenza di comunicazione fra i gruppi e gli stessi individui è il seme che fa germogliare il despotismo mite, "assoluto, minuzioso, sistematico e previdente". Il cittadino di una democrazia a poco a poco si abituerà a convivere con un governo che si estende ad occupare la società nella sua interezza. Un governo che finirà coll'estendere sulla totalità della società una rete che Ora secondo Tocqueville questa occupazione della società civile da parte del governo non è incompatibile con il mantenimento di una qualche forma di libertà, ma di forme appunto si tratta. Il governo continua ad essere scelto in libere elezioni, ma il corpo elettorale è ormai esangue e privo di una vita propria. E' composto da individui che non hanno più relazioni politiche e associative significative. Il pubblico è una massa, la quale si risveglia ad intervalli quadriennali o quinquennali per eleggere i propri rappresentanti e padroni e poi ricade subito in letargo. E in ultima analisi, commenta Tocqueville, «questo uso così breve e così raro del loro libero arbitrio non impedirà che essi perdano poco alla volta la facoltà di pensare, di sentire e di agire da soli, e che cadano così gradualmente al di sotto del livello umano» (Tocqueville 1988: 814). Una riflessione a parte meritano i grandi classici del pensiero sociologico -- Marx, Durkheim e Weber -- la cui posizione in merito al nesso di individuo e modernità non è facilmente ascrivible ad una o all'altra fra le tesi qui enunciate senza operare forzature su aspetti anche importanti del loro pensiero. Per ciascuno di loro è possibile infatti produrre citazioni ampie da testi importanti le quali avvalorano sia la tesi dell'accrescimento di individuazione sia quella della fine dell'individuo. Più che tentare di forzarne il pensiero entro categorie predeterminate, vale forse la pena di ripercorrere brevemente alcuni momenti di questa tensione riscontrabile fra le diverse interpretazioni della modernità implicitamente presenti nella loro opera. Il Manifesto del Partito Comunista è l'opera in cui si riflette in modo forse più pronunciato l'adesione di Marx per un verso alla tesi dell'accrescimento di individuazione. Descrivendo la peculiarità della classe borghese come classe dominante nel contesto della modernità, Marx sottolinea come essa sia una classe dominante estremamente dinamica, che ha già nella sua memoria storica l'esperienza della rivoluzione e che ha operato mutamenti enormi sul piano non solo politico, ma anche sociale. Tra questi mutamenti che l'avvento del dominio borghese ha introdotto troviamo accenni importanti al nostro tema. Marx sottolinea infatti come l'avvento della borghesia capitalistica abbia «lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali», ponendo al posto di questi vincoli tradizionali e comunitari l'interdipendenza degli interessi; come al posto dei mille privilegi di casta e di ordine e personali abbia garantito all'individuo borghese la libertà di commercio e di accesso al mercato; come abbia «creato città enormi», «grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto con quella rurale» strappando così, continua Marx, «una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale». Lo spirito antitradizionalista della classe borghese fa sì che la cifra particolare del suo dominio sia il mutamento -- un mutamento, ovviamente, che non supera i confini segnati dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dall'appropriazione privata del plusvalore -- ma pur sempre mutamento e non mera conservazione. In questo dinamismo antitradizionalista, secolarizzante, ma anche anomico della società moderna l'individuo borghese acquista un'autonomia fino ad allora inusitata e il proletario trae dall'urbanizzazione il beneficio di vedersi sottratto all'idiotismo della vita rurale. Dall'altro lato, se guardiamo ai Manoscritti economico-filosofici del 1843, vi troviamo una lettura alquanto diversa del nesso di modernità e individuo, che porta Marx molto più vicino alla tesi della «fine dell'individuo». "Alienazione" è il concetto con cui Marx designa un'esperienza chiave posta in essere, ed imposta alla maggioranza dei suoi membri, dalla società moderna capitalista: un'esperienza di desertificazione della vita, inaridimento del significato, mancanza di senso, che si accompagna al non essere padroni delle proprie azioni nell'area, centrale per la persona, dell'attività lavorativa e produttiva in generale. In Durkheim la lettura positiva del rapporto tra individuo e modernità trova espressione nel modo in cui viene concettualizzata la trasformazione del rapporto tra individuo-società nella transizione fra società integrate sulla base della solidarietà meccanica alle società integrate sulla base della solidarietà organica. In questa transizione la coscienza collettiva e l'individuo subiscono profonde trasformazioni. Mentre ogni società integrata attraverso la solidarietà meccanica «implica una somiglianza tra gli individui», la solidarietà organica «presuppone la loro differenza» (Durkheim 1977: 145). Tra l'altro siccome nel passaggio dalla solidarietà meccanica alla solidarietà organica il potere della coscienza collettiva di orientare il comportamento individuale si affievolisce nella misura in cui le sue regole divengono sempre più astratte e generali e richiedono una maggiore mediazione da parte dell'attore che deve applicarle alla realtà, un risvolto importante della transizione verso la società moderna è dato dall'acquisizione, da parte dell'individuo, di importanti dimensioni di autonomia dalle rappresentazioni sociali. Sarà oggetto dell'attenzione pedagogica di Durkheim, in L' educazione morale, indagare il modo in cui un programma educativo adeguato può aiutare a preservare e coltivare questa autonomia dell'individuo moderno. Ma nel contesto stesso de La divisione del lavoro sociale è possibile ritrovare accentuazioni alquanto diverse. Nella sezione dedicata al "culto dell'individuo" Durkheim articola una preoccupazione che anticipa parecchi dei temi che vedremo presenti in quella critica dell'individualismo espressivo che autori come Berger, Bellah, Selznick, Riesman svilupperanno più tardi. Riflessi della tesi della fine dell'individuo sono presenti anche nelle pagine che Durkheim dedica alle forme abnormi della divisione del lavoro, dove vengono discussi i possibili rimedi agli effetti di "torpore mentale" e di inerzia che si collegano all'eccessiva specializzazione della divisione del lavoro. Più complessa ancora è la lettura weberiana del rapporto tra modernità e individuo. Da un lato la tesi dell'Etica protestante e lo spirito del capitalismo come pure l'insieme della ricostruzione weberiana della razionalizzazione delle culture religiose -- condotta nei saggi di Sociologia delle religioni -- non sarebbero comprensibili se non attribuissimo a Weber una valutazione di segno complessivamente positivo (non mancano infatti le ombre, nell'analisi weberiana della modernità) di quel processo di individuazione dell'individuo che è parte integrante della modernità. Il potenziale modernizzatore di un'etica religiosa centrata sulla predestinazione consiste infatti nel suo stimolare e legittimare ad un tempo quei tratti di metodicità e sistematizzazione del comportamento, spirito di iniziativa, tenacità, autonomia e fiducia in se stessi, come pure indifferenza verso le sofferenze altrui (viste come altrettanto funzionali al piano divino quanto il proprio successo), avversione all'ostentazione, al consumo vistoso e al godimento immediato, che erano essenziali per l'affermarsi del nuovo tipo di imprenditore in un contesto che ancora gli era culturalmente ostile. Il principale nemico della modernizzazione è invece quel tradizionalismo di cui sono intrise le etiche religiose non protestanti e in particolare quella cattolica. Più tardi, nei saggi di sociologia della religione Weber analizza il processo di razionalizzazione delle etiche religiose e insiste spesso sulla superiorità complessiva di una cultura religiosa o di un sistema etico rispetto a un altro. Tra le dimensioni comparative che sono sottese a tali giudizi vi è anche, come ha mostrato Schluchter, il tipo di coscienza di cui una etica religiosa assume che l'individuo sia dotato 1979). Ai primi stadi dell'evoluzione etica si presuppone che l'attore morale sia semplicemente in grado di distinguere essere e dover essere, ma un'etica di principio quale l'etos puritano richiede autonomia e un'etica della responsabilità, quale quella proposta da Weber, richiede anche che questa autonomia individuale venga esercitata con una certa flessibilità. Da questo punto di vista, l'evoluzione dell'etica procede in direzione di una sempre maggiore individuazione, intesa come autonomia dell'individuo da autorità esterni e simboli condivisi. Dall'altro lato, non mancano in Weber tracce consistenti della tesi della «fine dell'individuo», tracce che sono state messe in luce soprattutto dall'interpretazione habermasiana e da quegli interpreti che, da una prospettiva diversa, sottolineano la continuità di quella concezione con la diagnosi di Nietzsche. Con l'affermazione del puritanesimo come cultura morale egemone nei paesi più moderni -- Inghilterra, Olanda, Stati Uniti -- si venne a poco poco perdendo quella colorazione etica che il credente conferiva alla sua ricerca del successo professonale. I processi di burocratizzazione tanto dell'impresa quanto dello Stato, insieme alle tendenze secolarizzanti della società moderna, mutarono ben presto il segno -- sostiene Weber -- di quella che fu la cultura puritana dell'ascesi intramondana. Mentre per il teologo puritano del XVII secolo la preoccupazione per la ricchezza, per i beni esteriori, per il consumo diremmo oggi doveva essere solo un "mantello sottile" di cui il credente poteva liberarsi in ogni momento, nella società industriale a cavallo tra XIX e XX secolo questo mantello si è trasformato in una "gabbia d'acciaio". Si persegue il successo economico e professionale non come un fine morale, come qualcosa che ha in sè la sua ricompensa, ma per i vantaggi materiali che può dare. Il passo di Weber sulla gabbia d'acciaio e in particolare la sua frase finale -"Specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore: questo nulla si immagina di esser salito ad un grado di umanità, non mai prima raggiunto"» è uno dei luoghi dell'opus weberiano dove con maggiore chiarezza appare visibile il debito di Weber, che solo da pochi anni inizia ad essere riconosciuto e valutato, nei confronti di Nietzsche. Gli specialisti senza spirito e i gaudenti senza cuore altro non sono se non quegli "ultimi uomini" che Zaratustra dipinge come "i più spregevoli" per il fatto di illudersi di "avere trovato la felicità" -- anch'essi prodotto finale di una cultura moderna che non ha potuto mantenere la promessa di individuazione con la quale si era aperta. La tesi della «fine dell'individuo» nel nostro secolo si differenzia in almeno tre sottotipi distinti: la critica conservatrice della società di massa (Ortega), la critica della "società amministrata" (Adorno, Horkheimer, Marcuse), e la teoria della personalità etero-diretta e narcisista (Riesman, Lasch). Le diverse varianti si distinguono per i diversi fattori esplicativi cui ricorrono. Per Ortega y Gasset la democrazia liberale, la sperimentazione scientifica e l'industrialismo sono gli elementi cui far risalire in ultima analisi l'avvento dell'uomo-massa, inerte, irriflessivo, conformista, edonista e poco disposto ad assumersi la responsabilità dei suoi atti. Fra i tratti psicologici che maggiormente caratterizzano il ritratto psicologico dell'«uomo-massa» Ortega ne sottolinea due in particolare: «la libera espansione dei suoi desideri vitali, pertanto della sua persona, e la radicale ingratitudine verso quanto ha reso possibile la facilità della sua esistenza» Ortega y Gasset (1979: 846). Per Horkheimer e Adorno i motivi dell'abdicazione all'autonomia -- un'abdicazione che egualmente conduce alla fine dell'idea di individuo consegnataci dalla prima modernità -- sono da ricercarsi soprattutto, in una prima fase del loro pensiero, nel declino della famiglia, in particolare nell'indebolimento dell'autorità paterna, e nel potere livellante dell'industria culturale. Ma è in Dialettica dell'illuminismo che Horkheimer e Adorno offrono la versione più compiuta di questa teoria della fine del'individuo. L'idea centrale è che gli attuali effetti di reificazione vanno visti come risultato di un processo di ben più ampia portata dei mutamenti della famiglia o della nascita dell'indiustria culturale: vanno intesi come prodotto della posizione di privilegio, da sempre accordata da parte della civiltà occidentale, alla modalità strumentale dell'agire. La dialettica dell'illuminismo è innanzitutto una filosofia della storia: essa tenta di identificare i diversi stadi di questa egemonia dell'azione strumentale, e ognuno di essi è analizzato come sviluppo e conseguenza necessaria del precedente. Il culmine di questo processo è raggiunto nella società amministrata del XX secolo, nella sua triplice versione della società di massa americana, della regressione nazista e della pianificazione globale a sfondo autoritario dello Stato sovietico. La tesi di Adorno e Horkheimer è che l'egemonia della ragione strumentale, di quella che Weber chiamava "razionalità formale" ha come prezzo esattamente i fenomeni di reificazione della società contemporanea. Da questo punto di vista è possibile ricostruire il graduale dispiegarsi degli effetti sempre più profondi e sempre più totalizzanti del predominio della modalità strumentale d'azione sull'identità dell'individuo. All'inizio, nelle prime fasi della civiltà, l'agire strumentale, guidato dal principio del massimo rendimento col minimo sforzo, è diretto solo al controllo della natura esterna, ma presto finisce col plasmare anche la natura interna del soggetto e infine, con il moderno, cioè con l'Illuminismo, comincia ad essere rivolto verso la società stessa. Il culmine di questo processo è raggiunto nella società amministrata del XX secolo. Anche nei mutamenti apparentemente progressivi della società moderna Horkheimer e Adorno, anticipando le riflessioni di Foucault sulla falsa umanizzazione dei sistemi repressivi nell'epoca moderna (spostamento del punto di applicazione della pena dal corpo alla psiche, della modalità penale dal terrore al controllo, diffusione e dissimulazione del potere, modello di controllo sociale ispirato al "Panopticon"), intravedono i segni di nuove e più discrete forme di dominio. Anche per Marcuse, il quale nonostante la comune appartenenza francofortese si differenzia in più di un punto dalle analisi di Horkheimer e Adorno, l'«uomo a una dimensione» è il risultato di una socializzazione che privilegia unicamente un rapporto strumentale con il mondo (Marcuse 1967). La versione marcusiana della dialettica dell'illuminismo si apre alla fine su un esito diverso, meno apocalittico e più utopico di quello ipotizzato da Horkheimer e Adorno. Non posso qui illustrare questa variante della tesi della fine dell'individuo, la quale Essa ruota attorno al concetto freudiano di repressione e alla distinzione, introdotta da Marcuse, tra repressione necessaria e repressione addizionale. La tesi della «fine dell'individuo» trova infine un' altra articolazione originale nella teoria della trasformazione della personalità in senso narcisista (Lasch) o etero-diretto (Riesman). Nella sua opera più importante -- La folla solitaria [Riesman (1956)] --, David Riesman inquadra le modificazioni contemporanee dei tratti caratteriali dominanti in una ricostruzione dell'evoluzione della personalità nella cultura occidentale. Per Riesman la modernizzazione ha comportato la transizione da un tipo di carattere orientato alla tradizione a un individuo autodiretto, capace di darsi obiettivi e standard autonomi rispetto alla tradizione e di assumere, se del caso, un atteggiamento critico nei confronti degli orientamenti della comunità. Oggi ci troveremmo in presenza di un nuovo spostamento, questa volta dalla autonomia della personalità autodiretta a una nuova forma di eteronomia, che Riesman chiama «eterodirezione». L'individuo eterodiretto di oggi è altrettanto poco capace di distanziarsi dai modelli esterni quanto lo era il suo predecessore premoderno ma, invece di orientarsi verso i modelli immutabili del passato, egli orienta il suo giroscopio interno verso gli atteggiamenti, le preferenze e i gusti di quei contemporanei che costituiscono figure di spicco all'interno del gruppo di riferimento o con cui entra in contatto anche semplicemente attraverso i mass media. Riesman spiega tale trasformazione sulla base del mutamento dei modelli educativi, mutamento in larga parte influenzato dallo stato incerto e fluido di alcuni orientamenti valoriali di fondo. L'incertezza riguardo al lavoro, ai valori, alle differenze di status e al giusto modo di educare i figli rende quei genitori già tendenzialmente ansiosi ancora più ansiosi, li spinge a cercare i consigli degli esperti e li rende particolarmente vulnerabili all'influenza dei mass media. Ora, indipendentemente dal contenuto dei loro insegnamenti, continua Riesman, i genitori ansiosi non fanno che veicolare di continuo il messaggio che l'approvazione degli altri, siano essi i compagni di scuola o gli insegnanti, i propri pari o i superiori, è il solo bene sicuro a cui ha senso orientare la propria condotta: «Ci si comporta bene quando si riceve approvazione». L'effetto dell'insicurezza dei genitori è poi moltiplicato dall'influenza di insegnanti che vengono a trovarsi in una situazione molto simile. Benchè venga loro attribuita una responsabilità maggiore che non ai loro predecessori (per esempio, viene loro detto che un «cattivo comportamento» da parte dei bambini implica sempre, in ultima analisi, una «scarsa capacità» da parte loro), gli insegnanti di oggi dispongono di mezzi di controllo molto più deboli rispetto alla passata stagione della disciplina rigida. Ne segue che anche gli insegnanti tendono a diventare ansiosi, a dipendere dall'approvazione dei bambini e a veicolare loro l'implicita richiesta che «facciano i bravi», riconfermando in tal modo indirettamente l'idea che «mancare di senso di cooperazione è quasi la peggior cosa che possa darsi» Riesman (1956: 81). L'interpretazione della cultura contemporanea avanzata da Christopher Lasch in La cultura del narcisismo offre forse gli spunti più penetranti per il nostro tema. Lasch sostiene che non solo il clima culturale, ma anche il tipo di personalità dominante si è modificato in senso narcisista. Lasch parte dal presupposto che una sorta di profonda apprensione per il sè «definisce il clima morale della società contemporanea» Lasch (1981: 37); e che la mentalità terapeutica è destinata a minare le basi dell'autonomia morale dell'individuo. Nel narcisismo, tuttavia, non bisogna vedere solo un tipo culturale. Esso appare il prodotto di mutamenti nella sfera della famiglia i quali lasciano un segno anche sulla formazione della personalità. Va detto che benchè egli si richiami alla recente letteratura psicoanalitica sul narcisismo, soprattutto a Kernberg e Kohut, l'analisi di Lasch non si discosta poi molto da quella di Riesman. Tutte le variabili fondamentali rimangono le stesse: la riduzione della famiglia al modello nucleare, la sua perdita di funzioni educative e produttive, il padre assente, l'insicurezza etica dei genitori, la loro ansia, il loro cercare orientamento da esperti e media, l'effetto di rinforzo dell'ansia che è legato ai consigli specializzati, nonchè il ruolo del gruppo dei pari come agenzia di socializzazione. Rispetto a Riesman, tuttavia, Lasch accentua maggiormente l'aspetto della funzionalità della svolta narcisista a una vita sociale sempre più dominata dalle grandi burocrazie. Nella mi- sura in cui l'individuo viene a dipendere sempre più da organizzazioni impersonali, sostiene Lasch, non ci deve sorprendere il notare che la tendenza all'egocentrismo guadagni terreno, poichè il narcisismo altro non è in fondo che la conseguenza sul piano psicologico, mediata attraverso la famiglia, di questa dipendenza. La tesi gehleniana dello "sgravio" La diagnosi proposta da Arnold Gehlen riguardo al rapporto tra individuo e mdoernità è valutabile solo sullo sfondo di quella personale antropologia filosofica o «biologia dello spirito» che dà unità all'opera, prolifica e interdisciplinare, di questo autore. Cardini della teoria dell'individuo di Gehlen è l'idea dell'uomo come «essere manchevole» (Mangelwesen), dotato di una illimitata plasticità, capace di prendere le distanze dal mondo e soprattutto da se stesso e, infine, capace di una percezione di sè estraniata (entfremdetes Selbstgefühl). Biologicamente, l'uomo si caratterizza più che altro per una serie di carenzee per una plasticità che non trova riscontro in alcuna altra specie. Ingrediente principale di questa plasticità è la capacità di distanziarsi dal «qui ed ora», ossia dal contesto immediato in cui sorge uno stimolo o un bisogno e di valutare la propria azione rispetto a coordinate che includono riferimenti temporali rivolti al passato e al futuro. E' in questa capacità di distanziamento dall'immediatezza che si iscrive infine quella specialissima caratteristica umana, che è la capacità di prendere se stesso ad oggetto, ossia di diventare in qualche misura autocosciente. Sembrerebbe di trovarsi in presenza, a questo punto, di un'altra delle concezioni antropologicofilosofiche che dell'individuo moderno accentuano soprattutto l'autoriflessività e la capacità di essere responsabile delle proprie azioni. Invece nella sua diagnosi della condizione moderna Gehlen giunge a conclusioni opposte. Tipico dell'epoca moderna, e soprattutto della modernità contemporanea, è per lui non tanto il sorgere ed affermarsi dell'autonomia individuale, quanto il differenziarsi di nuovi àmbiti di azione e il sorgere di nuove istituzioni le quali regolano ed assumono il controllo sull'azione del singolo. I fenomeni già analizzati da Weber sotto il titolo della burocratizzazione altro non sono se non l'oggettivarsi, sotto forma di regole e di sistemi istituzionalizzati di azione, di nessi di azione precedentemente lasciati al libero gioco delle dinamiche soggettive. Vista dal lato dell'individuo, la codificazione, regolazione e istituzionalizzazione di una serie di aspetti della prassi prima ricompresi nella sfera della sua assoluta discrezionalità si configura come uno «sgravio» (Entlastung) dalla responsabilità dell'agire. Ma c'è una contropartita. Si cedono gradi di libertà a entità sovraindividuali - istituzioni e altri segmenti di un sistema sociale - in cambio di un'aumento della propria discrezionalità nell'ambito interno della personalità. In sostanza, la conclusione di Gehlen, paradossale ma non troppo, è che si è tanto più liberi di essere chi si vuole essere, quanto più chi noi siamo, come personalità e carattere, è irrilevante per il mantenimento e la riproduzione del sistema sociale. Ciò che altri hanno visto, apocalitticamente, come fine dell'individuo è riletto da Gehlen come l' opportunità di una espressività senza libertà. «Non si è mai avuta al mondo», scrive Gehlen, «tanta soggettività finemente differenziata e ricca d'espressività come oggi» (Gehlen 1983: 197). Il pensiero «inattuale» di Gehlen gode in realtà di una grande attualità di riflesso, incardinato come nocciolo antropologico della teoria sistemica luhmanniana. Entrambe le posizioni poggiano sull'idea paradossale che meno si è liberi più si è liberi. Conclusione Non ha molto senso, a questo punto, domandarsi quale fra queste diverse tesi intorno al nesso di individuo e modernità sia più vera. Che esistano cose o fenomeni come "l'individuo" o "la modernità", i quali possiedano una esistenza indipendente dal nostro modo di raffigurarceli -- e che dunque si possa misurare l'adeguatezza delle nostre ipotesi intorno al loro rapporto guardando a un qualcosa di esterno a noi, là nel mondo, in grado di dirimere la controversia. In realtà, le tre o quattro tesi qui esposte sono ben più che "teorie" o "rappresentazioni della realtà" nel senso empiristico del termine. Sono "repertori lessicografici" o più ordinariamente dei vocabolari ragionati di cui ci serviamo, all'interno della comunità dei sociologi, per parlare di qualcosa di così cruciale come il rapporto tra individuo e modernità. All'interno di ciascuno di essi è possibile articolare ipotesi empiriche su questo o quell'altro aspetto e tentare di falsificarle alla luce dei materiali empirici. Ma ciascuno di questi dialetti, di questi vocabolari contiene degli assunti di valore che non si lasciano ridurre facilemente ad asserzioni fattuali nè gerarchizzare rispetto a una qualche pietra di paragone. E dunque non si dà modo di scegliere sulla base di dati empirici tra di essi. Perchè questi vocabolari, cambiando di metafora, sono le lenti con cui i teorici della società guardano al rapporto tra individuo e modernità, e di solito lenti ed occhiali sono qualcosa attraverso cui guardiamo, non l'oggetto del nostro sguardo. Dovremo abituarci a convivere con la loro pluralità all'interno della nostra comunità scientifica, pur imponendo le ragioni della coerenza a ciascuno di noi di sceglierne -- in base a buone ragioni che hanno la loro radici in opzioni filosofiche più di fondo -- uno e uno soltanto come prospettiva da cui parlare del rapporto tra individuo e modernità.